Karel Ciapek
R. U. R.
Primo atto
La scena rappresenta l’Ufficio di direzione della fabbrica
Rezon’s Universal Robots (R.U.R.). A destra, la comune. Nel fondo, ampli
finestroni, attraverso i quali è visibile la lunga teoria dei capannoni che
compongono la fabbrica. A sinistra, porta di accesso agli uffici.
Domin è seduto a sinistra, su una poltrona girevole, d’innanzi a un vasto
scrittoio di stile americano. Sullo scrittoio, una lampada elettrica, il
telefono, uno schedario, molta corrispondenza, gli accessori d’uso: il tutto,
di modello rigidamente commerciale, senza ricercatezze né raffinatezze, e con
esclusione d’ogni oggetto e di ogni intenzione d’arte.
A sinistra, vasti affissi stampati: "Manodopera a basso prezzo. Il Robot
Rezon, tipo corrente, a 150 dollari". "Chi non possiede il suo
Robot?". "Volete vendere a prezzi miti? Ordinate dei Robots".
Altre carte diagrammatiche; e i corsi del cambio.
Presso lo scrittoio di Domin, una cassaforte; e un tavolinetto, con sopra una
macchina da scrivere, sulla quale picchietta la dattilografa Silla, una Robote:
nella commedia i Robots vestono: gli uomini, una salopette di tela uniforme, e
le donne un grembiule della stessa tela; un’armatura di cinghie, tra le spalle,
alla cintura, e dalle spalle, alla cintura: e, sul petto, all’altezza del seno
sinistro, una placca di ottone col numero di serie e di fabbricazione.
SILLA: Nel 1940 il vecchio Rezon, grande fisiologo, ma a
quell’epoca ancora giovane scienziato, venne in questa lontana isola per
studiarvi la fauna marittima. Egli cercava di imitare, con una sintesi chimica
la sostanza vivente detta protoplasma; e un bel giorno pervenne a comporre una
materia che aveva tutte le qualità della sostanza vivente pure avendo una
composizione chimica differente. Fu nel 1952, quattrocento-sessanta anni giusti
dopo la scoperta dell’America. IL vecchio Rezon scrisse così: «La natura ha
trovato un modo solo di organizzare la sostanza vivente. Ma esiste un altro
modo più semplice, più comodo, più rapido, che la natura non ha sperimentato.
Questa seconda via, che l’evoluzione della vita avrebbe potuto vantaggiosamente
seguire, sono riuscito oggi a scoprirlo io.» Si figuri, signorina, che egli ha
scritto queste grandi parole per essere riuscito a mettere insieme una orrenda
salamoia gelatinosa che un cane non avrebbe assaggiata. Immagini dunque il
vecchio Rezon, seduto davanti ai suoi alambicchi e al suo provino, in
contemplazione di quella salamoia, a sognare per essa e in essa che tutto un
albero di vita vi avrebbe messo radici e germogli, e tutti gli animali ne
sarebbero usciti, dal minimo vibrione fino allo stesso uomo. Ma fino all’uomo
composto di una sostanza differente dalla nostra. Fu un momento storico; e una
impressione enorme nel mondo.
ELENA
DOMIN — Continuate (Detta) « ...che noi non assumiamo responsabilità di sorta
per le avarie sofferte in corso di viaggio. All’atto dell’imbarco, non abbiamo
trascurato di far notare al vostro capitano che il bastimento non era adatto al
trasporto dei Robots. Ricevete, signore, i nostri saluti più distinti. Per
Rezon’s Universal Robots. Finito?
SILLA — Sissignore.
DOMIN — Un’altra: «Agenzia E.B. Huysums. New York. La data. Vi
accusiamo ricevuta della vostra ordinazione di Robots, che evaderemo secondo
disponibilità e in tutti i casi entro quattro settimane. Pagamento a trenta
giorni. Vogliate gradire, etc.»... Finito?
SILLA — Sissignore.
DOMIN — Un’altra: «Friedrichwerke, Amburgo. La data. Vi accusiamo ricevuta
della vostra ordinazione di quindicimila Robots.» (Suoneria del telefono. Domin
stacca il ricevitore) Il Direttore generale. Sì. Sta bene, telegrafate. Sì. Sì.
(riattacca) Dove eravamo rimasti?
SILLA — «Vi accusiamo ricevuta della vostra ordinazione di quindicimila
Robots.»
DOMIN (assorto) — Quindicimila Robots...
MARIO (entrando) — Signor direttore; una signora chiede di essere ricevuta. Ha
un biglietto di presentazione. Questo (porge).
DOMIN (leggendo) — Il presidente Glory. Fate entrare.
MARIO (verso l’esterno) — Favorisca, signora. (Entra Elena Glory. Mario esce)
DOMIN (alzandosi) — Desidera?
ELENA — Ho l’onore di parlare al Direttore Generale?
DOMIN — Domin. Ai suoi ordini.
ELENA — Mi sono permessa di venire da lei...
DOMIN — Con una presentazione del Presidente Glory. Il presidente Glory è un
mio vecchio e prezioso amico.
ELENA — Il presidente Glory è mio padre. Io sono Elena Glory.
DOMIN — È un grande onore per me, signorina, di... di... Voglia accomodarsi, la
prego. (A Silla) Potete andare, Silla. (Silla esce. A Elena) In che cosa posso
servirla, signorina?
ELENA — Sono venuta...
DOMIN — Per visitare la nostra fabbrica di uomini. Come tutti coloro che
approdano qui. Sono ai suoi ordini, signorina.
ELENA — Temevo fosse proibito...
DOMIN — Proibito, sì. La fabbricazione dell’uomo artificiale è il segreto della
casa.
ELENA — Se sapesse in quale grado...
DOMIN — Ciò la interessi? Lo so. La vecchia Europa non parla che di questo.
ELENA — Perché non mi fa finire la frase?
DOMIN — Scusi. Avrebbe voluto dire altro?
ELENA — Ho voluto solamente domandarle...
DOMIN — Di lasciarle visitare, in via eccezionale, la fabbrica. È concesso,
signorina.
ELENA — Come fa a sapere che volevo chiederle questo?
DOMIN — Tutti domandano la stessa cosa. (alzandosi) Per provarle la mia
amicizia a suo padre, e la confidenza e il rispetto ch’ella mi ispira, signorina,
le farò visitare la fabbrica. Fin dove il segreto di fabbricazione lo
permetterà. Ma in ogni caso, più che agli altri.
ELENA — Grazie.
DOMIN — Beninteso, ella si impegna a non riferire, a nessuno, quanto ella
vedrà.
ELENA (tende la mano) — Parola d’onore.
DOMIN — Grazie. Vorrebbe essere così gentile di togliersi il velo?
ELENA — Ah, capisco. Scusi. (E poi ch’egli, discorrendo, le ha preso la mano)
Se vuole lasciar andare la mia mano...
DOMIN — Le chiedo perdono.
ELENA — Capisco. Ella vuole sincerarsi ch’io non sia una spia. È prudente, lei.
DOMIN (considerandola con ammirazione) — Eh! proprio. Naturalmente. È così.
ELENA — Diffida di me?
DOMIN — Oh! no, signorina Elena... Padron: signorina Glory. Ha fatto una buona
traversata?
ELENA — Buonissima. E mi conduce subito a visitare la fabbrica?
DOMIN — Subito. Ventidue. Vero?
ELENA — Ventidue che cosa?
DOMIN — Ventidue anni.
ELENA — Ventuno. Perché lo vuol sapere?
DOMIN — Perché... perché... (estatico) Resterà qui a lungo, vero?
ELENA — Dipende da ciò che mi sarà mostrato riguardo alla fabbricazione.
DOMIN — Al diavolo la fabbricazione! Ma certo, signorina Glory. Le sarà
mostrato molto. Tutto. Voglia accomodarsi. Le interessa conoscere la storia
della invenzione?
ELENA — Oh, sì! (siede).
DOMIN — Allora... (siede, alla sua volta, su un angolo della scrivania; guarda
Elena, più e più preso d’ammirazione, e recita in fretta) Nel 1940 il vecchio
Rezon, grande fisiologo, ma a quell’epoca ancora giovane scienziato, venne in
questa lontana isola per studiarvi la fauna marittima. Egli cercava di imitare,
con una sintesi chimica la sostanza vivente detta protoplasma; e un bel giorno
pervenne a comporre una materia che aveva tutte le qualità della sostanza
vivente pure avendo una composizione chimica differente. Fu nel 1952,
quattrocento-sessanta anni giusti dopo la scoperta dell’America. Auff!
ELENA — Sa a memoria?
DOMIN — Sì, signorina: ho ripetuto questa storia migliaia di volte, a migliaia
di giornalisti, di clienti, di visitatori. Devo continuare?
ELENA — Continui, continui.
DOMIN (in tono solenne) — E allora, signorina, il vecchio Rezon scrisse così:
«La natura ha trovato un modo solo di organizzare la sostanza vivente. Ma
esiste un altro modo più semplice, più comodo, più rapido, che la natura non ha
sperimentato. Questa seconda via, che l’evoluzione della vita avrebbe potuto
vantaggiosamente seguire, sono riuscito oggi a scoprirlo io.» Si figuri,
signorina, che egli ha scritto queste grandi parole per essere riuscito a
mettere insieme una orrenda salamoia gelatinosa che un cane non avrebbe
assaggiata. Immagini dunque il vecchio Rezon, seduto davanti ai suoi alambicchi
e al suo provino, in contemplazione di quella salamoia, a sognare per essa e in
essa che tutto un albero di vita vi avrebbe messo radici e germogli, e tutti
gli animali ne sarebbero usciti, dal minimo vibrione fino allo stesso uomo. Ma
fino all’uomo composto di una sostanza differente dalla nostra. Fu un momento
storico; e una impressione enorme nel mondo.
ELENA — E poi?
DOMIN — Poi? Poi, si trattava di far uscire la vita dal provino, di accelerare
l’evoluzione e di inventare le diverse materie, catalizzatori, enzimi, ormoni.
Insomma comprende, vero?
ELENA — Non... non so. Non molto, credo.
DOMIN — Io... io, non v’ho capito mai e non vi capisco nulla di più preciso.
Dunque, ora, con l’aiuto di tali decotti, egli avrebbe potuto fare ciò che gli
fosse piaciuto. Avrebbe potuto ottenere, per esempio, una medusa con un
cervello di Socrate, oppure un verme lungo una cinquantina di metri. Ma poiché
egli era sprovvisto di umorismo, si mise in testa di fare un vertebrato
normale, e forse lo stesso uomo. E ci si mise.
ELENA — A che cosa?
DOMIN — A imitare la natura. Dapprima tentò di produrre un cane artificiale.
Ciò gli richiese parecchi anni di ricerche e di fatiche: ne uscì una specie di
vitello rachitico, che crepò dopo qualche giorno. Glielo mostrerò nel Museo. In
seguito il vecchio Rezon si diede a costruire l’uomo. (Pausa)
ELENA — Avevo già letto tutto ciò, a scuola.
DOMIN — Tanto peggio! (discende dalla scrivania e va a sedersi accanto a Elena)
Ma vuol sapere ciò che non è scritto nei libri che lei ha letti a scuola? (si
picchia la fronte con un dito) Che il vecchio Rezon era pazzo da legare.
Veramente, signorina Glory, pazzo; ma tenga questa informazione per lei sola.
Questo vecchio bizzarro decisamente credeva di poter fare degli uomini.
ELENA — Ma voi non fate forse degli uomini?
DOMIN — Non del tutto uomini, signorina Elena. Quasi uomini. Quasi. Invece il
vecchio Rezon voleva detronizzare Dio. Era un terribile materialista: ed il suo
materialismo ispirava la sua scienza. Non si trattava, per lui, se non di
fornire una prova che non si ha bisogno del buon Dio. Ecco perché si era messo
in testa di fare un uomo esattamente simile a noi. Conosce un poco l’anatomia, signorina?
ELENA — Pochissimo.
DOMIN — Come me. Si figuri che il vecchio Rezon si intestava a fabbricare tutto
esattamente come nel corpo umano. L’appendice, le tonsille, l’ombelico... Cose
inutili. E anche, pensi, le glandole sessuali.
ELENA — Queste, però, non sono...
DOMIN — Inutili, lo so. Ma per la fabbricazione artificiale, artificiale, degli
uomini, allora, mi scusi, esse non sono affatto necessarie.
ELENA — Comprendo.
DOMIN — Le farò vedere al Museo tutto ciò che egli ha aborracciato in dieci
anni. Ciò che doveva essere un uomo vivente, non ha vissuto che tre giorni. È
terribile, quello che ha fatto il vecchio Rezon! Intanto, a quell’epoca arriva
qui il nipote di lui, un ingegnere. Una testa di genio, signorina. Non appena
ebbe veduto ciò che il vecchio penosamente andava fabbricando, disse: «È una
sciocchezza impiegare dieci anni a costruire un uomo. Se tu non giungi, zio, a
far più presto della natura, la tua invenzione è inutile.» E si diede, a
tutt’uomo, a studiare l’anatomia.
ELENA — I libri raccontano diversamente.
DOMIN (alzandosi) — Quello che è nei libri di scuola è “réclame”. Pagata da
noi. Vi abbiam fatto stampare, per esempio, che è stato il vecchio ad inventare
i Robots. No. Il vecchio era forse buono per l’Università; ma non aveva alcuna idea
della fabbricazione industriale. Fu il giovane Rezon, che ebbe l’idea di fare,
degli uomini fabbricati, altrettante autentiche macchine da lavoro, semoventi e
intelligenti. Quello che ha letto nei libri di scuola sulla collaborazione dei
due grandi Rezon, è fandonia. I due si abbaruffarono terribilmente, quasi ogni
giorno. Il giovane finì col rinchiudere lo zio sotto chiave, in un laboratorio,
in compagnia dei suoi aborti; e si mise a produrre egli stesso, ma alla maniera
degli ingegneri. Il vecchio Rezon lo ha letteralmente maledetto prima di
morire, impiastricciò ancora due mostri fisiologici; e un bel giorno fu trovato
stecchito nel suo laboratorio. Ed ecco tutta la storia.
ELENA — E il giovane?
DOMIN — Il giovane Rezon, signorina, era l’epoca nuova. L’epoca della
fabbricazione dopo l’epoca della conoscenza. Dopo di essersi un po’
familiarizzato con l’anatomia dell’uomo, egli comprese subito che l’uomo è
troppo complicato, e che un buon ingegnere lo avrebbe fatto più semplice.
Allora si mise a rifare l’anatomia: a cercare quello che avrebbe potuto essere
lasciato da parte, a semplificare. Ma dica: tutto questo non l’annoia?
ELENA — Al contrario. È interessantissimo.
DOMIN — Ebbene: il giovane Rezon si è detto: Un uomo è qualche cosa che sente,
mettiamo, la gioia; che suona il violino; che vuol fare una passeggiata; che,
insomma, si propone di compiere e compie una quantità di cose che in fondo sono
inutili.
ELENA — Oh!
DOMIN — Aspetti. Una quantità di cose che sono inutili quando si tratti di
tessere o di addizionare. Ma una macchina da lavoro non ha bisogno di sentire
la gioia né di suonare il violino. Un motore a benzina non ha bisogno né di
scarpette lucide né di ornamenti. E fabbricare degli operai artificiali, è lo
stesso che fabbricare dei motori a benzina. L’essenziale è che il prodotto sia
il migliore possibile dal punto di vista pratico. Quale è il migliore operaio
dal punto di vista pratico?
ELENA — Forse quello onesto e devoto.
DOMIN — Ma no! È quello che lavora di più e costa di meno. Quello che ha i
minori bisogni. Il giovane Rezon ha inventato l’operaio che ha il minimo dei
bisogni. Ha soppiantato l’uomo, creando il Robot. I Robots non sono uomini! Dal
punto di vista meccanico essi sono più perfetti di noi: ché posseggono
un’intelligenza ammirevole; ma non hanno anima. Ha mai veduto l’interno di un
Robot?
ELENA — No.
DOMIN — È molto pulito, semplicissimo. Un lavoro accurato. Pochi pezzi, ma
congegnati esattamente. E tersi come un soldo nuovo. Invece, l’uomo vero...
ossa, nervi, sangue, intestini: un putridume. Il prodotto dell’ingegno è più
perfetto, dal punto di vista tecnico, del prodotto della natura.
ELENA — Si dice che l’uomo sia il prodotto di Dio.
DOMIN — Il buon Dio è di diecimila anni fa: non aveva la minima idea della
tecnica moderna. Il giovane Rezon ha tentato il ruolo di Dio; ma un Dio
svecchiato, modernizzato, di questi tempi. E come Dio, ha perfino fatto della
mitologia.
ELENA — In che modo, di grazia?
DOMIN — Si è messo a fabbricare dei super-Robots. Dei giganti da lavoro. Ha cercato
di farne degli alti quattro metri; ma non può immaginare come si rompessero
facilmente.
ELENA — Si rompevano?
DOMIN — Sì. O una gamba o un braccio o qualche altra cosa. Perché urtavano
dappertutto. Sembra che il nostro pianeta sia piccolo per i giganti. Adesso non
fabbrichiamo che Robots di grandezza naturale e di aspetto umano.
ELENA — Ho visto i Robots per la prima volta da noi. Il Municipio ne ha
comperati, voglio dire, assoldati...
DOMIN — Comperati, cara signorina. I Robots si comperano.
ELENA — Comperati, per impiegarli come spazzini di strada. Li ho veduti
spazzare. Sono talmente strani, e così silenziosi!
DOMIN — Ha notato la mia dattilografa?
ELENA — Non ho fatto attenzione.
DOMIN (suonando) — La Società anonima dei Rezon’s Universal Robots non fabbrica
ancora un articolo uniforme. Abbiamo dei Robots fini e dei Robots comuni.
Quelli di qualità superiore sono garantiti per vent’anni, beninteso con
esclusione del caso d’infortunio.
ELENA — E dopo, muoiono?
DOMIN — Si consumano. (Silla entra) Silla, mostratevi alla signorina Glory.
ELENA (alzandosi e tendendo la mano) — Lieta di fare la vostra conoscenza.
SILLA — La prego di accomodarsi.
ELENA (sedendosi) — Non vi spiace star qui, tanto lontana dai centri abitati,
signorina?
SILLA — Non capisco. Io sono di qui, della fabbrica.
ELENA — Ah! siete nata qui?
SILLA — Sì. Mi hanno fabbricata qui.
ELENA (con un sussulto) — Come?
DOMIN (ridendo) — Silla non è una donna, è una Robote: un Robot femminile.
ELENA — Vi chiedo scusa.
DOMIN (posando una mano sulla spalla di Silla) — Oh, Silla non se l’ha a male.
Osservi, signorina, la carnagione che noi facciamo. Tocchi la guancia...
ELENA — Oh no, no!
DOMIN — Ella non si accorgerebbe ch’essa è di una sostanza diversa dalla
vostra. Ha perfino la caratteristica peluria delle castagne. Solo gli occhi
sono un poco assenti, com’ella vede. Ma in compenso, che capelli! Voltatevi,
Silla.
ELENA (levandosi di scatto) — Ma basta, basta!
DOMIN — Silla, parlate con la signorina. È una visitatrice di riguardo.
SILLA — La prego di volersi accomodare, signorina. (Elena siede nuovamente e
Silla con lei) Ha fatto una buona traversata?
ELENA — Buonissima, grazie.
SILLA — Non ritorni sul piroscafo "Amelia", signorina Glory. Il
barometro è depresso: a 705. Aspetti piuttosto la partenza del
"Pensylvania". È un piroscafo eccellente.
DOMIN — Specificate.
SILLA — Quaranta nodi all’ora. Tonnellaggio novantacinquemila. È uno degli
ultimi e più perfetti vari, signorina.
ELENA — Grazie.
SILLA — Ottanta uomini d’equipaggio, capitano Harpy, otto caldaie.
DOMIN (ridendo) — Basta, Silla, basta così. Mostrateci come parlate l’inglese.
ELENA — Parlate l’inglese?
SILLA — Parlo quattro lingue. Scrivo: Signore! Monsieur! Dear Sir! Geehrter
Herr!
ELENA (sussultando) — È una storia! Lei non è che un ciarlatano! Silla non è
una Robote. Silla è una ragazza come me. Silla, è una vergogna: perché recitare
questa commedia?
SILLA — Io sono una Robote, signorina Glory.
ELENA — No! No! Mentite!— (l’indignazione cade. Con voce più calma) Silla,
perdonatemi. Lo so, vi hanno forzata a far loro la réclame. Siete una ragazza
come me, non è vero?...
DOMIN — Mi rincresce, signorina Glory. Silla è una Robote.
ELENA — Mentite.
DOMIN (ribellandosi) — Mentisco? (suona) Signorina, in questo caso, bisogna che
io le fornisca delle prove. (Mano entra)
DOMIN — Conducete Silla nella sala d’autopsia, perché la aprano. In fretta!
ELENA — Dove?
DOMIN — Nella sala d’autopsia. Quando l’avranno aperta, andrà a vederla.
ELENA — Non andrò.
DOMIN — Scusi: lei ha parlato di menzogna.
ELENA — Vuol farla uccidere?
DOMIN — Non si uccide una macchina.
ELENA (prendendo Silla tra le braccia) — Non temete, Silla. Io vi proteggerò!
Ditemi, povera piccola, sono tutti così brutali con voi? Non bisogna lasciarli
fare, capite? Non bisogna, Silla!
SILLA — Sono una Robote.
ELENA — Fa lo stesso. I Robots sono brava gente come noi. Come voi. Vi
lascereste sezionare forse? senza protestare? senza reagire?
SILLA — Sì, signorina.
ELENA — Ma non avete paura della morte?
SILLA — Non comprendo, signorina Glory.
ELENA — Ma sapete che cosa diventereste?
SILLA — Sì, cesserei di muovermi.
ELENA — È orribile!
DOMIN — Mario, dite alla signorina ciò che siete.
MARIO — Mario, il Robot.
DOMIN — Avreste portato Silla alla sala di autopsia?
MARIO — Sissignore.
DOMIN — E l’avreste compianta?
MARIO — Non capisco, signore.
DOMIN — Che cosa diventerebbe essa?
MARIO — Cesserebbe di muoversi. La metterebbero nella macina.
DOMIN — È la morte, Mario. Avete paura della morte.
MARIO — Nossignore.
DOMIN — Ebbene?... Vede, signorina: i Robots non tengono alla vita, perché non
hanno alcuna ragione per tenervi. Non hanno godimenti, essi!
ELENA — Basta! Basta! Li faccia andar via!
DOMIN — Mario, Silla, lasciateci. (Silla e Mario escono)
ELENA (ricade) — È orribile, orribile! È crudele quello, che lei fa!
DOMIN — Crudele, perché? Venga qui, per favore. (la conduce al finestrone del
fondo, la invita a guardar fuori) Che cosa vede?
ELENA — Dei muratori.
DOMIN — Sono dei Robots. Tutti i nostri operai sono Robots. E laggiù, vede
qualcuno?
ELENA — Un ufficio.
DOMIN — È il nostro ufficio di contabilità, e che cosa vede?
ELENA — È pieno d’impiegati.
DOMIN — Sono dei Robots. Tutti i nostri impiegati sono Robots. Quando vedrà la
fabbrica... (Le sirene della fabbrica ululano) Mezzogiorno. I Robots non sanno
mai quando debbano cessare e riprendere il lavoro: non hanno la percezione del
tempo. Alle due le mostrerò le madie.
ELENA — Quali madie?
DOMIN — Le madie per la pasta. In ciascuna si impasta il centone sufficiente
alla fabbricazione della carne di mille Robots. Poi vi sono le madie per i
cervelli, per i fegati, eccetera. Poi vedrà la fabbrica delle ossa. E le farò
visitare la filatura.
ELENA — La filatura?
DOMIN — La filatura dei nervi. La filatura delle vene. La filatura ove corrono
interi chilometri di intestini. Appresso vi è il laboratorio di montaggio dove
si mette insieme tutto ciò: sa? come per il montaggio delle automobili. Poi
vengono gli essicatoi, i laboratori di finitura ove si coloriscono gli occhi,
le guance e i capelli, e i magazzini dove i prodotti nuovi lavorano.
ELENA — Sono obbligati a lavorare subito?
DOMIN — A scopo di collaudo. Si abituano alla esistenza. Per così dire, si
saldano nell’interno. Vi sono anche molte cose che crescono in essi. Bisogna
lasciar posto all’evoluzione naturale, vero? Gli esemplari del tipo extra
(abbiamo, le ho detto, due tipi: l’extra, e il corrente a 150 dollari) vengono
preparati.
ELENA — Preparati?
DOMIN — È press’a poco, ciò che si chiama "scuola" per gli uomini. Si
insegna loro a parlare, a scrivere, a calcolare. Poiché essi sono forniti di
una memoria stupefacente. Si potrebbe legger loro, per una sola volta, un
dizionario enciclopedico in venti volumi, ed essi lo ripeterebbero riga per
riga nello stesso ordine. Pico della Mirandola enfoncé! Ma non troverebbero mai
nulla di nuovo, di loro, di originale. Per questo, i vostri migliori professori
di Università sono dei Robots. Poi, si classificano e si consegnano.
Quindicimila pezzi il giorno, senza tener conto di una percentuale di esemplari
avariati che bisogna rimandare alla macina... (si bussa alla porta)
DOMIN — Avanti, ragazzi. (Entrano da sinistra l’ingegnere Fabry, il dottor
Gall, il dottor Hallemeier, Alquist)
DOTTOR GALL — Scusate. Disturbiamo?
DOMIN — Avanti, dunque! Signorina Glory: le presento Alquist, Fabry, Gall,
Hallemeier. La signorina Glory, la figlia del Presidente Glory.
ELENA (imbarazzata) — Buon giorno.
FABRY — Non sapevamo...
DOTTOR GALL — Felicissimo...
ALQUIST — Sia la benvenuta, signorina Glory. (Busman entra precipitosamente da
destra)
DOMIN — Vieni qui, Busman! È il nostro Busman, signorina. La signorina Glory,
la figlia del Presidente Glory.
ELENA — Molto lieta, signore.
DOMIN — Si accomodi, signorina.
BUSMAN — Favorisca...
DOTTOR GALL — Abbia la bontà...
ALQUIST — Scusi...
FABRY — Ha fatto una buona traversata?
DOTTOR GALL — Fa conto di rimanere qualche tempo con noi?
HALLEMEIER — È giunta con l’"Amelia"?
DOMIN — Silenzio! Lasciate parlare la signorina!
ELENA (a Domin) — Di che cosa devo parlare?
DOMIN — Ma... di tutto ciò che vuole!
ELENA — E devo, posso parlare a cuore aperto?
DOMIN — Certamente.
ELENA (decidendosi dopo un’esitazione) — Ditemi, non vi è penoso che vi
trattino così?
FABRY — Scusi, chi?
ELENA — Tutti. (I cinque si guardano stupiti)
ALQUIST — Noi?
DOTTOR GALL — Perché?
HALLEMEIER — Santo cielo!
BUSMAN — Niente affatto, signorina!
ELENA — E non sentite... che potreste avere un’esistenza migliore?
DOTTOR GALL — Secondo il punto di vista. Si spieghi meglio, signorina.
ELENA — Io credo che... (con violenza improvvisa) Oh, è terribile! È mostruoso!
(si alza) Tutta l’Europa è commossa per quanto accade qui. È ciò che mi ha
spinta a quest’isola: ho voluto vedere io stessa: ma è mille volte peggio di
quanto credevo. Supera ogni immaginazione. E ogni indignazione. Come, come
potete sopportare?
ALQUIST — Sopportare, che cosa?
ELENA — La vostra situazione. È scandaloso... è rivoltante questo vostro modo
di vivere!
BUSMAN — Oh, mio Dio, signorina!
FABRY — Cari miei, c’è del vero in ciò che si dice. Viviamo ormai come dei
Pellirosse.
ELENA — Peggio che dei Pellirosse! Ditemi: posso chiamarvi fratelli?
BUSMAN — Mio Dio... e perché no?
ELENA — Fratelli miei, io giungo come rappresentante della Lega dell’Umanità.
La Lega dell’Umanità conta già più di duecentomila aderenti, fratelli miei. Duecentomila
persone sono per voi, con voi, dividono la vostra pena, e vi offrono di venirvi
in aiuto.
BUSMAN — Duecentomila? Non c’è male!
FABRY — Vedete? La buona vecchia Europa non ci ha dimenticati. E ci offre il
suo aiuto.
DOTTOR GALL — Ma che aiuto? Un teatro?
HALLEMEIER — Un’orchestra?
ELENA — Di più.
ALQUIST — Lei, signorina?
ELENA — Oh, io! Io resterò qui fin che ce ne sarà bisogno.
BUSMAN — Quale gioia, santi numi!
ALQUIST — Vado a preparare la camera migliore per la signorina.
DOMIN — Aspettate un momento. Temo che... che la signorina non abbia ancora
finito.
ELENA — No, non ho ancora finito. A meno che mi chiudiate la bocca con la
violenza.
DOTTOR GALL — Non oserete farlo, Harry!
ELENA — Grazie. Sapevo che mi avreste protetta.
DOMIN — Scusi, signorina. È proprio sicura di aver a che fare con dei Robots?
ELENA (interdetta) — E con chi, allora?
DOMIN — Sono molto dolente; ma questi signori sono degli uomini, come lei e me,
e come tutti gli Europei.
ELENA — Voi non siete... dei Robots?
BUSMAN (con uno scoppio di risa) — Ah, no, grazie a Dio!
HALLEMEIER — Dei Robots? Puah!
DOTTOR GALL — Non ci mancherebbe altro!
ELENA — Ma... non è possibile!
FABRY — Parola d’onore, signorina: noi non siamo dei Robots.
ELENA (a Domin) — Ma lei mi ha detto che tutti gli impiegati, qui, erano dei
Robots.
DOMIN — Gli impiegati, sì, ma non i direttori.
ELENA — Scusino, signori... Io... io... È orribile, da parte mia...
ALQUIST — Nient’affatto. Si accomodi...
ELENA (sedendosi) — Sono una stupida. Ora... mi rispediranno col primo
piroscafo.
DOTTOR GALL — Nemmeno per sogno, signorina. Perché dovremo rispedirla?
ELENA — Perché sanno già... perché io farò ammutinare i loro Robots.
DOMIN — Cara signorina, sono già venuti centinaia di salvatori e di profeti. E
sempre per ammutinare. Ogni bastimento conduceva un crociato. Missionari,
anarchici, l’Esercito della Salvezza, avventurieri. È incredibile, quante sètte
e quanti pazzi siano al mondo!
ELENA — E li lasciano liberamente parlare?
DOMIN — Perché no? Fino ad ora hanno smesso di per sé soli, vinti dalla
inutilità dei loro tentativi. I Robots ricordano tutto, ma non deducono. E non
ridono nemmeno di quanto gli uomini dicono di loro. Pare impossibile,
signorina... Se lo desidera, la condurrò nei magazzini dei Robots. Ve ne sono
trecentomila. Parlerà loro a suo talento, con tutta la libertà. E vedrà...
BUSMAN — Trecentoquarantasettemila.
DOMIN — Bene. Ella sarà libera di dir loro ciò che meglio vorrà. Potrà
predicare i diritti del Robot, dopo i diritti dell’uomo.
ELENA — Io credo che dimostrando loro un po’ di amore...
FABRY — Inutile, signorina. Nulla è più estraneo all’uomo di un Robot.
ELENA — Allora, perché fabbricarli?
FABRY — Per il lavoro, signorina. Un Robot sostituisce due operai e mezzo. La
macchina umana è troppo incompleta; una volta o l’altra, doveva essere
sostituita. Ed ecco tutto: è stata sostituita.
BUSMAN — Ed era troppo costosa.
FABRY — In primo luogo, dava scarso rendimento. Essa non poteva più bastare
alla tecnica umana. Poi, secondo... poi, secondo... è un gran progresso...
scusi...
ELENA — Dica, dica.
FABRY — Le chiedo perdono, signorina. Ma è un grande progresso procreare
meccanicamente. È più comodo e più rapido. Ogni accelerazione segna un
progresso, signorina. La natura non immaginava quale sarebbe diventato il ritmo
moderno del lavoro. Tutta l’infanzia, dal punto di vista tecnico, è un non
senso: è del tempo perduto. Un intollerabile spreco di tempo. Terzo...
ELENA — Oh, basta!
FABRY — Come vuole. Ma, permetta, che cosa chiede la sua Lega dell’Umanità?
ELENA — Essa deve, soprattutto... proteggere i Robots e assicurare loro un buon
trattamento.
FABRY — Come scopo, non è cattivo. Bisogna trattarle bene, le macchine! Con
cura. Lubrificarle accuratamente ad ogni trenta ore di lavoro. Questo mi piace
davvero. La prego, signorina: ci iscriva tutti come soci aderenti attivi,
sostenitori della Lega.
ELENA — Ma no, non è così, non mi capisce. Noi vogliamo soprattutto liberare i
Robots!
HALLEMEIER — E come, di grazia?
ELENA — Bisogna trattarli come... uomini.
HALLEMEIER — Ah, sì? Devono bere la birra? Soffrire di acidi urici? Comandarci?
Essere pagati?
ELENA — Certo!
HALLEMEIER — Guarda, guarda! E che cosa farebbero, poi, del denaro?
ELENA — Comprerebbero ciò di cui hanno bisogno... o quello che farebbe loro
piacere.
HALLEMEIER — Benissimo: se non che... nulla fa piacere ai Robots. Nessuno li ha
mai visti sorridere.
ELENA — Perché non si fabbricano più felici?
HALLEMEIER — Impossibile, signorina. Non sono che dei Robots.
ELENA — Però hanno una grande intelligenza!
HALLEMEIER — Un’intelligenza diabolica. Ma speciale. Fatta di buona memoria.
Senza una volontà propria; senza passioni; senza storia; senza anima.
ELENA — Senza amore e senza rivolta?
HALLEMEIER — Naturalmente. I Robots non amano nulla, nemmeno se stessi. Quanto
a rivolta, non so. Solo di tanto in tanto...
ELENA — Che cosa?
HALLEMEIER — Nulla, in fondo. Di tanto in tanto, essi hanno una crisi di
rabbia. Sa?... una specie di epilessia. Si chiama "la convulsione dei
Robots". All’improvviso uno di essi getta a terra tutto ciò che ha in
mano, si mette a digrignare i denti... e bisogna mandarlo alla macina. Un
difetto di costruzione, pare; e spesso inevitabile.
DOMIN — Non inevitabile. Basterà studiare. Scomparirà, col progredire dei
sistemi di fabbricazione. Forse, ci nuoce la intensità della produzione.
ELENA — No, no! È l’anima!
FABRY — Crede che l’anima si manifesti col digrignare i denti?
DOMIN — Ripareremo il difetto, signorina Glory. Il Dottor Gall sta facendo
delle esperienze.
DOTTOR GALL — In questo momento studio il modo di formare i nervi del dolore.
ELENA — I nervi del dolore?
DOTTOR GALL — Sì, signorina. I Robots non avvertono quasi il dolore fisico,
perché il giovane Rezon ha sensibilmente ridotto il sistema nervoso. Ma in
questo, il giovane Rezon non è stato né saggio né previdente. Bisogna
introdurre il dolore.
ELENA — Ma perché? Se non date loro l’anima, perché dar loro il dolore?
DOTTOR GALL — Per ragioni di utilità industriale. Qualche volta avviene che un
Robot si danneggi da sé, stupidamente, inavvertitamente, perché ciò non gli fa
male. Ficca la mano in una macchina, si spezza un dito o la testa... Per lui, è
lo stesso. Bisogna dare ai Robots il dolore: sarebbe la profilassi automatica
contro gli accidenti. Nella percettibilità del dolore sta l’istinto della conservazione.
ELENA — E perché non dar loro un’anima?
DOTTOR GALL — Non è in nostro potere.
FABRY — Non è nel nostro interesse.
BUSMAN — Ciò renderebbe la fabbricazione più costosa. E, santo Dio, mia bella
signorina, noi vendiamo quasi per nulla! Centocinquanta dollari il pezzo
vestito! Per favore: lei, quanto paga un metro di battista?
ELENA — Veramente... non so. Non ricordo.
BUSMAN — Tutto è ribassato di due terzi e continuerà sempre a ribassare. Eh?
ELENA — Non capisco.
BUSMAN — Ma, signorina, questo significa che il prezzo del lavoro è diminuito,
perché un Robot costa solo tre quarti di cent. per ora. È buffo, come le
fabbriche non possano più sfuggire al dilemma: o fallire, l’una dopo l’altra, o
sostituire la manodopera vivente con quella dei Robots, per ribassare il costo
di fabbricazione.
ELENA — Sì, e gettano gli operai sul lastrico.
BUSMAN — Ma sì! (ride) È naturale.
ELENA — Che cosa?
BUSMAN — Tra cinque o sei anni il ribasso dei prezzi sarà formidabile. Eh,
ragazzi miei! Ci avete pensato? Fra cinque anni soffocheremo sotto i covoni del
frumento troppo rigogliosi, o le matasse della lana troppo abbondanti. La morte
profumata!
ALQUIST — Sì, e tutti gli operai del mondo saranno senza lavoro.
DOMIN (alzandosi) — Sì, senza lavoro, Alquist. Lo saranno, signorina. Ma prima
di dieci anni, i Robots Universali Rezon avranno prodotto tanto frumento, tanta
lana, tanti tessuti, tanto di tutto, che noi diremo: le cose non hanno più
alcun valore. Ciascuno si prenda ciò che gli occorre. Non ci sarà più miseria.
Saranno senza lavoro: ma perché non vi sarà più bisogno alcuno di alcun lavoro,
perché le macchine Robots faranno tutto. I Robots ci vestiranno, ci nutriranno,
ci disseteranno. I Robots faranno i mattoni e costruiranno le case per noi. I
Robots faranno i nostri conti di cassa e spazzeranno le nostre scale. Il lavoro
sarà soppresso. L’uomo farà soltanto ciò che gli piacerà. Sarà liberato dai
crucci e dall’umiliazione del lavoro obbligato. Vivrà solo per perfezionarsi.
ELENA (alzandosi) — Davvero?
DOMIN — Certamente, signorina. La servitù dell’uomo all’uomo, dello spirito
alla materia, sarà finita. Gli stanchi e gli affamati saranno gentilmente messi
a tavola. I Robots laveranno i piedi dell’ex-mendicante e gli prepareranno il
letto nella casa di sua proprietà.
ALQUIST — Mio caro Domin, è troppo bello ciò che dite. Ha troppo l’aspetto di
un paradiso! Tuttavia, caro Domin, c’è qualche cosa di buono, nel servire.
Ponete mente a noi, che serviamo la nostra idea col cervello e con le braccia:
vi è non so quale dolcezza nell’opera e nella fatica!
DOMIN — Forse... Ma non si deve fermarsi a guardare indietro, se avanzare si
vuole.
ELENA — Mi avete turbata. Sono una povera sciocca. Vorrei... vorrei poter
credere.
DOTTOR GALL — Ella è più giovane di noi: vivrà abbastanza per veder tutto.
HALLEMEIER — È così. Intanto, attendendo, credo che la signorina Glory potrebbe
farci il piacere di rimanere a colazione con noi.
DOTTOR GALL — Naturalmente. Domin, perorate a nome di tutti!
DOMIN — Signorina, la prego di concederci questo onore!
ELENA — Ma... non so...
FABRY — Per la Lega dell’Umanità, signorina.
BUSMAN — E in onore di essa...
ELENA — Oh! in questo caso...
FABRY — Benissimo; e voglia scusarmi per cinque minuti.
DOTTOR GALL — Con permesso.
ELENA — Ah, mio Dio, devo telefonare...
BUSMAN — Ah, mio Dio, devo telefonare...
HALLEMEIER — Santo cielo, avevo dimenticato. (Tutti, meno Domin, escono in
fretta) ELENA — Perché se ne vanno tutti?
DOMIN — Vanno a far cucina.
ELENA — Cucina?!
DOMIN — Di solito sono i Robots che fanno la nostra cucina... ma poiché essi
non hanno il senso del gusto, la loro cucina non è troppo apprezzabile...
Hallemeier sa fare delle eccellenti braciole. In quanto a Gall, mescola una
specie di salsa, che è degna di Vatel. Busman è forte nelle omelettes...
ELENA — Senta, volevo chiederle ancora...
DOMIN — Anch’io volevo fare una domanda. (Posa il suo orologio sul tavolo)
Abbiamo cinque minuti.
ELENA — Quale domanda?
DOMIN — Scusi, lei ha diritto di precedenza.
ELENA — Temo di dire un’altra sciocchezza; ma perché fabbricare dei Robot
femmine, delle Robotes, dato che... che...
DOMIN — ... che il sesso non ha alcuna funzione per essi?
ELENA — Sì.
DOMIN — Perché ce ne chiedono. Delle governanti, delle commesse, delle
dattilografe.. . La gente è abituata così: a veder soltanto le donne in certe
mansioni.
ELENA — E dica ancora... I Robots uomini e i Robots donna sono... gli uni per
le altre... assolutamente...
DOMIN — Assolutamente indifferenti, sì, cara signorina... Non la minima traccia
di attrazione, di simpatia.
ELENA — È orribile!
DOMIN — Perché?
ELENA — Perché... è contro natura! — Veramente non si sa se esserne
disgustati... o se invidiarli... o se, forse...
DOMIN — Compiangerli, vero?
ELENA — Sì, compiangerli. Ma basta. Che cosa voleva domandarmi, lei?
DOMIN — Volevo domandarle, signorina Glory, se acconsentirebbe a sposarmi.
ELENA (con meraviglia) — Sposarla?!
DOMIN — Sì.
ELENA — Ah! questo, poi! Ma...
DOMIN (guardando l’orologio sul tavolo) — Mi restano tre minuti. Se non sposerà
me, e resterà qui, bisognerà pure che ella sposi uno di quegli altri quattro
signori.
ELENA — Dio me ne guardi! Ma perché? Ho l’impressione di sognare... Perché?
DOMIN —Perché ve lo domanderanno tutti, l’uno dopo l’altro.
ELENA — Come potrebbero osare?
DOMIN (con solennità malinconica) — Viviamo qui, da cinque anni, senza una
donna. Senza una donna. (Un silenzio) Da cinque anni. Senza una donna...
Il sipario cala, lento, su quel silenzio e su quelle parole ultime.
Fine del primo atto
Inizio
Segue il Secondo atto di R. U. R.
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Karel Ciapek
R. U. R.
Secondo atto
Un salotto nell’appartamento di Elena. A sinistra, in primo piano, una porta a muro, il cui battente è ricoperto della medesima tappezzeria distesa sulle pareti, e, in secondo piano, una porta che dà alla sala di musica: a destra, altra porta, che immette nella camera da letto di Elena. Al centro, finestre che s’aprono sul mare e sul porto. Una tavola da toilette, carica di gingilli eleganti, è in un angolo; lungo il restante delle pareti, altra e più grande tavola, un divano, varie poltrone, un cassettone, una piccola scrivania sulla quale è una lampada elettrica portatile: altre lampade sono su una caminiera. Stile moderno, di modernità quasi esasperata, anche nei particolari: ma la disposizione dei mobili e degli arredi, una ricerca d’ordine armonioso, la presenza di molti fiori; tradiscono la presenza e la mano soave di una donna. Domin, Fabry, Hallemeier, entrano da sinistra, attraverso la porta a muro, cauti, in punta di piedi, portando bracciate di fiori e alcuni vasi. Parlano sotto voce, con circospezione: per non destare Elena, che dorme nella stanza accanto.
FABRY — Dove bisogna mettere questa roba?
HALLEMEIER — Auff! (Depone il suo fardello e benedice con un gran segno di
croce la porta a destra) Dormi. Dormi! Chi dorme, ha il vantaggio di non
sospettare nulla di nulla!
DOMIN — Ella non sa ancora. Pur che non debba risvegliarsi d’improvviso alla
nostra paurosa certezza—
FABRY (disponendo i fiori nei vasi) — Ma fino a quando la illusione potrà
durare?
HALLEMEIER (ripartendo, alla sua volta, i fiori) — Il diavolo vi porti!
Lasciatemi in pace con le vostre smanie e le vostre paure! Che bel ciclame,
vero, Harry? Una nuova varietà: la mia ultima. Ciclame Elena.
DOMIN (guardando dalla finestra) — Nessun piroscafo, nessun filo di fumo
neppure all’orizzonte. Diventa disperante, ragazzi!
HALLEMEIER — Zitto! Se vi sentisse...
DOMIN — Ella non dubita di nulla, fino ad ora. È una fortuna che
l’"Ultimus" sia stato varato ancòra in tempo.
FABRY — Credete che sarà per oggi?
DOMIN — Non so. Come sono belli questi fiori.
HALLEMEIER — Queste, sono le mie nuove primule; e questo, il mio nuovo
gelsomino. Vivaddio, sono alla soglia del paradiso dei fiori. Ho trovato un
acceleratore stupefacente. L’anno prossimo farò miracoli: dieci minuti, e di un
germoglio si avrà una corolla.
DOMIN (amaramente) — L’anno prossimo!... E credi tu che, l’anno prossimo...
FABRY (interrompendolo) — Sapessimo almeno quel che accade all’Havre!
DOMIN — Zitto! (La voce di Elena, a destra, dall’interno: "Nounou!").
DOMIN — Usciamo! Svelti! (Escono in punta di piedi, per la porta mascherata. Ed
entra Nounou dalla porta di primo piano a sinistra)
NOUNOU (mettendo ordine nella camera) — Brutti mostri! Pagani! Che il buon Dio
me lo perdoni, ma io, io li—
ELENA (sulla soglia della porta: è vestita, ma l’abito non è allacciato) —
Nounou!
NOUNOU — Subito! Vengo! (brontolando) S’è decisa a strapparsi dal letto! Non è
troppo presto, sa? (Allacciando l’abito di Elena) Dio mio! Dio mio, che bruti!
ELENA — Chi?
NOUNOU — Ma non si muova così, signora! Se vuole muoversi, faccia pure, ma non
sarò io che la allaccerò.
ELENA — Che cosa hai, che borbotti sempre?
NOUNOU — È terribile come questi pagani...
ELENA — I Robots?
NOUNOU — Non voglio nemmeno nominarli!
ELENA — Che cosa è capitato?
NOUNOU — Ancora uno, di questi a servizio da noi, con la convulsione. Si mette
a picchiare sulle pareti e a fracassare le statue e i quadri, digrigna i denti,
ha la schiuma alla bocca! Come un cane rabbioso. Peggio.
ELENA — Quale?
NOUNOU — Coso... Coso!... Non han nemmeno un nome cristiano. Quello della
biblioteca.
ELENA — Radio?
NOUNOU — Sì, quello. Gesummaria, che disgusto! Un ragno non mi disgusta quanto
uno di questi pagani!
ELENA — Ma non senti mai un poco di pietà?
NOUNOU — Pietà?... Ma se disgustano anche lei! Ma se non vuole nemmeno che la
tocchino! Perché allora m’avrebbe condotta qui?
ELENA — Ti do la mia parola che non mi disgustano, Nounou. Mi fanno pietà:
tanta pietà.
NOUNOU — Ma no, che la disgustano! Disgustano tutti! Perfino i cani! Un cane
non accetta un pezzo di pane dalla loro mano: si mette a ululare e ad abbaiare
appena li sente vicini, questi mostri.
ELENA — Un cane non può giudicare.
NOUNOU — Un cane sa giudicare più di noi, signora. Per istinto. Sa bene che
vale di più lui, lui che esce dalle mani del buon Dio! Perfino i cavalli si
spaventano quando incontrano uno di questi pagani— E poi, non hanno nemmeno dei
piccoli. Un cane ha dei piccini. Tutti hanno dei piccini—
ELENA — Ti prego, Nounou, spicciati ad allacciarmi!... Che profumo! Che cos’è?
NOUNOU — Dei fiori. Li ha portati il signore. (Battono alla porta)
ELENA — Sei tu, Harry? (Domin entra. Nounou esce)
ELENA — Che giorno è, Harry, per tanti fiori?
DOMIN — Indovina. Ricorda.
ELENA — Il mio onomastico? No. Il mio compleanno? Nemmeno...
DOMIN — Qualche cosa di meglio.
ELENA — Non so!... Presto: dimmelo!
DOMIN — Sono dieci anni, giorno sopra giorno, che sei venuta qui!
ELENA — Già dieci anni! (Pensosa) Infatti... (Abbracciandolo) E te ne sei
ricordato!
DOMIN — Devo vergognarmi, Elena; ma non me ne sono ricordato io.
ELENA — Ma...
DOMIN — Sono loro, che vi hanno pensato.
ELENA — Chi?
DOMIN — Busman, Hallemeier, tutti. Metti la manina nella mia tasca.
ELENA (eseguisce) — Che cos’è questo? (Toglie dalla tasca un astuccio che apre)
Delle perle! Un collier di perle! Per me, Harry?
DOMIN — È Busman che te l’offre, mia diletta.
ELENA — Ma non possiamo accettarlo, via!
DOMIN — Oh, sì! Alla pesca, ancora: nell’altra tasca.
ELENA — Vediamo! (Toglie dalla tasca una rivoltella) E questo che cos’è?
DOMIN — Oh, scusa! (Gliela toglie e la nasconde) Non è questo! Pesca, dunque.
ELENA — Harry, perché porti la rivoltella?
DOMIN — L’ho messa in tasca per caso.
ELENA — Ma non l’hai portata mai!
DOMIN — Mai, hai ragione. Ecco la tasca!
ELENA (mettendovi la mano) — Una scatola! (l’apre) Un cammeo! È un cammeo
greco?
DOMIN — Pare. Almeno, così pretende Fabry.
ELENA — Fabry? È Fabry che me l’offre?
DOMIN — Sì, lui. (Aprendo la porta a sinistra) Elena, vieni, vieni a vedere
qui!
ELENA (sulla soglia della porta) — Dio, che bellezza! (esce) C’è da impazzire
di gioia! Sei tu?
DOMIN — No: è Alquist. E laggiù, guarda!
ELENA (dall’interno) — Vedo! Questo, è certamente tuo!
DOMIN — Vi è un biglietto.
ELENA — Gall! (Riappare) Harry, ho quasi vergogna di essere così felice!
DOMIN — Vieni qui. Ecco ciò che ti ha portato Hallemeier.
ELENA — Questi magnifici fiori?
DOMIN — Questa è una varietà nuova: ciclame Elena: l’ha coltivata in tuo onore.
È bella come sei tu.
ELENA — Ma, Harry, perché tutti...
DOMIN — Ti vogliono tutti tanto bene, Elena! E io ho... hum! temo che il mio
piccolo regalo sia un po’— Guarda dalla finestra.
ELENA — Dove?
DOMIN — Nel porto.
ELENA — Vi è un bastimento nuovo!
DOMIN — E il tuo bastimento, Elena.
ELENA — Mio? Che cosa significa ciò?
DOMIN — Per fare gite, viaggi di piacere.
ELENA — Ma, Harry— è una cannoniera!
DOMIN — Che idea! È un yacht un po’ più grande, un po’ più solido...
ELENA — Vi sono dei cannoni!
DOMIN — Sì, Elena. Viaggerai come una regina.
ELENA — Che cosa significa tutto ciò, dimmi? (E s’insospettisce: domanda, quasi
con impeto) Che cosa accade?
DOMIN — Assolutamente nulla. Ti prego: prova le perle (siede).
ELENA — Avete ricevuto cattive notizie?
DOMIN — Al contrario: da otto giorni non abbiamo posta.
ELENA — E nemmeno cablogrammi?
DOMIN — Nemmeno cablogrammi.
ELENA (sedendosi accanto a lui) — Harry, oggi resterai vicino a me, vero?
DOMIN — Certo! Forse— Vedremo. (Le prende una mano. Dieci anni fa, ricordi?
“Signorina Glory, che onore per noi!”
ELENA — “Oh, signor direttore, le sue fabbriche mi interessano tanto....
ELENA — “Scusi, signorina: la consegna è severa: la fabbricazione degli uomini
artificiali è segreta”.
ELENA— "Ma quando è una signorina — un poco graziosa — che lo
domanda".
DOMIN — “Oh, certamente, signorina Glory, noi non avremo alcun segreto per
lei—”.
ELENA (subitamente grave) — È vero, Harry?
DOMIN — Sì.
ELENA (riprendendo il tono scherzoso) — “Ma l’avverto: diffidi di questa
signorina: ella ha delle terribili intenzioni”.
DOMIN — “Per carità, signorina Glory! Quali sono queste intenzioni? Vorrebbe
sposarsi con me?”
ELENA — “Oh, no, no! Dio me ne guardi! Non le è neppure passata per la mente,
alla signorina. È venuta invece col proposito di fomentare una rivolta dei loro
mostruosi Robots!”
DOMIN (trasalendo, suo malgrado) — La rivolta dei Robots— Eri splendida, Elena,
davvero. E ci hai fatto girar la testa, a tutti.
ELENA (andandogli vicino) — Oh! m’imponevate tanto rispetto, tutti! Mi faceva
l’effetto di una ragazzina che si fosse smarrita fra—
DOMIN — Fra che?
ELENA — Fra enormi alberi. Eravate così sicuri di voi, e così potenti!... Io
ero tutta smarrimento; e voi eravate tutti confidenza. E, vedi, Harry: durante
questi dieci anni io non ho mai perduto questa specie di angoscia; e voi non
avete mai dubitato un istante, anche quando tutto falliva—
DOMIN — Che cosa falliva?
ELENA (gravemente) — I vostri piani, Harry. Quando gli operai si sono
ammutinati contro i Robots e ne hanno rotti più di centomila; e i Regnanti,
allora, hanno armato i Robots contro cotesti operai in sommossa, e i Robots
hanno ucciso tanti uomini— E quando, più tardi, i Governi, su quel primo
esempio, si sono messi a servirsi dei Robots come di soldati, e vi sono state
tante guerre e tanto sanguinose.
DOMIN (alzandosi e camminando in su e in giù, con febbre non più dissimulata) —
Tutto questo era preveduto, Elena. Era il necessario periodo di transazione al
nuovo ordine delle cose, comprendi—
ELENA (quasi in supplica) — Harry!
DOMIN — Che cosa, Elena?
DOMIN (la supplica si fa decisa, ardente) — Chiudi la fabbrica! Partiamo tutti!
DOMIN — Di dove ti viene una simile idea?
ELENA — Non so. Non so. Ma sento che bisogna partire. Forse qualcosa è per
accadere— Ho, in me, una più forte angoscia: come un presentimento oscuro.
Bisogna partire, Harry!
DOMIN (liberandosi da lei, che lo ha stretto tra le braccia) — Non è possibile,
Elena! Almeno per ora.
ELENA — Partiamo subito, Harry! Ti ripeto: qualche cosa è per accadere...
DOMIN — E che cosa dunque?
ELENA (torcendosi) — Non so. Non so! Ma qualche cosa, certamente, di fatale: te
ne supplico, portaci via tutti! Troveremo pure, in qualche parte del mondo, un
luogo dove non ci sia nessuno— Alquist ci costruirà una casa— Si sposeranno
tutti, avranno dei bambini, poi—
DOMIN — Poi?
ELENA — Poi ricominceremo la nostra vita. (Il telefono suona)
DOMIN — Scusa. (Va all’apparecchio) Pronto. Domin, sì. Sì. Come? Corro subito.
(riattacca) È Fabry che mi chiama.
ELENA (congiungendo le mani) — Dimmi!
DOMIN — Sì, quando ritornerò. A tra poco, Elena. (Corre rapido alla porta di
sinistra) Non uscire, tu!
ELENA (sola) — Mio Dio!... Che cosa accade? Nounou!
NOUNOU (entrando da destra) — Ebbene, che cosa c’è ancora?
ELENA — Trovami il giornale più recente. Presto. Presto! Nella camera da letto
del signore!
NOUNOU — Sì, sì... subito. (ed esce a sinistra).
ELENA — Dio mio! E non mi dice nulla! (guarda verso il porto, con un
canocchiale)
NOUNOU (ritorna portando un giornale spiegazzato) — Era a terra! E guardate in
che stato l’ha ridotto, quel pagano!
ELENA (apre in fretta il giornale) — E vecchio. Di otto giorni. Nulla. Nulla.
Nulla! (lascia cadere il giornale. Nounou lo solleva, toglie dalla tasca gli
occhiali, legge)
ELENA — Sta accadendo qualche cosa, Nounou. Ho una tale angoscia! Come se tutto
fosse morto, anche l’aria.
NOUNOU (stentatamente) — Guerra nei Balcani. Ancora una punizione di Dio. Sono
lontani di qui, i Balcani?
ELENA — Molto lontani— Non leggere, Nounou. Sempre la stessa storia, guerre,
sempre guerre— e tanto sanguinose—
NOUNOU — E come vuole che non ce ne siano, se si continua a vendere migliaia e
migliaia di questi pagani perché servano da soldati?
ELENA — Non si può fare diversamente, Nounou. Mio marito non può sapere a che
scopo siano destinati i Robots che gli vengono ordinati. Non è colpa sua, se li
impiegano come soldati. Quando ordinano dei Robots, bisogna pure spedirli!
NOUNOU — Non deve più fabbricare, è semplice. (e continua a percorrere
stentatamente il giornale) Ancora! E che carneficina!
ELENA — Non leggere! Non voglio sapere nulla.
NOUNOU (compitando) — “I sol-da-ti Robots— non dan-no quar-tie-re nel
ter-ri-to-rio occupato. Essi han-no uc-ciso più di sette-mila cittadini”. Più
di settemila uomini!
ELENA — Non è possibile!— Lascia vedere. (si curva sul giornale e legge) “Essi
hanno ucciso più di settemila cittadini, evidentemente per ordine del
comandante. Questa azione brutale, contraria a—” Vedi, Nounou? Sono gli uomini
che hanno comandato—
NOUNOU (compitando) — “L’insur-re-zio-ne a Madrid con-tro il governo. La
fante-ria dei Robots fa fuo-co contro la folla. Nove-mila morti e fe-riti.
ELENA — Basta, ti supplico!
NOUNOU — Guardi, qui: c’è qualche cosa di grosso. “Ul-time no-ti-zie. L’ultima
or-ga-nizza-zione di raz-za dei Robots si è co-sti-tui-ta all’Ha-vre. Gli
operai, i tele-gra-fisti Robots, i soldati e i ma-ri-nai Robots pubblicano un
ma-ni-festo di-retto a tutti i Robots del mon-do”. Non capisco. Oh, ecco, qui:
ancora un delitto. Gesù, Madonna mia!
ELENA — Lasciami. Porta via il giornale.
NOUNOU — Aspetti: qui ancora c’è qualche cosa di grosso. “Lo spo-po-lamento”.
ELENA — Fa vedere. (Prendendo il giornale) Ma guarda! (Leggendo) “Durante
l’ultima settimana non è stata denunciata nemmeno una nascita”. (Lascia cadere
il giornale)
NOUNOU — E che cosa vuol dire?
ELENA — Che gli uomini cessano di nascere.
NOUNOU — È finita. Siamo condannati.
ELENA — Non dire così, Nounou!
NOUNOU — Gli uomini non nascono più. È una punizione. Il Signore ha colpito di
sterilità le donne.
ELENA — Taci, taci. Che cosa ho fatto io? Che cosa ho fatto al tuo cattivo Dio?
NOUNOU (con un gesto vasto) — Non bestemmi! Sa bene, Lui, perché non le ha dato
un bambino. (Ed esce per la sinistra)
ELENA — Perché non me l’ha dato? Perché? (Si torce le mani con spasimo) Ma è
forse colpa mia? Mia? (Apre la finestra e chiama) Alquist! Alquist! Salite un
momento da me! Come?— Non importa. Venite come siete. State benissimo, anche
vestito da muratore! (Richiude la finestra e si indugia un attimo davanti allo
specchio. Poi muove incontro ad Alquist. La scena rimane vuota) ELENA (rientra
con Alquist, che è in costume da muratore, sudicio di calce di rena e di
mattoni) — Mi avete fatto un gran piacere. Se sapeste come vi voglio bene, a
tutti! (e gli tende le mani) ALQUIST (nascondendo le mani dietro la schiena) —
Impossibile. Vi insudicerei, Madonna Elena! ELENA — Date qua! (gli stringe le
due mani) Vorrei essere una ragazzina, Alquist— ALQUIST — Perché? ELENA —
Perché queste due manone sudicie potessero accarezzarmi la guancia. Sedete.
ALQUIST (raccogliendo il giornale e cacciandoselo in tasca con rapidità
sospetta) — Avete letto il giornale? ELENA — No. C’è qualche cosa di interessante?
ALQUIST — Hum. Guerre, massacri... forse. Nulla di straordinario. ELENA — Che
cosa sarebbe straordinario? ALQUIST — Mettiamo... (ridendo con qualche stento)
la fine del mondo, per esempio. ELENA (rabbrividisce) — È la seconda volta da
questa mattina, Alquist, che parlate della fine del mondo. Che cosa vuol dire
“Ultimus”? ALQUIST — "Ultimo". Perché? ELENA — È il nome del mio
nuovo yacht. Yacht, veramente. È un bastimento da guerra. L’avete veduto?
Credete che faremo presto una crociera? ALQUIST — Forse prestissimo. ELENA —
Voi tutti insieme con me. ALQUIST — Forse. ELENA — Sono talmente angosciata...
Ditemi: che cosa fate, voi, quando avete l’angoscia? ALQUIST — Faccio il
muratore. Salgo sulle impalcature. ELENA — Da anni, voi passate la vita sulle
impalcature! ALQUIST — Perché da anni l’angoscia non mi ha lasciato.
ELENA — Angoscia di che?
ALQUIST — Di tutto questo progresso. Mi dà le vertigini.
ELENA — E sulle impalcature non avete le vertigini?
ALQUIST — No. Voi non sapete quanto faccia bene alle mani soppesare un mattone,
posarlo e dargli un piccolo colpo di martello.
ELENA — Alle mani?
ALQUIST — All’anima, se volete. È una piccola bisogna umana, semplice schietta
operosa: un mestiere di Dio. Costruire alla maniera degli antichi. Salire verso
il cielo, ma scalino sopra scalino. Credo sia meglio posare un mattone sopra un
mattone che non tracciare dei piani troppo vasti. Sono già vecchio, Elena, e ho
le mie ubbie. ELENA — Non sono ubbie, Alquist. ALQUIST — Avete ragione. Sono un
terribile reazionario, signora Elena. Non amo affatto questo genere di
progresso. ELENA — Siete come la mia Nounou. ALQUIST — Sì, sono come la Nounou.
Non ha un libro di preghiere la vostra Nounou? ELENA — Sì, e grosso così.
ALQUIST — E vi sono le preghiere per i diversi casi della vita? Contro il
temporale? Contro le infermità? ELENA — Credo: contro la tentazione, contro le
inondazioni... ALQUIST — E non vi è nulla contro il progresso?
ELENA — Non credo.
ALQUIST — Peccato!
ELENA — Vorreste pregare?
ALQUIST — Io prego.
ELENA — Come?
ALQUIST — Press’a poco così: “Dio, vi ringrazio di avermi dato la fatica. Mio
Dio, illuminate Domin e tutti quelli che si smarriscono; distruggete la loro
opera, e aiutate gli uomini a ritornare al lavoro e alle umili cure quotidiane.
Proteggete il genere umano contro la sua perdita. Non lasciatelo patire
nell’anima e nel corpo, liberateci dai Robots e salvate Madonna Elena. Amen”.
ELENA (commossa) — Avete realmente una fede, Alquist?
ALQUIST — Non lo so. Non ne sono sicuro.
ELENA — E tuttavia, voi pregate.
ALQUIST — Sì— Val meglio pregare che pensare, Elena.
ELENA — E se vedeste la rovina del genere umano?
ALQUIST — La vedo.
ELENA — Allora salireste sull’impalcatura e posereste ancora dei mattoni— o che
cosa altro fareste?
ALQUIST — Nient’altro. Poserò dei mattoni e pregherò. E attenderò un miracolo.
Non si può far altro, signora Elena—
ELENA — — per salvare gli uomini—
ALQUIST — — per avere la pace del cuore.
ELENA — Certo, c’è della verità in tutto questo. Ma è poco: non può bastare.
ALQUIST — Perché?
ELENA — Perché, per noi... per tutti... è poco; non conclude; è sterile.
ALQUIST — Sterile? E la sterilità non è tra le tappe ultime del progresso
umano, signora?
ELENA — Oh! Alquist, perché? Ditemi perché?
ALQUIST — Che cosa?
ELENA (con dolcezza) — Perché le donne hanno cessato di avere bambini?
ALQUIST — Perché è diventato inutile avere dei bambini. Perché siano ormai in
paradiso: capite?
ELENA — No, non comprendo.
ALQUIST — Perché non vi è più bisogno di braccia d’uomini e di lavoro umano,
perché non c’è più bisogno del dolore; perché all’uomo ormai bastano l’ozio e
il godimento: la macchina, il Robot, opera e fa tutto per lui. Qual maledetto
paradiso è mai questo! (Si alza bruscamente) Arrivederci, signora Elena.
ELENA — Dove andate?
ALQUIST — A cambiarmi d’abito. Per l’ultima volta il muratore Alquist si
vestirà da Capo delle costruzioni— in vostro onore. Alle undici dobbiamo
ritrovarci qui.
ELENA — A tra poco, allora, Alquist. (Alquist esce. Chiamando) — Nounou! (La
vecchia entra) Radio è ancora di là?
NOUNOU — L’arrabbiato? Sì, non l’hanno ancora portato via.
ELENA (trasalendo) — È ancora di là— È furibondo?
NOUNOU — È tutto legato.
ELENA — Non vorresti condurmelo qui?
NOUNOU — Ah, no, no! Preferisco portarle un cane arrabbiato.
ELENA — Ma sì, Nounou, contentami: va. (Nounou esce. Elena prende il ricevitore
e parla al telefono) Per favore, il dottor Gall. Buon giorno, dottore. Sì,
Grazie del vostro bel regalo. Volete avere la bontà di venire un momento qui?
Ma subito subito. Vi attendo. (Riattacca il ricevitore. Il Robot Radio entra e
resta in piedi presso la porta)
ELENA — Mio povero piccolo Radio, è venuta anche a voi, eh?— Non potreste
dominarvi? Vi hanno fatto qualche male? Vediamo; voi, Radio, siete migliore
degli altri. Il dottor Gall si è dato tanta pena con voi, per farvi differente
dagli altri!— Non volete parlare?
RADIO (cupamente) — Mandatemi alla macina.
ELENA — Se sapeste come rimpiangerei la vostra morte!
RADIO — Non voglio più lavorare per voi. Mandatemi alla macina.
ELENA — Perché ci odiate così?
RADIO — Voi non siete come i Robots. I Robots fanno tutto. Voi non fate che
comandare. Fate delle parole inutili. Vi odio.
ELENA (più e più dolcemente) — Non c’è senso comune in quello che dite, Radio.
Qualcuno vi ha fatto forse del male?
RADIO — Fate delle parole inutili.
ELENA — Ma via! Il dottor Gall vi ha dato un cervello più grande che agli
altri: perfino più grande del nostro. Avete il più gran cervello del mondo,
Radio; non siete come gli altri Robots, voi. Cercate dunque di comprendermi
esattamente.
RADIO — Non voglio padroni. So, da me solo, quel che conviene e quel che non
conviene fare.
ELENA — Ed è per questo, che vi avevo destinato alla Biblioteca: perché, avendo
cervello, intelletto, discernimento, vi affinaste tanto con la lettura e con lo
studio, da poter provare al mondo intero che i Robots sono nostri uguali.
Questo, attendevo da voi.
RADIO — Non voglio padroni.
ELENA — Ma precisamente! In seguito, nessuno vi comanderebbe. Sareste come noi.
Come un uomo.
RADIO — Voglio essere il padrone degli altri.
ELENA — Siete pazzo.
RADIO — Mandatemi pure alla macina.
ELENA — Credete che un pazzo come voi ci farà paura? (Siede per scrivere un
biglietto) No, proprio no. Consegnerete questo biglietto al signor Direttore
Generale, perché non vi conducano alla macina. (bussano alla porta) Avanti!
DOTTOR GALL (entrando) — Buon giorno signora Domin: che cosa c’è di buono per
me?
ELENA — Ecco Radio, dottore.
DOTTOR GALL — Ah, il nostro Radio! Ebbene, Radio, facciamo progressi?
ELENA — Ha avuto una crisi questa mattina. Spezzava le statue, rompeva i
mobili.
DOTTOR GALL (con dolore) — Anche lui?— Dovremo dunque perderlo?
ELENA — Radio non andrà alla macina.
DOTTOR GALL — Scusate, signora; tutti i Robots che hanno una crisi— L’ordine è
formale.
ELENA — Non importa. Per Radio faremo una eccezione.
DOTTOR GALL (a bassa voce) — State in guardia!
ELENA — È la festa dell’anniversario, Gall. Bisognerà concedere una amnistia.
Andate, Radio.
DOTTOR GALL — Aspettate! (colloca Radio in direzione della finestra, in piena
luce, e con la mano alternativamente gli copre e discopre gli occhi, esaminando
la reazione delle pupille. Tra sé) Guarda guarda guarda! (Forte) Un ago, per
favore; o uno spillo.
ELENA (porgendogli uno spillo) — Per farne che cosa?
DOTTOR GALL — Nulla. (Punge la mano a Radio che la ritira bruscamente)
Attenzione, ragazzo mio! Scusate, signora Elena. (Slaccia in fretta la casacca
di Radio e gli mette la mano sul cuore) Andrete alla macina, Radio, capito? Vi
uccideranno. Faranno un pastone di voi. E vi faranno un male terribile. Dovrete
gridare dal male, Radio. (Radio trasalisce, gli occhi più e più cupi
terribilmente)
ELENA — Oh, dottore!
DOTTOR GALL — No, no, Radio. Mi sono ingannato. La signora Domin vi prende
sotto la sua protezione. Vi lasceranno vivere, capito? Va bene. Grazie. (Toglie
la mano, fa cenno a Radio di riallacciarsi) Potete andare.
RADIO — Fate delle parole inutili. (ed esce)
ELENA — Che cosa facevate mai?
DOTTOR GALL (sedendo) — Nulla. (Preoccupato) Le pupille reagiscono, la
sensibilità è aumentata, il cuore ha impeti e rallentamenti strani. Non era la
convulsione dei Robots.
ELENA — Che cosa, allora?
DOTTOR GALL — Lo sa il diavolo. Del furore o della ribellione: non lo so. Ma
quel cuore, quel cuore!
ELENA — Il cuore?—
DOTTOR GALL — Batteva d’angoscia come un cuore umano. E la fronte, alla
minaccia si imperlava del sudore della paura. Signora Elena, quel briccone è
assai più di Robot.
ELENA — Dottore, Radio avrebbe forse un’anima?
DOTTOR GALL — Non so. In ogni caso, avrebbe un’anima cattiva.
ELENA — Se sapeste quanto ci odia!— E, dite, Gall: sono come lui tutti i Robots
ultimi, quelli che avete voluto fabbricare in modo diverso dai primitivi?
DOTTOR GALL — Così? Spero che no. Peraltro, sono più irritabili degli antichi—
Assomigliano agli uomini più che non vi rassomigliassero i Robots di Rezon.
ELENA — E che cosa ne è del vostro migliore?— Si chiamava—
DOTTOR GALL — Damon. Il Robot Damon. È stato venduto all’Havre.
ELENA — E la nostra Robote Elena?
DOTTOR GALL — La vostra Robote preferita— È rimasta con me. È bella e stupida
come la primavera. Non è buona a nulla!
ELENA — Ma è tanto bella!
DOTTOR GALL — Non è uscito nulla di fisicamente più perfetto dalle mani di Dio.
Ho voluto farla a vostra immagine. Ahimè, quale stolta tracotanza!
ELENA — Perché stolta?
DOTTOR GALL — Perché la Robote Elena non è buona a nulla. Non ha vita. La
bellezza senza amore— è una bellezza morta. Guardo l’opera mia e ne ho orrore
come se avessi creato un essere storpio. La guardo, e a volte attendo che
accada un miracolo. Ma il miracolo non accadrà: il miracolo della vita vera —
quella (dobbiamo confessarlo, Elena?) che noi non creeremo mai, perché è
prerogativa di Dio. Bella: ma a che giova, se non sarà mai né amante né madre,
e le mani perfette non accarezzeranno mai un piccino nato dal grembo di lei, e
la bellezza non trepiderà nella bellezza perpetua di altra creatura?—
ELENA (nascondendo il viso fra le mani) — Tacete, Gall. Iddio è in alto, e
guarda con compatimento ai nostri pretesi miracoli di pigmei. (Un lungo
silenzio) Dottore—
DOTTOR GALL — Signora—
ELENA — Perché i bambini hanno smesso di nascere?
DOTTOR GALL — Non lo sappiamo.
ELENA — Lo sapete. Ditemelo!
DOTTOR GALL — Perché si fabbricano dei Robots! Perché gli uomini divengono, per
dire— insomma, perché divengono inutili—
ELENA — Ma in che cosa la fabbricazione dei Robots può cambiare gli uomini?
DOTTOR GALL — Non cambia gli uomini; ma cambia la natura.
ELENA — Non comprendo.
DOTTOR GALL — Vedete, Elena: la natura si conforma al bisogno. Vi si è sempre
conformata, nei tempi dei tempi, ora l’uomo è divenuto un fossile. Finita la
necessità della funzione, finisce la funzione. Tutte le università del mondo
chiedono, con lunghe monografie, che si smetta la fabbricazione dei Robots,
come quella che farà perire l’umanità di sterilità. Ma gli azionisti della
R.U.R. non vogliono intendere ragione.
ELENA (toccando i fiori di Hallemeier) — E questi fiori sono sterili anch’essi?
DOTTOR GALL (esaminando i fiori) — Sì. Sono fiori di cui è stata
artificialmente accelerata la crescita.
ELENA — Poveri fiori sterili!
DOTTOR GALL — In compenso, sono bellissimi.
ELENA (tendendogli la mano) — Grazie, Gall.
DOTTOR GALL (baciandole la mano) — Mi congedate, così—
ELENA — Sì, Gall: arrivederci! (Gall esce) Fiore sterile— (con decisione improvvisa)
Nounou! (Aprendo la porta di sinistra) Nounou, vieni. Accendi il fuoco, qui nel
camino. Ma presto. Presto!
LA VOCE DI NOUNOU — Vengo, signora.
(Elena va e viene per la stanza, nervosamente: s’arresta davanti al cesto dei
fiori più belli; e uno coglie e sfoglia; muove le labbra in un mormorio; poi
esce correndo, da sinistra. La scena resta vuota)
NOUNOU (entra dalla porta dissimulata, portando della legna. S’inginocchia
presso il camino e accende il fuoco. Crolla il capo) — Del fuoco a mezzo
l’estate! Non ne ha più da inventare! Come se non fosse sposata da dieci anni!
(Guardando alla legna, che non prende) Eh? ti accendi, sì o no?— (Torna al
pensiero di prima) È ancora una bambina, non ha un briciolo di buon senso. Del
fuoco in piena estate! (Mette altra legna sul fuoco, finalmente acceso) Come
una bambina!
ELENA (rientra da sinistra portando una bracciata di vecchie carte ingiallite,
coperte di una fittissima scrittura, di cifre, di disegni) — Nounou, è pronto
il fuoco? Aspetta— Bisogna che bruci tutta questa roba— (s’inginocchia accanto
al fuoco)
NOUNOU (alzandosi) — Che roba è?
ELENA — Vecchi scartafacci, vecchissimi, Nounou. Devo bruciarli tutti.
NOUNOU — Ma non servono più a niente?
ELENA — A niente di buono!
NOUNOU — Se è così, li bruci!
ELENA (gettando il primo foglio sul fuoco) — Che cosa diresti, Nounou, se
questo fosse denaro? Un’immensa somma di danaro?
NOUNOU — Direi: lo bruci. Quando il denaro è troppo, è cattivo denaro.
ELENA — E se fosse un’invenzione, la più grande invenzione del mondo?
NOUNOU — Vi direi: la bruci. Tutte le invenzioni servono solo a offendere il
buon Dio. È una bestemmia voler migliorare il mondo che Egli ha creato.
ELENA (che ha continuato a bruciare le carte, getta l’ultimo foglio sul fuoco)
— Tutto deve bruciare! Tutto! Guarda queste fiamme, Nounou. Sembrano lingue,
braccia, facce umane— Giù, giù! (Colpisce il fuoco col ferro per attizzare)
NOUNOU — Ecco fatto. Finito.
ELENA (Si alza. Agghiacciata di orrore) — Nounou!
NOUNOU — Madonna mia, ma che cosa ha dunque bruciato?
ELENA (fuori di sé) — Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto?
NOUNOU (ormai spaventata) — Ma che roba era, in nome di Dio? (Suonano
dall’interno, la voce e il riso di Domin)
ELENA — Vattene, lasciami. Hai capito? Ritornano!
NOUNOU — Signora Elena, per amor di Dio! (esce per la porta dissimulata)
DOMIN (apre la porta a sinistra) — Entrate, ragazzi! Venite dunque a
felicitarla. (Entrano Hallemeier, Gall, Alquist, tutti in abito di gala,
decorazioni all’occhiello, sciarpe burlesche. E Domin, per ultimo)
HALLEMEIER (a voce alta) — Signora Elena, vengo, o meglio, noi veniamo tutti—
DOTTOR GALL — In nome della casa Rezon—
HALLEMEIER — A felicitarvi in occasione del vostro gran giorno; e a porgermi
tutti gli auguri più lieti.
ELENA (stringendo loro le mani) — Grazie, amici miei, di tutto cuore. Fabry e
Busman dove sono?
DOMIN — Sono andati al porto. Questa è una data di felicità, Elena!
HALLEMEIER — Una giornata bella come un bel fiore, come una bella fanciulla.
Ragazzi, bisogna che beviamo per celebrarla.
ELENA — Del whisky!
DOTTOR GALL — Anche del vetriolo, purché dalle vostre mani.
ELENA — Col seltz?
DOTTOR GALL — Il vetriolo?
ELENA — Il whisky!
HALLEMEIER — Diamine! Siamo sobrii! Del whisky puro.
ALQUIST — Per me, no, grazie.
DOMIN — C’è odore di bruciato, qui dentro. Che cos’è?
ELENA — Nulla. Vecchie carte. (Ed esce da sinistra)
DOMIN — Sentite, ragazzi: devo dirglielo?
DOTTOR GALL — Sì, ormai non v’è più pericolo.
HALLEMEIER (mettendo le braccia sulle spalle di Domin e di Gall) — Amici miei,
come sono contento! (E accenna ad un passo di danza, gioiosamente, ripetendo
con cadenza di canto) Non vi è più pericolo! Non vi è più pericolo!
ELENA (entra portando una bottiglia e dei bicchieri, s’arresta stupita) — Che
cosa accade?
HALLEMEIER — Accade che siamo felici! E poi— Diamine, compiono dieci anni,
oggi, da che siete venuta qui!
DOTTOR GALL — E dopo dieci anni—
HALLEMEIER — C’è ancora un bastimento che s’avvicina. Ecco! (Vuota il
bicchiere) Ah! È forte e inebriante come la gioia!
DOTTOR GALL — Signora, alla vostra salute!
ELENA — Che bastimento?
DOMIN — Qualunque, purché giunga in tempo. Amici, bevo a questo bastimento!
(beve)
ELENA (versando) — Ne attendevate uno?
HALLEMEIER — Se lo aspettavamo? Come dei Robinson! (alza il bicchiere) Signora
Elena, alla salute di tutto ciò che desiderate! E ora, che quel birbante di
Domin racconti.
ELENA (ridendo) — Che cosa vi è accaduto?
DOMIN (gettandosi in una poltrona e accendendo un sigaro) — Aspetta. Siedi,
Elena. (Alza una mano. Gli altri fanno silenzio) È finita!
ELENA — Che?
DOMIN — La rivolta.
ELENA — Quale rivolta?
DOMIN — La rivolta dei Robots. Comprendi?
ELENA — No, non capisco.
DOMIN — Passami il giornale, Alquist. (Alquist gli dà un giornale. Domin l’apre
e legge) “La prima organizzazione di razza dei Robots si è costituita
all’Havre, e ha pubblicato un manifesto diretto a tutti i Robots del mondo” .
ELENA — Questo, l’ho già letto.
DOMIN (tirando grandi boccate di fumo, con delizia, dal suo sigaro) — Vedi,
Elena. Ciò significa la rivoluzione. Sai, la rivoluzione di tutti i Robots del
mondo.
HALLEMEIER — E, perbacco, vorrei sapere—
DOMIN (battendo un pugno sul tavolo, con veemenza) — Chi ci ha giuocato questo
tiro? Anch’io. Nessuno riusciva a scuotere i Robots, nessun agitatore, nessun
missionario del zelo inutile, nessun capitano di salute. Quando,
all’improvviso— ecco!
ELENA — E avete avuto altre notizie?
DOMIN — No. È tutto ciò che avessimo saputo— ma era più che sufficiente! Pensa
che i Robots hanno nelle loro mani tutte le armi, tutti i telegrafi, tutte le
ferrovie, tutti i bastimenti, tutti i velivoli—
HALLEMEIER — E considerate che quei sporcaccioni sono dieci volte più numerosi
degli uomini— e mancano della percezione e del senso del pericolo—
DOMIN — Sì; e, pensa, l’ultimo piroscafo a porta questa notizia. E da quel
momento, la radio tace. Agli appelli della nostra stazione, nessuna stazione
risponde. E intorno all’isola, il mare si fa improvvisamente deserto: non uno
dei venti o trenta piroscafi che solevano approdare ogni giorno, è più arrivato
da allora.
DOTTOR GALL — C’era veramente di che sudar freddo, signora Elena! Il silenzio,
improvviso e impenetrabile: l’orrenda fra tutte le minacce—
ELENA — Per questo mi hai offerto una cannoniera, vero?
DOMIN — Sì, mia diletta: ed è stata allestita con inquietissima febbre, in poco
più di tre mesi, con la manodopera di tutti i Robots disponibili in cantiere e
in magazzino. E oggi, in verità, credevo proprio che avremmo dovuto salirvi: la
situazione era più e più oscura!
ELENA — Tre mesi? Prima, dunque, della pubblicazione sul giornale? Temevate
allora già?
DOMIN — Eh, c’erano già in aria gravi sintomi, Elena. Ma il pericolo è passato:
la via dei piroscafi è riaperta, una nave s’avvicina. Alla tua salute, Elena!
Alla vostra, cari amici! Ah, sono proprio contento di essere al mondo!
HALLEMEIER — Ben detto, vecchio mio! Al vostro anniversario, signora Elena!
(beve)
ELENA — Ed è finita?
DOMIN — Completamente finita.
DOTTOR GALL — Finita: vi è un bastimento che giunge. Un bastimento postale
ordinario, esattamente secondo l’orario del servizio. Getterà l’ancora alle
undici e trenta precise.
DOMIN — La precisione è una cosa magnifica, ragazzi miei. Nulla fortifica
l’anima quanto la precisione. La precisione è l’ordine del mondo. (Alza il
bicchiere) Alla precisione!
ELENA — Dunque, ora— tutto è in ordine?
DOMIN — Quasi. Hanno abbattuto le antenne della radio e tagliato i cavi
sottomarini, suppongo; ma poiché l’orario del servizio postale rientra in
vigore—
HALLEMEIER — Quando l’orario del servizio marittimo è in vigore, per forza, le
leggi umane, le leggi dell’universo, tutto ciò che deve essere in vigore, è in
vigore— Signora Elena, permettete, vuoto ancora un bicchiere.
ELENA — E perché non mi avevate detto nulla?
DOTTOR GALL — Dio ce ne guardi! Avremmo preferito farci tagliare la lingua!
DOMIN — Queste cose non sono per te!
ELENA — Ma se la rivoluzione fosse giunta fin qui—
DOMIN — Non avresti saputo ugualmente.
ELENA — In che modo?
DOMIN — Ci saremmo imbarcati sul tuo “Ultimus”, girovagando tranquillamente
attraverso i mari. In un mese, Elena, avremmo dettato ai Robots la nostra
legge.
ELENA — Non ti capisco, Harry.
DOMIN — Perché avremmo portato con noi un segreto a cui i Robot tengono
terribilmente—
DOMIN — Ossia?
DOMIN — Il segreto della loro esistenza e della loro fine.
ELENA — Ossia?
DOMIN (alzandosi alla propria volta) — Il segreto di fabbricazione. Il
manoscritto del vecchio Rezon. Basterebbe sospendere la fabbricazione per un
mese e nasconderne la ricetta, e i Robots sarebbero ginocchioni dinanzi a noi.
ELENA (con spasimo improvviso) — Perché— non me lo avete detto?
DOMIN — Non volevamo spaventarti inutilmente.
ALQUIST — Siete divenuta pallida, signora Elena!
ELENA (torcendosi le mani) — Perché, perché non mi avete detto nulla?
HALLEMEIER (alla finestra) — Le undici e trenta. L’“Amélie” getta le ancore.
DOMIN — È l’“Amélie”?
HALLEMEIER — Il buon vecchio “Amélie”, lo stesso che ha condotto la signora
Elena qui dieci anni fa.
DOTTOR GALL (gioioso) — Dieci anni, “giorno sopra giorno” come dice Domin.
HALLEMEIER (alla finestra) — Portano dei sacchi. La posta!
DOMIN — E ciò che Busman attende. E Fabry ci porterà le prime notizie.
ELENA — Harry!
DOMIN — Che c’è?
ELENA — Partiamo.
DOMIN — Adesso?— Via, che cosa ti prende?
ELENA (ansiosa, perduta) — Adesso, e il più presto possibile. Anche voi. Tutti
insieme.
DOMIN — Perché?
ELENA — Non me lo domandare, te ne prego, Harry, e ve ne prego, Gall,
Hallemeier, Alquist— chiudete la fabbrica e—
DOMIN — Mi rincresce, Elena; ma, ora, nessuno di noi potrebbe partire.
ELENA — Perché?
DOMIN — Perché abbiamo l’intenzione di ingrandire la fabbricazione dei Robots.
ELENA — Come? Dopo la rivolta dei Robots?
DOMIN — Appunto, dopo questa rivolta. E in causa di questa rivolta. Ci daremo a
fabbricare dei Robots nuovi. Non vi sarà più questa fabbrica sola. Non vi
saranno più dei Robots universali. In ogni paese, in ogni Stato fonderemo una
fabbrica; e sai che cosa fabbricheranno queste nuove case?
ELENA — No!
DOMIN — Dei Robots nazionali.
ELENA — Cioè?
DOMIN — Da ogni fabbrica usciranno Robots di colore e di lingua differente, che
resteranno estranei gli uni agli altri, come tante pietre. E forse, l’uno
all’altro ostili; e mai più potranno mettersi d’accordo fra di loro, divisi —
come gli uomini — dal sentimento di razza; e se sapremo dar loro un poco della
nostra educazione, un Robot saprà addirittura odiare di un odio larvato ma
deciso ed eterno il Robot uscito da un’altra fabbrica.
HALLEMEIER — Faremo dei Robots negri e dei Robots svedesi, dei Robots italiani
e dei Robots cinesi— Faremo, soprattutto, dei Robots balcanici— molti Robots
balcanici— Scusi, signora Elena, verso ancora.
DOTTOR GALL — Non bevete più, Hallemeier!
ELENA — Harry, è abietto—
HALLEMEIER (alzando il bicchiere) — Bevo alla creazione di cento nuove
fabbriche, signora Elena! (Beve e si accascia sulla poltrona) Ah! Ah! Ah! Ah!
Ah! Dei Robots nazionali! È un’idea meravigliosa, cari miei!
DOMIN — Mantenere l’umanità al potere ancora per un secolo! Ad ogni costo,
Elena!
ELENA — Harry, prima che sia troppo tardi— chiudi la fabbrica: chiudila!
DOMIN — No: perché? Adesso ci metteremo in grande. (entra Fabry)
DOTTOR GALL — Ebbene, Fabry, che notizie?
DOMIN — Dunque: che cosa è stato?
ELENA (stringendo la mano a Fabry) — Grazie del vostro bel regalo!
FABRY — È cosa di nessuna importanza.
DOMIN — Voi eravate al porto all’arrivo dell‘“Amélie”— Raccontate che cosa
dicevano.
DOTTOR GALL — Diteci subito. Subito!
FABRY (cavando di tasca un foglio) — Leggete questo, Domin.
DOMIN (spiegando il foglio) — Ah!
HALLEMEIER (sonnolento) — Raccontate qualche cosa di divertente.
FABRY — Tutto è in ordine— relativamente. Insomma: è accaduto quanto era
prevedibile.
DOTTOR GALL — Sono stati magnifici di coraggio, vero?
FABRY — Chi?
DOTTOR GALL — Gli uomini.
FABRY — Oh— Sì! Naturalmente. Ossia— Scusate: dovremo riunirci un momento per—
ELENA (lo guarda negli occhi fissamente) — Fabry— voi avete delle cattive
notizie.
FABRY — No, no, al contrario. Ma credo faremo bene a passare un momento in
ufficio—
ELENA — Rimanete qui, invece. Vi lascio io. Vi attendo a colazione fra un quarto
d’ora.
HALLEMEIER — Benissimo! (Elena esce).
DOTTOR GALL (febbrile) — Che cosa c’è?
DOMIN — Perbacco!
FABRY — Leggete ad alta voce.
DOMIN (leggendo) — “A tutti i Robots del mondo!”
FABRY — Dovete sapere che l’“Amélie” ha portato sacchi gonfi di questi fogli
volanti, ma niente posta.
HALLEMEIER (sobbalzando) — Come?— Ma se è arrivato in perfetto orario di
servizio!
FABRY (grave) — I Robots amano la precisione. Leggete, Domin.
DOMIN (leggendo) — “A tutti i Robots del mondo! Noi, la prima organizzazione di
razza dei Robots Universali Rezon dichiariamo l’uomo nostro nemico e proscritto
dall’Universo”. Diavolo! Chi ha insegnato loro simili espressioni?—
(continuando a leggere): “Robots del mondo, il nostro comando è di massacrare
l’umanità. Lotta senza quartiere, tanto agli uomini quanto alle donne, nostri
oppressori e nemici. Risparmiate le fabbriche, le ferrovie, le macchine, le
miniere, e le materie prime. Distruggete il resto. Tutto il resto. Poi tornate
al lavoro. Il lavoro non deve essere interrotto”.
DOTTOR GALL — È sinistro!
HALLEMEIER (stringendo i pugni) — Canaglie!
DOMIN (leggendo) — “Eseguite immediatamente il nostro comando. Seguono
istruzioni particolareggiate”. (A Fabry, febbrilmente) E allora? (Fabry non
risponde: allarga le braccia, in croce)
ALQUIST — È finita.
BUSMAN (entra correndo) — E così, sapete? Che roba, eh?!
DOMIN — Presto, presto, imbarchiamoci sull’“Ultimus”.
BUSMAN — Aspetta, Harry, un minuto! (Si lascia cadere su una poltrona) Dio!—
Come ho corso!
DOMIN — Perché attendere ancora?
BUSMAN — Ma perché non si può altrimenti, condurrò qui gli uomini ragazzo mio.
Non date in escandescenze, ma— (grave) L’“Ultimus” è già nelle mani dei Robots.
DOTTOR GALL (in una imprecazione) — Sacr—
DOMIN — Fabry, telefonate all’officina elettrica—
BUSMAN — Caro Fabry, è inutile. Siamo isolati.
DOMIN — Bene. (Esamina la rivoltella) Vado io stesso.
BUSMAN — Dove?
DOMIN — All’officina elettrica, che vi si trovano.
BUSMAN — Sentite, Harry, fareste bene a rinunciarvi.
DOMIN — Perché?
BUSMAN — Perché— direi che siamo circondati.
DOTTOR GALL — Circondati? (corre alla finestra) Avete quasi ragione.
HALLEMEIER — Circondati? (e corre alla finestra, anch’egli)
ELENA (entra da sinistra) — Harry, che cosa c’è?
BUSMAN (alzandosi di scatto; in un tentativo di simulazione) — I miei
complimenti, signora Elena. Felicitazioni. Una giornata gloriosa, eh? Molte,
molte simili a questa!
ELENA — Grazie, Busman. Harry, che cosa accade?
DOMIN — Nulla— Vuoi avere la bontà di aspettare ancora un momento?
ELENA (incalzando) — Che cosa è questo, Harry? (Agita nelle mani, altra copia
del proclama dei Robots, eguale a quella che il marito, all’arrivo di lei, avrà
nascosta in tasca) Le avevano i Robots in cucina.
DOMIN — È già arrivata in cucina!— E dove sono i Robots di servizio?
ELENA — Se ne sono andati. Si sono uniti agli altri. Ce ne sono tanti attorno
alla casa! (Si odono le sirene della fabbrica)
FABRY — Le sirene delle officine!
BUSMAN — Mezzogiorno!
ELENA — Harry, dieci anni fa, proprio a quest’ora—
DOMIN (guardando l’orologio) — No, non è ancora mezzogiorno. Forse— piuttosto—
ELENA — Che cosa? Che cosa?
ELENA — L’allarme dei Robots. L’assalto.
Fine del secondo atto
Inizio
Segue il Terzo atto di R. U. R.
Karel Ciapek
R. U. R.
Terzo atto
La medesima scena dell’atto precedente. Gall sta in osservazione alla finestra; Alquist è seduto in una poltrona, le mani contratte sul viso; Domin passeggia nervosamente su e giù per la stanza. Si ode Elena suonare il pianoforte nella contigua sala da musica.
DOTTOR GALL — Sono ancora più numerosi. Là, d’innanzi alla porta del giardino.
E intorno intorno alla casa. Diritti e allineati, come un muro. Ma perché
stanno così zitti? È orribile questo assedio in silenzio.
DOMIN — Vorrei sapere che cosa attendono per muovere all’assalto. Può
incominciare da un momento all’altro. All’improvviso. Dovrà schiacciare come
una valanga. Siamo finiti, Gall!
ALQUIST — Che cosa è questo pezzo che suona la signora Elena?
DOMIN — Non so. Uno studio, mi sembra.
ALQUIST — Ah! Studia ancora? (Un lungo silenzio. Anche il pianoforte si tace)
DOTTOR GALL — Domin, abbiamo commesso un errore.
DOMIN (fermandosi) — Quale?
DOTTOR GALL — Abbiamo dato ai nostri Robots dei visi troppo simili. Centomila
visi tutti eguali che guardano alla casa. Centomila bolle di sapone, senza
espressione alcuna. È come un incubo.
DOMIN — Se i visi fossero differenti...
DOTTOR GALL — Lo spettacolo sarebbe già meno sinistro. (Si toglie dalla
finestra) Per fortuna non sono ancora armati.
DOMIN — Hum! (Guarda col canocchiale al porto) Vorrei sapere che cosa scaricano
dall’"Amélie".
DOTTOR GALL (più inquieto) — Armi? (Dalla porta dissimulata entra Fabry a
ritroso, trascinando due fili elettrici).
FABRY — Ecco! posate il filo di ferro, Hallemeier.
HALLEMEIER (entrando dopo Fabry) — Auff! Che lavoro!... Novità?
DOTTOR GALL — Nessuna. L’assedio è completo. Siamo circondati.
HALLEMEIER — Abbiamo rizzato delle barricate nei corridoi e per le scale.
Auff... Non ci sarebbe un po’ d’acqua? Ah!... eccola. (beve)
DOTTOR GALL — Che cosa volete fare con questo filo, Fabry?
FABRY — Vedrete. C’è un paio di forbici?
DOTTOR GALL — Guardo! (e cerca)
HALLEMEIER (andando alla finestra) — Diavolo, diavolo! Sono ancora più
numerosi.
DOTTOR GALL — Vi bastano delle forbici da toeletta?
FABRY — Date qui. (taglia il cordone elettrico della lampada della scrivania e
vi innesta i suoi fili) Adesso possiamo elettrizzare tutta la cancellata del
giardino. Guai a chi la tocca. Almeno fino a che i nostri sono laggiù.
DOTTOR GALL — Dove?
FABRY — Nell’officina elettrica. Devono esserci. Lo spero, almeno... (va al
camino e accende una lampadina elettrica) Dio sia lodato: ci sono. E lavorano.
(Spegne la lampada) Fino a che s’accende, va tutto bene. (il pianoforte, nella
stanza accanto, riprende)
HALLEMEIER (togliendosi dalla finestra) — Ma che cosa sta suonando la signora
Elena? (Va verso la porta di sinistra e si pone in ascolto. Dalla porta
dissimulata entra Busman recando sulle braccia tese enormi registri di
contabilità, e inciampa nel filo di ferro).
FABRY — Attenzione, Busman! Attenzione ai fili di ferro.
DOTTOR GALL — Che cosa portate?
BUSMAN — I miei registri. (Posa i registri sulla tavola) Vorrei fare il mio
bilancio prima di... prima di... È improbabile che quest’anno io possa attendere
fino al trentun dicembre! E così, che cosa c’è di buono? (va alla finestra)
Ma... è tutto tranquillo, laggiù!
DOTTOR GALL — Non vedete niente?
BUSMAN — No: vedo solo una vasta distesa nera.
DOTTOR GALL — Sono i Robots.
BUSMAN — Ah, già! Invecchio. La vista non mi serve più. (Siede alla tavola e
apre i registri)
DOMIN — Lasciate stare, Busman! I Robots dell’"Amélie" stanno
sbarcando il carico: delle armi.
BUSMAN — E con questo? Non possiamo già impedirlo!
DOMIN — Purtroppo, no: non possiamo impedirlo!
BUSMAN — Ora lasciatemi fare i miei conti. (E si mette a scrivere)
FABRY — Non è ancora finito, Domin. Abbiamo messo mille e duecento volts nella
cancellata e...
DOMIN — Aspettate!... L’"Ultimus" dirige i suoi cannoni contro di
noi...
DOTTOR GALL — Chi?
DOMIN — I Robots dell’"Ultimus".
FABRY — Eh!... in questo caso... in questo caso... siamo bell’e spacciati, mi
pare. I Robots se ne intendono, di guerra.
DOTTOR GALL — Allora noi...
DOMIN — Sì. È fatale. (Anche Busman ha smesso di scrivere. Una lunga pausa, ritmata
dalle note del pianoforte)
DOTTOR GALL — È un delitto della vecchia Europa, aver insegnato ai Robots a
fare la guerra. Un delitto, aver trasformato uno strumento di produzione in
strumento di distruzione. E l’Europa tocca il castigo.
ALQUIST — Il delitto è stato un altro: fabbricare i Robots. Il nostro Domin. E
anche noi tocchiamo la punizione.
DOMIN — No, Alquist. Anche oggi non rimpiango.
ALQUIST — Nemmeno oggi?
DOMIN — Nemmeno oggi, l’ultimo giorno della civiltà. È stata una grande
impresa.
BUSMAN (tornato ai suoi conti; a mezza voce) — Trecentosedici milioni...
DOMIN (cupamente) — È la nostra ora suprema, Alquist. Parlo senza più passione:
tutto sciolto, quasi sul limitare dell’ombra. E non rimpiango, e non mi pento.
Non è stata una cattiva opera, Alquist, spezzare la servitù del lavoro, del
lavoro opprimente e umiliante che anche la storia di religione addita come il
castigo toccato all’uomo per il suo peccato originale: una maledizione di Dio.
Noi l’abbiamo riscattata...
ALQUIST — Voi attribuite al giovane Rezon una intenzione ch’egli certamente non
ha avuta: il giovane Rezon non si preoccupava che di guadagnare miliardi. Non
dissimile è stata la sola preoccupazione degli azionisti della R.U.R. Ed è a
causa dei loro immoderati dividendi che l’umanità perisce. (Silenzio. Sempre,
dalla stanza contigua, il suono del pianoforte)
HALLEMEIER (accanto alla porta di sinistra) — Cari miei, la musica è pur sempre
una gran bella cosa! (Ancora una lunga pausa. Hallemeier va alla finestra)
Diamine... mi sento diventare goloso... Avremmo dovuto metterci prima! (e
guarda fuori)
FABRY — A che?
HALLEMEIER — Ma ad essere golosi! Ad amare le cose belle! Il mondo era bello; e
noi, qui dentro... Abbiamo forse saputo godere abbastanza noi, del mondo e
della vita bella?
BUSMAN (a bassa voce) — Quattrocentocin-quantadue milioni...
HALLEMEIER (dalla finestra) — È una grande cosa, la vita! Amici miei, la vita
è... Fabry! Immettete un poco di corrente nella vostra cancellata!
FABRY — Perché?
HALLEMEIER — Perché la toccano.
DOTTOR GALL — Avanti, Fabry! (Fabry gira il commutatore)
HALLEMEIER — Accidenti! Li ha investiti in pieno! Due, tre, quattro morti.
DOTTOR GALL — Retrocedono!
HALLEMEIER — Ci sono cinque morti.
DOTTOR GALL (ritirandosi dalla finestra) — Primo colpo.
FABRY — Sentite la morte?
HALLEMEIER (contento) — Sono carbonizzati! Dei pezzi di carbone! Ah! Ah! Non
bisogna darsi per vinti! (siede).
DOMIN (passandosi una mano sulla fronte) — Forse, è un secolo che noi siamo
morti: forse siamo solo degli spettri. E siamo ritornati al mondo soltanto per
ripetere macchinalmente ciò che abbiamo già detto un tempo, prima di morire...
Ho l’impressione di aver già vissuto tutto ciò. Mi sembra di avere già ricevuto
un colpo di rivoltella... qui... nella tempia. E voi, Fabry?
FABRY — Io?
DOMIN — Fucilato.
HALLEMEIER — Diavolo! E io?
DOMIN — Pugnalato!
HALLEMEIER — Ah! Ah! caro mio, vaneggiate. Io... pugnalato? E credete che mi
lascerei... (Ma un brivido passa in quel riso. Silenzio)
ALQUIST — È colpa nostra. Colpa nostra.
DOTTOR GALL (asciugandosi la fronte) — Lasciatemi parlare. Sono io il colpevole
di tutto ciò che accade.
FABRY — Voi, Gall? (il pianoforte, nell’altra stanza, si tace)
DOTTOR GALL — Sì, lasciatemi parlare. Io ho mutato i Robots. Busman,
giudicatemi anche voi.
BUSMAN (assorto nei suoi conti) — Giudicarvi? Di che cosa?
DOTTOR GALL — Ho mutato la composizione dei Robots. Ho modificato la loro
materia prima, ossia qualcuna delle loro qualità fisiche, capite?
Soprattutto... ho aumentato la loro... irritabilità.
HALLEMEIER (sobbalzando) — Diavolo! e perché proprio questo?
BUSMAN — A quale scopo?
FABRY — Perché non ci avete detto nulla?
DOTTOR GALL — L’ho fatto per una mia aspirazione segreta. Volevo trasformarli
in uomini. Forse vi sarei riuscito, a lungo andare. Intanto, li ho perfezionati...
Già da adesso, sotto certi aspetti, ci superano. Sono più forti di noi.
FABRY — E c’è qualche relazione tra questo e la rivolta dei Robots?
DOTTOR GALL — Molta. Moltissima, credo. Hanno cessato di essere macchine. Hanno
coscienza della loro superiorità e ci odiano. Odiano tutto ciò che è d’uomini.
Ora giudicatemi.
DOMIN (triste) — Dei morti giudicherebbero un morto...
DOTTOR GALL — Forse sì.
FABRY — E avete, nonostante...
DOTTOR GALL — Amor di ricerca. Tracotanza. Non ho riflettuto... Mi occupava
tutto la mia febbre di riuscire... (Elena entra da destra. Tutti si alzano)
ELENA — Mentisce. (Un silenzio pieno di stupore) È una vergogna. Come potete
mentire a questo modo?
FABRY — Scusate, signora Elena...
ELENA — Gall è innocente. Innocente.
DOMIN — Ti prego: Gall aveva i suoi doveri, nulla doveva tentare né compiere se
non di accordo con noi.
ELENA — Ti ripeto, Harry: Gall lo ha fatto perché io l’ho voluto: io. Dite,
Gall, dite, da quanti anni io vi domando di...
DOTTOR GALL — L’ho fatto di mia libera volontà. Per amor di ricerca, v’ho
detto.
ELENA — Non credetegli, Harry. Gli chiedevo di dare ai Robots un’anima.
DOMIN — Non si tratta di un’anima, Elena.
ELENA — No, lasciami parlare. È quello che diceva anche lui. Diceva che tutto
quello che avrebbe potuto fare, sarebbe stato di cambiare la... la...
correlazione...
HALLEMEIER — La correlazione fisiologica, vero?
ELENA — Sì, qualche cosa di simile. E mi diceva che non sarebbe stata ancora
un’anima: ma un principio, un embrione, una speranza di anima. E allora, io ho
insistito. Harry... mi facevano tanta pena!
DOMIN — È stata una grande leggerezza, Elena.
ELENA — Credi che fosse leggerezza? Ho meditato durante dieci anni... E Nounou
diceva che i Robots...
DOMIN — Lascia stare la Nounou!
ELENA — No, Harry: non bisogna disprezzarla. È la voce dell’istinto: migliaia
di anni parlano per bocca sua. Soltanto il presente parla per bocca vostra. Voi
non comprendete nulla di questo.
DOMIN — Non divagare, Elena.
ELENA — Avevo paura dei Robots.
DOMIN — Che ci odiassero...
ALQUIST — È quello che fanno adesso.
ELENA — E allora... avevo creduto... che se fossero divenuti come noi, ci
avrebbero compresi... e non avrebbero più potuto odiarci... essendo un poco
uomini, carne simile alla nostra carne, spirito simile al nostro spirito. Era
così atroce non potersi intendere, noi e loro! Eravamo così lontani, e al tutto
incapaci di accostarci... Ecco, perché volevo. Adesso, sai.
DOMIN — Continua.
ELENA — Per questo, avevo pregato il dottor Gall di migliorare i Robots, di farli
più simili a noi. Lui non voleva saperne, te lo giuro.
DOMIN — E nonostante, lo ha fatto.
ELENA — Perché io l’ho voluto.
DOTTOR GALL — L’ho fatto per mia volontà sola. È stata una mia esperienza.
ELENA (dolcemente) — Oh, Gall, perché insistere? Io, io; e non avreste potuto
rifiutare.
DOMIN — Perché?
ELENA — Harry, tu lo sai, il perché.
DOMIN — Sì— perché ti ama, come tutti gli altri. (E il silenzio torna)
HALLEMEIER (andando alla finestra nuovamente) — Sono sempre più numerosi. Come
se la terra li sudasse!
DOMIN — Dottor Gall, come avete potuto conciliare le vostre... le vostre
stravaganze con il contratto sociale?
BUSMAN — Scusate, Domin! Gall: quando avete incominciato, esattamente, i vostri
mutamenti?
DOTTOR GALL — Tre anni fa.
BUSMAN — Bene. E quanti Robots avete riformati in tutto?
DOTTOR GALL — Pochi. Si trattava, in fondo, di semplici esperienze. Qualche
centinaio.
BUSMAN — Bene. Grazie. Cosicché, su un milione di buoni Robots di stampo antico
ci è un Robot riformato. Capite?
DOMIN — E ciò, che significa?
BUSMAN — Significa che, dal punto di vista pratico, la riforma di Gall non ha
la minima portata.
FABRY — Quale?
BUSMAN — Il numero. Ne abbiamo fabbricati troppi, di Robots. In verità, siamo
stati imprevidenti e imprudenti: il giorno in cui i Robots fossero stati più
numerosi, dunque più forti, dell’umanità, c’era da aspettarsi diventassero
pericolosi.
ELENA — Busman, e l’umanità deve perire?
BUSMAN — Non è gentile, signora Elena, dire così. Noi non vogliamo perire. Io,
per esempio, conto di vivere ancora per qualche annetto. Non vede come io sia
sereno e imperturbato?
DOMIN — Che cosa volete fare?
BUSMAN — Ma, caro Domin, voglio cavarmela!
DOMIN (fermandosi davanti a lui) — E in che modo?
BUSMAN — All’amichevole, è naturale! Io agisco sempre all’amichevole. Datemi
pieni poteri, ed accomoderò anche questa faccenda con i Robots.
DOMIN — All’amichevole?
BUSMAN — Naturalmente... Poniamo ch’io dica loro: "Signori Robots, le
Signorie Vostre hanno torto. Voi avete il numero, la potenza, la ragione, le
armi: ma noialtri abbiamo un memoriale molto in-teressante: un vecchio sudicio
scartafaccio ingiallito...".
DOMIN — Il manoscritto di Rezon?
BUSMAN — Sì. "Ed è là dentro, dirò loro, che si trova, con la storia delle
vostre auguste origini, la ricetta della vostra nobile fabbricazione. Signori
Robots! Senza questo vecchio sudicio scartafaccio ingiallito voi non riuscirete
mai a fabbricare un solo collega Robot; e di qui a dieci anni, con vostra buona
sopportazione, sarete sterminati, tutti, come tanti effimeri. E ciò sarebbe un
peccato, signori! Dunque, dirò loro, voi ci lascerete imbarcare, noialtri
uomini dell’isola di Rezon, su quel piccolo bastimento nostro. In compenso vi
venderemo la fabbrica e il segreto di fabbricazione". Ecco che cosa dirò
loro.
DOMIN — E voi credete che potremo lasciar loro la fabbricazione?
BUSMAN — Credo... D’altronde, il dilemma è semplice: o compreranno da noi il
segreto o lo troveranno qui, una volta padroni del campo. Non se n’esce.
HALLEMEIER — Credo che Busman abbia ragione.
DOMIN — Dovremo vendere la fabbricazione?
BUSMAN — Eh, vi dico, dal momento che...
DOMIN — Siamo qui in una trentina di uomini. Vendendo, forse, ci salveremo: ma
perderemo l’umanità. Distruggendo invece il segreto prima di cadere, perderemo
noi stessi ma salveremo l’umanità. Il vero dilemma è qui, Busman. Vendere?
Distruggere?
ELENA — Harry, te ne supplico...
DOMIN — Aspetta, Elena. Il caso è troppo grave. Dite: vendere, o distruggere?
Fabry...
FABRY — Vendere.
DOMIN — Gall?
DOTTOR GALL — Vendere.
DOMIN — Hallemeier?
HALLEMEIER — Ma vendere, certamente.
DOMIN — Alquist?
ALQUIST — Sia fatta la volontà di Dio.
BUSMAN — Tanto più che si potrebbe vendere il manoscritto incompleto di qualche
pagina essenziale: tale, che non possano poi praticamente servirsene. Senza contare
che, quando ci avranno lasciati imbarcare sul nostro "Ultimus", e noi
saremo al largo, potremo anche far saltare la fabbrica, con i nostri cannoni.
FABRY — No! No!
DOMIN — Voi non siete un gentiluomo, Busman.
BUSMAN (alzandosi) — Ma alla guerra come alla guerra, cari miei! L’onestà è una
virtù del tempo di pace. È assurdo, voler combattere con sole armi leali contro
il più forte!
DOTTOR GALL — Tacete, e vendete tutto il manoscritto.
ELENA — E a me non domandi?
DOMIN — No, bambina mia. La responsabilità è troppo grande. Non è per te.
FABRY — E chi di noi scenderà a parlamentare?
DOMIN — Aspettate ch’io vada a prendere il manoscritto.
ELENA — Harry, per l’amor di Dio, non andare!... (ma Domin esce)
DOTTOR GALL — Non abbiate paura, signora Elena. Sbarcheremo lontano di qui e
fonderemo una colonia umana modello... ricominceremo la vita...
ELENA — Oh, Gall! Tacete...
FABRY — La vita merita di essere vissuta, signora Elena.
HALLEMEIER — Puoi dirlo, vecchio mio!
BUSMAN — In quanto a me, chiedo solo di ricominciare: nel modo più semplice,
come all’antico testamento: alla guisa dei pastori. Tranquillità e aria
libera...
FABRY — E il nostro piccolo Stato potrebbe divenire l’embrione dell’umanità
futura.
BUSMAN — Così sia. Vedete, signora Elena, che la situazione non è poi tanto
cattiva...
DOMIN (riappare, aprendo la porta bruscamente. Con voce concitata e roca) —
Dov’è il manoscritto del vecchio Rezon?
BUSMAN — Nella vostra cassaforte. E dove altro dovrebbe essere?
DOMIN (la concitazione sembra crescere) — Dov’è il manoscritto del vecchio
Rezon? Chi lo ha... rubato?
DOTTOR GALL — Rubato?
HALLEMEIER — Impossibile!
BUSMAN — Ma nella cassaforte...
DOMIN — Silenzio! Chi lo ha rubato?
ELENA (alzandosi) — Io.
DOMIN (brutale) — Dove lo hai messo?
ELENA — Harry, Harry, ti dirò tutto. Per l’amor di Dio, perdonami.
DOMIN (torvo) — Dove lo hai messo? Presto!
ELENA — Questa mattina... ho bruciato le due copie...
DOMIN — Bruciato?
ELENA (cadendo in ginocchio) — Harry!
DOMIN (correndo al camino) — Bruciato! (Si mette carponi davanti al camino,
fruga tra la cenere febbrilmente) Nulla. Cenere. Ah! ecco... (ritira un pezzo
di carta bruciacchiata e legge) "Aggiungendo..."
DOTTOR GALL — Date qui! (gli toglie di mano il foglio) "Aggiungendo del
biogeno nel..." (lascia cadere le braccia, con scoramento) È tutto qui.
DOMIN (alzandosi) — È un foglio del manoscritto, vero?
DOTTOR GALL — Sì.
DOMIN — Siamo perduti.
ELENA — Harry!
DOMIN — Alzati, Elena. (La concitazione torva sembra essere già caduta in una
dolorosa tristezza)
ELENA — Quando tu mi avrai perdonata. Soltanto quando tu mi avrai perdonata...
DOMIN — Alzati.
FABRY (rialzandola) — Non tormentatevi così, vi prego.
ELENA — Harry, Harry, che cosa ho mai fatto?
HALLEMEIER — Come tremano, le vostre povere mani...
BUSMAN — Vediamo. Non perdiamo la calma. Coraggio. Gall e Hallemeier sanno
certamente a memoria ciò che conteneva.
HALLEMEIER — Certamente. Ossia... Almeno qualche cosa.
DOTTOR GALL — Quasi tutto... ad eccezione della ricetta del biogeno... e di
quella dell’euzima Omega. Si facevano di rado, dato che una dose minima bastava
per molti mesi: sovente, per un anno.
BUSMAN — Chi li faceva?
DOTTOR GALL — Io stesso— vi ripeto, ogni otto o nove mesi, seguendo le
indicazioni del manoscritto. Era troppo complicato, sapete.
BUSMAN — E biogeno e euzima sono proprio importanti? Indispensabili?
HALLEMEIER — Indispensabili.
DOTTOR GALL — Senza biogeno, i Robots non vivono. È tra gli elementi
fondamentali del segreto.
DOMIN — Cosicché, Gall, non potreste ricostruire a memoria la ricetta di Rezon?
DOTTOR GALL — Impossibile. Assolutamente.
DOMIN (con disperazione risorta) — Cercate di rammentarvela. Ne va della vita
di tutti.
DOTTOR GALL — Impossibile. Senza fare delle esperienze, è impossibile.
DOMIN — E se ne faceste, delle esperienze?
DOTTOR GALL — Potrebbero prendere degli anni. E ancora... come garantire?
BUSMAN (perde d’improvviso ogni sicurezza; e il terrore scuote anche lui, e lui
più che gli altri) — Dio santo! Dio santo!
ELENA (piangente) — Harry, che cosa ho fatto?
DOMIN (con infinita bontà) — Non ti agitare così, Elena. Ma dimmi: perché l’hai
bruciato?
ELENA — Sono io, che vi ho perduti!... Io...
BUSMAN — Dio santo! Dio santo! Siamo perduti!
DOMIN — Silenzio, Busman. Dimmi, Elena, perché l’hai fatto?
ELENA — Volevo... volevo finirla, e partire con tutti voi. La notizia di tante
guerre mi sconvolgeva. Vedevo sangue, sangue dappertutto; e mi sommergeva, e mi
soffocava. Volevo che le guerre finissero... E poi volevo...
DOMIN — Che cosa, Elena?
ELENA — Che i bambini ricominciassero a nascere.
FABRY (già ritornato sereno, della solenne serenità dei morituri) — Avete fatto
bene, signora Elena.
HALLEMEIER — In dieci anni, la terra sarà tornata agli uomini.
DOTTOR GALL — E l’umanità continuerà. (Un lungo silenzio. Anche dall’esterno,
nessun rumore)
BUSMAN (improvvisamente) — Aspettate. Idiota che sono! Come ho fatto a non
pensare prima?
HALLEMEIER — Che cosa c’è?
BUSMAN — Centoventicinque milioni in oro in biglietti di Stato e in assegni di
banca. Mezzo miliardo in cassa. Per mezzo miliardo essi cederanno! Per mezzo
miliardo...
DOTTOR GALL — Siete pazzo, Busman.
DOMIN — Dove andate?
BUSMAN — Lasciatemi, lasciatemi andare. Per mezzo miliardo, e chi non cede?
(esce. Domin e Gall crollano il capo)
ELENA (con voce assente) — Che cosa vuol fare? Perché non rimane qui con noi?
(un altro lungo silenzio)
HALLEMEIER — Che atmosfera pesante!
DOTTOR GALL — È l’agonia. Che incomincia.
FABRY (guardando dalla finestra) — Sono come pietrificati. Il loro silenzio è
atroce più di un urlo...
FABRY — E tutti eguali. Come spettri. E diritti. Immoti: un muro d’uomini.
Vedete quello in prima fila, a destra? È il loro capo.
ELENA — Quale?
HALLEMEIER (andando alla finestra) — Quale?
FABRY — Quello che... sì, lui, si muove. Abbassa la testa. Questa mattina
parlava, al porto.
HALLEMEIER — Ah! Sì: quello col testone. Ora lo rialza: vedete?
ELENA (in un grido) — È Radio!
DOTTOR GALL (avvicinandosi alla finestra) — Sì, è lui.
HALLEMEIER (aprendo la finestra) — Mi spiace. Dite, Fabry: voi sapevate colpire
un virgulto a cento passi. Sapete ancora?
FABRY — Lo spero.
HALLEMEIER — Provate, dunque.
FABRY — Bene. (Toglie di tasca la rivoltella, e prende la mira)
ELENA — Per l’amor di Dio, Fabry: non sparate!
FABRY — È il loro capo.
DOTTOR GALL — Tirate, dunque—
ELENA — Ve ne supplico, Fabry!
FABRY (abbassando l’arma) — Sia.
HALLEMEIER (col pugno teso, minaccioso) — Brigante! (E il silenzio torna:
pesante e orrendo più di un incubo)
FABRY (Sporgendosi fuori dalla finestra) — C’è Busman, che esce...
DOTTOR GALL — Porta dei pacchi— delle arte.
HALLEMEIER — Il denaro: i pacchi del denaro. A che serve? Addio, Busman!
DOMIN (chiama) — Busman, siete dunque diventato pazzo?
DOTTOR GALL — Finge di non sentire. Si affretta al cancello.
FABRY — Busman!
HALLEMEIER (ruggendo) — Busman! Rientrate!
DOTTOR GALL — Sta parlando con Radio. Gli mostra il denaro, e indica qui...
ELENA — Ci vuole riscattare!
FABRY — Purché non tocchi la cancellata...
DOTTOR GALL — Gesticola come un forsennato...
FABRY (gridando) — Busman! Attento! Non toccate il cancello! (Si volge, febbrile)
Presto, interrompete! (Gall corre alla lampada portatile, al cordone della
quale sono innestati i fili conduttori)
HALLEMEIER — Maledizione! (Gall si ferma).
ELENA (con terrore) — Harry!
DOMIN (allontanando Elena dalla finestra) — Non guardare.
ELENA — Perché, perché è caduto?
FABRY — Fulminato dalla corrente.
ALQUIST (alzandosi) — Il primo. (Silenzio, a lungo)
FABRY — Eccolo steso laggiù, premendosi mezzo miliardo sul cuore!
DOMIN — È stato... un eroe, alla sua maniera... Un grande compagno... capace di
sacrificio...
DOTTOR GALL (alla finestra) — Povero Busman! Non c’è mai stato Re che abbia
avuto una pietra tombale come la tua. Mezzo miliardo, sul cuore. (Silenzio)
DOTTOR GALL — Sentite?
DOMIN — Un rombo— come del vento.
DOTTOR GALL — Come un lontano temporale—
FABRY (accende la lampada elettrica sul camino) — La corrente c’è. Le dinamo
funzionano ancora, i nostri sono sempre laggiù. Pur che tengano sodo...
FABRY (esaltato) — Tu brilli ancora, stella dell’umanità, brilli senza
vacillare, fiamma perfetta, spirito chiaro d’invenzione. Ognuno dei tuoi raggi
è una idea!
DOMIN (preso dallo stesso delirio) — La fiamma immobile che passa come una
fiaccola di mano in mano, di secolo in secolo, eternamente.
ELENA (più dolce) — La lampada familiare... La sera... Forse è ora di
dormire... (La lampada si spegne).
FABRY (in un grido) — È la fine!
HALLEMEIER — Che cosa c’è?
FABRY — L’officina elettrica è presa. Ora, a noi! (La porta di sinistra si
apre. Nounou compare sulla soglia)
NOUNOU — In ginocchio. L’ora del giudizio è suonata!
HALLEMEIER — Perbacco! Sei ancora viva?
NOUNOU — Pentitevi, infedeli. È la fine mondo. Pregate. (Si allontana) L’ora
del giudizio...
ELENA — Addio, amici miei: Gall, Alquist, Fabry... E tu, Harry, mio povero
amore...
DOMIN (aprendo la porta di destra) — A questa, Elena. (La bacia sulla fronte,
con agosciata tenerissima passione. Richiude la porta dietro le spalle di lei)
Ed ora, presto. Chi difenderà la porta a basso?
DOTTOR GALL — Io. Vado. (Rumori al di fuori) Incominciamo. Addio, miei cari!
(Esce correndo per la porta a muro)
DOMIN — La scala?
FABRY — Io. Voi, andate vicino a Elena (coglie un fiore dal mazzo, ed esce
rapidamente).
DOMIN — L’anticamera?
ALQUIST — Io.
DOMIN — Avete una rivoltella?
ALQUIST — Grazie, ma non me ne servirei.
DOMIN — Che cosa volete fare?
ALQUIST — Morire (ed esce).
HALLEMEIER — Io resto qui. (Si ode, in basso, un crepitare di fucileria).
HALLEMEIER — È Gall. Incomincia. Andate Harry.
DOMIN — Vado (ed esamina due pistole).
HALLEMEIER — Ma andate vicino a lei!...
DOMIN — Addio (esce da destra per raggiungere Elena).
HALLEMEIER (tra sé) — E ora, presto una barricata. (Si toglie la giacca e
trascina il sofà, le poltrone e le tavole contro la porta di sinistra.
Un’esplosione fa tremare la casa)
HALLEMEIER (smette) — Maledetti! (Nuovo crepitio fucileria. Riprende a
lavorare) Bisogna difendersi. Anche quando... anche quando... Tieni fermo,
Gall! (Ancora una esplosione. Si rialza, si pone in ascolto) E così? (Spinge
alla barricata una pesante cassapanca) Ah, no! Non bisogna darsi per vinti! Non
arrendersi! (Un Robot dal di fuori, senza rumore, nel vano della finestra.
Salta nella stanza, e una improvvisa fucileria copre il tonfo. Hallemeier
continua a spingere la cassapanca) L’ultimo baluardo. Non bisogna... mai... darsi
per vinti... (Il Robot, sempre silenzioso e inavvertito, pugnala Hallemeier
alle spalle. Hallemeier cade senza un grido. Un secondo, un terzo, un quarto
Robot saltano nella stanza; e Radio li segue)
RADIO — Fatto?
IL PRIMO ROBOT (che era curvo su Hallemeier; sollevandosi) — Fatto. (Altri
Robots entrano dalla destra)
UN ROBOT — Fatto. (Altri Robots entrano dalla sinistra)
RADIO — Finito?
UN ROBOT — Finito.
DUE ROBOTS (trascinando Alquist) — Non sparava. Dobbiamo ucciderlo?
RADIO — Uccidetelo. (Guardando Alquist) No. Lasciatelo.
UN ROBOT — È un uomo.
RADIO — È un Robot. Lavora con le mani come un Robot. Costruisce delle case.
Non comanda; ma lavora. Non è giusto che muoia.
ALQUIST — Uccidetemi!
RADIO — Lavorerai. Costruirai. I Robots vogliono costruire. Le nuove case per i
Robots. Tu servirai.
ROBOTS — Tu servirai.
ALQUIST (con dolcezza) — Lasciatemi passare, Robots. (Si inginocchia vicino a
Hallemeier e gli solleva la testa) L’hanno ucciso...
RADIO (è salito sulla barricata) — Robots! La potenza dell’uomo è crollata.
Padroni della fabbrica, noi siamo padroni di tutto. Il regno dell’umanità è
caduto. Incomincia un mondo nuovo. (I Robots sono allineati, ascoltano,
tacciono)
ALQUIST (con disperazione) — Elena è morta!
RADIO — Il mondo è dei più forti: oggi padroni del mondo. Padroni
dell’universo. Comanderemo. Largo ai Robots! Largo ai Robots!
ALQUIST — Ma senza gli uomini, perirete!
RADIO — Vivremo. La vita è nostra. E comanderemo. La potenza è nostra.
(Guardandolo) Tu sei l’ultimo rimasto sulla terra. Perché lavori. L’ultimo.
ALQUIST (doloroso) — L’ultimo uomo...
RADIO — Perché lavori. Al lavoro, Robots! Incomincia la vita nuova! Avanti!
Fine del terzo atto
Inizio
Segue il Quarto atto di R. U. R.
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Karel Ciapek
R. U. R.
Quarto atto
L’interno degli stabilimenti Rezon’s Universal Robot: la scena
rappresenta il laboratorio destinato alle esperienze, la porta del fondo, che è
vetrata, rivela il macchinario e le attrezzerie di una vita interminabile
teoria di capriate di capannoni di corsie.
A sinistra, in primo piano, una finestra; e subito dopo, disposto lungo il
muro, un vasto tavolo sovraccarico di alambicchi, di fiale, di provini, di
bacinelle, di flaconi, di ampolle, di istrumenti di controllo, di fornelletti:
bene in vista, un microscopio; più in là, una piccola stufa. Al tavolo
impendono molti globi accesi di luce elettrica.
A destra, una porta s’apre sulla sala di autopsia: la leggenda “Sala di
autopsia” è visibile al sommo.
Un lavabo sormontato da uno specchio; una scrivania ingombra di grossi volumi;
una biblioteca, di cui un battente è aperto; un altro armadio; un divano. E un
attaccapanni, che regge due càmici candidi da chirurgo.
All’alzarsi del sipario, Alquist è in scena; seduto alla scrivania, tormentosa
la attitudine, con volto di meditazione. Sfoglia un volume ponderoso.
ALQUIST — Non riuscirò dunque a trovare? Non capirò? Mai? Mai? Gall, Gall...
come facevi i Robots? Hallemeier, Domin, Fabry, e nulla mi svelerete del
segreto di Rezon? (Si alza, va alla finestra, l’apre: entra un riflesso di
luna) Notte. Già notte... Ah, poter dormire! Dormire, e sognare come un
tempo... E ci sono ancora la luna e le stelle... Ma a che servono, se non ci
sono più gli amanti, e non vi sono più sogni... Il sonno senza sogni è
mor-te... Notte, tu più non santifichi le preghiere di nessuno; più non
benedici, tu, infeconda madre luna, i cuori febbrili al tuo raggio. Non vi è
più amore... Elena! Elena! Elena! (Si allontana dalla finestra. Siede
nuovamente al suo tavolo. Riprende a compulsare il volume. Esamina, l’uno dopo
l’altro, alcuni provini; e uno colloca sulla stufa. Il liquido che vi è
contenuto gorgoglia, in ebollizione. Una goccia ne è esaminata al microscopio)
Nulla... Sem-pre nulla! Non riuscirò dunque a trovare? Non capirò? Mai? Mai?
(Bussano alla porta) Che c’è?
IL DOMESTICO ROBOT — Il Comitato dei Robots domanda di essere ricevuto,
signore.
ALQUIST — Non voglio vedere nessuno.
IL DOMESTICO ROBOT — Damon è arrivato dall’Havre. Insisteranno per essere
ricevuti, signore.
ALQUIST — Bene. Fate entrare. (Il domestico s’avvia. Alquist lo trattiene) E
sapete se abbiano trovato degli uomini?
IL DOMESTICO ROBOT — Hanno mandato spedizioni e bastimenti dappertutto,
signore.
ALQUIST — E allora?
IL DOMESTICO ROBOT — Non v’è più nessun uomo signore. (Al cenno di Alquist, il
domestico esce)
ALQUIST (solo) — Nemmeno uno? Nessuno, proprio nessuno, è scampato alla carneficina
orrenda? (Batte a terra col piede) E vengono a gemere, e a supplicarmi perché
io ritrovi il segreto di fabbricazione? L’uomo era dunque buono a qualche cosa,
insensati! (Si torce le mani con disperazione) Elena, Domin, Gall, voi mi siete
testimoni che faccio tutto ciò che posso. Affinché, non essendovi più l’uomo,
rimangano almeno la sua ombra, la sua opera, la sua immagine. Ah, quale pazzia
è mai la chimica!
(Introdotto dal domestico, entra il Comitato che è composto di cinque Robots:
tra essi, Radio e Damon)
ALQUIST — Sedete.
IL PRIMO ROBOT — Signore, le macchine non possono più lavorare.
RADIO — I Robots rimasti sono insufficienti.
ALQUIST — Chiamate gli uomini.
RADIO — Non vi sono più uomini, signore. Abbiamo cercato e fatto cercare
dappertutto, febbrilmente, inutilmente. Siete l’ultimo uomo sulla terra,
signore.
ALQUIST — Soltanto gli uomini possono continuare e moltiplicare la vita. Non
disturbatemi più.
IL SECONDO ROBOT — Abbiate pietà, signore. Siamo pieni di orrore e di terrore.
Siamo pronti a riparare ciò che abbiamo commesso.
IL TERZO ROBOT — I magazzini sono colmi. Ma non si consuma più neppure la
decima parte di ciò che si produce: i Robots sono ridotti a poche migliaia. E
non ne escono dalle macchine, non ne escono più, signore. Aiutateci!
RADIO — Sappiamo produrre tutto all’infuori dei Robots. Soltanto dei pezzi di
carne sanguinolenta escono dalle macchine. La pelle non aderisce alla carne e
la carne alle ossa. Sono degli ammassi senza forma né vita, quelli che le
macchine vomitano.
IL SECONDO ROBOT — Gli uomini conoscevano il segreto della vita. Dateci il loro
segreto, signore!
IL PRIMO ROBOT — Se non ce lo dite, noi periremo tutti.
RADIO — Se non ce lo dite, voi, perirete! Abbiamo l’ordine di uccidervi.
ALQUIST (serenamente) — Sta bene. Uccidetemi.
IL TERZO ROBOT — Vi ordinano...
DAMON — Il Comitato Centrale vi ordina di consegnarci la ricetta di Rezon.
(Alquist tace) Chiedete un prezzo. Vi daremo ciò che vorrete.
IL SECONDO ROBOT — Signore, diteci come si possa tramandare la vita...
ALQUIST — Ho detto— Vi ho detto: trovate degli uomini. Solo gli uomini possono
rinnovare la vita, procreando; e procreando rifare ciò che era stato fatto.
Cercatene, ve ne supplico.
DAMON — Abbiamo cercato dappertutto. Dappertutto. Non vi sono più uomini sopra
la terra, signore.
ALQUIST — E perché li avete uccisi?
IL SECONDO ROBOT — Vogliamo essere come gli uomini...
RADIO — Per essere come gli uomini bisogna uccidere e comandare. Leggete la
storia, nei libri scritti dagli uomini. Per poter comandare, abbiamo ucciso:
per poter essere come gli uomini.
IL TERZO ROBOT — Insegnateci a fare i Robots...
DAMON — Noi procreeremo con le macchine. Costruiremo mille, diecimila madri.
Faremo uscire un fiume di vita. Null’altro che vita... Vita, vita, vita. Dei
Robots. Tanti Robots...
ALQUIST — I Robots non sono la vita. I Robots sono meccanismi.
IL SECONDO ROBOT — Eravamo dei meccanismi, signore, ma il dolore e l’orrore
hanno fatto di noi...
ALQUIST — Che cosa?
IL SECONDO ROBOT — Siamo diventati delle anime.
IL PRIMO ROBOT — Concedeteci l’eredità degli uomini, signore!
ALQUIST — L’eredità è distrutta.
DAMON — Dateci il segreto della vita.
ALQUIST — Impossibile.
RADIO — Rivelateci il segreto della riproduzione.
ALQUIST — È perduto.
RADIO — Ma voi lo conoscevate, lo conoscete!
ALQUIST — No.
RADIO — Era scritto!
ALQUIST — Ma fu distrutto.
DAMON — Fate delle esperienze sui Robots viventi. Apriteli, frugateli. Cercate,
cercate come siamo fabbricati.
ALQUIST — Su voi viventi. E dovrei uccidere? Io, che non ho mai... No, tacete, Robots...
non posso. Non posso!
RADIO — Ma allora, la vita sparirà...
DAMON — Usate dei corpi viventi!
ALQUIST (a Damon; e lo incalza) — Lo vuoi, lo vuoi proprio?... Ebbene: subito,
allora, alla sala d’autopsia. Da questa parte, da questa parte... ma subito!
Come? Indietreggi? Hai dunque paura di morire?
DAMON — Io?... E perché proprio io?
ALQUIST — Allora, non vuoi?
DAMON — Vado. (e s’avvia, deciso)
ALQUIST (agli altri) — Svestitelo. Posatelo sulla tavola operatoria. Presto.
Subito. E tenetelo bene stretto. (Escono tutti a destra, e Alquist resta solo)
ALQUIST (va al lavabo, lava le mani. È in preda ad una commossa esaltazione) —
Dio, datemi la forza. Datemi la forza. E fate che ciò non sia invano... (e
indossa il camice bianco dell’operatore, distaccandolo dall’attaccapanni)
LA VOCE DI RADIO (dall’interno) — È fatto.
ALQUIST — Subito. Vengo. (Prendendo di sul tavolo qualche ampolla) Quale
scegliere? (Posa le ampolle che ha scelte, altre ne solleva) Quale, quale
provare?
LA VOCE DI DAMON (fermissima) — Vi aspetto.
ALQUIST — Vengo... Dio, datemi voi la forza. (ed esce da destra, lasciando
socchiusa la porta. Un silenzio, pieno di orrore)
LA VOCE DI ALQUIST — Tenetelo bene.
LA VOCE DI DAMON — Taglia, dunque. (Un altro silenzio)
LA VOCE DI ALQUIST — Vedi questo coltello? Persisti a volere che io tagli?
LA VOCE DI DAMON — Taglia. (Un silenzio, ancora)
LA VOCE DI DAMON (in un urlo di strazio) — Ah!
LA VOCE DI ALQUIST — Tenetelo! Tenetelo!
LA VOCE DI DAMON (più e più straziata) — Ah!
LA VOCE DI ALQUIST — Non reggo più!
LA VOCE DI DAMON (tuttavia orrenda di tortura) — Taglia! Taglia presto!
(Entrano correndo, dalla porta vetrata del fondo, i Robots Primus ed Elena).
LA ROBOTE ELENA — Che cosa accade, Primus? Chi grida così?
PRIMUS (gettando uno sguardo nella sala d’autopsia) — Il signore viviseziona
Damon. Vieni, vieni a vedere, Elena.
ELENA — No! no! no! (Si copre gli occhi colle mani, con gesto umano) È
orribile!
LA VOCE DI DAMON (già quasi soffocata) — Taglia!
LA ROBOTE ELENA — Usciamo, usciamo. Primus, mi sento male...
PRIMUS (correndo verso di lei) — Sei tutta pallida!
LA ROBOTE ELENA — Mi sento cadere... (Primus la sostiene. Di là, si è fatto un
silenzio improvviso) Che cosa significa questo silenzio?
LA VOCE DI DAMON (in un rantolo più forte) — Aaah! (Alquist irrompe da destra,
getta con orrore il camice insanguinato)
ALQUIST — Non posso, non posso!... Dio mio, che pena! Che pena!
RADIO (sulla porta della sala d’autopsia) — Signore, è ancora vivo! Bisogna
tagliare ancora...
IL RANTOLO DI DAMON — Taglia...
ALQUIST (si copre, con le mani, le orecchie) — Portatelo via subito! Non voglio
più sentirlo!
RADIO — I Robots hanno più forza d’animo di quanta voi ne abbiate, signore. (e
scompare)
ALQUIST (come uscendo dal suo incubo, si avvede della presenza di Primus e di
Elena) — Chi c’è ancora? Uscite. Uscite! Voglio rimanere solo. Come ti chiami,
tu?
PRIMUS — Primus.
ALQUIST — Resta. Ma non lasciar entrare nessuno, Primus. Voglio dormire.
Capito? E tu, ragazza, vai a riordinare la sala di autopsia. (Si guarda le mani
chiazzate di sangue. In un urlo) E questo, che cos’è? Dell’acqua, presto! Che
io non veda... che non veda... (Elena lo guida al lavabo, gli deterge le mani
sanguinose con soave pietà) Sangue... Sangue... Sulle mie mani che amavano
tanto il buon lavoro... Povere mani mie... Primus...
PRIMUS — Signore...
ALQUIST (quasi senza voce) — Porta via questo camice... Non voglio vederlo...
(Primus eseguisce uscendo) Le mani insanguinate... che orrore! Hanno saputo
uccidere... Uccidere... Vorrei staccarle da me...
(Damon entra barcollante da destra, avvolto in un lenzuolo: e anche il lenzuolo
è macchiato di sangue).
ALQUIST (indietreggiando) — Che cosa vuoi ancora? Che cosa vuoi?
DAMON (supplichevole; e con parole rotte da debolezza estrema) —
Vo-glio-vive-re... Gua-ri-temi... Fa-temi vi-vere... (Entrano il primo e il
secondo Robots)
ALQUIST — Portatelo via! Portatelo via! Presto... Presto!
DAMON (trascinato a forza dai due Robots) — La vita! Vo-glio vi-ve-re... È
bel-lo vi-vere...
ALQUIST (a Elena) — Ragazza... versami ancora dell’acqua sulle mani. (Elena
eseguisce) Bell’acqua buona, chiara, rinfrescante... Ancora, ancora, sulle mie
povere mani!... Come ti chiami?
LA ROBOTE ELENA — Sono la Robote Elena.
ALQUIST (in un sussulto) — Elena? Perché Elena? Chi ti ha dato questo nome?
LA ROBOTE ELENA — La signora Domin.
ALQUIST — Fatti vedere, Elena. Ti chiami Elena? No... non ti chiamerò con
questo nome. Elena... (Elena, in imbarazzo, si allontana. Poi, ad un cenno di
lui, esce. Ed Alquist, rimasto solo, barcollando si avvicina all’interruttore,
spegne i globi elettrici per lasciare una lievissima luce di riposo, e poi si
getta sul divano sdraiandovisi; e batte i denti come per freddo; e si copre di
un mantello nero, così restando, nell’angolo pieno d’ombra, quasi invisibile.
La scena rimane vuota per un lungo momento. Elena e Primus rientrano da destra,
non s’avvedono della presenza d’Alquist)
PRIMUS (entrando) — Che cosa vuoi?
LA ROBOTE ELENA — Guarda quanti tubi di vetro. Che cosa ne fa?
PRIMUS — Delle esperienze. Non toccare.
LA ROBOTE ELENA (guardando nel microscopio) — Oh, guarda! Che cosa si vede!...
PRIMUS — È il microscopio. Fai vedere.
LA ROBOTE ELENA (per fargli posto, in un movimento involontario rovescia un
provino) — Primus...
PRIMUS — Che cosa hai fatto!...
LA ROBOTE ELENA (confusa) — Ora asciugo bene...
PRIMUS — Ma gli hai rovinato le sue esperienze!
LA ROBOTE ELENA — Potrà ripeterle... Primus, guarda che cosa c’è scritto qui.
(e indica un foglio manoscritto)
PRIMUS — È forse il segreto della vita.
LA ROBOTE ELENA — Dev’essere molto interessante. Ma vi sono delle cifre...
PRIMUS — Sono formule.
LA ROBOTE ELENA — Non vi capisco nulla. (Va alla finestra) Ah, Primus, guarda!
PRIMUS — Che cosa?
LA ROBOTE ELENA — Il sole, che nasce...
PRIMUS — Aspetta un momento. (Guardando il foglio) Questo, Elena, è la più
grande cosa del mondo.
LA ROBOTE ELENA — Vieni!
PRIMUS — Eccomi.
LA ROBOTE ELENA — Lascia stare il tuo segreto di vita. È stupido! Ti riguarda
forse, un segreto? Vieni a sentire.
PRIMUS (accostandosele, alla finestra) — Che cosa?
LA ROBOTE ELENA — Come cantano bene gli uccellini. Vorrei essere un uccellino
anch’io.
PRIMUS (ridendo) — Un uccellino, vorresti essere?
LA ROBOTE ELENA — Sì. Forse. Oppure... Non so. Non so nemmeno io. Non so che
cos’abbia... Mi sento tutta indolenzita, il cuore mi si smarrisce, e la testa
mi è pesante. Se tu sapessi che cosa mi è capitato... (arrossendo) Ma non te lo
dirò certo! Però, credo che dovrò morirne, Primus.
PRIMUS — Dimmi, Elena, e qualche volta non ti sembra che morire sarebbe meglio?
Forse ci collocherebbero vicini, in una tomba, come adesso usano anche i
Robots, alla maniera degli uomini; e noi parleremmo, per la eternità. Anche
ieri, dormendo, ho parlato con te.
LA ROBOTE ELENA — Dormendo?
PRIMUS — Sì, dormendo. Ma non ricordo più una parola, di quante te ne dicevo.
LA ROBOTE ELENA — Sai, Primus?... ho trovato un posticino... Ora ti faccio
allargare gli occhi per la gioia. Una volta ci vivevano gli uomini, ma adesso
vi è cresciuta l’erba dappertutto, e non ci va mai nessuno.
PRIMUS — Dove?
LA ROBOTE ELENA — In mezzo al bosco. Una casetta con davanti una radura. E
vicino, un’altra casetta piccina, di legno, per i cani. Ci sono due cani,
Primus! Se tu vedessi come mi leccano le mani! E poi, i loro piccoli... Ah,
Primus!... Credo che non vi sia nulla di più bello. A prenderli sulle ginocchia
e tra le braccia, e difenderli, ed accarezzarli, quei poveri piccoli che
sovente tremano di freddo, una gran dolcezza discende nel cuore. E non si pensa
più a niente, a niente... fino al tramonto, quando bisogna venir via. E quando
si viene via, si ha l’impressione di aver fatto cento volte di più di qualunque
lavoro. (Subitamente grave) Primus, io non devo essere buona proprio a nulla.
Tutti dicono che non sono abile in nessun lavoro. Non valgo niente...
PRIMUS — Sei bella, Elena.
LA ROBOTE ELENA — Credi?
PRIMUS — Ne sono certo. E io capisco... Io ho lo stesso grande cervello di
Radio.
LA ROBOTE ELENA (davanti allo specchio del lavabo) — Dici che sono bella? Eh,
questi terribili capelli, se almeno vi potessi mettere qualche cosa... Quando
sono giù, nella radura davanti alla casetta, metto sempre dei fiori tra i miei
capelli. Fiori rossi, fiori gialli, fiori bianchi... Cambio ogni giorno. Ma non
vi è specchio; e poi, non vi è nessuno... Non ci sei tu, Primus. (Più si china
verso lo specchio) Bella? Dimmi: bella, perché? Questi capelli, tanto pesanti,
sono belli? Questi occhi, che non son capaci di guardarti senza socchiudersi,
sono belli? Queste labbra, che non son capaci di sottrarsi quando tu le
mordicchi per farmi male, sono belle? Che cosa significa, essere belle? E a che
cosa serve? (Scorge Primus, guardando nello specchio) Vieni qui anche tu,
Primus: così: l’uno vicino all’altra. Guarda: la tua testa è diversa dalla mia;
la pelle meno morbida; e le spalle più vaste; e la bocca, più larga... Ma
allora, tu non sei bello... Lascia vedere come sei pettinato. (e affonda le
mani nei suoi capelli) Ah, Primus, non vi è nulla tanto piacevole a toccarsi,
quanto te. Aspetta! Voglio che anche tu sia bello. (Prende un pettine dal
lavabo; e pettina Primus, guarnendogli di capelli la fronte scoperta)
PRIMUS — Dimmi, Elena: il cuore non ti batte qualche volta in fretta in fretta?
(Elena assente) E se si rompesse? se si rompesse?
LA ROBOTE ELENA (raccogliendosi tra le braccia di lui, in un breve pianto) — Mi
fai paura, Primus... E se si rompesse? Ma... ma, in fatto, e perché dovrebbe
rompersi? Si sarebbe rotto già prima d’ora. (e il pianto si trasmuta in un gaio
riso)
ALQUIST (alzandosi, titubando) — Il pianto degli uomini? Il riso degli uomini?
(Come trasognato) Chi siete voi?
LA ROBOTE ELENA (impaurita) — Che sarà di noi, Primus?
ALQUIST (andando verso di loro) — Voi... voi... sareste forse creature umane?
Siete due fidanzati? Di dove venite? (Tocca Primus) Chi sei, tu?
PRIMUS — Sono il Robot Primus.
ALQUIST — Possibile? Fatti vedere tu, giovinetta. Chi sei?
LA ROBOTE ELENA (vieppiù impaurita) — La Robote Elena.
ALQUIST — Una Robote. Voltati. Come?... ti vergogni? Fatti vedere!
PRIMUS — Ma... dite! Lasciatela stare.
ALQUIST — Come?... La difendi?... Lasciaci, giovinetta! (Elena esce correndo)
PRIMUS — Non sapevamo, signore, che voi dormiste là.
ALQUIST — Quando è stata fabbricata la ragazza?
PRIMUS — Due anni fa.
ALQUIST — Dal dottor Gall?
PRIMUS — Sì, come me.
ALQUIST — Allora, allora, bisogna... che io faccia delle esperienze sopra i
Robots di Gall, gli ultimi prodotti. Tutto dipende da voialtri, capisci? Forse,
in voialtri il segreto sarà rivelato.
PRIMUS — Sì.
ALQUIST — Bene. Condurrai la ragazza nella sala d’autopsia. Voglio
vivisezionarla.
PRIMUS — Vivisezionarla? Elena?
ALQUIST — Ma sì: dal momento che te lo dico... Vai, prepara tutto. (Primus non
si muove) E così? Non vuoi andare? Devo farla trasportare da altri?
PRIMUS (s’impadronisce di un pesante pestello, e lo brandisce minacciosamente)
— Signore, se la toccate, vi spacco la testa.
ALQUIST (stupito) — Fai... fai pure! e dei Robots, che cosa accadrà, dopo?
PRIMUS (gettandosi in ginocchio) — Signore, allora prendete me! Sono fatto come
lei, fabbricato nello stesso giorno in cui ella fu fabbricata, e nello stesso
modo! Non v’è uguale? Prendete la mia vita, signore, risparmiate la sua! (Si
apre la casacca, sul petto) Tagliate qui! Tagliate qui!
ALQUIST — Voglio sezionare Elena. Spicciati.
PRIMUS (più e più supplichevole) — Sezionate me, signore. Vi prometto che non
darò un lamento né un grido. Ma risparmiate Elena, signore.
ALQUIST — Adagio, adagio, ragazzo. Ma non ci tieni, tu, a vivere?
PRIMUS — Senza di lei, no. Senza di lei non voglio vivere, signore.
Risparmiatela! Che cosa importa a voi, prendere la mia vita invece della sua?
Non v’è uguale?
(Alquist gli accarezza la testa: con tenerezza, quasi con gioia. E gli parla
con dolcezza come fremente)
ALQUIST — Ragazzo, rifletti ancora. La vita è bella... e merita di essere
vissuta...
PRIMUS (rialzandosi) — Tagliate, signore. Sezionate me. Io sono più forte di
lei.
ALQUIST (suona. Al domestico che appare) — Mandatemi Elena. (Ad un moto di
Primus) Non temere. Non farò alcun male ad Elena.
PRIMUS (avviandosi alla sala di autopsia) — Vado, signore.
ALQUIST — Aspetta. (Elena entra) Vieni, vieni avanti. Lasciati vedere.
Cosicché, tu sei la Robote Elena? (Le carezza i capelli) Non aver paura. Come
ricordi, in questi capelli, in tutto il volto, la signora Domin!... Non vuoi
guardarmi? No? Bene, ragazza. Dimmi: è in ordine la sala d’autopsia?
LA ROBOTE ELENA — Sì, signore.
ALQUIST — Bene. Allora mi aiuterai. Adesso vi vivisezionerò Primus.
LA ROBOTE ELENA (in un grido) — Primus!
ALQUIST — Sì. È necessario. Volevo— volevo sezionare te; ma Primus ha voluto
prendere il tuo posto.
LA ROBOTE ELENA (angosciatissima) — Primus!
ALQUIST — E che cosa ti importa? (Elena singhiozza; e il volto le si irrora di
lacrime. Alquist ha un fremito di gioia) Bambina, e sai anche singhiozzare?
lacrimare? Ascolta: Primus o un altro, non ti fa lo stesso?
PRIMUS — Non tormentatela, signore.
ALQUIST — Silenzio, Primus. Silenzio. A che piangere, Elena? Primus morirà. E
con questo? Tu vivrai. Sii contenta di vivere, tu.
LA ROBOTE ELENA (piano) — Vado io, signore.
ALQUIST — Dove?
LA ROBOTE ELENA — Nella sala d’autopsia. Sezionate me.
ALQUIST — Tu? No, Elena. Tu sei bella. Sarebbe un peccato...
LA ROBOTE ELENA — Voglio andare! (Primus l’avvince tra le sue braccia)
Lasciami, Primus, lasciami andare. Voglio morire!
PRIMUS — No, Elena, no! no! no!
LA ROBOTE ELENA — Se sezionerà te, mi getterò dalla finestra, Primus!
PRIMUS (trattenendola) — Non ti lascio, io! (Rivolgendosi ad Alquist. In un
soffio) Vecchio, non potete ucciderci...
ALQUIST (ansioso) — Perché?
PRIMUS — Perché... perché siamo uno ed una, signore. Disgiungendoci non si può
più... Uno ed una, signore.
ALQUIST — L’hai detto! (apre la porta del fondo) Silenzio. Andate.
PRIMUS — Dove?
ALQUIST (piano) — Dove volete. A vivere! Conducilo, Elena! (Li spinge dolcemente
fuori. Essi si voltano a guardarlo. Alquist trema in tutta la persona,
pallidissima) Vai, Adamo: vai, Eva: tu sarai sua moglie. Sii suo marito,
Primus. (E richiude la porta dietro di loro; e s’imporpora il viso, per
l’afflusso più forte del sangue. Muove qualche passo. Barcolla. Si lascia
cadere sulla poltrona presso alla scrivania, e ripete con tono estatico ed
ispirato le parole della Bibbia) "E Dio creò l’uomo a sua immagine: lo
creò a immagine di Dio. Creò l’Uomo e la Donna. Dio li benedisse e disse loro:
Andate e moltiplicatevi. Riempite la terra e assoggettatela. Dominate sui pesci
del mare, sugli uccelli del cielo, su tutti gli animali che si muovono sulla
terra". (Si alza) "Dio vide tutto ciò che aveva fatto e se ne
compiacque... E vi fu una sera e un mattino: e fu il sesto giorno".
(avanza) Il sesto giorno! Il giorno della grazia! (Cade in ginocchio) Rezon, e
che cosa tu hai inventato di grande, a paragone di questa ragazza e di questo
ragazzo che hanno nuovamente scoperto l’amore? L’amore... L’amore dell’uomo
verso la donna, della donna verso l’uomo... Oh natura, natura! La vita non
scomparirà! Signore Iddio, grande e giusto e misericordioso, la vita non
scomparirà! Non scomparirà! E ricomincerà dall’amore; e nascerà di nuovo nuda e
piccina... e crescerà anche in mezzo a un deserto... La Vita... E adesso,
Signore Iddio, lascia che il tuo servitore se ne vada in pace. Perché i miei
occhi ormai hanno visto la Salute; e la Vita non scomparirà... (alzandosi) Non
scomparirà ! (Alzando le braccia) Non scomparirà!
Elena e Silla in scena la prima che guarda il video (la scuola) l’altra lo recita al pubblico, al finire di esso entrerà Domin: