A passo di granchio

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Negro (ride amaramente)

A PASSO DI GRANCHIO

di Salvino Lorefice

Microdramma in un atto

Personaggi:

Il Negro;

l’Ebreo.

Scena

In una stanza anonima, con due sedie e un tavolo, vi sono due uomini. Uno di loro, di carnagione scura, capelli ricci, è seminudo, sanguinante e sta seduto, rassegnato. L’altro è appena entrato: è visibilmente stanco e spaventato.

NEGRO                - Com’è che ti hanno preso?

EBREO                 - (riprendendosi): Ero uscito dalla chiesa ebraica. Dapprima non ci avevo fatto caso, ma poi ho notato che quei due loschi individui mi seguivano. Mi sono venuti vicino in quella strada secondaria alle spalle della sinagoga, dove avevo posteggiato l’auto e mi hanno messo un cappuccio. Mi hanno ordinato di non gridare e mi hanno ammanettato. Mi hanno preso le chiavi dell’auto e mi hanno costretto a salire dietro. (Pausa. Singhiozza). E poi… poi mi sono… mi sono pisciato addosso. Non ho saputo trattenermi, capisci? Io… io non sono un vigliacco, ma non ce l’ho proprio fatta quando li ho sentiti che dicevano: “che ne facciamo? Lo buttiamo subito nel fiume o prima ci divertiamo un po’?” Non ho resistito e mi sono pisciato addosso. (Piange).

NEGRO                - Sei un ebreo! Certe cose succedono, ebreo. Succedono. Ma io conosco questi trucchetti.

EBREO                 - Li conosci?

NEGRO                - Li conosco da quand’ero in Sudafrica. Lì, però, era la polizia segreta. Quando mi arrestarono, a Kingston Town, mi bendarono e mi trasportarono con un’auto. Gli agenti sghignazzavano. Uno di loro mi appoggiò la punta del coltello alla gola. Dio! Ho creduto proprio che volessero uccidermi  - erano dei mercenari.

EBREO                 - E… e ti sei pisciato addosso?

NEGRO                - (sorridendo) No, quella volta no. Fu poi, quando, sempre con gli occhi bendati, mi fecero attraversare un corridoio dove si sentiva urlare  - urla di terrore. E non ce la feci. Fu allora che mi pisciai. E poi salimmo per una scala stretta. Quattro pianerottoli. E mentre percorrevamo un lungo corridoio mi tolsero la benda, perché potessi vedere, oltre che sentire. Urla di sofferenza, di vero dolore. Quello che vidi passando davanti ad una porta non potrò mai dimenticarlo, sebbene l’immagine non fosse durata che pochi secondi. Da una di quelle porte usciva, sostenuto da due “infermieri”, un uomo che era stato appena “interrogato”. Potei distinguere l’aspetto informe del suo viso - era come una piaga mostruosa, e soltanto gli occhi, occhi stravolti, fuori delle orbite, facevano capire che si trattava di un viso umano. Le labbra erano due grotteschi pezzi di carne rossastra, il naso era spaccato e gonfio, le mani sanguinanti… Aveva un aspetto… E quando mi passò vicino mi guardò e lo riconobbi. Era…

EBREO                 - Perché mi racconti queste cose, negro?

NEGRO                - Che c’è? Queste storie ti fanno cagare sotto, ebreo?

EBREO                 - E anche se fosse? Non c’è nulla che ci fa capire che usciremo vivi da questa prigione     - perché non dovrei cagarmi sotto?

NEGRO                - No, forse ne usciremo. Magari uno solo di noi.

EBREO                 - Continua con quella tua storia. Chi era quell’uomo che avevi riconosciuto?

NEGRO                - Era Sliman Kerdouci, un medico di Kingston Town, al quale rimproveravano di essere stato uno dei capi di una rivolta. Rivolta            - poco più di una protesta. Aveva tre figli. Col più giovane eravamo amici. Non avevano torturato solo il medico. Anche la sua famiglia era stata torchiata, in un cortile, alla gogna. Davanti ad un pubblico di bianchi, tra cui anche dei bambini      - “dovevano imparare da piccoli”. Proprio così. (Ride amaramente). Dopo le torture, i Kerdouci furono medicati, curati per qualche giorno e rimessi in libertà. Erano un esempio vivente per tutta la popolazione. Il medico, però, non poteva più esercitare.

EBREO                 - Glielo avevano proibito?

NEGRO                - No. Con delle tenaglie affilate gli avevano strappato tre dita per mano. E nelle due mani gli avevano lasciato solo il pollice e il mignolo. Fu per questo motivo che, per derisione, i soldati presero a chiamarlo “il Granchio”. E i suoi familiari “i figli e la moglie del Granchio”.

EBREO                 - Il Granchio! E come reagì?

NEGRO                - La popolazione lo consolava ripetendogli che si poteva ritenere fortunato    - in fin dei conti era ancora vivo. Così, gli dicevano. Ma tutti erano convinti che lo avessero lasciato vivere perché aveva parlato. (Pausa). Il capo di quei soldati, mercenari, era un lurido pelato che tutti chiamavano “Capo”, ed era aiutato nelle torture da due esseri spregevoli che chiamati “Morbido” e “Specialista”.

EBREO                 - Proprio gli stessi che ci tengono prigionieri in questo posto.

NEGRO                - Già.

EBREO                 - E poi? Poi che successe?

NEGRO                - Poi… poi venni “interrogato”. Dopo un “interrogatorio” e qualche giorno di prigione, anch’io venni “momentaneamente” rilasciato.

EBREO                 - Te la sei cavata. Sei vivo.

NEGRO                - Vivo? Vivo fuori, perché dentro… dentro, quando vieni “interrogato”, sei morto.

EBREO                 - Interrogato?

NEGRO                - Interrogato… Torturato… Per loro è lo stesso. (Pausa).

EBREO                 - E poi? Hai detto che ti hanno rilasciato.

NEGRO                - Sì, ma solo per farmi assaporare la libertà. Ne approfittai per lasciare l’Africa. Fuggii e venni in quella che ritenevo la civile Italia.

EBREO                 - L’Italia non è tutta così. No, non è tutta così. Di sicuro non lo è.

NEGRO                - (con scetticismo) See, see! (Pausa).

(Ad un certo momento l’ebreo comincia a salmodiare ritmicamente, dondolando il busto avanti e indietro. Dopo qualche secondo, tra un Salmo e l’altro, anche il negro comincia a canticchiare una canzone vagamente reggae, una sorta di nenia del suo lontano villaggio, nostalgicamente. Dopo qualche ulteriore tempo, la nenia reggae e il canto salmodico si intrecciano e si sovrappongono e vanno a costituire una ritmata e malinconica melodia. Continuano così, in armonia, per un tempo adeguato).

(BUIO)