LA GRANDE MAGIA

 

LA GRANDE MAGIA

di Eduardo De Filippo

Personaggi:

CLIENTI DELL’ALBERGO E FINTO PUBBLICO – (quello vero deve fingersi mare)

SIGNORA LOCASCIO

SIGNORA MARINO

SIGNORA ZAMPA

SIGNORINA ZAMPA, sua figlia

MARTA DI SPELTA

CALOGERO DI SPELTA, suo marito

MARIANO D’ALBINO, amante di Marta

FINTI CLIENTI DELL’ALBERGO E FINTO PUBBLICO:

GERVASIO PENNA

ARTURO RECCHIA

AMELIA RECCHIA, sua figlia

CAMERIERE, dell’albergo Metropole

OTTO MARVUGLIA, prof. di scienze occulte, celebre illusionista, suggestione e trasmissione del pensiero

ZAIRA, sua moglie

BRIGADIERE DI P.S.

ROBERTO MAGLIANO

GENNARINO FUCECCHIA, servo di Calogero

LA FAMIGLIA DI CALOGERO:

GREGORIO, suo fratello

MATILDE, sua madre

ORESTE INTRUGLI, suo cognato

ROSA INTRUGLI, sua sorella e moglie di Oreste

AGENTI DI P.S.

SERVI DI SCENA, aiutanti del professore

CLIENTI DELL’ALBERGO

CASIGLIANE

Scena:

ATTO I: il rideau si leva insieme al drappeggio di velluto, il “grembiule” che di solito serve per sottrarre alla vista degli spettatori la visione realistica del sottopalco, cioè il posto riservato alle orchestre. Il rideau scopre un ampio giardino all’inglese, fiancheggiato da aiuole e da vetuste palme, le quali ombreggiano la ricca facciata posteriore del grande albergo Metropole, sul mare. Questa, situata in fondo, al limite massimo del palcoscenico, oltre a mostrare i balconi centrali e le finestre dei piani, dalle ampie vetrate sottostanti lascia scorgere la grande hall. Il “grembiule”, contemporaneamente al rideau, come abbiamo detto, scopre la parte sottostante del giardino: una scogliera contro la quale, mediante effetti di luci e trucchi scenici, un mare immaginario, partendo dal centro della platea, frange mollemente contro di essa le sue placidissime onde. Quattro robusti pilastri in cemento sostengono il limite del giardino. Sagome di variopinte barchette figureranno ormeggiate agli scogli, mentre in primo piano, fra i due pilastri centrali, dondola lentamente un piccolo motoscafo. Nell’attimo stesso in cui il rideau e il “grembiule” si levano, al posto della ribalta, mediante apposito congegno, sorgerà una ringhiera in ferro tubolare dipinto in blu. Essa delimita il giardino dell’albergo e converge in basso ai due lati del palcoscenico, formando in tal guisa i passamani delle due scalette che portano giù, all’imbarcadero. In fondo, addossate ai due lati della facciata, vi saranno, ordinatamente disposte, tre file di tavoli e sedie da giardino. Tutt’intorno ad esse, lasciando libero il passaggio centrale, vi sarà un’aiuola di folta e rigogliosa mortella. Gruppi di sedie a sdraio, ai due lati del giardino.

ATTO II: la misera casa di Otto Marvuglia. La stanza che vediamo è angusta e malinconica. Un ampio finestrone in fondo a sinistra, lascia vedere i tetti e i terrazzi di altre povere case dirimpettaie. La comune è in fondo a destra. In prima a sinistra, altra porta che introduce in un’altra stanza. La scena è ingombra di ogni cianfrusaglia: i tavoli di metallo cromato che abbiamo visti al primo atto, cilindri, cassette, bandiere, elmi, sciabole. L’arredamento è costituito da poveri mobili e sedie spaiate. Al centro del finestrone pende un’enorme gabbia popolata di canarini. Sul davanzale un’altra gabbia con dentro quattro o cinque colombi.

ATTO III: il ricco appartamento di Calogero Di Spelta. Un enorme stanzone di passaggio con in fondo, a destra e a sinistra, due finestre vetrate, attraverso le quali si scorgono le artistiche inferriate panciute. Al centro di esse, un grande armadio di stile inglese in mogano con gli sportelli numerati. Altri mobili e sedie in pelle intonati. A sinistra e a destra, porte stile barocco. Soffitti e quinte in velluto rosso come per una messa in scena di fine Seicento.

ATTO PRIMO

Tramonto inoltrato. In primissimo piano, a sinistra, intorno a un tavolo, giocano a pinnacolo quattro di quei tipi insignificanti che spesso s’incontrano d’estate, al mare, nei grandi alberghi: la signora Locascio, la signora Marino, la signora e la signorina Zampa. Al lato opposto, in primo piano a destra, Gervasio Penna, tutto solo, ha finito di bere il suo caffè, e ora fuma beatamente la sua pipetta di radica. Ad un altro tavolo, un po’ più presso all’entrata dell’albergo, in conversazione di scarso interesse, si troveranno Arturo Recchia e Amelia, sua figlia. Amelia è un tipo esile, leggero, tutt’occhi. I suoi gesti sono infantili come infantile è la sua voce, facile al riso come facile al pianto.

SIGNORA LOCASCIO – (dopo aver pescato la carta per la chiusura, senza soverchia importanza, dice) Ho chiuso. (Gli altri tre cominciano a contare i punti per il pagamento)

SIGNORA ZAMPA – Hai chiuso un’altra volta… Brava! Ma mo basta, però: croce nera!

SIGNORA LOCASCIO – Alla fine, che hai perduto? Poche centinaia di lire.

SIGNORA ZAMPA – Io sto scherzando; anzi, se non fosse per questo giochetto, che te fa passà nu paio d’ore, starriamo frische.

SIGNORA MARINO – E dove si trova questa tranquillità? Io sono qua da circa un mese. Non sono andata una volta a un cinema, a un teatro.

SIGNORA ZAMPA – E che bisogno ci sta? Basta trattenersi fuori a questo giardino, di pomeriggio o di sera, altro che spettacolo…

SIGNORINA ZAMPA – Ogni stagione ci sta la coppia che diventa l’attrazione principale.

SIGNORA LOCASCIO – Quest’anno è la coppia Di Spelta. Ieri mattina, sulla spiaggia, è stato un vero teatro. E già, perché il marito… Calogero… uno come fa a chiamarsi Calogero, non capisco… arrivò proprio nel momento che la moglie stava in posa, e D’Albino faceva scattare l’obiettivo. Lui non se l’aspettava. Si era presentato con un mezzo mellone di acqua, rosso come il fuoco. Nel vedere la scena, diventò più rosso del mellone che teneva in mano, e si mise la sigaretta in bocca dalla parte accesa. D’Albino, con quella faccia tosta che tiene, se la squagliò, e rimasero loro due, marito e moglie, senza parlare e senza guardarsi in faccia.

SIGNORA ZAMPA – Lei è una bella donna. Il marito se è geloso, un poco di ragione ce l’ha.

SIGNORA LOCASCIO – Ma farebbe meglio a dimostrarlo. Lui invece no, si tiene tutto in corpo per non dare soddisfazione. E, secondo me, fa peggio. Perché non sfoga, il veleno aumenta, e diventa scortese pure quando non sarebbe il caso.

SIGNORA MARINO – Ma allora, scusate, come si giustifica il fatto che quella poveretta è priva di fare due passi sola, che la chiude in camera quando esce, che non la lascia respirare un momento?

SIGNORA LOCASCIO – Perché ci sono certi uomini che si sentono diminuiti se devono confessare che amano la moglie: che prima di dire che sono gelosi si farebbero uccidere. E allora si credono che disprezzando ottengono qualche cosa. E io sono felice quando questi tipi finiscono confratelli di san Martino.

SIGNORINA ZAMPA – D’Albino che dice?

SIGNORA LOCASCIO – D’Albino ci ha il veleno qua. Perché con tutte le sue pazzerie non riesce a rimanere cinque minuti solo con quella donna. E lui perciò l’ha fotografata. Ieri sera mi disse: “Con la fotografa che le ho fatto, questa volta non mi sfugge, e voglio vedere se il marito riesce a non farmi parlare con la moglie”.

SIGNORA ZAMPA – (guardando verso sinistra vede giungere Calogero e Marta) Stanno venendo. Essa me pare una condannata a morte e lui un funerale ‘e terza classe.

SIGNORA LOCASCIO – Ma io non capisco. Quando due persone si riducono in quelle condizioni, perché non si dividono?

SIGNORA ZAMPA – E chi te l’ha detto che non succede? (Dalla sinistra entrano Marta seguita da Calogero: un uomo di media età, dall’aria imbambolata, dai nerissimi baffetti a virgola nel bel centro di un coloritissimo volto. Veste con eleganza abbastanza spinta: giacca a riquadri vistosi, con i due spacchi posteriori e tasche a toppe, pantaloni un po’ stretti, a tubo, in capo una paglia fiammante: un pupazzo da esposizione. Marta è una bellissima donna giovane. Appare indifferente, nervosa. Sono tutti e due tormentati da un intimo ragionamento che li tiene immersi in un profondo sconforto. L’uomo nasconde la sua tristezza con atteggiamenti grotteschi, cerca di darsi un contegno che lo faccia apparire superficiale e noncurante. Tutti osservano la coppia fingendo di parlare indifferentemente fra loro. Calogero segue Marta a breve distanza. E fanno così il giro del giardino) Sedetevi un poco qua, vicino a noi, facciamo quattro chiacchiere.

MARTA – Grazie. (Siede accanto agli amici)

SIGNORA LOCASCIO – (a Calogero) Sedetevi pure voi. Che diavolo, ci snobate sempre.

CALOGERO – Io non snobo nessuno. Specie le persone che mi sono antipatiche.

SIGNORA ZAMPA – ‘O vvedete? Neanche siete arrivato, e ci avete detto la prima scortesia.

CALOGERO – Niente affatto. Vi ho detto la prima verità.

SIGNORA LOCASCIO – E questa è la seconda. Non fa niente, ve la perdoniamo perché state di cattivo umore.

CALOGERO – Chi ve lo ha detto? Io odio quei giudizi espressi così, come sentenze inappellabili. Sono allegrissimo invece. Si putisseve capi’ quanta importanza do ai fatti e alle cose… Mettetevi bene questo in mente: io sono un uomo felice perché non mi faccio illusioni, mai. Per me il pane è pane, il vino è vino, e l’acqua di mare è amara e salata.

SIGNORA LOCASCIO – E che volete dire con questo?

CALOGERO – Voglio dire che mi aspetto qualunque cosa. Sorprese dalla vita non ne posso avere, perché non concedo tre centesimi di fiducia nemmeno a me stesso.

SIGNORA ZAMPA – Nemmeno alle donne?

CALOGERO – Non ne parliamo. Specialmente alle donne, nessuna si offenda!

MARTA – Ma non ti accorgi che sei ridicolo? (Alle donne) Scusate, mio marito ha scherzato…

CALOGERO – Certamente: di questo potete essere più che sicure. Non mi sarei mai permesso di prendervi sul serio.

SIGNORA MARINO – Non fa niente. Noi non ci offendiamo, pecché sappiamo quali sono le cose che prendete sul seno.

SIGNORA LOCASCIO – Mariano D’Albino.

CALOGERO – Ma voi siete pazza. Io non lo vedo nemmeno, mia moglie sa il valore che do a queste cose. Non sono stato mai geloso di nessuno, figuratevi di lui…

SIGNORA LOCASCIO – Ma perché partite in quarta? Io ho detto Mariano D’Albino pecché sta venendo da quella parte. (Indica la sinistra)

CALOGERO – (confuso) Non avevo capito.

MARIANO – (dalla sinistra) Eccomi qua. Signora Marta, sono stato puntuale. Ho fatto una corsa in piazza dal fotografo, e queste sono le fotografie. Sono riuscite una meraviglia. Signora, ci state pure voi.

SIGNORA ZAMPA – Quel gruppo che facemmo l’altro giorno?

SIGNORA LOCASCIO – Quello col cane?

MARIANO – Precisamente. (Apre la busta delle fotografie e le mostra)

CALOGERO – Non ci avete dormito.

MARIANO – Le promesse alle signore si mantengono. (Le signore osservano le foto e se ne compiacciono) Signora Marta, la vostra è riuscita tanto bene, che mi sono permesso di fame stampare sei copie.

MARTA – Grazie. Veramente bene.

MARIANO – (porgendo una fotografia a Calogero) In questa ci siete voi con il mezzo mellone in mano. (Alle donne) Scattai l’obiettivo e non se ne accorse nemmeno. (A Calogero) Sembrate un venditore…

CALOGERO – E le sei copie di mia moglie?

MARIANO – (gliele porge) Eccole.

CALOGERO – (dopo averle contate) E queste sono cinque.

MARIANO – Si vede che ne hanno stampata una in meno e non me ne sono accorto.

CALOGERO – C’è pure il negativo? (Prende una sigaretta dal pacchetto e se la mette fra le labbra)

MARIANO – Si. (Lo trova fra gli altri e lo mostra) Eccolo qua.

CALOGERO – (prende il negativo e lo osserva in trasparenza) Riuscitissimo. (Fingendo di accendere la sigaretta, avvicina la sigaretta al negativo di celluloide e lo accende) Uh! S’è bruciato. Che peccato. (Tutti si scambiano un’occhiata) Il negativo si è bruciato e le cinque copie me le tengo io. (Intasca le cinque fotografie)

MARIANO – Vuol dire che a me non è rimasta che la gioia di avervi fatto cosa gradita. Permesso. (Ed esce per la destra)

SIGNORA ZAMPA – (per cambiare argomento) Stasera c’è spettacolo, qui, in giardino.

CALOGERO – E chi vi dice di stare presente? Se vi diamo fastidio, vi potete alzare e andar via.

SIGNORA ZAMPA – E perché?

CALOGERO – E voi dite che diamo spettacolo.

SIGNORA ZAMPA – Signor Calogero, ma voi vi credete che tutti quanti si svegliano la mattina e si interessano solo di voi? Io ho detto c’è spettacolo in giardino perché mi hanno detto che lavora un prestigiatore.

CALOGERO – Scusate, non avevo capito.

MARTA – A me i giuochi d’illusione mi divertono moltissimo.

CALOGERO – È un’arte superata.

MARTA – Non credere ch’io sperassi di trovarmi d’accordo con te.

CALOGERO – Ma scusa, al giorno d’oggi la gente vive nei giuochi d’illusione. Tanti anni fa uno spettacolo del genere faceva impazzire le platee, il pubblico era più ingenuo; ma oggi chi può impressionare più un disgraziato giocoliere?

GERVASIO – (che ha sentito il dialogo interviene) Eppure, rimarrete a bocca aperta. Questa volta, le risate me le farò io. (Si alza e si avvicina al tavolo, presentandosi) D’Aloisi. (Convenevoli)

CALOGERO – Scusate, perché avete detto: “Questa volta le risate me le farò io”?

GERVASIO – Perché conosco bene questo prestigiatore. Lui qualche spettacolo straordinario lo dà solamente nei grandi alberghi.

MARTA – È bravo?

GERVASIO – Bravo, non è la parola per descriverlo: è un mago, una cosa che non riesco a capire.

ARTURO – Pur’io lo conosco. L’ho visto lavorare a Parigi.

AMELIA – L’anno scorso: una serata indimenticabile. E che impressione! (Ride senza convinzione: una risatina breve, infantile, ritmata) Ah, ah, ah!…

SIGNORA LOCASCIO – Non esageriamo. Un illusionista non può essere che un ciarlatano, un imbroglione!

ARTURO – Seh, così pensavo anch’io… Permette? (Presentandosi) Avvocato Taddei. (Mostrando Amelia) Mia figlia. Anch’io pensai che fosse un imbroglione; ma dovetti ricredermi, e come!

GERVASIO – Quello mi fece passare un momento magico.

ARTURO – Mia figlia svenne.

AMELIA – Io svenni! (Ride c. s) Ah, ah, ah!…

MARTA – Ma che fa di tanto sconvolgerne? Quali sono gli esperimenti?

ARTURO – Assistevamo allo spettacolo io, la buon’anima di mia moglie e mia figlia…

GERVASIO – Scusate se vi interrompo. Nessuno può dire di aver passato un quarto d’ora più tragico di quello che fece passare a me il professor Marvuglia. Dopo i primi giuochi, Dio mio, divertenti ma niente di eccezionale: sparizioni, riapparizioni, sostituzioni di oggetti, le solite cose, iniziò una serie di esperimenti di trasmissione del pensiero e suggestione. E qua venne il bello. Invitava delle persone del pubblico ad avvicinarsi a lui e io fui tanto scemo da andarci. Mi guarda fisso negli occhi e mi dice: “Voi siete un perseguitato; siete stato condannato a morte. Fuggite, se no siete perduto. In tasca avete il passaporto. Prendete il treno, e buona fortuna.” Con quel passaporto girai mezzo mondo: Francia, Inghilterra, Russia, Giappone… per anni e anni, senza fermarmi mai e sempre con la paura di essere arrestato. Pigliavo treni, piroscafi, aeroplani. Scalavo le montagne. Mi trovai in mezzo al ghiaccio, alla neve… Attraversai il deserto, le foreste…

CALOGERO – Sempre con lo stesso passaporto?

GERVASIO – Ma il passaporto non ce lo avevo. O meglio, l’avevo e non lo avevo. Agivo per suggestione. Insomma, alla fine del viaggio, mi ritrovai in presenza del professore e del pubblico; non era passato che un attimo; ma io avevo avuto l’impressione di aver viaggiato per anni e anni.

CALOGERO – Non metto in dubbio le sue affermazioni, signor…

GERVASIO – D’Aloisi.

CALOGERO – …signor D’Aloisi; ma mi sembra un po’ grossa!

GERVASIO – Ve ne accorgerete stasera.

SIGNORA ZAMPA – (rivolta ad Amelia) E lei svenne?

AMELIA – Io svenni, perché trasformò mio padre in un cervo.

SIGNORA ZAMPA – Un cervo?

ARTURO – La trasformazione avvenne in brevissimo tempo. Una cosa da sbalordire: un bel cervo.

CALOGERO – Ma come e possibile?

ARTURO – Sentite, io quale interesse avrei di dire una cosa per un’altra? Là fu un’impressione generale, perché dice che io correvo e saltavo da un punto all’altro con agilità impressionante…

SIGNORA ZAMPA – (ad Amelia) E lei quando svenne?

AMELIA – Quanno vedette ‘e ccorne nfronte a papà.

ARTURO – Capirete, era impressionante, perché mentre gli altri mi vedevano saltare, io mi sentivo tranquillamente seduto sulla mia sedia. Sentivo gridare: “‘E ccorne! Tene ‘e ccorne!” Ma io mi passavo la mano in fronte e non le sentivo.

CALOGERO – Fenomeno di suggestione collettiva.

GERVASIO – Sarà, ma come fate a rimanere insensibile di fronte a uno spettacolo simile?

SIGNORA LOCASCIO – Ma che tipo è?

GERVASIO – Non è giovane; avrà una sessantina d’anni. Una faccia segnata, patita… Parla lentamente; le parole le articola più con le dita che con la bocca. Quelli che sono straordinari sono gli occhi: uno se li sente sempre addosso. Insomma, da come si muove, da come si veste, da come si presenta, voi non l’apprezzate tre soldi, pare un disgraziato; ma se vi guarda, non riuscite a sostenere il suo sguardo.

SIGNORA ZAMPA – Quasi faccio a meno di assistere al suo spettacolo.

SIGNORINA ZAMPA – Ma non esageriamo.

CAMERIERE – (dal fondo a destra, accompagnando due facchini, i quali recano un grande cesto di vimini) Qua, mettetelo qua. (Indica un punto della scena. I facchini eseguono) Tutto il resto degli attrezzi, come ha disposto il professore, portateli qua. Fate presto, perché è tardi. Il professore è già arrivato. (I facchini escono per il fondo a destra)

CALOGERO – Chi, il prestigiatore?

CAMERIERE – Sì, questi sono i suoi attrezzi; ma non è tutto, chillo ha purtato na carretta ‘e rrobba! (Infatti i due facchini tornano, recando due tavoli tondi in metallo cromato, poi due sedie dello stesso stile, e un tavolo rettangolare un po’ più grande sempre in metallo e un sarcofago egiziano grande quanto una persona normale)

CALOGERO – (scettico) Sono tutti trucchi.

GERVASIO – Seh, trucchi! Io vi consiglio di stare attenti.

MARTA – (al cameriere, alludendo al giocoliere) Lui è arrivato?

CAMERIERE – Da poco. Stava parlando col direttore. (Guardando verso l’ingresso centrale della hall) Eccolo. È lui.

OTTO – (dalla porta centrale dell’albergo. Il suo fisico risponde perfettamente alla descrizione fatta da Gervasio. Entra con passo lento. Sembra assente. Indossa un abito arrangiato, di antica foggia. L’ampio colletto floscio della camicia è fermato dalla cravatta alla Lavallière. In capo ha un panama ingiallito. Un insieme rassegnato e stanco, ma che eleva a dignità grottesca ogni sua manifestazione istrionica; un lestofante, un ciarlatano simpatico, guitto e intelligente. Nell’entrare osserva il luogo e scruta ogni singolo personaggio. Lunga pausa, durante la quale tutti osservano con il massimo interesse ogni suo minimo gesto. Finalmente si rivolge al cameriere, chiedendo) Qui?

CAMERIERE – Qui, professore. Lo spazio c’è.

OTTO – (osservando il panorama) È veramente bello.

CAMERIERE – È un posto incantevole. Guardate i colori e la grandiosità di questo mare. (Con largo gesto indica la platea)

OTTO – (fissando con commiserazione il cameriere) Secondo te, il mare è grandioso. Povera creatura, povero imbecille. Una volta, pur’io credevo la stessa cosa, e mi tuffai tranquillo in un mare aperto come questo; ma non riuscii a trovare un posticino per muovermi agevolmente. L’umanità intera vi si era tuffata prima di me; mille mani mi respinsero violentemente, facendomi schizzare al punto di partenza. (Mostrando la platea) È una goccia di acqua, caro mio. Ha di prodigioso solamente il fatto che non riesce a prosciugarsi, o per lo meno il processo è lento e sfuggevole all’occhio umano. Una goccia d’acqua al centro del buio, un buio senza confine, un buio che esiste anche nelle ore in cui crediamo che il sole lo distrugga… (Ora si rivolge un po’ a tutti con tono di voce ciarlatanesco) In pieno sole vedo il buio, signori. Il sole passa, si; ma passa suo malgrado, da condannato, e quando passa non intende distruggere il buio. Il buio potremmo distruggerlo noi con il terzo occhio, se riuscissimo a possederlo tutti. Con il terzo occhio: l’occhio senza finestra, l’occhio del pensiero, il solo che io possegga; ormai gli altri due, quelli visibili, quelli che durante gli anni della mia giovinezza vedevano tutto grande, enorme, sorprendente, li ho perduti per sempre. Essi si spensero definitivamente dopo i cinquant’anni…

SIGNORA ZAMPA – (timida) Ma è cecato…

OTTO – Non sono cecato, signora; lei si, fino all’inverosimile, poiché fa parte di quella grande massa di ciechi, che pure avendo passata da un pezzo la cinquantina, non le sarà mai dato di acquistare il terzo occhio. E del resto è provvidenziale: guai se lo acquistassero tutti. I casi sono rarissimi, e di differente importanza. Il mio terzo occhio non è molto importante, in quanto che con esso non riesco a dare che delle piccole illusioni. I miei giuochi sono innocenti e semplici. Altri, invece, una volta in possesso del terzo occhio, se ne valgono per dare illusioni di ben altra portata. Quando il terzo occhio funziona, i giuochi d’illusione si moltiplicano all’infinito, con ogni mezzo, con ogni trucco, ai danni di tutto e di tutti. Dica lei, signor D’Aloisi, se non sono innocenti i miei giuochi. La feci viaggiare, è vero; ma per poco. E lei, avvocato Taddei, le dispiacerebbe se io la facessi saltellare ancora un poco come un cervo in libertà?

ARTURO – No, professo’, non facciamo scherzi.

OTTO – Che ne direbbe il signor Di Spelta, se io durante lo spettacolo riuscissi a trasformarlo in un loquacissimo pappagallo?

CALOGERO – (sorpreso) Mi conoscete?

OTTO – Tutti, conosco tutti. La signora Locascio, la signora, la signorina Zampa. Conosco tutti: posseggo il terzo occhio. Ci divertiremo, più tardi. Lo spettacolo sarà interessantissimo: spero che mi onoreranno.

TUTTI – Certo… Senza dubbio…

SIGNORA ZAMPA – (avviandosi per uscire) Permesso?

OTTO – Prego.

MARTA – A più tardi, e auguri di successo. (Escono per il fondo. Il cameriere ha fatto loro strada ed esce anche lui)

OTTO – (ai due facchini) Voi aspettate mia moglie all’ingresso principale dell’albergo. (I facchini escono)

GERVASIO – (confidenziale ad Otto) Ma Mariannina non è venuta cu’ te?

OTTO – No.

GERVASIO – Ma perché, vi siete contrastati un’altra volta.

OTTO – È una donna impossibile, credi a me. Ti giuro che certe volte, di mattina, quando mi sveglio, resto con gli occhi chiusi perché penso: “Mo, se li apro, capisce che mi sono svegliato, e comincia la tortura”.

ARTURO – (conciliante) Pace, pace. Già la vita è triste per conto suo, perché ve la dovete amareggiare di più? Fossero tutte chiste ‘e guaie.

OTTO – Qua, sta tutto a posto?!

GERVASIO – Stai tranquillo.

ARTURO – (porgendo un foglio a Otto) Questo è l’elenco di tutti i nomi dei clienti dell’albergo; nun ce manca nisciuno.

GERVASIO – (a sua volta porge a Otto una fotografia) E questa è la fotografia della signora Di Spelta.

OTTO – (osservando ammirato) È quella signora che sta qua col marito? È somigliante?

GERVASIO – Vai sicuro.

OTTO – E Mariano D’Albino s’è fatto vivo?

GERVASIO – L’ho visto un’oretta fa. Ma il canotto suo sta qua. (Affacciandosi alla ringhiera e guardando giù) Eccolo lì.

OTTO – (affacciandosi anche lui) Be’, sarà pensiero suo.

GERVASIO – Noi abbiamo fatto un pezzo di lavoro di prim’ordine. Troverai un’atmosfera favorevolissima.

OTTO – Speriamo bene. (Si avvicina al cesto di vimini, lo apre, tira fuori degli oggetti e li comincia a disporre ordinatamente al centro del giardino, preparando così il su “numero”)

ARTURO – (premuroso a sua figlia) Come ti senti?

AMELIA – Bene, papà.

ARTURO – (con precauzione trae dalla tasca della giacca un cartoccetto, lo disfa e dopo averne estratto un uovo, amorosamente lo porge a sua figlia) È fresco fresco: pigliatillo.

AMELIA – (esasperata) Non lo voglio, papà.

ARTURO – Ma comme, l’ho preso in campagna. L’hanno pigliato nnanze a me ‘a dint’ ‘o gallenaro. L’ho pagato cinquanta lire.

AMELIA – Non me lo piglio, nemmeno se mi dite che l’avete pagato un milione. A un certo punto viene la nausea. Nun m’ ‘o facite vede’, pecché m’avota ‘o stòmmaco. Non me lo piglio.

ARTURO – Ma perché?

AMELIA – Perché è inutile.

ARTURO – Ma tu me vuo’ fa’ ascì pazzo? Dio lo sa i sacrifici che faccio… Chillo ‘o miedeco fa ampressa ampressa: “Ci vuole questo e questo”, ma per comprare “questo e questo”, ci vogliono pure “questi”!

AMELIA – Ma voi perché volete pensare a quello che ha detto il medico? Io mi sento bene: e poi vi dovete convincere una buona volta. Se quello che ha detto il dottore è vero, mi sono convinta io, non vi volete convincere voi: quando sarà il momento, ci salutiamo e buona notte.

ARTURO – Ci salutiamo, è vero? Vedite comme parla bello mia figlia. Secondo lei dovrei stare allegro. Siente a me, io dico che con una forte alimentazione…

AMELIA – Ma site tuosto, sa’. Non dipende dall’alimentazione…

ARTURO – Ad ogni modo, fa cuntento a papà e pigliatillo.

AMELIA – Va bene, più tardi!

GERVASIO – Artu’, facciamoci un altro giretto per l’albergo. Continuiamo a spargere voci. E po’ è meglio ca nun ce vedono assieme. (Ad Otto) Ci vediamo più tardi. Buon lavoro. (E seguito da Arturo e da Amelia esce per il fondo)

MARIANO – (entra dopo piccola pausa) Professore.

OTTO – Buongiorno.

MARIANO – Siamo d’accordo?

OTTO – Non ci pensate.

MARIANO – La fotografia l’ho consegnata a quel vostro amico.

OTTO – Si. Me l’ha data.

MARIANO – (firmando un assegno) Queste sono cinquantamila lire. (Dopo aver riempito e firmato il modulo, lo passa a Otto) A voi. Ho bisogno di un quarto d’ora.

OTTO – È na parola.

MARIANO – No. Non facciamo storie. Io ho “armato” quest’ira di Dio. Ho parlato col proprietario per farvi venire a lavorare in albergo… Non devo contare nemmeno su di un quarto d’ora?

OTTO – Voi avete ragione, ma io come faccio?

MARIANO – Io che ne so. Ve lo vedete voi.

OTTO – M’arrangerò.

MARIANO – Io aspetto nel motoscafo.

OTTO – Va bene.

MARIANO – Professo’, fate il vostro dovere, se no finisce male fra me e voi. Arrivederci. (Ed esce per il giardino. Dopo poco, dal fondo, entra come una furia Zaira rivolgendosi minacciosa a Otto. È una donna sui quarantacinque anni, esuberante, volgare, noiosa. Veste con affettata eleganza da vecchia divetta da caffè-concerto. I due facchini la seguono recando dei pacchi voluminosi)

ZAIRA – Senti, padreterno, perché tu dici che sei il Padreterno: un’altra volta che mi lasci sola coi pacchi in mano, e mi pianti mentre si discute, ti azzecco uno schiaffo che ti fa finire di fare i giuochi di prestigio. (Otto non raccoglie. Con la massima calma prende i pacchi dalle mani dei facchini, fa loro un gesto di congedo. Infatti essi escono, mentre egli tranquillamente si accinge a disporre al centro del giardino gli attrezzi e gli oggetti utili per il suo spettacolo: i due tavolini tondi ai due lati della scena, con al centro quello più grande rettangolare: il sarcofago a destra degli spettatori; in primissimo piano. Aiutato da Zaira, tira fuori dal cesto e dai due pacchi gli oggetti più vari e singolari: spade, rivoltelle, cappelli a cilindro, due enormi dadi, ventagli giapponesi, una bandiera italiana, velluti rossi con frange dorate, una scatola giapponese rettangolare decorata con disegni strani e piccoli pezzi di specchio di diverse forme e misure, nonché altri oggetti a piacere) Mi devi dire, e lo voglio sapere, quando finiremo di fare questa vita da cani, sperduti per gli alberghi, gli ospedali, le caserme, le fiere… E quando ti deciderai a trovare un contratto buono in un teatro…

OTTO – Marianni’, miettatèllo buono ncapa, t’ ‘aggio ditto tanta vote: in teatro l’illusionista non va più. Potrei sperare qualche contratto buono se avessi come partner una bellissima donna giovane. Tu vuoi stare per forza appresso a me, e allora t’ hê’ ‘a cuntentà di alberghi, caserme e ‘spitale.

ZAIRA – Questo lo dici tu, perché ti fa comodo. Ma tutti mi trovano ancora giovane e piacente. Pasca’, quando sono vestita e truccata per la scena, ne voglio cento di belle ragazze di diciotto anni…

OTTO – Io ti vedo con il terzo occhio…

ZAIRA – Io te li ceco tutti e tre, ricordatello!

OTTO – Quanto sei noiosa, e quanto ma quanto sei inopportuna! E nun ‘o vvuo’ capi’ ca stammo nguaiate, e si nun pagammo ‘e mmesate, ‘o padrone ‘e casa ce mette mmiez’ ‘a strata! (Alludendo a un pacchetto di monete che gli servono per un esperimento) Damme ‘e sterline.

ZAIRA – (porgendogli un sacchetto di monete false) Teh, pigliatelle.

OTTO – A casa stammo ‘o scuro, pecché ‘a società ce ha staccato ‘a currente…

ZAIRA – Me fa piacere.

OTTO – …fra giorni resteremo senz’acqua… (Vuota il sacchetto di monete in un cappello a cilindro)

ZAIRA – Meglio.

OTTO – …nun ce sta che mangià ‘a matina…

ZAIRA – Sono contenta. Muorte ‘e famma avimm’ ‘a ferni’, nella miseria più nera. All’elemosina, meglio! Colpa tua, tutta colpa tua che sei un apatico, un fesso, un uomo senza iniziativa… Mondo, cadimi addosso! E così se n’è passata tutta la nostra vita. E poi, se insisto nel seguirti, è perché ti conosco. Che ti pensi, che mi sono dimenticata di quando facevamo i teatri di varietà; che ti credi che non mi ricordo di quando ti trovavo abbracciato con sciantose?

OTTO – Lasciamo stare certi ricordi, Marianni’; non ti conviene pecché tu facive ‘o stesso. Una volta ti sorpresi con un ginnasta…

ZAIRA – (come se rivivesse il passato) Sandro, un torace da Ercole, una muscolatura di ferro!

OTTO – Un’altra volta con l’uomo acquarium…

ZAIRA – (c. s) Demetrio! Che simpatia di uomo!

OTTO – …un’altra volta col digiunatore…

ZAIRA – (voluttuosamente presa dal ricordo, con slancio) Ah, che mi fai ricordare! Che amore di uomo: un san Luca!

OTTO – …e ricordati che le sorprese non si limitavano a semplici constatazioni di natura più o meno intuitiva; sorprendevo nel senso più crudo e positivo della parola, per cui non mi restavano che due soluzioni: o il colpo di rivoltella o il “chi se ne frega”… È chiaro ed evidente che scelsi sempre la seconda!

ZAIRA – (apparentemente offesa, ma orgogliosa dentro di sé) Eri geloso come un Otello, e ancora lo sei…

OTTO – (condiscendente, rassegnato) Si, amore; ancora lo sono.

ZAIRA – E perciò mi tormenti; ma ricordati che la pazienza ha un limite; e se ancora mi esasperi, me ne fuggo col primo che mi capita.

OTTO – (sempre freddo e volutamente minaccioso) Questo non lo farai. Bada, Mariannina! ‘A bacchetta magica?

ZAIRA – (rabbonita, amorosa) Lo sai che non lo faccio, e per questo ne approfitti.

OTTO – (carezzandole i capelli con un gesto ormai abituale e monotono) Mariannina cara, ti amo tanto.

ZAIRA – E dammi un bacio.

OTTO – Cento. (La bacia) Teh. (Poi quasi sbadigliando) Andiamo a prepararci.

ZAIRA – (anch’essa con un mezzo sbadiglio) Andiamo. (Prendono il cesto vuoto e si avviano)

OTTO – ‘A marenna l’hê purtata?

ZAIRA – Na frittata ‘e maccheroni di ieri, quattro zucchine a’ scapece e na butteglia ‘e cafè.

OTTO – Mo mannammo a piglià pure nu litro ‘e vino. (Ed escono per la destra. Intanto è scesa la sera. Il giardino viene illuminato dalla luna e dai fanali situati nei posti più adatti. Dal fondo, entrano signori e signore, clienti dell’albergo, i quali alla spicciolata prendono posto ai tavoli in fondo. Tutti chiacchierano e ridono fra loro. Ad un tavolo scorgiamo la signora Marino e la signora Locascio, ad un altro la signora Zampa con sua figlia. Scorgiamo pure Calogero Di Spelta e Marta sua moglie. Poi Gervasio, Arturo e Amalia. Dopo questa lunga pausa che servirà a sistemare ogni cliente, compreso qualche ritardatario, entra dal fondo il cameriere e prende posto al centro della scena, di spalle al pubblico vero, per dire ai clienti)

CAMERIERE – Ha inizio il trattenimento disposto e offerto dalla direzione dell’albergo. Il professor Otto Marvuglia a momenti si presenterà a noi. Tutti conosciamo per sentito dire la sua potenza magica. Egli compie prodigi. Prego quindi la massima calma e auguro buon divertimento. (Risale la scena, piazzandosi in fondo sulla soglia della porta centrale. Dalla destra, Otto. Si è tolta solamente la giacca, ora, per indossare sul pantalone bianco un’ampia redingote nera, fermata alla cintura da una sciarpa di seta rossa con frangia dorata, annodata a sinistra in modo da formare un ricco fiocco. Entra lento e misterioso. Raggiunge il centro del giardino, salutando il pubblico con un lieve cenno del capo. Uno stremenzito applauso lo accoglie Lo segue, a breve distanza, Zaira. Essa indossa uno smagliante abito da gran sera, lunghi guanti neri e ricca acconciatura in capo. Ilare e arzilla, si inchina ripetutamente al pubblico. Un altro applauso stremenzito, questa volta misto a risate, accoglie la donna)

OTTO – Signore e signori, non sempre i miei spettacoli riescono interessanti. Già, perché ho bisogno di una grande comprensione e fiducia da parte del pubblico. Per i giuochi d’illusione a base di trucchi, ci penso io; ma per esercitare il mio potere magico, nella suggestione e nella trasmissione del pensiero, ho bisogno di voi tutti. Io non posso suggestionarvi, se non vi lasciate suggestionare. Io non posso trasmettervi il mio pensiero se non siete pronti a riceverlo. Se mi seguite, abbandonandovi all’istinto, si avvereranno fenomeni di alto interesse scientifico. Per esempio: io non posso arricchire il mio numero con una grande orchestra, mi costerebbe troppo; d’altra parte, senza la musica, l’illusionista perde il novanta per cento. Pensiamo allora fortemente alla classica musica con cui gli illusionisti, miei predecessori, presentavano il loro numero. (Un signore accenna un motivo classico da fiera. Il pubblico ride) No, silenzio. Se restiamo in silenzio ve la trasmetterò io, la musica. (Dopo una piccola pausa si ode come in lontananza, flebile, il “Valzer dei pattinatori”) Eccola: la sentite anche voialtri? (La musica prende corpo, diventa sempre più forte. Finalmente un piccolo applauso di adesione da parte del pubblico) Ecco, con la musica si lavora meglio. Non posso cominciare il mio numero senza pensare alle signore. Zaira!… (Zaira gli porge un grande foglio di carta bianca. Egli lo mostra da una parte e dall’altra, poi forma con esso un cono, dal quale comincia a cavarne fiori, gettandoli sui tavoli alle signore) A lei… a lei… fiori, fiori per tutte le belle signore. (Altro piccolo applauso) Per i signori penso che un caffè sarebbe gradito. (Prende da un tavolo una piccolissima caffettiera di metallo cromato, la agita, come per avvertire il contenuto) È piena; ma basterà per tutti? Spero di si… Divideranno da buoni amici… (Si avvicina ai tavoli e con il braccio sinistro in alto muove rapidamente la mano come per afferrare a volo qualcosa nell’aria. Infatti, appare magicamente fra le sue dita una candida tazzina da caffè in porcellana. Il gesto si ripete per ogni singolo spettatore fra l’ilarità di tutti. Questo trucco si potrà ottenere con semplicità: ogni spettatore porge destramente al professore la tazzina che dovrà servire a se stesso) Ora passiamo ad un esperimento più importante.

GERVASIO – (deciso) Io vado via. (Si alza per lasciare lo spettacolo)

ARTURO – E io pure. (Si alza)

OTTO – (fermandoli) Ma no…

GERVASIO – Se ha intenzione di servirsi di me come meglio crede, ha sbagliato. Non dimentichi lo scherzo che mi fece al “Majestic” di Brighton.

ARTURO – E quello che fece a me in Francia.

OTTO – Ma no, signori; non uso mai ripetere gli esperimenti con le stesse persone. Ho pregato: collaborazione e fiducia. Se una gentile signora si volesse prestare… Una signora di coraggio, però.

MARTA – (si leva dal suo posto e, con furbo sorriso, avanza di qualche passo) Se vuole…

OTTO – Se voglio? Ma certamente! (Osservando in disparte la fotografia datagli da Gervasio durante le scene precedenti) Ella, signora, è la persona adatta. Venga avanti.

MARTA – (disinvolta avanza verso il professore, piazzandosi accanto a lui, ammirata ed applaudita dal pubblico) Eccomi. (La musica internamente cessa)

OTTO – Complimenti signora, per la sua bellezza e per il suo coraggio. Vuole avvicinarsi a questo sarcofago egiziano? (Marta, preceduta dal professore e da Zaira, esegue) Lo osservi bene: è autentico. (Zaira apre il sarcofago) Vuole avere l’amabilità di entrarvi?

MARTA – Certo. (Fa per entrare nel sarcofago)

OTTO – (fermandola) Un attimo dopo di aver rinchiuso il sarcofago, avverrà la sua sparizione. Si sentirà attratta verso un mondo di sogni, avvertirà un senso di beatitudine, disperdendo il corpo dopo averne distaccata l’anima. E soprattutto, ascolti: quando il giuoco sarà finito, quando tutto, anima e corpo, avrà a reintegrarsi, ricordi bene, signora: ignori l’anima le sensazioni del corpo: sappia il corpo che l’anima ignora! Trasite. (Marta entra nel sarcofago, mentre il professore lo richiude. La luce in giardino scende in resistenza, bassissima, in modo da percepire appena le ombre dei personaggi: la musica continua. Otto si muove come se spiegasse al pubblico dell’albergo qualche cosa di importante inerente al suo esperimento. Nell’istante stesso in cui si abbassa la luce in giardino, l’imbarcadero s’illumina. Dalla scogliera appare Mariano D’Albino, sportivo. Agilmente salta nel motoscafo e, con abile manovra, si avvicina alla scaletta di destra. Tutto questo mentre Zaira, piroettando, raggiunge il sarcofago dalla parte posteriore, quella visibile al pubblico vero, ne apre una piccola porta segreta, invitando Marta a uscirne. Infatti Marta ne esce e, diritta come un fuso, s’avvia alla scaletta di destra, ne discende svelta gli scalini. Una volta giù, aiutata da Mariano, con un piccolo salto prende posto nel motoscafo. Otto riapre il sarcofago, mostrandolo vuoto al pubblico. Un piccolo applauso. Otto richiude il sarcofago. Musica piano piano)

MARIANO – (un po’ in collera) Finalmente!

MARTA – Come se non conoscessi mio marito, e in quali condizioni sono costretta a vivere. Gli occhi di tutta la sua famiglia spiano ogni mio passo, specialmente il fratello. Figurati, non aspetterebbero altro: insidie, pettegolezzi, un inferno! Quattro straccioni che non vedrebbero l’ora di disfarsi di me per aver nelle mani mio marito e togliergli fino all’ultimo soldo. Calogero non mi lascia un momento. La sua gelosia è arrivata al massimo, mi opprime. Se deve andare in bagno, mi chiude in camera e si mette la chiave in tasca. Bada, non posso rimanere più di un quarto d’ora.

MARIANO – Partiremo subito.

MARTA – Ma che dici?

MARIANO – Dico che partiremo subito. Domattina saremo a Venezia.

MARTA – Sei pazzo?

MARIANO – Vedrai

MARTA – (Alzandosi per andare) Lasciami andare.

MARIANO – Tu non scendi di qua. Verrai con me.

MARTA – Mariano…

MARIANO – Verrai con me. (Musica più forte. Con un gesto fulmineo, Mariano avvia il motore del motoscafo. Vira abilmente, e una volta guadagnato il centro dell’imbarcadero, punta verso la porta centrale della platea. Marta protesta, ma Mariano non l’ascolta. Lentamente il motoscafo attraversa tutta la platea. La luce torna come prima)

OTTO – (richiamato dal rombo del motore, guarda un po’ smarrito l’allontanarsi del motoscafo, poi parlando al pubblico dell’albergo, con allusione intima) Si sa come comincia un esperimento, ma spesso si ignora come finirà. Speriamo bene. Zaira! (Dal tavolo centrale prende una gabbietta con un canarino) Ecco, signori, tutti possono osservare il povero prigioniero. (Si avvicina ai tavoli mostrando il canarino agli spettatori) È vispo, allegro. Povero canarino! Ignora la sua infelicità. (Ogni tanto guarda il mare con la speranza di rivedere il motoscafo di Mariano D’Albino) Chi può raggiungerti, se riesci a fuggire? Ma tu non devi, tu puoi sparire per un poco, magari per un quarto d’ora, ma poi devi riapparire, questi sono i patti! (Chiamando) Zaira. (Zaira pronta gli si avvicina, riceve la gabbietta dalle mani di Otto e, prendendo posto a sinistra della scena, la mostra al pubblico. Otto ricopre con un quadrato di stoffa nera, prende una rivoltella dal tavolo centrale e, dopo essersi allontanato di qualche passo, punta l’arma in direzione della gabbietta) Prego, signori, attenzione… Uno, due, tre! (Spara un colpo. Nell’attimo stesso, Zaira scopre la gabbietta mostrandola vuota. Altro piccolo applauso) Passiamo ora ad un altro esperimento.

CALOGERO – (alzandosi, chiede cortesemente al professore) Scusate, signor giocoliere, volete essere tanto gentile da far riapparire mia moglie?

OTTO – (con lo stesso tono gentile) E voi, scusate, chi siete?

CALOGERO – Come, chi sono? Sono il marito. Perciò vi prego di far riapparire la signora. (Il pubblico osserva divertito la scena)

OTTO – Già. Un poco di pazienza. (Chiamando) Zaira! (Zaira prende dal tavolo un grosso dado e lo porge ad Otto il quale lo mostra al pubblico) Ecco. Prego osservare la precisione dei numeri. Lor signori potranno giudicare spassionatamente. Il trucco è perfetto. Io…

CALOGERO – Aspettate. Prima di passare appresso, volete essere tanto gentile di riprendere l’esperimento che avete lasciato a metà? (La musica cessa)

OTTO – Non capisco…

CALOGERO – Come, non capite? È tanto semplice. Vi prego di essere tanto gentile di far riapparire mia moglie.

OTTO – Ma scusate, l’esperimento lo devo portare a termine io o voi?

CALOGERO – Voi, naturalmente: ma mia moglie la devo reclamare io.

OTTO – (apparentemente divertito) Chest’è bella, mo. È veramente spassosa! Perché voi credete fermamente che vostra moglie sia sparita…

CALOGERO – E si capisce. Il sarcofago è vuoto.

OTTO – Un momento. Che c’entra il sarcofago! Che può fare un sarcofago? E voi siete tanto ingenuo da credere che un affare di legno dipinto abbia la potenza di far sparire le persone, ed in questo caso vostra moglie? Insomma, non pensate nemmeno per un attimo che vostra moglie l’avete fatta sparire voi?

CALOGERO – Io?

OTTO – Senza volerlo, d’accordo: voi l’avete fatto in buona fede. E siete pienamente convinto che vostra moglie sia sparita un attimo fa?

CALOGERO – E come no? Stava seduta vicino a me.

OTTO – Ma quando mai! Non lo dite nemmeno per ischerzo… Vostra moglie vicino a voi non c’era. Probabilmente non è mai venuta in albergo con voi. Vostra moglie chissà quando è sparita, e tutto quello che avviene davanti ai vostri occhi è solamente illusione. Voi state qua, solo, vostra moglie non l’abbiamo vista mai. (Rivolgendosi al pubblico) Conosciamo forse la moglie di questo signore, noi?

TUTTI – (prestandosi al giuoco) Nooo…

CALOGERO – Ma io, quanto è certo Iddio, non ho fatto niente per far sparire mia moglie…

OTTO – Ecco, lo credete voi; e lo credete fermamente perché non possedete il terzo occhio, l’occhio senza finestra, l’occhio del pensiero… Ma non vi accorgete che il giuoco lo state facendo voi? Voi avete fatto sparire vostra moglie e voi dovete farla riapparire… Io che c’entro? Io se mai posso aiutarvi, e questo lo faccio senz’altro. Volete essere gentile di venire qua, dove sono io?

CALOGERO – (spazientito) Ma io non sono un buffone, non posso essere preso in giro da voi…

IL PUBBLICO – Ma sì, ci vada, è uno scherzo…

CALOGERO – Niente affatto. L’impudenza e la malacreanza devono avere un limite. Lui deve ricordare che io sono un signore e non mi posso prestare a certe imposture.

OTTO – Volete perderla per sempre, vostra moglie?

CALOGERO – (ridendo all’affermazione assurda di Otto) Ma vedete che tipo! È una bella faccia tosta!

IL PUBBLICO – (invogliandolo) Su, su, ci vada. Ci divertiamo!

CALOGERO – (cedendo di malavoglia) Be’, eccomi. (Avanza di qualche passo avvicinandosi)

OTTO – Molto bene. (Il pubblico si fa più attento) Rispondete a poche mie domande. Siete molto geloso della vostra signora?

CALOGERO – Queste sono cose intime: non riguardano né voi né il pubblico.

OTTO – Ad ogni modo, rispondete. Siete geloso di vostra moglie?

CALOGERO – Ebbene, si.

OTTO – Hai capito, Zaira? Il signore è geloso.

ZAIRA – (rimproverandolo comicamente con un gesto della mano, accompagnato, come si fa ai bimbi) Ah, ah, ah!…

OTTO – Le avete mai fatto delle scenate?

CALOGERO – (offeso) Ma la volete smettere, si o no?

OTTO – Non vi arrabbiate. Rispondete con calma. Avete avuto sospetti sulla sua fedeltà?

CALOGERO – Ma, insomma, la volete smettere di offendere?

OTTO – Io non voglio offendere nessuno. Voglio aiutarvi. Avete avuto mai dei sospetti sulla fedeltà della vostra signora?

CALOGERO – (pronto, con fierezza) Mai!

OTTO – Sta bene. Allora, state attento. Vostra moglie è sparita. Osservate bene il sarcofago. (Calogero esegue osservando scrupolosamente l’interno del sarcofago) Siete convinto?

CALOGERO – Si.

OTTO – Venite qua. (Calogero gli si avvicina) State attento. (Prende dal tavolo centrale una scatola giapponese, rettangolare, alta dodici centimetri e lunga quaranta) Tenete. (Calogero incuriosito prende fra le mani la scatola, dalle mani di Otto) Vostra moglie è in questa scatola. Aprite.

CALOGERO – Santa pazienza. (Fa l’atto di aprire la scatola)

OTTO – (fermandogli repentinamente il gesto) Un momento. Avete fede?

CALOGERO – In che senso?

OTTO – Siete convinto di trovare vostra moglie in questa scatola? Ascoltate: se non avete fede, non la vedrete. Siamo intesi? Se non siete convinto, non aprite.

IL PUBBLICO – (incitandolo) Apra, apra, non esiti… Chi aspetta? Apra!

OTTO – (interviene energico) Ma no, signori, prego. Non cerchino di influenzarlo. È lui che deve decidere, la responsabilità è solamente sua. (Di nuovo si rivolge a Calogero) Voi avete dichiarato, poc’anzi, di non aver mai sospettato della fedeltà di vostra moglie. Ho dei dubbi sulla vostra affermazione, ad ogni modo ora pensateci bene: se voi aprite la scatola con fede, rivedrete vostra moglie, al contrario, se l’aprirete senza fede, non la vedrete mai più. Aprite, se credete. (Calogero rimane perplesso. È in dubbio. Sorride ebete, per darsi un contegno. Otto ne approfitta per insistere con maggiore padronanza) Ma insomma: avete fede o non avete fede?

CALOGERO – Ma certo che ho fede.

OTTO – Allora, cosa aspettate? Aprite. (Calogero non batte ciglio. Rimane muto, assorto in un pensiero fisso che lo sprofonda in un mare d’incertezza: “Che fare?” Mettendo in dubbio l’affermazione del professore deve, implicitamente, ammettere l’infedeltà della moglie. D’altra parte, chi può dargli la certezza che la sua donna si trovi effettivamente in quella scatola? Gli spettatori seguono e par che sentano in pieno il complesso atroce che tiene inchiodato in terra l’uomo. Finalmente, dopo una lunga pausa, egli decide: lentamente si mette la scatola sotto il braccio sinistro e, mogio mogio, come un cane bastonato, riprende posto al suo tavolo. Gli spettatori hanno seguito la sua azione senza staccargli gli occhi di dosso e, finalmente, ora, ipocriti e maligni, commentano sommessamente l’accaduto. Il professore, con infinita calma e serenità, come se nulla di strano fosse accaduto, riguadagnando il centro della scena, riprende il suo numero) Chiedo un po’ di attenzione per passare ad altro esperimento… (La musica monotona riprende) Zaira!…

SIPARIO

ATTO SECONDO

La misera casa di Otto Marvuglia. Giorno chiaro, prime ore del mattino.

AMELIA – (Affacciata alla finestra, come parlando a qualcuno che abita di fronte) No, non te lo permetto! Non lo devi fare. Guarda, te lo dico sinceramente, se vieni a parlare con papà, non ti guardo più in faccia! (Resta in ascolto, seguendo la risposta dell’altro, poi riprende) Non lo devo dire a te! La ragione è perché, per adesso, non mi voglio sposare. Va bene, l’hai saputo? Adesso sei contento? (Rimane in ascolto) La ragione non te la posso dire; viene il momento che la saprai. Te lo dico domani. Domani è il mio compleanno; vedi come ti devi mettere. Faccio diciannove anni. Se hai la costanza di aspettare due o tre anni, ci sposeremo. (Pausa) Ah, ma sei cocciuto, sa’! Non te lo dico. Parliamo d’altro. Tu forse non mi vuoi bene veramente, perché non mi hai fatto una domanda che fanno tutti i giovani che vogliono bene a una i ragazza. (Pausa) Non mi hai domandato quali sono i fiori che mi piacciono. (Pausa) È la prima cosa che si domanda. A me me l’ha detto una amica mia, che ci ha un fidanzato che muore e spàntica per lei. (Pausa) Si capisce, perché adesso te l’ho detto io! (Pausa) I garofani… Mi piacciono i garofani rosa pallido, ma quelli piccoli piccoli… quelli che i venditori mettono per bellezza sopra i cesti di gelse bianche. Quanto mi piacciono! Perché una volta, quando ero piccola, stavo sola fuori al balcone di casa mia, abitavo al primo piano, e me ne rimase impresso uno che stava in mezzo ad un fascio d’erba che un cocchiere dava a mangiare al cavallo suo. Piano piano, vedevo che l’erba finiva, e la bocca del cavallo si avvicinava al garofano… (Pausa) Si, poi se lo mangiò, povero garofano! (Piange in una maniera infantile) E che vuoi fare? Ogni volta che ci penso mi viene a piangere. Te lo devi ricordare: i garofani rosa pallido, si, ma quelli piccoli, piccoli, piccoli… (Dalla sinistra, Otto in pantalone e giacca di pigiama: una giacca di pigiama stremenzita, senza colletto, e con il solino della camicia aperto. Entra come parlando a qualcuno che lo segue)

OTTO – Ma no, Gerva’: ‘o filo dallo a me; è meglio che l’interruttore ‘o tengo io dint’ ‘a sacca, perché dipende tutto da me.

GERVASIO – (porgendo ad Otto un piccolo interruttore di galalite dal quale pende un filo che si perde in quinta, un sottilissimo filo elettrico) Ma scusa, è meglio che ‘o movimento ‘o faccio io; se ‘o pubblico vede ‘o filo, è finita.

OTTO – Niente affatto, che vede? Quando il numero è finito, il pubblico è distratto, perché una fregatura non se l’aspetta più. Mo facciamo una prova. Tu, vattene dentro, innesta la spina, e stai attento al disco. (Gervasio esce per la prima a sinistra) Quando sei pronto mi avverti. (Si piazza al centro della scena e attende)

GERVASIO – (di dentro) Pronto.

OTTO – (comincia a manovrare il piccolo interruttore con la mano destra, portandoselo, come per nasconderlo, dietro le spalle. Si ode, come trasmesso da un invisibile altoparlante, un brevissimo lacerante rumore radiofonico) Questa volta ho sbagliato io. Devo prenderci la mano Riproviamo. (Balenandogli un’idea) Aspetta. (Parlando verso la prima a sinistra) Venite qua, voialtri. Vieni anche tu. Artu’. Facciamo una prova completa. Piccere’! Amelia.

GERVASIO – (seguito da Arturo e da Amelia) Eccoci.

OTTO – Voialtri fate da pubblico. Mettetevi qua. (Li piazza in prima quinta a destra, quasi al proscenio) Fate conto che il numero sia finito. Io m’inchino. (Infatti s’inchina. I tre iniziano un applauso) Bravi. (Come prima, comincia a manovrare l’interruttore. Questa volta si ode l’inizio di un applauso nutrito che, aumentando di volume e fondendosi con l’applauso dei tre, piano piano diventa un’ovazione imponente. Una di quelle manifestazioni di piazza, le quali, nel momento in cui sembrano esaurirsi riprendono con più forza e vigore. Il volto di Otto si illumina. L’illusione è perfetta. Si sente celebre e compreso. Con riservatezza e sufficienza s’inchina ripetutamente a questa immaginaria massa di gente che freneticamente l’applaude)

ZAIRA – (dal fondo. Indossa un povero consunto abito, non privo di alcuni tocchi audaci di sfrontata dignità, i quali non riescono che a rendere l’insieme pietoso e grottesco. Reca con sé una borsa ricolma di verdura, un pacco di spaghetti sotto il braccio e una bottiglia d’olio. Nel vedere Otto, l’osserva incuriosita, fermandosi sulla soglia della porta) Neh, ma voi siete pazzi? Giesù, quello si è scimunito! Ma che stai facendo?

OTTO – (manovra l’interruttore per far cessare la manifestazione. Difatti, cessa) Il nostro numero è finito ed il pubblico applaude.

ZAIRA – Ma quale pubblico?

OTTO – (candido) Sono o non sono un illusionista? Ho creato questo trucco e l’ho chiamato: la moltiplicazione degli applausi. Quando finisce il numero, lo mettiamo in funzione e avremo l’illusione di aver lavorato di fronte a platee gremite di spettatori. Un amico mio che sta alla radio ha regalato un vecchio disco passato di moda, un disco che riproduce un’oceanica manifestazione di popolo in piazza. Siente… Siente se l’illusione non è perfetta. (Si piazza al centro del palcoscenico) Il numero è finito, va bene? (Rivolgendosi ai compagni cui si è unita Amelia che si diverte un mondo al giuoco) Iniziate l’applauso. (I tre iniziano l’applauso. Otto manovra l’interruttore con accorgimento e accuratezza, in modo da determinare con lenta progressione la travolgente manifestazione. Poi, con la stessa progressione, ne determina la fine. Rivolgendosi felice a Zaira) Hê capito, Marianni’? Chi non si sentirebbe orgoglioso? L’illusione è perfetta!

ZAIRA – (dopo averlo guardato con infinito disprezzo, ai tre compari) Ma voi capite. Vi rendete conto di fronte a quale incosciente ci troviamo, e per disgrazia mia mi trovo? Quello pensa a moltiplicare gli applausi, e non pensa che qui c’è una sottrazione di soldi continua. Oggi, per fare questo poco di spesa, (mostra la verdura e gli altri pacchetti) ho dovuto pegnorare l’ultimo orecchino che ci avevo, perché con i soldi che guadagnammo quattro giorni fa ho dovuto pagare i debiti.

OTTO – Ma erano cinquantamila lire!

ZAIRA – E che so’ cinquantamila lire, oggi? I mensili arretrati al padrone di casa… diecimila lire solo per far riattaccare la corrente… Anzi, ti prego di non fare esperimenti elettrici, se no alla fine del mese ce levano ‘a luce un’altra volta. Il salumiere, il macellaio… c’è da mettersi le mani nei capelli.

AMELIA – (Conciliante) Va bene, non fa niente. Qualche cosa succede.

ARTURO – Chello ca succede ‘o ssaccio io. Ieri al giorno sa’ chi ho incontrato? Roberto Magliano.

OTTO – (nell’udire quel nome ha un breve sussulto) Magliano?

ARTURO – Io non l’avevo riconosciuto, perché è ridotto in uno stato che fa pietà. Ha riconosciuto isso a me. Voleva l’indirizzo tuo.

OTTO – E tu?

ARTURO – Ma che m’hê pigliato pe’ scemo? Ho detto che non ti vedevo da molto tempo e ca nun saccio addo staie. Vo’ ‘e solde. Vo’ ‘e cientomila lire che t’ha prestato. Ha detto che mette Napoli sottosopra, ma ti deve trovare. Statte accorto, perché è avvelenato. Ridotto in quelle condizioni, chillo è capace pure ‘e te sparà.

OTTO – (filosofo) Mi spara? E va bene. Tu hê giucato maie ‘a rulette? La rulette è composta di trentasei numeri; una città avrà duecentomila case. Me trova? È na parola!

ARTURO – Professo’, io ‘a ruletta l’aggio giucata nu sacco ‘e vote. Int’ ‘a pallina ce sta ‘o diavolo, gira e gira e gira e te vide arrivà Roberto Magliano dint’ ‘a casa toia.

OTTO – Speriamo di no.

AMELIA – (a Zaira, indicando la borsa con la verdura) Che avete comprato?

ZAIRA – Quello che ho potuto. (Rovistando nella borsa e traendo da essa cinque o sei garofani piccoli e rosa pallido) Te’, aggio pigliato pure ‘e garofane pe’ te!

AMELIA – (felice come una bambina) Quante so’ belle! Grazie. Io ve voglio bene, a vuie, ‘o ssapite?

ZAIRA – E io pure voglio bene a te.

AMELIA – E comme so’ profumate! So’ tale e quale a chille… (Piange c. p)

ZAIRA – Guè, embè?

ARTURO – (avvicinandosi preoccupato) Ch ‘è stato? (Campanello interno. Gervasio esce per aprire)

ZAIRA – Niente. Ha visto ‘e garofane e s’è mmisa a chiàgnere. Si faie accussì, non t’ ‘e pporto cchiù. (Amelia pone i fiori in un vaso sul fondo. Torna Gervasio seguito dal cameriere del Metropole)

GERVASIO – C’è il cameriere dell’albergo Metropole; vo’ parla’ cu’ te.

CAMERIERE – Bongiorno, professo’.

OTTO – Bongiorno, ch’è stato?

CAMERIERE – (porgendogli una lettera) È arrivata ieri in albergo: forse non sapevano l’indirizzo vostro; siccome sono di libertà e abito da queste parti…

OTTO – Grazie, sei stato veramente gentile. (Apre la busta, spiega il foglietto, ne scorre il contenuto)

CAMERIERE – È cosa importante?

OTTO – (ammettendo) Si, grazie ancora. Vuoi sedere?

CAMERIERE – No, vado via subito.

OTTO – Un caffè?

CAMERIERE – No, grazie.

OTTO – In casa di un prestigiatore, un caffè può apparire. Dunque non costa niente.

ZAIRA – (ironica) Come no… Qua tutto apparisce come per incanto. (Indicando la bottiglia d’olio e la borsa con la verdura, rivolgendosi un po’ a tutti) Vedete questa roba? L’ha fatta apparire lui con la bacchetta magica. Alla fine del mese fa così… (solleva il braccio destro in alto, accennando un rapido gesto con la mano come per afferrare qualcosa) …e paga il padrone di casa! Quando servono le scarpe, suggestiona il calzolaio e quello gliele porta a casa senza pretendere un soldo. Io poi sono brava per le sparizioni… Chi sa quale volta dico: “Uno, due, tre!”, sparisco, e chi s’è visto s’è visto! (Al cameriere) Venite, venitevi a prendere il caffè.

CAMERIERE – Ma non c’è bisogno, signora.

ZAIRA – E che c’entra, siete stato tanto gentile.

AMELIA – E poi ce lo dobbiamo prendere pure noi. È fatto, si deve solo riscaldare; venite.

CAMERIERE – Grazie.

AMELIA – (invitandolo ad entrare) Prego.

CAMERIERE – Molto gentile. (Ed esce per la prima a sinistra seguito dalle due donne)

ARTURO – Io me vaco a ffa’ ‘a barba; po’ faccio na corsa ‘o cafè, pe’ vede si pozzo cumbinà quacche affaruccio.

GERVASIO – Ascimme nzieme. (I due escono per la prima a sinistra. Otto, rimasto solo, arrotola ordinatamente il filo con l’interruttore e poggia il tutto su di un mobile a sinistra. Il campanello dell’ingresso trilla. Otto nell’udirlo esce svelto per la comune. Dopo piccola pausa rientra, precedendo il brigadiere di PS, due agenti e Calogero Di Spelta, il quale stringe sotto il braccio sinistro la scatola giapponese del primo atto)

BRIGADIERE – (con spiccato accento siciliano) Fermi tutti!

OTTO – Ma quando mi sono fermato io, è tutto quanto può desiderare: sono solo!

BRIGADIERE – (sospettoso, ambiguo) Lo vedo, non sono cieco. Non cerchi di fare il furbo con me. Io faccio il brigadiere, lei l’illusionista. Io dico: “Mani in alto! Fermi tutti! In nome della legge, aprite!” Sono frasi che mi danno coraggio e autorità, le devo dire: intesi? (Ai due agenti) Voialtri sorvegliate l’uscita. (A Calogero) Lei, signor Di Spelta, stia accanto a me.

CALOGERO – (guardingo, ma sicuro delle conclusioni, data la presenza della Giustizia) Benissimo.

OTTO – (senza perdere la sua calma abituale) Ma cosa accade, a che devo l’onore della vostra visita, signor Di Spelta?

CALOGERO – (rabbioso, con dispetto) Io non vi rispondo, avete capito? Non vi rispondo: quello che dovevo dire, l’ho già detto al brigadiere qui presente. È a lui che dovete rivolgervi, ed è lui che vi risponderà.

OTTO – Benissimo. Allora, signor brigadiere, posso chiedere per quale motivo ho l’onore di riceverla in casa mia?

BRIGADIERE – (assumendo una falsa aria ironica per dare l’impressione al suo interlocutore di essere al corrente) Non fare la colombella smarrita, amico del sole. Ricordati che la Polizia sa tutto, ed è sempre al corrente di tutto. (Indicando Calogero) Il signore ha fatto una denunzia precisa, e io non aspettavo altro per agire perché già sapevo ogni cosa. Quattro giorni fa, nel giardino dell’albergo Metropole, con una strategia da delinquente consumato, hai fatto sparire sua moglie…

OTTO – (azzarda) Ma…

BRIGADIERE – (autoritario) Silenzio! E fermi tutti! (Riprendendo il discorso) La signora aveva indosso molti gioielli, ori e brillanti.

CALOGERO – (timido, precisando) E uno smeraldo di dieci carati.

BRIGADIERE – (c. s) Silenzio! Ho detto: ori e brillanti! E quando si dice ori e brillanti, sono anche compresi gli smeraldi e i rubini gialli. E fermi tutti! (Di nuovo a Otto) Dunque, amico del sole… la signora è stata derubata e soppressa. Ora si tratta solamente di assodare la residenza provvisoria del cadavere. Se confessi è meglio per te.

OTTO – Posso parlare?

BRIGADIERE – Avanti…

OTTO – Già spiegai al signor Di Spelta che si è trattato di un semplice giuoco di prestidigitazione. E che, per giunta, fu lui a iniziarlo chissà quando. Il fatto poi che io l’abbia messo di fronte all’illusione, fermando per un attimo in forma concreta le immagini mnemoniche della sua coscienza atavica, non comporta responsabilità da parte mia.

BRIGADIERE – (imbarazzato, torvo) Ma la signora è sparita, si o no?

OTTO – Non v’ha dubbio. La signora è scomparsa. (Indicando Calogero) E da lui solamente, ora, dipende la riapparizione. Su, coraggio, signor Di Spelta… non create equivoci, e non fate perdere tempo alla giustizia. Fate riapparire vostra moglie.

CALOGERO – (che ha compreso l’allusione di Otto: testardo) Io la scatola non l’apro. Non sarò tanto fesso da prestarmi ad un’impostura del genere.

BRIGADIERE – (più imbarazzato di prima) Quale scatola?

CALOGERO – (mostrandogliela) Questa.

BRIGADIERE – E che c’entra la scatola?

CALOGERO – Perché lui (indica Otto) sostiene che mia moglie si trova qui dentro.

OTTO – (mellifluo, insinuante) Sicché, signor Di Spelta, voi non avete ancora aperta la scatola?

CALOGERO – (deciso) E non l’apro.

OTTO – Ed allora, per quale motivo assurdo volete insistere?

BRIGADIERE – (sospettoso) Ma scusino… Come si può pensare di trovare la moglie in una scatola?

OTTO – Non una, signor brigadiere, ma tante. Cento, mille mogli può contenere una scatola, anche se più piccola di quella.

BRIGADIERE – (distogliendo il suo sguardo da quello di Otto, come se ne provasse fastidio) Storie! Queste sono storie. Ma in giro mi vuole prendere? La signora è scomparsa. Ti ripeto, amico del sole, è meglio per te se confessi. Perché l’hai uccisa? Come l’hai uccisa? Dove sta il cadavere? (Calogero ha un moto di soddisfazione nell’udire l’intimazione del brigadiere a Otto)

OTTO – (dopo una pausa, decide) Ho capito… Sarà meglio confessare.

BRIGADIERE – (energico più che mai) Fermi tutti! Parla.

OTTO – Già, ma io voglio confessare tutto alla giustizia. Vuole avere l’amabilità, signor brigadiere, di allontanare per un momento il signor Di Spelta?

BRIGADIERE – (a Calogero) Lei si metta lì. (Indica un punto della scena in fondo a destra. Calogero ubbidisce)

OTTO – (traendo da parte il brigadiere) Venga qua, si accomodi. (Seggono) La signora Di Spelta, la moglie del signore che ha sporto denunzia contro di me, si trova a Venezia.

BRIGADIERE – Morta?

OTTO – Non è stata mai viva come in questo momento. La sera del mio spettacolo, nel giardino del Metropole, colse un attimo propizio per scappare col suo amante, Mariano D’Albino…

BRIGADIERE – (lentamente gira il capo verso Calogero, squadrandolo dalla testa ai piedi) La signora aveva un amante?

OTTO – Già. E fu appunto per non mettere questo disgraziato di fronte alla realtà, che feci passare il fatto per un gioco di illusione, inventando l’affare della scatola.

BRIGADIERE – (preoccupato) E se l’apre?

OTTO – Crederà di non avere avuto fede abbastanza.

BRIGADIERE – E se non l’apre?

OTTO – Vivrà nell’illusione della fedeltà.

BRIGADIERE – Non ho capito.

OTTO – Non fa niente.

BRIGADIERE – (Divertito. Poi d’un tratto sospettoso) E questo lei come me lo può provare?

OTTO – Ecco. (Prende di tasca la lettera che gli ha portato il cameriere dell’albergo e gliela mostra) Questa è della signora, me l’ha inviata da Venezia. (Legge) “Gentile professor Marvuglia, sono molto in pena ed avvilita per averla messa in imbarazzo nei confronti di mio marito; ma creda pure, non è stata mia la colpa. Fu il signor Mariano D’Albino che volle trascinarmi a Venezia. Ora sono con lui in un paradiso di felicità. Unico mio rammarico è il povero Calogero. Cerchi di avvicinarlo e di distoglierlo dall’idea di cercarmi. Egli non è il mio uomo. Mi perdoni e mi creda, sua: Marta Di Spelta.”

BRIGADIERE – (Convinto) Mi dia la busta. (Otto gliela dà. Il brigadiere a Calogero, mostrandogliela) Riconosce questa calligrafia lei?

CALOGERO – Mia moglie.

BRIGADIERE – Basta. (Avvicinandosi ad Otto) È chiaro: cornuto è. Meschino. (Pausa lunga, durante la quale i tre si scambiano sguardi intenzionali, ciascuno per quello che pensa e sente) Professore, che ne faccio, ora, di quello là? (Allude a Calogero)

OTTO – (Semplice) Io lo arresterei. Non è male se lo si tiene un po’ in disparte.

BRIGADIERE – Già, ma per quale reato?

OTTO – Falsa denunzia.

BRIGADIERE – (Perplesso) Ma neanche la falsa denunzia esiste.

OTTO – Nei confronti miei, si.

BRIGADIERE – Ma, scusi, perché non glielo dice, lei? Quattro e quattro fanno otto… Tua moglie è scappata con un amante… Lui mi fa la denunzia, io li sorprendo, e finisce la giostra!

OTTO – E, scusi, perché non glielo dice lei?

BRIGADIERE – Io? E che me ne frega?

OTTO – (pronto) E perché dovrebbe fregarmene a me?

BRIGADIERE – (ammettendo) Già. Resta soltanto un fatto: io che ne faccio di quello là?

OTTO – (bonario, insinuante) Entri nel giuoco, brigadiere… Entri nel giuoco anche lei. Si trarrà d’imbarazzo, lasciando nel contempo, quel disgraziato di marito nella sua illusione. (Pausa)

CALOGERO – (ne ha le tasche piene di quel colloquio appartato, e spazientito) Ma volete o non volete farmi sapere qualche cosa? Insomma che si fa? (I due, muti, si interrogano)

BRIGADIERE – (reagendo al tono di Calogero, quasi arrogante) E che si deve fare? Lo chiede a me?

CALOGERO – (meravigliato) E a chi, se non a lei?

BRIGADIERE – (risentito, quasi offeso dall’atteggiamento di Calogero) Lei faccia silenzio, ha capito? Cerchi di stare tranquillo e accenda due belle candeline a san Gennaro che gli ha fatto la grazia di non fargli passare un brutto quarto d’ora! (Calogero è come impietrito) Il professore qui presente, giustamente, gli potrebbe sporgere una bella querela per diffamazione; mentre io, dal canto mio, potrei portarmelo in Questura, e fargli passare un paio di notti in camera di sicurezza, al fresco, per aver osato di prendere in giro un pubblico funzionario.

CALOGERO – (sbarrando gli occhi) Io?

BRIGADIERE – (sempre più severo) Lei, lei, lei! Lui. Iddu! Lei, quando parla, deve sapere quello che dice, specialmente quando si rivolge alla giustizia. Quale furto, quale delitto è venuto a denunciarmi? Fatti… fatti ci vogliono per muovere la Legge. Documenti, prove inconfutabili. Se lei viene e mi dice: “Mia moglie è stata assassinata!”, morta me la deve far vedere, scannata. Se mi dice, per esempio, ascolti professore: “Mia moglie è sparita perché è scappata con un altro uomo”, e mi fa sapere dove si trova, io vado e li arresto. Mi può dire tutto questo, lei? Me lo può dichiarare con una denunzia scritta e controfirmata col suo riverito nome e cognome?

CALOGERO – (in buona fede) No.

BRIGADIERE – E allora, che cosa dovrei fare io? Che c’entra io in tutto questo? Si è trattato di un giuoco, un esperimento d’illusione. È lei che deve farla finita, santo Iddio! Il solo responsabile è lei. Come si dice? “I panni sporchi si lavano in famiglia”. Se lei vuol chiamare la lavandaia, la chiami pure; ma allora i panni fuori di casa li deve mettere… non le sembra? (Si rivolge al professore accomiatandosi con una strizzatina d’occhi) Buona giornata, professore! E complimenti. (Mentre si avvia si i rivolge nuovamente a Calogero, rallentando il passo) Di fronte a certi giuochi d’illusione, egregio signore, fermi, tutti! (Agli agenti) Nnamuninne, picciuotte. (Ed esce seguito dagli agenti)

CALOGERO – (dopo una lunga pausa durante la quale, come dissolvenze cinematografiche, sono passate sul suo volto, tutte le espressioni del suo complesso interno, lentamente siede in preda ad un abbattimento morale ed appena percettibile dice) Ho capito! (Un singhiozzo inaspettato lo costringe ad abbandonarsi ad un pianto infantile, semplice, che egli, in fondo, accetta volentieri e senza riserve. Otto dal suo posto, comprensivo, ora lo guarda con infinito senso di pietà. Calogero, fra le lacrime, ripete) Ho capito!!

OTTO – (dolcemente si avvicina) Ma no, non così, signor Di Spelta. Cosa credete di aver capito? Mi dispiace veramente. Non credevo che voi foste entrato così profondamente nel giuoco.

CALOGERO – (sfiduciato) Quale giuoco?

OTTO – (semplice) Uno degli esperimenti che sto presentando al pubblico dell’albergo, qui, in giardino, durante il mio spettacolo… Io, in possesso del terzo occhio, non ho fatto altro che fermare nel tuo cervello una convenzione atavica irradicata e dare al tuo pensiero immagini mnemoniche, le quali, a loro volta, ti danno per cosa reale certe sensazioni che possono semplicemente definirsi fenomeni di pura coscienza atavica: il tempo!

CALOGERO – (sospettoso) Come?

OTTO – Ho capito, va. Il tuo abbattimento potrebbe procurarti un collasso che ti spedirebbe in un attimo all’altro mondo. Allora sono costretto a tradire il mio segreto professionale e renderti compartecipe del mio terzo occhio, pur lasciandoti nel giuoco fino all’esaurimento di esso, perché purtroppo di qualunque esperimento del genere, una volta iniziato, se ne può determinare la fine solo quando il soggetto è in condizioni di raccontarlo egli stesso, e di riderne. Stamme a sentì. Tu credi che il tempo passi? Non è vero. Il tempo è una convenzione. Se gli uomini non si fossero organizzati in questo mondo, tu come potresti trovarti ad un appuntamento? Se ognuno di noi vivesse senza impegni, senza affari, voglio dire una vita naturale, primitiva, tu dureresti. Dureresti senza saperlo. Dunque, il tempo sei tu.

CALOGERO – Io?

OTTO – Un disgraziato, per esempio, che viene condannato a trenta anni di galera, secondo te, per riacquistare la libertà, che cosa deve aspettare?

CALOGERO – Che passino i trent’anni.

OTTO – Bene. E se, per ipotesi, il condannato morisse un attimo dopo la sentenza, secondo la tua affermazione, quei trent’anni passerebbero lo stesso?

CALOGERO – Certamente.

OTTO – Per chi?

CALOGERO – Per quelli che restano.

OTTO – E perché quelli che restano dovrebbero accorgersi dei trent’anni lasciati insoddisfatti dal condannato? Quei trent’anni esistevano nella coscienza del condannato e di coloro che avevano emanato la sentenza. Credi a me, convenzione su convenzione… Tu di solito a che ora mangi?

CALOGERO – Verso l’una e mezzo.

OTTO – Bene. Sicché verso l’una, l’una e un quarto, ti viene appetito?

CALOGERO – Caspita… una fame! Io incomincio verso la mezza.

OTTO – Rispondi, rispondi a me. Ti viene appetito perché è l’una e mezza… o è l’una e mezza perché ti viene appetito?

CALOGERO – E non è lo stesso?

OTTO – No che non è lo stesso. È l’una e mezza perché ti viene appetito. L’orologio è il tuo organismo che ha funzionato. Dunque il tempo, come vedi, sei tu.

CALOGERO – (convinto) Già… perché se io sto poco bene, non ho fame…

OTTO – Quando è sparita tua moglie?

CALOGERO – Quattro giorni fa.

OTTO – Me l’aspettavo la risposta. E tu ci credi?

CALOGERO – Per forza.

OTTO – Per forza di che? Di chi? Di chi se non per forza della tua coscienza? Se tu credi che siano passati quattro giorni… è il risultato dell’esperienza piuttosto che di una cosa dimostrabile. Te lo dico perché ho tradito il mio segreto professionale: sto facendo il giuoco! (Indicando il fondo della camera) Guarda… là ci sono tutti i clienti dell’albergo che assistono al mio spettacolo. Tu sei convinto di essere in casa mia, ma siamo nel giardino del Metropole. Tutte le sensazioni che provi, tutte le immagini, te le sto trasmettendo io, sfruttando la tua memoria atavica. Tu, per esempio, credi fermamente di aver cercato tua moglie dappertutto…

CALOGERO – Ho portato qua un brigadiere con due guardie…

OTTO – Non è vero. Hai creduto di averlo fatto. Credi perfino di essere in casa mia, ma non è vero. Insomma, tu in questo giuoco agisci come avrebbe agito chiunque. In altri termini: come per coscienza atavica. Subisci l’impostazione di questo giuoco, ma in realtà e praticamente non ne sei il protagonista…

CAMERIERE – (dalla sinistra porgendo al professore una tazza di caffè in un piccolo vassoio) Ecco, professore, un caffè squisito. (Calogero, nel vederlo, lo riconosce e ne rimane stupito)

OTTO – (cogliendo a volo l’occasione propizia ne approfitta per rafforzare le sue affermazioni) Grazie, caro, ma non sono solo. Servilo al signore: ne porterai un altro a me.

CAMERIERE – Certamente. (Porgendo il caffè a Calogero lo riconosce e si inchina a lui rispettosamente) Signor Di Spelta, sono molto lieto di servirla. (Calogero, mezzo intontito, come di fronte ad una cosa ideale, prende la tazzina dalle mani del cameriere e comincia a sorseggiare il caffè) Il signor Di Spelta è uno dei clienti più affezionati del nostro albergo…

CALOGERO – Già.

CAMERIERE – Permesso. (Ed esce per la prima a sinistra)

CALOGERO – (sempre sorseggiando il caffè, guarda intorno per rendersi conto della autenticità di ciò che lo circonda. Ogni qual volta gli capita di incontrare lo sguardo del professore sorride fra l’incredulo e il furbo) Ogni anno vengo… vado… qua, si… vengo in questo albergo… mi dispiace che vi siete privato voi del caffè…

OTTO – Sciocchezze. E poi qua, in albergo, fanno presto.

CALOGERO – Si, è vero, il servizio in questo albergo è stato sempre di primissimo ordine…

OTTO – E pure il ristorante…

CALOGERO – Una cucina ottima. Vi garantisco che quando lascio l’albergo, per un po’ di tempo nun me cuntenta nemmeno ‘o cuoco d’ ‘a casa mia.

CAMERIERE – (dalla sinistra, recando un’altra tazza di caffè) Ecco, professore, questo e per voi. Scusate, professo’, adesso ho da fare. Se avete bisogno dl me…

OTTO – Ti chiamerò, stai tranquillo.

CAMERIERE – Signor Di Spelta, ai suoi ordini.

CALOGERO – E tu sei sempre in albergo?

CAMERIERE – Sempre.

CALOGERO – Anche adesso?

CAMERIERE – Certamente. Anche adesso. Di nuovo. (Inchino ed esce)

CALOGERO – (dopo lunga riflessione) Scusate, professore, quello che se n’è andato, io l’ho riconosciuto: è il cameriere dell’albergo. Allora io penso che ci deve essere un errore, perché se voi mi state trasmettendo queste immagini, per darmi le sensazioni che dovranno portarmi all’esaurimento del giuoco, allora il cameriere non dovevate farmelo vedere. E già, perché fa parte della realtà, non della vostra magia.

OTTO – Bravo. Mi piaci perché approfondisci le cose: ma io te l’ho detto, siccome mi sono commosso alle tue lacrime, ho tradito il mio segreto professionale.

CALOGERO – Ho capito. Il fatto del terzo occhio.

OTTO – Precisamente. (Con la bocca fa la musica del primo atto, Calogero si unisce a lui)

ROBERTO – (entra dal fondo a destra. È un uomo sui quarantotto anni, pallido e stravolto. Veste un abito liso ma di buon gusto. Nell’entrare egli scorge immediatamente Otto, senza nascondere il proposito ben maturato che lo ha portato a una risoluzione estrema) Buongiorno. (Siede stanco sulla prima sedia presso la porta)

OTTO – (nel vederlo ha un attimo di smarrimento, ma si riprende subito) Caro Roberto, come stai?

ROBERTO – Capisco, tu non mi aspettavi. Sei rimasto molto male. Non trovare pretesti e scuse perché non ne ricavi niente. Con me non dovevi agire come hai fatto. Sei stato capace di sparire dalla circolazione; però quando avesti bisogno di me sapesti dove trovarmi. Oggi tu non sai in quali condizioni mi trovo io. Ti ho scritto, te l’ho mandato a dire, niente, niente: è stato tutto inutile.

OTTO – Guarda, Robe’, non l’ho fatto per male. Le mie condizioni sono disastrose.

ROBERTO – Ma che m’importa delle condizioni tue? Io penso ‘a condizione mia. Tengo tre figlie, e mia moglie in procinto di entrare in clinica per un’operazione. (Si alza avvicinandosi ad Otto) Insomma, tu te si scurdato ‘e quando si’ venuto addu me per essere aiutato, e io nun te facette manco arapì ‘a vocca. Ti consegnai cento biglietti da mille, cento biglietti da mille che oggi mi possono salvare…

OTTO – Ma non puoi trovare qualche amico?

ROBERTO – E perché? Io aggi’ ‘a cercà ‘a lemmòsena, o pure aggi’ ‘a vede’ ‘ figlie mieie che moreno ‘e famma per essere gentile con te? Guarda, la mia situazione è disperata. Si nun me daie ‘e solde, questo fatto finisce tragicamente, pecché io t’accido, hê capito? Deciditi. (con calma trae di tasca una rivoltella e la punta verso Otto)

OTTO – (non perde la sua calma. A Roberto) Un momento. (Si avvicina a Calogero e gli spiega l’accaduto) Vedi, quel signore fa parte di un altro giuoco iniziato chi sa quando e da chi.

CALOGERO – È un giuoco?

OTTO – Fa parte di un giuoco. Si presta inconsciamente come ti sei prestato tu, senza volerlo. Mo che succede? Adesso te lo spiego. Il giuoco può prendere due strade. Se gli do le centomila lire esco dall’esperimento; se mi faccio sparare, allora ne nasce una confusione che non ti saprei dire perché il giuoco potrebbe prendere proporzioni vastissime, coinvolgendo altri uomini e altre cose: articoli sui giornali, agenti di pubblica sicurezza, tribunale penale, il carcere, il cimitero…

CALOGERO – Tutte immagini mnemoniche?

OTTO – Naturalmente.

CALOGERO – Uno spettacolo formidabile! (A Roberto) Sentite, volete essere gentile di sparare sul professore?

ROBERTO – Insomma, cca l’avutammo a pazzia?

OTTO – Un momento. Guarda, se lui spara…

CALOGERO – Voi non morite! Non avete detto che si tratta di un giuoco?

OTTO – No, nun hê capito niente. Si me spara, io moro; e proprio questo è il giuoco. Io muoio e finisce il mio mondo. Nessuno ha il diritto di distruggere un mondo. Il mio mondo è collegato al tuo. Se il mio finisce, chi sa per quale strada precipita il tuo. È una catena. Non possiamo sottrarci. Dobbiamo prestarci. Lui deve sparire. Per farlo sparire, non ci vuole niente. (Comincia a parlare con la classica voce dell’imbonitore nel momento che presenta al pubblico un esperimento d’illusione) Prego la massima attenzione. Qualsiasi giocoliere, per fare un esperimento chiede sempre al pubblico un anello, un oggetto, un fazzoletto, un orologio. Ora per questo giuoco, io ho bisogno di centomila lire. Chi è disposto a darmi centomila lire per questo esperimento? (Punta l’indice verso l’immaginaria platea invitando gli spettatori uno per volta) Lei? Lei? Lei? (Poi, come richiamato dal prestarsi spontaneo di uno del pubblico, si rivolge a Calogero) Lei? Grazie!

CALOGERO – (un po’ perplesso) Ma veramente…

OTTO – È un giuoco. Tu me le dai, va bene; ma senza nessun timore, perché si tratta di un giuoco.

CALOGERO – Ma non ce l’ho. (Rovistandosi nelle tasche) Ti posso firmare un assegno, ma forse non va bene…

OTTO – Va benissimo invece. Come no? Basta che la cifra sia scritta ben chiara.

CALOGERO – (traendo di tasca il carnet degli assegni e una stilo) Ecco. (Lo trascrive regolarmente, lo stacca e lo porge a Otto)

OTTO – Bene. (Leggendone l’intestazione) Intestato a me. Dammi la stilo. (Calogero gliela porge) Ora non faccio che girarlo a suo nome. (Esegue) Uno, due, tre! (Lo porge a Roberto) A te, sparisci!

ROBERTO – (intascando l’assegno, dopo averlo controllato) Lo credo. (E senza salutare esce in fretta)

OTTO – Et voilà! Il giuoco è fatto. Roberto Magliano è sparito. (Musica con la bocca)

CALOGERO – Straordinario! Scusate, professo’: e ‘e solde mieie?

OTTO – Quali?

CALOGERO – Come quali? L’assegno.

OTTO – (precisando) L’immagine dell’assegno! Hai creduto di avermelo dato, ma non è vero. È nu giuoco, hê capito? Metti il caso che tu avessi preso sul serio l’assegno, il giro bancario, i giuochi di borsa, le anticipazioni, gli interessi, le scadenze… tu nun me l’avarisse dato! Per il giuoco invece si; m’hê dato centomila lire. E che so’ centomila lire per un giuoco d’illusione? Torneranno a te, per un’altra strada, sotto un’altra forma… Quando? Non ha importanza. Ogni giuoco ha bisogno del suo sviluppo. Esistono giuochi che durano da migliaia d’anni convenzionali e non si sono ancora conclusi… (Dalla camera accanto si odono grida confuse. Poi distinta la voce di Arturo)

ZAIRA – Ame’!

ARTURO – Figlia mia!

ZAIRA – (dall’interno) Non t’impressionare!

ARTURO – (entra stravolto, rivolgendosi a Otto con voce, disperata) ‘O ssapevo, ‘o ssapevo!

OTTO – Ch’è stato?

ARTURO – Amelia nun dà segno ‘e vita! ‘A nu mumento a n’ato, ce l’avimmo vista perza p’ ‘e mmane. È diventata pallida come una morta, e non parla… (Cade affranto fra le braccia di Otto che cerca di confortarlo) Me so’ rovinato pe’ chella figlia, e tu’o ssaie! So’ ridotto a l’elemosina per portarla da tutte le celebrità mediche: cuore infantile, non arriverà ai vent’anni. Niente, nisciuno ha potuto fa’ niente. Ma pecché, dimme tu, pecché? Che male ha fatto chella creatura? E che male aggio fatto io?

OTTO – Ma nun fa’ accussì. Sarà una semplice crisi.

ARTURO – No, nun è na cosa semplice. E pecché, pecché?

ZAIRA – (internamente con voce soffocata) Amelia! Ame’… (Poi più forte) Ame’!… (Arturo si ferma e rimane in ascolto sgomento. Segue una pausa, un silenzio sinistro. Dopo poco Zaira entra e si ferma sulla soglia. Non riesce a parlare ma il suo volto esprime tutto il dolore interno. Egli non chiede ma afferma straziato)

ARTURO – È morta! (E visto che Zaira non risponde, si precipita nella camera accanto. Dall’interno, dopo poco, si odono le grida e il pianto d sperato di Arturo)

OTTO – (guarda Zaira come per chiedere conferma) Si?

ZAIRA – (fra le lacrime) È morta, povera Amelia. (Ed esce per la prima a sinistra)

CALOGERO – (che era rimasto in disparte, agghiacciato dalla scena, ora chiede timido) Professo’ scusate, ma ch’è stato? (Il pianto internamente è ormai sommesso)

OTTO – (annientato risponde con amarezza) Un altro esperimento. (E cade affranto su di una sedia presso la porta di sinistra)

CALOGERO – Un altro giuoco. Ma scusate, la signora ha detto: “È morta!”

OTTO – Proprio così. Un altro giuoco. (Gervasio esce dalla porta dell’altra camera. Passando batte la mano sulla spalla di Otto e via dalla comune)

CALOGERO – (dopo una pausa) Ma perché facciamo questi esperimenti? Scusate, professo’, ma che ce ne viene in tasca facendo questi giuochi d’illusione?

OTTO – (colpito dalla domanda di Calogero, lo guarda lungamente assumendo un’aria sincera quanto sconfortata) Non lo so. È un trucco che non conosco. Io che esercito la professione di illusionista, mi presto ad esperimenti esercitati da un altro prestigiatore più importante di me… e così via, via, via fino alla perfezione… Ecco il giuoco prodigioso dell’illusione! Guarda… (Mostrando la gabbia dove sono i canarini) Li vedi quegli uccelli? Appena me vedeno se metteno a cantà… Accòstati. (Si avvicina alla gabbia seguito da Calogero) ‘E ssiente? (Infatti si ode il cinguettio petulante del canarini insieme) Hê ‘a vede’ comme me cunosceno; e forse, me vonno pure bene. Per forza, li governo io ogni mattina. Lle porto ‘a preta ‘e zucchero, ‘a cemmetella ‘e nzalata, l’uosso ‘e seppia, il mangime… Hê ‘a vede’ comme m’aspettano.

CALOGERO – Veramente? Quanto so’ belle!

OTTO – Ogni tanto io po’ sa che faccio? Metto ‘a mano dint’ ‘a gabbia e me ne piglio uno che mi deve servire per un esperimento d’illusione. (Prende da un mobile una gabbietta, quella del primo atto) Lo metto in quest’altra gabbietta più piccola e lo presento al pubblico. “Ecco, signori”. La copro con un quadrato di stoffa nera, m’allontano di quattro passi, e sparo nu colpo ‘e rivoltella. Figurati il pubblico: “È sparito. Comme ha fatto? È un mago!” Ma il canarino non sparisce! Muore. Muore schiacciato tra un fondo e un doppio fondo. Il colpo di rivoltella serve a mascherare il rumore che produce lo scatto della piccola gabbia truccata. Poi naturalmente devo riordinare, e sai che trovo? Una poltiglia di ossicini, sangue e piume. (Mostrando i canarini) ‘E vvide chisti ccà, chiste nun sanno niente. Illusioni non se ne possono fare. Noi, invece, si, ed è questo il privilegio. (Osservando il volto triste di Calogero, muta di umore in un attimo. Ridiventa allegro e superficiale) Guè, embè? Su con la vita: svegliati. Dobbiamo continuare il giuoco, il nostro giuoco. Guarda, là ci sta tutto il pubblico che aspetta. Ti sembrerà un secolo: ma poi vedrai che in un attimo si concluderà. (Mostrando la platea) C’è un mare veramente calmo, stasera! Tu stai vedendo che mare magnifico?

CALOGERO – (conquistato dal giuoco vorrebbe concedersi completamente, ma cerca ancora di opporre lieve resistenza, obiettando) Ma quello è muro! Questa è una parete della tua casa!

OTTO – Lo credi tu, ma attraverso questo muro, non vedi il mare? Damme ‘a mano. Cammina con me. (A lenti passi lo costringe ad oltrepassare il limite del boccascena) Hai visto? Se ci fosse stato il muro saremmo urtati, invece noi siamo passati benissimo. Che significa un muro? Che cos’è un muro se non un giuoco preparato? Dunque, devi essere d’accordo con me che non esiste. La pietra è una. (Mostrando ancora la platea) E quello è mare! (Mentre Calogero cerca di intravedere il mare, egli approfitta di quest’attimo per impadronirsi dell’interruttore di galalite, destramente lo adopera per mettere in funzione il radiogrammofono col disco degli applausi. Infatti si ode come in lontananza l’ovazione della prima scena. Man mano, l’insieme degli applausi e del vocio diventa simile al mormorio del mare. Zaira entra, si avvicina alla finestra e toglie dal piccolo vaso di vetro quei pochi garofani che aveva offerti ad Amelia. Contemporaneamente, dalla comune, torna Gervasio seguito da due o tre casigliane. Una di queste porta due stremenzite candele. Tutti insieme, dopo aver parlato della morticina, escono muti e compunti per la sinistra)

CALOGERO – Si sente! Si sente! (Le ondate di entusiasmo aumentano, simboleggiando sempre più l’urlare di un mare inquieto. Calogero, rapito dal giuoco magico, sovrastato dai fatti, incantato dal fascino dell’irreale, prende una sedia e siede, guardando la platea, come per godere della visione di un autentico mare. Otto esce per la prima a sinistra. Rimasto solo, Calogero mormora convinto) È mare! È mare!

SIPARIO

ATTO TERZO

L’appartamento di Calogero Di Spelta. Sono trascorsi quattro anni. All’alzarsi del sipario la scena è quasi buia perché le imposte delle due finestre saranno socchiuse. Dopo una piccola pausa, entra dalla destra Otto seguito da Gregorio Di Spelta e Gennarino Fucecchia, servo di casa Di Spelta.

OTTO – Apri, apri le finestre… Sono le nove e mezza… Luce, aria…

GENNARINO – (inappuntabile nel suo fiammante abito gallonato) Voi parlate bene, ma il signore non vuole. Se trova una finestra aperta fa rivoltare la casa.

OTTO – Apri: responsabilità mia.

GENNARINO – (parla mentre apre le due finestre) Voi, caro professore, non dovreste mancare mai… Perché solamente quando ci siete voi si trova un poco di pace. I crapicci sono troppi. Io ci sto perché ‘o voglio bene. E poi perché la “piazza” è buona; ma, sull’anima santa di mio padre, certe volte (a Gregorio) vostro fratello mi fa perdere la pazienza. Professo’, ma la moglie torna o non torna?

OTTO – Questi sono affari che non ti riguardano; tu sei pagato per fare il tuo dovere.

GENNARINO – Pagato? (Sbarrando gli occhi) Pagato da chi?! Quando parlo di stipendio, dice che non mi spetta ancora perché il giuoco non è finito, che io ho l’impressione che sia passato il tempo, ma che non è vero. Caro professore, oramai devo avere quasi quattro anni di arretrati…

OTTO – Tu avrai fino all’ultimo centesimo. Qualche anticipo te l’ha già dato il signorino. (Indica Gregorio)

GENNARINO – (preoccupato) Ma adesso si è complicata peggio la cosa. Voi mancate da quasi una settimana e non sapete niente. Il padrone sono quattro giorni che non vuole mangiare.

OTTO – Non vuole mangiare?

GENNARINO – E non vuole bere. Dice che quando gli viene appetito è una impressione sua. Dice che allora mangerà quando sarà finito il giuoco. Capirete, è preoccupante, quello non vuole andare nemmeno al gabinetto! Sono quattro giorni… Quello schiatta! Stanotte si lamentava… Certo, voi capite, quattro giorni senza mangiare… Gli ho portato pane e salame, niente, non l’ha voluto. Figuratevi che io devo mangiare di nascosto, perché ha detto che se mi vede mangiare, mi caccia via.

OTTO – Ora lo svegli, e ci parlo io. Tu, intanto, prepara un piatto di spaghetti.

GENNARINO – Statevi attento, professo’, perché se vede un piatto di spaghetti diventa furioso.

OTTO – Non discutere, fa come ti ho detto.

GENNARINO – Va bene. (Via)

GREGORIO – (è il fratello minore di Calogero. Veste con eleganza signorile) E questo, secondo voi, è un uomo normale?

OTTO – E perché non lo dovrebbe essere?

GREGORIO – Gesù, allora non avete sentito niente?

OTTO – Ho sentito: ma che significa?

GREGORIO – Significa che mio fratello è pazzo, e che a farlo impazzire avete contribuito voi.

OTTO – State su una strada completamente sbagliata. Fra me e vostro fratello non esiste che un giuoco, un giuoco più sottile di una ragnatela, e più antico del mondo, che, secondo voi, dovremmo essere proprio noi a distruggerlo adesso. Come posso spiegarvelo? È difficile. Lui non crede a quello che gli dico: dunque, è savio. Però vuol sapere, cerca di mettermi in difetto. Infatti, spesso, a certe sue domande repentine, faccio sforzi incredibili per non cadere in contraddizione.

GREGORIO – Però la scatola non l’apre?

OTTO – Perché, contemporaneamente, ha paura di smentirmi!

GREGORIO – Ma perché non volete ammettere che ci troviamo di fronte a un pazzo?

OTTO – Sentite, io ho l’impressione che a voi farebbe piacere!

GREGORIO – Come sarebbe?

OTTO – E scusate! Uno vi dice: “Vostro fratello non è pazzo! È soltanto un uomo che, sapendo di essere stato colpito, si aggrappa alle cose più assurde pur di non confessarlo nemmeno a se stesso”, e voi insistete. Che devo pensare? Significa che vi fa piacere!

GREGORIO – Io non ho chiesto la vostra opinione. Se mi fa piacere o no, sono affari che non vi riguardano. L’impressione mia è un’altra, e ve la dico in faccia. Voi, approfittando di questo stato di fatto, vi siete messo appresso a mio fratello, e piano piano lo state spogliando. Ma non durerà. Ho già riunito la famiglia, ed ho deciso…

OTTO – Badate a quello che fate. Una mossa sbagliata potrebbe effettivamente far impazzire vostro fratello.

GREGORIO – Non abbiamo bisogno di consigli. Ancora pochi giorni di tempo, e poi non metterete più piede in questa casa. (Esce per la comune. Calogero, dopo un poco, entra dalla sinistra. È molto cambiato dai primi due atti. È invecchiato, pallido. I solchi dell’intima sofferenza conferiscono al suo volto un insieme nobile, venerabile. Parla lentamente, accompagnando ogni parola con un sorriso fra il bonario e lo svagato. I capelli e i baffi, ormai incolti, sono divenuti grigi. Ogni tanto chiude gli occhi per rispalancarli subito dopo, perdendo ostinatamente lo sguardo in una visione piacevole, incantata. È in vestaglia e camicia da notte. Piedi nudi in due pantofole scendiletto. Stringe gelosamente, sotto il braccio sinistro, la ormai indivisibile scatola giapponese. Nel vedere Otto si ferma, e con un cenno del capo, garbatamente, lo saluta)

OTTO – Buon giorno, Di Spelta. (Calogero, senza rispondere, siede su di una poltrona accanto a un tavolo, guardandosi agli specchietti incastrati sulla scatola, ed osserva lungamente la sua immagine) Buon giorno. Non vuoi rispondermi?

CALOGERO – (gentile) No, non rispondo. Perché dovrei dire delle parole inutili, delle frasi convenzionali? Tu ti prendi giuoco di me, ed io ti odio. Vedi, ti sorrido e ti odio. E resisto. Ho deciso di resistere, caro. Tu mi hai reso in parte compartecipe del tuo esperimento, ma non vuoi svelarmene il mistero. E resisto. Non mangio più, non bevo, non vado al gabinetto… e si che ne avrei voglia… (Con un moto di sofferenza si contorce sulla poltrona) Il tempo non passa… e il giuoco dura un attimo. Perché allora mi viene appetito? Perché mi viene sete? Perché… (Si contorce come prima. D’un tratto, esaltandosi, diventa aggressivo) Smettila! Non vedi che soffro?! Non vedi che non posso sopportare oltre questo giuoco diabolico? (Quasi piangendo) Aiutami. Abbi pietà di me. Fai terminare il giuoco. Guarda… sono invecchiato, sono diventato grigio. Ho l’impressione che siano passati degli anni, e tu mi dici che non è vero. Ti uccido, sa’… (Ripigliando il tono gentile) Avevo pensato di ucciderti, ma non posso. Se ti uccido, finisce il tuo mondo, e con il tuo precipiterebbe il mio chissà come.

OTTO – Perché fai così? Ti ho detto tante volte che non devi abbandonarti a queste crisi. Lasciati andare, invece. Sei tu, solamente tu, che vuoi rimanere fermo nel giuoco. Perché non apri la scatola?

CALOGERO – (quasi piangendo) Perché non posso.

OTTO – Perché non hai fede, ecco tutto. Poi dici che resisti. Vuoi resistere a che? Vuoi opporti a chi?

CALOGERO – (guardandosi ancora agli specchi) Ma sono grigio, non vedi che sono diventato grigio?

OTTO – Certo, il giuoco è perfetto, le sensazioni te le dà tutte. Se opponi resistenza alla mia forza, il giuoco non finisce mai, te lo avverto. Due forze in lotta si neutralizzano Se al contrario ti lasci andare, abbandonandoti completa mente al tuo istinto, faciliterai lo svolgersi dell’esperimento, provocandone la fine.

GENNARINO – (dal fondo a destra reca timidamente un vassoio d’argento con al centro un piatto di spaghetti fumanti) Ecco servito.

OTTO – Vieni avanti, vieni Gennarino. (Invitante a Calogero) Vedi? Un magnifico piatto di spaghetti, non ne senti il profumo? Se hai appetito, mangiali.

CALOGERO – (come in preda ad abbattimento) Ma sono quattro anni che mi viene appetito e mangio, mi viene sete e bevo, mi viene sonno e dormo… Che giuoco stupido è questo? (Ad un cenno di Otto, Gennarino si è avvicinato a Calogero e con occhi incoraggianti gli mostra il piatto) Però il profumo è squisito!

GENNARINO – Ed il sapore, signore! Sono fatti con pomodoro fresco e doppio burro…

CALOGERO – (rivolgendosi a Otto, senza staccare gli occhi dal piatto degli spaghetti, e ingoiando saliva, timidamente) Tu dici che per arrivare alla fine dell’esperimento devo abbandonarmi al mio istinto?

OTTO – In tutto e per tutto, bestiale che sia. Quello che pensa il tuo cervello, anche disordinatamente, dillo, fallo, agisci, concediti. Altrimenti, ripeto, il tuo giuoco non finirà mai.

CALOGERO – (dopo un attimo di riflessione) Vedi, certe volte penso il motivo di una canzonetta, di un’opera, e mi vien voglia di fischiettarla o di cantarla. Ma sai, nei momenti più tragici della mia vita. Una volta, seguendo il funerale di un mio carissimo amico, mi veniva voglia di cantare “Funiculì, funiculà! ” Ma non lo feci, perché mi vergognavo di me stesso.

OTTO – Male. Perché te ne vergogni? Se ti piace cantarla, cantala. Il cervello è indipendente.

CALOGERO – (convinto) Si, questo è vero. Adesso, per esempio, ho un appetito da sbadigliare mi vien voglia di cantare. (Accenna l’aria della “Tosca”) “E lucean le stelle… parapapà… papà!” (A Gennarino) Dammi gli spaghetti! (Gennarino glieli porge) “L’ora è fuggita…” (Comincia a mangiare, ma d’un tratto si contorce per un malessere interno. Guarda mortificato il professore, volendo giustificare lo sconcio) L’istinto… non c’è che fare… bisogna seguirlo! (A Gennarino porgendogli il piatto) Conserva gli spaghetti, coprili con un piatto… Torno subito. (Si alza e si avvia verso la sinistra, comprimendosi le mani sulla pancia e cantando) “E lucean le stelle… parapapapà!” (Ed esce svelto)

ZAIRA – (dalla destra, affannando per la corsa; reca con se una valigia; rivolgendosi ad Otto) Finalmente. Credevo di non trovarti.

OTTO – Che c’è?

ZAIRA – Vieni qua. (Lo trae in disparte e gli dice qualcosa all’orecchio)

OTTO – (dopo averla ascoltata, meravigliato) Sul serio?

ZAIRA – Il vestito tuo e il mio li ho portati, stanno qua. (Mostra la valigia) Il suo dice che non ce l’ha più, ma che ne metterà uno quasi uguale.

OTTO – Benissimo. (A Gennarino) Dove si può mettere questa valigia? Il padrone non deve vederla.

GENNARINO – (indicando la prima a destra) Qua, date a me. (Prende la valigia dalle mani di Zaira) La metto a posto io. (Ed esce per la prima a destra)

OTTO – (con interesse) Dove Sta?

ZAIRA – A casa…

OTTO – Vai con un taxi. (Esce in fretta da destra, Zaira dalla comune. Gennarino torna, copre gli spaghetti con un piatto, secondo l’ordine di Calogero)

CALOGERO – (dall’interno, chiamando) Gennarino!

GENNARINO – (pronto) Comandi!

CALOGERO – (di dentro) Sei fesso!

GENNARINO – (deluso) E perché?

CALOGERO – (d. d) Così… l’ho pensato, e l’ho detto. Il cervello è indipendente, è libero. Se non mi abbandono al mio istinto, se non dico quello che penso, il giuoco non finisce.

GENNARINO – (rassegnato) E dite, signuri’… Dite. Se è per il vostro bene, dite… (Dalla destra, Gregorio seguito da Matilde, Oreste e Rosa. Parla animatamente, rivolgendosi a quelli che lo seguono)

GREGORIO – Adesso ci penso io. Mamma, scusa se te lo dico, ma tu sei stata sempre debole. Papà lo diceva sempre.

MATILDE – (sessantacinque anni tormentati da un passato di rinunzie, pallida come un’ostia, occhi gonfi e affossati dal pianto, sempre pronta a difendere la sua condotta illibata) Ingiustamente, Gregorio. Immeritatamente tuo padre mi accusava di debolezza. Ma egli stesso non riusciva a frenare le sue idee balorde, che giorno per giorno determinavano il disgregamento della nostra famiglia. Ormai son quarant’anni che piango copiosamente. I miei canali lacrimogeni sono diventati consunte grondaie, sotto l’infuriare di una tempesta eterna! (Piange con lunghi gemiti di pianto che non sorprendono nessuno)

ROSA – (esasperata) In quarant’anni, mammà, avreste dovuto capire che il piangere non decide né modifica niente.

GREGORIO – Oggi ci troviamo di fronte al disastro completo. Mio fratello è pazzo, non c’è dubbio. Calogero è in preda alla più travolgente follia. Cosa aspettiamo? La gente ride, la famiglia Di Spelta è oggetto di continue discussioni e di pettegolezzi da parte di tutta la città. Perdio! Cosa aspettiamo? Il professor Marvuglia, quel ciarlatano, lo ha circuito. Il patrimonio va in frantumi. Energia, energia, perdio! Tu, mammà, non sei in condizioni di sopportare il peso del da farsi. A me le redini, redini a me! Numero uno: Calogero deve divorziare da quella prostituta di sua moglie, insozzatrice del nostro cognome. Numero due: tutti d’accordo, chiedere per lui l’interdizione totale e perpetua, per infermità mentale. Numero tre: degno riposo per nostra madre in una bella casa di salute, dopo aver nominato me tutore con pieni poteri.

ORESTE – (che è il marito di Rosa) Ma scusa, c’è anche mia moglie. Non è tua sorella, forse?

GREGORIO – (che si aspettava l’obiezione, reagisce) Tua moglie è una Introgli, non è più una Di Spelta.

ORESTE – Ma deve riconoscere l’infermità del fratello e nominarti tutore! Le nostre decisioni…

GREGORIO – (tagliando corto) Chi decide è nostra madre!

ROSA – (dispettosa) Io non firmo.

MATILDE – (pacifica, petulante, interviene) Pace, pace! Son quarant’anni che piango! (Piange c. s)

CALOGERO – (di dentro) Gennarino! (La famiglia si dispone in fondo. Calogero entra) Dove sono gli spaghetti?

GENNARINO – Qua. (Glieli indica e poi glieli porge) Qua, signo’.

CALOGERO – (siede a sinistra disponendosi a mangiare e scorge, dopo poco, la famiglia) Buon giorno, miei congiunti: mamma, fratelli, cognato! (Osservandoli come si osservano delle statue in un museo) Niente di cangiato in voi! Mi apparite come nella più pura ed evidente realtà. Immagini perfette di un atavico sentire. Mamma Matilde piangente, il fratello iroso per l’invidia, la sorella ambigua, il cognato avido. Siete perfetti. Non vi offro gli spaghetti, per non costringervi a gesti faticosi, inutili. Io ho interesse che il giuoco cessi, a voi che ve ne frega degli spaghetti miei? (Olimpico e sereno, consuma gli spaghetti con forchettate abbondanti)

GREGORIO – (prende posto a destra, di fronte a Calogero. Matilde, Rosa e Oreste lo seguono, schierandoglisi alle spalle) Ascolta, Calogero. Sono quattro anni che vivi in queste condizioni. Ora, noi siamo venuti per fare un ultimo tentativo.

CALOGERO – E poi?

GREGORIO – Ascolta, non è più il caso di nasconderti la verità. Tua moglie…

CALOGERO – Ma che parli di mia moglie, tu che l’hai sempre calunniata come hai voluto, cercando di diminuirmi, sperando così di portarmi al tuo livello.

GREGORIO – (ipocrita) Io?

CALOGERO – (spietato) Si, tu. Oggi, credendomi vinto e in stato di inferiorità, fai affiorare in te la legge del sangue, che può metterti in condizione di aiutarmi, riservando per te la ipocrita sublime tristezza di veder finalmente appagata ogni tua ingordigia…

GREGORIO – (colpito nel vivo, come di fronte ad una enormità) Ma stai scherzando.

CALOGERO – No, fratellino mio diletto, dico sul serio. È per raggiungere tutti i tuoi sporchi disegni che stai facendo il possibile per imbrogliare quella rimbambita di nostra madre, la quale più piange, più diventa inutile.

MATILDE – (dolorosamente offesa) Calogero! Come puoi dirmi questo? Sono tua madre!

CALOGERO – Non vorrei dirvelo, mamma. Ma se non dico quello che penso, il giuoco non finisce mai.

GREGORIO – Allora, tu hai pensato quello che hai detto?

CALOGERO – (semplice) Ma naturale! Lo pensavo anche prima, non lo dicevo perché mi ostinavo a controllare il mio cervello.

ROSA – Sicché, ci hai trattati sempre con falsità?

CALOGERO – (c. s) Si, cari congiunti.

GREGORIO – (ingoiando fiele) Benissimo. Allora, voglio proprio dirtelo. Tua moglie è scappata con un amante e tu sei restato qui a fare il fesso per quattro anni.

ROSA – (anch’essa velenosa) E già da prima ti tradiva. (Ad Oreste) È vero?

ORESTE – Verissimo.

GREGORIO – (a Matilde) È vero, mamma?

MATILDE – Sono quarant’anni che piango! (Piange c. s)

CALOGERO – Credi tu da quarant’anni; ma sono secoli che piangi… millenni… (Alla madre) Tu, sei un altro giuoco! Tu, Gregorio, sei un altro esperimento… Anche tu, Rosa… anche tu, Oreste… Anche Gennarino è un giuoco, più stupido, ma anche lui è un giuoco. Voi dite che mia moglie è scappata quattro anni fa con un amante, e che prima ancora che scappasse già mi tradiva? E perché non me ne avvertiste subito? Perché non me lo diceste quando ancora mia moglie era presso di me? Perché vi prestaste al giuoco. Ed allora mi apparite quali esseri reali e viventi, ma non siete che immagini di una memoria atavica.

ORESTE – Queste sono idee che te le ha messe in testa il professor Marvuglia, il quale giorno per giorno ti sta mangiando fino all’ultimo soldo.

GREGORIO – Basta con le chiacchiere! Tu sei impazzito. Ti accorgi mamma, che non c’è più niente da fare? Quest’uomo, oltre a mandarci alla rovina, ed a mettere il nostro cognome sulla bocca di tutti, ci insulta, capovolgendo e spezzando quelle che sono sempre state le sane tradizioni della nostra famiglia.

CALOGERO – (sorridendo olimpico) Buffone!

GREGORIO – (fuori di se) A me?

CALOGERO – L’ho pensato. (E mangia un’altra forchettata di spaghetti)

GREGORIO – Ed io penso che tu, oltre ad essere un pazzo, sei un criminale.

ROSA – E finirai molto male!

CALOGERO – (chiamando) Professore, dove sta il professore?

OTTO – (dalla destra) Sono qua. Che vuoi?

CALOGERO – (mostrando la famiglia) A te queste immagini ti interessano?

OTTO – No. perché?

CALOGERO – Perché, se non sono indispensabili al giuoco che dobbiamo fare, è meglio che le fai sparire. Mi vorrei mangiare questo piatto di spaghetti in grazia di Dio!

OTTO – Ai fini del giuoco non servono a niente. Ti danno fastidio? Ed io le faccio sparire subito. (Si avvicina alla famiglia e parla a questa in disparte) È tornata la moglie!

GREGORIO – (meravigliato) Quando?

OTTO – Pochi momenti fa.

ROSA – Dove sta?

OTTO – In quella camera.(I familiari di Calogero si consultano brevemente e decidono di lasciare la casa. Infatti, senza parlare, compassati e compunti, in fila indiana, escono per la comune) È fatta. Sono spariti.

CALOGERO – Grazie.

OTTO – Hai bisogno di altro, Calogero?

CALOGERO – Si, vorrei il cameriere.

OTTO – (chiamando) Gennarino! Il padrone ti vuole. (Ed esce per la prima a destra)

GENNARINO – (Entrando) Comandi.

CALOGERO – Una immagine di formaggio.

GENNARINO – (ipocritamente angustiato) Veramente, non ce n’è più. Stamattina mi sono abbandonato al mio istinto e, per prestarmi al giuoco, me lo sono mangiato.

CALOGERO – (sincero, comprensivo) Hai fatto bene. Non ce n’è nemmeno una sensazione?

GENNARINO – Niente signore: nemmeno un fotogramma.

CALOGERO – Abbi, allora, l’impressione di portarmi un bicchiere di vino.

GENNARINO – Le ultime quattro bottiglie, ieri sera, ebbi l’impressione di averle portate a casa mia, e di averle bevute a cena con mia moglie. Ma una visione così naturale, che se fosse stata vera ci saremmo consolati!

CALOGERO – Benissimo: ma in cucina che c’è rimasto?

GENNARINO – (pronto) Niente signo’. C’è l’immagine della dispensa vuota.

CALOGERO – Allora, credi fermamente di andare al mercato e compra delle immagini di viveri.

GENNARINO – Subito, signore. Però devo credere pure di prendere il denaro dall’immagine del vostro cassetto. Perché se le immagini dei venditori, al mercato, non vedono le immagini dei soldi, non si prestano al giuoco.

CALOGERO – Fai tu.

GENNARINO – (fa per andare, poi torna) La fotografia del piatto di spaghetti vi è piaciuta?

CALOGERO – (Facendo schioccare la lingua sotto il palato) Riuscitissima.

GENNARINO – (soddisfatto) E allora, sviluppatela bene, e permettete. (Esce in fretta per la comune)

CALOGERO – (rimasto solo, sorride placido. Dopo poco, raggiungendo il centro della scena, comincia a canticchiare) “E lucean le stelle… parapapà.” È straordinario, sapete! Mi viene in mente questo motivo, e devo cantarlo, non resisto! (Mirandosi nello specchietto della scatola) I capelli sono sempre grigi. Il giuoco non è finito. (Divertito) Chissà che impressione mi farà quando finisce il giuoco e mi troverò un’altra volta con i capelli neri! Ma vedete che guaio! Quando ci penso c’è veramente da impazzire. E già, perché questo è un giuoco che mi potrà dare pure la sensazione della vecchiaia. La faccia piena di rughe, le cateratte… Un bel giorno, guardandomi nello specchio, mi troverò senza denti… Già ce n’è uno ca tuculea, ma è una impressione… e può darsi pure che mi sarà trasmessa l’immagine della morte. Avrò paura? (Esclude l’ipotesi) Nooo! Di che cosa dovrei aver paura? Della conclusione di un giuoco? Non credo! E poi, dipende da me. Se voglio far finire il giuoco, non ci vuole niente. Mi devo abbandonare all’istinto. Il cervello pensa una cosa? E io la devo dire! È una parola! Come faccio? Io certe volte penso tante cose contemporaneamente. Ipotesi, desideri, pensieri… (Esaltandosi, sbarra gli occhi e, fissandoli davanti a sé, alza il braccio e muove la mano, articolando tutte le dita, come per frugare e penetrare il punto stesso in cui il suo sguardo è fissato. D’un tratto, esultante, stringe rapidamente il pugno, come se avesse afferrato qualcosa, e dice) Ecco: il termometro! (Deluso come tra sé) E che c’entra il termometro? L’ho pensato, si vede che c’entra. (Ripete il gesto di prima) L’uomo! Già, l’uomo. L’uomo in media, vive settant’anni, forse anche meno. Poco, è troppo poco. Perché gli si preparano esperimenti e giuochi per quella determinata durata di anni convenzionali. Ma se l’uomo potesse vivere quattrocento anni, si dovrebbero rivedere e rifare tutti i trucchi. La politica, per esempio, com’è preparata adesso, sarebbe un giuoco fallito. E già perché, logicamente, i giovani sarebbero quelli di centocinquanta anni e i discorsi degli uomini politici non troverebbero più credito, e dovrebbero mantenere anche le promesse, perché verrebbero fuori i vecchi di trecentosessantacinque anni, e direbbero: “Amico, cambia disco! Queste fesserie ce le hai dette trecentoventi anni fa! (Canta) “E lucean le stelle… paraparapapà!” Quanto era bella quella gabbia piena di uccelli! (Si ode internamente il cinguettio degli uccelli. Calogero tristemente ricorda le parole di Otto al finale del secondo atto) “Introduco una mano, ne afferro uno, e me ne servo per un piccolo giuoco di illusione. Ma il canarino non sparisce. Muore. Muore schiacciato tra il fondo e il doppio fondo della gabbietta a trucco. Il colpo di rivoltella serve a mascherare il rumore dello scatto… (Sempre più in preda a fantasticherie allucinanti) E poi tanti colpi di rivoltella, tante detonazioni, tante esplosioni… Quanto sangue, e quante ossa schiacciate… senza piume! (È commosso quasi piange. Pausa) Lasciarsi andare, abbandonarsi al proprio istinto… (come di fronte a una rivelazione) per arrivare alla fede! (Ricordando le parole di Otto; all’inizio del giuoco) “Se voi aprirete la scatola con fede, rivedrete vostra moglie. Al contrario non la rivedrete mai più!” Ma io ho fede. (Mostrando la scatola) Mia moglie sta qui dentro. E l’ho rinchiusa io, in questa scatola! Ero diventato insopportabile, egoista, indifferente: ero diventato “marito”! (Si alza di scatto e, svelto, raggiunge l’armadio. Lo apre, raccogliendo alla rinfusa quanto gli capita per le mani: abiti, biancheria, cappelli e scarpette da donna. Guadagna il centro della camera e lascia cadere tutto in terra. Poi, sdraiandosi sul pavimento fra quegli oggetti, li comincia ad osservare con ammirazione nostalgica) I suoi vestiti! I suoi cappelli! Le sue scarpe! (Prende uno dei vestiti, e se lo lascia cadere mollemente sulle braccia, parlando ad esso come a una persona viva) Io ricordo quando ti mettesti questo vestito nuovo. E mi ricordo pure che cercavo di non guardarti per non dire che mi piaceva. Chi lo sa? Forse per orgoglio, forse per timidezza. Invece avrei dovuto dire: “Sei più bella del solito! Mi piaci!” (Dalla destra, vestito come al principio dell’esperimento, entra Otto seguito da Marta e da Zaira. Quest’ultima indossa l’abito del primo atto, mentre Marta ne indossa uno quasi simile a quello che indossava al momento della fuga. Marta appare stanca e disfatta. Qualche filo d’argento nei capelli e un solco profondo in mezzo alla fronte accompagnano tristemente uno sguardo ormai dolce, comprensivo. Tutti e tre rimangono in ascolto, senza farsi scorgere da Calogero) Si era stabilito un gelo, fra me e lei. Io non parlavo. Lei nemmeno. Non le facevo più un complimento, una tenerezza. Non riuscivamo più ad essere sinceri, semplici. Non eravamo più amanti! Ma ora ho fede… (Con voce opaca, sommessa, come se temesse la gioia enorme che gli viene da una fede di cui suo malgrado considera ancora la improbabilità) E posso aprirla… Se apro la scatola, ti vedo, perché ho fede! E riavrò i capelli neri. Mi rivedrò giovane come un attimo fa, come all’inizio di questo esperimento! (Stende una mano e la colloca sulla scatola, cercando di indovinare il punto più agevole per l’apertura) Apro. (Avverte il punto che cercava) Ecco. (Come di fronte al gesto più importante della sua vita) Uno, due…

OTTO – …e tre! (con il classico gesto con cui un prestigiatore presenta al pubblico la conclusione di un esperimento mostra Marta) Il giuoco è fatto! (Marta guarda Calogero con il suo sguardo più dolce, mentre Zaira assume l’atteggiamento ed il sorriso stereotipati della partner)

CALOGERO – (voltandosi verso i tre, senza aver dato neanche un’occhiata alla scatola chiusa, non osa parlare. Lunga pausa. Poi, con un filo di voce, timidamente) Marta!

OTTO – L’esperimento è finito. Ecco tua moglie!

CALOGERO – (come per chiedere la riprova di quanto asserisce Otto) Parla, Marta, parla!

MARTA – (commossa, quasi piangendo) Sono io!

CALOGERO – Tu! (Gira attorno lo sguardo come per rendersi conto del luogo dove si trova e di quanto accade) Ma allora perché sono in casa mia? Se il giuoco è finito ed è durato un attimo, perché non siamo nel giardino dell’albergo?

OTTO – Perché non hai resistito. Quando è terminato l’esperimento, sei stato preso da uno choc, e sei caduto in deliquio. Con una macchina ti abbiamo ricondotto qua.

CALOGERO – (non del tutto convinto, ricorre alla scatola per guardarsi nello specchietto) Ma i capelli sono grigi. Perché non sono ritornati neri?

OTTO – Sono diventati grigi per lo choc.

CALOGERO – In un attimo?

OTTO – In un attimo. Ecco tua moglie.

CALOGERO – Marta!

MARTA – (il fatto di dover fingere di fronte a Calogero la sconvolge. Non vorrebbe rendersi complice di se stessa. Tuttavia, quasi suo malgrado, dice) Sì, eccomi!

CALOGERO – Pure tu hai sofferto! Il giuoco è stato inesorabile anche per te. Qualche capello bianco ce l’hai pure tu. Parla, dimmi qualche cosa.

MARTA – Basta. Lasciatemi in pace voi due. Che parlo? Che dico! Tu sai tutto. Perché dovrei sostenere questo giuoco umiliante per tutti e due? Sono passati quattro anni; quattro anni veri, autentici. E tu hai fatto i capelli bianchi perché gli anni invecchiano, distruggono, annientano! Tutto è successo per puntiglio, per incomprensione Per un senso di libertà. Nella mia vita c’è stato un altro uomo. E tu lo devi sapere, se vogliamo salvarci da questa illusione pazza.

CALOGERO – (in uno scatto di amara sincerità) Che hai fatto? (Ora nei suoi occhi passano rancore, odio, gelosia, disprezzo; ma si domina, e riprende il tono svagato delle prime scene) Chi è questa donna? Che cosa ha detto? Io le parole sue non le capisco! (Si ode in lontananza il “Valzer dei pattinatori”, come durante il numero del giocoliere al primo atto)

OTTO – È tua moglie. Non è più un’illusione. Il giuoco è finito.

CALOGERO – Quale?

OTTO – il giuoco iniziato da me un attimo fa nel giardino dell’albergo Metropole.

CALOGERO – Non è vero. Fu iniziato da me, lo dicesti tu. Io spinsi il giuoco fino al limite massimo. Io solo, allora, posso far riapparire mia moglie! La responsabilità è solamente mia. Ti sei tradito. Hai sbagliato proprio all’ultimo momento. Sei entrato un attimo prima che io aprissi la scatola. Peccato!

OTTO – Ma la scatola è vuota!

CALOGERO – Chi lo dice? Come puoi affermarlo? In questa scatola c’è la mia fede. Come puoi pretendere di vederla tu? Non conosco questa donna. Forse fa parte di un esperimento che non mi riguarda. Diglielo che il suo mondo è legato a tanti altri, e che deve prestarsi, non può sottrarsi. Portala via questa immagine mnemonica di “moglie che torna”. Due esperimenti in uno non li sopporterei.

OTTO – Ma io veramente ti ho portato tua moglie.

CALOGERO – Hai creduto di averlo fatto. Credi perfino di essere in casa mia: ma non è vero. È la successione continua delle tue immagini accumulate. Ora sono io che faccio rivivere in te le immagini mnemoniche. Lei (indica la moglie) appare come una comune moglie adultera ma che in realtà non esiste: e tu come un meraviglioso giocoliere, ma sei un’immagine. Il giocoliere più importante sono io, ora! Continuiamo il giuoco, professore! Il tempo è in noi stessi, non gli facciamo i conti addosso, giorno per giorno, come dei bottegai. Guarda con il mio terzo occhio. (Indica il fondo della camera) Lì c’è il pubblico che aspetta! (Mostrando la platea) Quello è mare… E sembrerà un secolo, ma poi ci accorgeremo che il giuoco è durato un attimo! (Chiamando) Gennarino!

GENNARINO – (entrando) Comandi!

CALOGERO – Queste immagini devono sparire. Abbi l’illusione di aprire la porta d’ingresso. Credi fermamente di vederle uscire. Quando te ne sarai proprio convinto, richiudi: ma con fragore.

GENNARINO – Ma…

CALOGERO – (autoritario) Va’! (Gennarino, dopo una scrollata di spalle, invita i tre a uscire. Marta piange sommessamente e, confortata da Otto e Zaira, esce con essi. Gennarino fa loro strada ed a sua volta esce. Dopo poco si sente il rumore della porta di ingresso, sbattuta sgarbatamente alle spalle dei tre. Come per incanto cessa il valzer. Calogero, dopo una pausa, in silenzio assoluto si sente isolato dal mondo. Stringe più che mai la scatola al cuore e dice quasi a se stesso) Chiusa! Chiusa! Non guardarci dentro. Tienila con te ben chiusa, e cammina. Il terzo occhio ti accompagna… e forse troverai il tesoro ai piedi dell’arcobaleno, se la porterai con te ben chiusa, sempre! (Rimane estatico nel gesto e fermo nella sua illusione che ormai è la sua certezza)

SIPARIO