Romano Augusto Fiocchi
AL GEMÉL INESISTÉNT
commedia
© Romano Augusto Fiocchi, 1987
www.romanofiocchi.it
Scritto nel 1987, l'atto unico Al gemél inesistent ha conseguito un Premio Speciale giungendo finalista al «Concorso teatrale per un testo in dialetto pavese» promosso dal Centro Turati di Pavia in collaborazione con il giornale La Provincia Pavese.
Tema e personaggi si ispirano alla novella La solita vecchia storia già pubblicata nella raccolta di racconti Capricci pavesi (1986, Edizioni Bignami).
La commedia è stata successivamente inserita in appendice al volume Dipinto a testa in giù, racconti (1994, Mario Modica Editore).
Personaggi
Pino, operaio.
Maria, moglie di Pino.
Dottor Orlandi, medico condotto.
Adalgisa, moglie del medico.
Riccardo, studente, figlio del medico.
Gianna, infermiera del dottor Orlandi.
Pierino, pensionato, ospite dell'ospizio «Pertusati».
Infermiera, accompagnatrice di Pierino.
Sosia di Pino
Sosia del medico
Pavia, primo pomeriggio, nello studio del dottor Orlandi.
ATTO UNICO
Il locale in cui si svolge la scena è sito nel centro storico, all'ultimo piano di un palazzo signorile. Dal finestrone centrale, di notevole dimensioni, si ha un bello scorcio del Duomo con la Torre civica. La stanza è ornata con qualche stampa pavese, uno specchio e un ritratto di Garibaldi. Sempre sulla parete, un cartello in una cornicetta di plastica gialla fluorescente vieta di fumare. I mobili sono tipici di uno studio medico: scrivania, lettino, seggiole, scaffalatura per libri, armadietto per farmaci, eccetera. La poltrona del medico, girevole e dotata di uno schienale altissimo, è al centro della scena. Vi sono due porte: quella di destra conduce all'ingresso dell'appartamento; quella di sinistra alle restanti stanze dell'abitazione.
É il giorno di riposo del medico. Dalla porta di destra entrerà la signora Adalgisa, seguita da Pino. Adalgisa, nonostante l'abito modesto, ostenta l'aria da «prima donna» e si esprime attraverso un italiano zoppicante, che lascia affiorare la sua abitudine all'uso quotidiano del dialetto. Pino è sconvolto, sciupato, afflitto, con il cappello in mano, ma deciso a sostenere un attacco verbale ad oltranza.
Adalgisa. E io ci ripeto che mio marito oggi non riceve.
As-so-lu-ta-men-te!
Pino. La so, siura Adalgisa. Cla ma scüsa, ma mi poedi no
rimandà. Poedi propi no.
Adalgisa (mentre riassetta la scrivania). Oggi è il suo
giorno di riposo e tutti i dottori ci hanno diritto al loro
con enfasi
relax.
Pino. Ma la so, la so, siura Adalgisa. La g'ha ragión. Ma mi
poedi no fan a meno. Devi parlà cul dutùr. Son gnì chì apòsta!
Adalgisa. Ci ripeto che non si può. Mio marito deve
riposare. E poi - cosa pretende? - a quest'ora del pomeriggio, così presto, mio marito sta schiacciando un sonnellino. Sa, a mezzogiorno ci do da mangiare, e ce ne do tanto, per tirarlo un po' su. Perché io ci tengo, a mio marito! E lui, poverino, fa certi orari, con il suo lavoro! Per questo voglio che riposi, voglio lasciarlo tranquillo, voglio che nessuno lo disturbi. Io ci tengo, alla sua salute!
Pino. Ma anca mi ag tegni a la me salüt. Ma sa disi ca dévi
parlà cul dutùr Urlând, propi in coe, l'è parchè l'è una ròba grossa.
Adalgisa (incuriosita). Grossa?
Pino. Tròpa grossa.
Adalgisa. Tròpa grossa?
Pino. Tròpa grossa.
Adalgisa. Ma di che malattia si tratta?
Pino. Mah!
Adalgisa. Come, «mah»? Non si tratta di una malattia?
Pino. Sì e no.
Adalgisa. Come, sì e no? Allora cosa ci viene a fare dal
dottore?
Pino. Som gnì chì parchè l'è una ròba grossa.
Adalgisa (in cerca di una conferma). Ma non è una malattia.
Pino. La poeda anca vèss una malattia.
Adalgisa (c.s.). Come può non essere.
Pino (riconfermando). La poeda anca vèss no.
Adalgisa (dopo aver meditato). Facciamo così: tagliamoci la
testa al toro: dica a me di che cosa si tratta e io lo dirò a mio marito.
Pino (con la mano sul petto). Poedi no, siura Adalgisa.
Cla'm crèda. Poedi no. L'è una ròba tròpa grossa. La so mi, e la déva savé dumà al dutùr.
Adalgisa. E va bene, ce lo chiamo! Dirò che lei ha
insistito, che è una cosa importante, grave, ma se lui non vuole venire...
Pino. L'gnarà, l'gnarà.
Adalgisa. Vo.
Prima di uscire, verso la porta di sinistra:
Ma proprio non vuole dirmi... nemmeno...
Pino (sconsolato). Poedi no. L'è tròpa riservà, tròpa
grossa. L'è no par mancânsa ad fidücia, cla'm crèda, siura Adalgisa. L'è una ròba c'ass deva savé no in gir. G'ho bisògn propi dal sò òm parchè dumà lü poeda jutàm.
Adalgisa esce seccata a sinistra.
Pino (guardando fuori dalla finestra, le braccia dietro la schiena). Ml'è bèla, Pavia! Guarda: vista da chì la par quasi una cartulina. Cun cla tur lì, in sì végia, in sì grossa, i tèc di cà, e tüti i pivión e i passarìn chi vùlan in sima. Ci-cip e ci-ciop, ci-cip e ci-ciop.
Si volta e sorride.
Sì, magari i farân una qual schirladìna in tésta a la gént. Però... jèn in sì puétic!
Gironzola per la stanza, osservando le stampe.
Adalgisa (entrando). Allora, mio marito dice che vuole
sapere se è proprio una cosa urgente, se no passa lui domani, direttamente a casa sua. Mi lasci pure il suo indirizzo.
Prende un bloc-notes dalla scrivania.
Pino. Siura, la'm mèta in imbaràss. So no 'me dil: ma la mia
l'è una sitüassión disperà. Sa rièssi no a parlàg in coe, so no sa rivarò dumân. Am so spiegà?
Adalgisa (dopo aver esistato). Allora ci devo dare una voce.
Pino annuisce. Adalgisa si affacia sulla porta di sinistra.
Pino (rincorrendola e trattenendola). Però am racumândi
sottovoce, guardandosi attorno con circospezione
cla disa no in gir.
Adalgisa (sottovoce). Stia tranquillo: non lo saprà nessuno.
Non lo so nemmeno io!
Pino (c.s.). No, vurìvi dì: cla disa no in gir cal siur Pino
l'è in una sitüassión disperà.
Adalgisa (c.s.). Ca staga tranquìl.
Mette la testa fuori dall'uscio e grida forte:
Urlând! al siur Pino al disa cl'è disperà!
Si volta verso Pino, con confidenza:
Se lo chiamo Orlandi mi risponde prima...
Tende l'orecchio. Da lontano si sente un «Végni!»
Adalgisa. Dice che viene. Si sieda, si sieda intanto.
Entra il dottore. Pino, appena seduto, si alza in piedi di scatto.
Dottore (allacciandosi il camice). Mi deve scusare,
signor, signor?
Pino. Pino. Son mi ca'm devi scüsà cun lü, siur dutùr, sl'ho
distürbà propi in coe. La sò dòna la m'ha dit cl'er dré ripusà, ma in tüta sincerità: sarìssi no gnüd sl'er no in sì ürgént.
Dottore (sedendo sulla propria poltrona e facendo cenno di
uscire alla moglie). Cal sa sèta, cal sa sèta giù. Mi dica. Sono tutto orecchi.
Pino (con imbarazzo). Donca, siur dutùr.
Dottore. Ma si sieda, non stia in piedi. Si sieda.
Pino (sedendo, c.s.). Donca, disìvi.
Lo sguardo si fissa sulla moglie del dottore, che si è fermata accanto alla porta.
Dottore (accorgendosene). Adalgisa, per cortesia.
Adalgisa. Vado, vado, ma mica ero qui per ascoltare. Stavo
solo pensando se mi conveniva prima sistemare la camera, oppure... Però adesso vado, vado davvero. Potrei però cominciare a spolverare lo studio. Una passata veloce, qui sui quadri, i libri... Tanto io non vi ascolto. Poi il resto lo farà la Gianna, domani mattina.
Dottore (con sforzo di sopportazione). Adalgisa!
Adalgisa. Eh, quante storie! Lo so, lo so: e il segreto
professionale di qui, e la serietà di là, e il rispetto di qui, e la coscienza di là. Cosa credi? Che vada a spifferare in giro tutto quello che sento, tutte le lagne dei tuoi pazienti? Anche se ne sento qualcuna, la sento per caso e non vado certo a raccontarla in giro. Non mi interessano per niente. Tutte lagne, ecco cosa sono.
Dottore (c.s.). Adalgisa!
Adalgisa, seccata, esce a sinistra.
Dottore (a Pino). Scusi, neh, ma mia moglie è un tipo
così... un po' invadente... Ma lei mi dica, mi dica tutto.
Pino. Donca, siur dutùr, l'è una storia cumplicà. So no da
che part cumincià, parchè l'è no propi una malattia...
Dottore. Questo sarò io a stabilirlo, se mi permette.
Pino. Giüst. Però l'è una ròba strana. Ecco, pudarìssi dig
cl'è russa ma l'è giàlda, tânt par rend l'idea.
Dottore. Non capisco.
Pino. Sì, inssuma. L'è in t'una manéra ma la poeda vèss
anca in un'altra.
Dottore. Mi scusi, ma continuo a non capire.
Pino. Alùra, fuma in sì.
Si alza e va a levare una stampa dal muro, nascondendola dietro di sé.
Lü, siur dutùr, al turna a cà una sira e s'nincòrgia cal gh'è pü. Sal disarìssa?
Dottore. Direi che me l'hanno rubato, o che magari l'ha
levato di lì mia moglie per spolverarlo, oppure è stata la Gianna nel fare i mestieri...
Pino. E invece no. La sò dòna la disa cl'è stat lü, propi
lü, a purtàl foera d'in cà e l'ha vendü al so frutaroe. E adèss, sal disarìssa?
Dottore. Direi che mia moglie è pazza.
Pino (rattristandosi, e riappendendo la stampa). Anca mi
disévi in sì, siur dutùr, e invece l'er no in sì. Par quèst disi cl'è in t'una manéra ma poeda vèss anca in un'altra.
Dottore (spazientendosi). Insomma, signor, signor?
Pino. Pino.
Dottore. Signor Pino, mi parli dei sintomi, qualcosa di
concreto. Non ci giri attorno così, se no non riesco a capirci niente. Stabilirò io se è in una maniera o nell'altra.
Pino (con difficoltà). Disarò. Am sücéda spèss da fà di ròb
e poe da ricurdà no s'j ho fat mi o s'j ha fat un quaidün d'àltar.
Dottore. Un'amnesia. Cioè, lei compie un'azione e poi la
rimuove, la fa scomparire, la insabbia nella profondità del suo inconscio.
Pino. So no, siur dutùr. Al sarà me 'l disa lü: gh'entrarà
anca sò sìa...
Dottore. Me sìa? Ma no «me sìa»: amnesia, amnesia! Mi
spiego. Lei fa una cosa poi si dimentica di averla fatta. Ha quindi un vuoto di memoria. Lei, insomma, vende il quadro di prima e non si ricorda di averlo venduto. É questa la sensazione che prova?
Pino. No.
Dottore (meditando). Che caso strano. Continui, continui
pure.
Pino. Donca. Par fala cürta, siur dutùr, disarò cl'è una
roba ca stréngia al coer. Non parchè l'è una malattia cla culpìssa al coer, ma parchè am fa ciapà una roba... chì déntar... Inssùma, siur dutùr, ag disarò la verità: mi son pü mi. Son un àltar.
Dottore. Via, non dica sciocchezze. Se il problema consiste
in questa... chiamiamola «discrepanza d'identità», le posso confermare che è una cosa che ci prende un po' tutti. I ritmi della vita moderna, il lavoro frenetico, gli appuntamenti, le spese, l'automobile, lo stipendio, lo stress. Può essere normale, mi creda, avere delle difficoltà a riconoscersi, a riconoscere se stessi. Tuttavia, tuttavia, per dovere professionale, mi preme informarla che esistono anche delle alterazioni della personalità di ordine patologico che possono dare questa sensazione di distacco dal proprio essere, di... Ma lei è lei, le assicuro.
Pino. E invece no, siur dutùr. Ag farò un altr'esempi. L'ha
no dit cal voera di ròb cuncrét?
Dottore. Sì, sì, sentiamo. Purché sia davvero un esempio
concreto...
Pino. L'è giamò püssè d'un pari ad mes ca son in cassa
integrassión, ma ho namò vist un frânc, e mi a lavurà no vegni mat. L'è una ròba brüta, siur dutùr, tanta brüta: vèss sénsa lavùr, vèd la disoccüpassión ca gh'è in gir, vèd una cità tame Pâvia cla deva elemusinà un quai post in tla «metropoli» ad Milân. Ma mi ho vursü no fa 'l pendolare, o pég un mo andà a stà a Milân. Bah! I dìsan: «Chi vòlta i spall a Milân, vòlta i spall al pân». L'è vera no: «Milân merda ad cân».
Il dottore fa segno a Pino di sintetizzare.
Adèss ag rivi. Un dì vo lì, all'ufìssi dal persunàl par sentì me cl'è la facenda, e m'senti dì: «Pino, ca staga no lì a pèrd dal temp; cal faga piasé da turnà in funderia». Mi son gnì ad tüti i culùr dla rabbia che me gnì adòss. Alùra ag disi: «Cari me siuri, ma se mi son a cà - e vi àltar la savìv benìssim - sa turni in funderìa a fa che ròba? Siv a dré ciapàm pr'al cü o son mi ca son dré gnì scemo?» E lur, «ad rimando», am dìsan: «Foera di ball, che nüm g'um no temp da trà via». Giüri: son restà tame quel ad la maschèrpa. Ho ciapà e son andàt via. Passi alùra dla funderia, ma in sì, tant par vèd al lavurà. E sa vèdi?
Dottore (alzandosi in piedi). S'al vèda?
Pino (disperato). O Signùr, sa vèdi, siur dutùr!
Dottore. Inssùma, sl'ha vist?
Pino (c.s.). Ho vist...
Dottore. L'ha vist...
Pino (d'un fiato). Ho vist mi ca seri dré a lavurà.
Il dottore, allibito, si gratta la testa e incomincia a passeggiare per la stanza.
Dottore. Ma lei è sicuro di vederci bene?
Pino. Ca staga a sentì, mi g'ho no bisògn di uciài: mi vèdi
una gügia in un pajè.
Dottore (avvicinandosi alla parete). E qui, su questo
cartello, qui
indica la scritta «vietato fumare»
cosa c'è scritto? Riesce a leggere stando lì, senza muoversi?
Pino. Made... in... Corea.
Dottore (stupito). Come? Ma dove legge?
Pino. Lì, in sla curnisèta giàlda.
Dottore. Ma come fa... Ma no! io intendevo il cartello,
questo qui, «vietato fumare».
Pino. Ah, sì, lì légi ben. Ag vèdi ca gh'è scrit «vietato
fumare». Mi credevi che lü, siur dutùr, am diseva da lég lì suta, in sla curnisèta, par mètam a la proeva.
Dottore. Riprendiamo il discorso. Ed era lei, proprio lei,
che lavorava in fonderia? Sì, insomma, era lei quell'individuo che lei ha visto lavorare al suo posto?
Pino. La so, la so, siur dutùr, c'al par no vera. Ma mi
pudarìssi giürà in s'la tésta ad me mama, o in s'la tésta dla me dòna. Seri propi mi.
Dottore. Sì, sì, capisco. Non la sto accusando di prendermi
in giro, di volermi infinocchiare...
Pino. Ma sa'l disa, siur dutùr? Mi, un cülatón? No, siur
dutùr, ag mancarìssa!
Dottore. Ma no, cos'ha capito? Volermi infinocchiare,
imbrogliare, darmi dall'intendere delle balle. Potrebbe però trattarsi di un effetto ottico, qualche specchio appeso, qualche vetro, uno scherzo della vista, insomma. Anche una vista eccezionale come la sua può essere soggetta a qualche scherzo di rifrazione.
Pino. Un schèrss? No, siur dutùr, l'er no un schèrss: l'er
vera, l'er vera e l'er ad carne e òss, parchè mi l'ho vist, l'ho tucà cun chi man chì.
Dottore. Ah, allora ci sono state altre situazioni analoghe.
Mi racconti, mi dica tutto.
Pino. La smàna passà, tânt par fag un altr'esempi, suni al
campanìn ad cà mia. In cà gh'è la dòna, cla fa la casalinga. Son lì ca spéti e senti di pass da dré a l'üss. Ma di pass pesânt, chi pàran d'òm. «Ma! - pensi - al sarà al Luigino, al fradél ad la me dòna, cl'è gnì a truvàss». L'avrìssi mai dit! Vèran la porta e sa vèdi...
Dottore. Al vèda...
Pino. Vèdi... Ma fo dil! Ma fo, siur dutùr!
Dottore. Ma inssùma, sl'ha vist?
Pino. Poedi no dil, al ma sa fèrma chì, in gula. Ho vist un
mo... mi ca son gnì a vèram la porta.
Pausa.
Alura g'ho vist pü e g'ho fat: «Cal ma scüsa, siur, ma mi sto chi, ad cà», ma balbetavi, siur dutùr, oh sa balbetavi! Seri stramì, tremévi tüt. E quallà - ca seri sémpar mi - al ma disa, ad rimando...
Dottore. Ad rimando?
Pino. No, «ad rimando» la disi mi adèss. Quallà al ma disa:
con voce chioccia
«Crèdi no, cara 'l me òm. Lü sta da nessüna part, parchè cla cà chì ml'ha lassà me pàdar quand l'è mort». E alura mi ag vusi a dré: «Me pàdar! Me pàdar! Cla cà chì ml'ha lassà me pàdar!» Quallà al ma guarda tame guardà un mat e al ma sara la porta in fàcia.
Dottore (tornando a sedere). Un caso strano, davvero strano.
Innanzi tutto, qui l'amnesia non c'entra, e dubito persino che si possa parlare di allucinazioni. Perché, vede, è difficile che una forma di allucinazione - qualora dovesse trattarsi appunto di questa, cioè di una percezione di cosa non esistente, ritenuta concreta dal soggetto - è difficile che un'allucinazione si comporti in questa maniera, che si metta a parlare con... sì, insomma: con il malato, con l'allucinato stesso, e poi in questo modo così autonomo. Per risalire a qualcosa di più concreto mi servirebbero altre testimonianze, altri elementi, non so se mi capisce. Mi creda, non posso fare una diagnosi di una presunta malattia appoggiandomi sulle sue rivelazioni, come queste che mi ha fornito.
Pino (sconsolato). Alùra, al ma creda nanca lü, siur dutùr.
E mi ca son gnì apòsta da lü... parchè pensévi che, ultra vèss un dutùr, lü l'è anca un òm ad cultüra. Parchè mi son un pòvar Crist, capìssi niént da chi ròb chì, e g'ho la sfortüna da vèss capità in mes. Inssùma, sperévi...
Dottore. Ma no, signor, signor?
Pino. Pino.
Dottore. Signor Pino, lei non deve prenderla in questo modo.
Mi lasci tempo, mi raccolga altri elementi, magari resoconti di suoi amici, colleghi, di sua moglie...
Pino. O Signùr! Anca la me dòna la s'lamenta, siur dutùr.
L'è propi lé cla ma mandà chì, parchè la disa cla poeda pü supurtàm. La vurìva gnì anca lé, ma mi ho vursü no.
Dottore. Perché? Sarebbe stata una testimonianza preziosa.
Pino. No no no, siur dutùr. La me dòna l'è no una dòna. Gla
disi in cunfidénsa:
sottovoce, dopo essersi guardato attorno
l'è un cavàl, parchè l'è mata me un cavàl.
Dottore (sorridendo). Maggior ragione: avremmo visitato
anche lei. Scherzi a parte, caro signore, penso che sua moglie sia come tutte le altre donne.
Pino. Sst! Cal disa no in sì, siur dutùr, cal tas. Cla
malaurègia dla me dòna la sénta tüt còss, da qualsiasi part, e la sarìssa bòna da gnì chì e trà in pé un travàj, ma un travàj, che lü l'poe nanca imaginàss.
Suonano alla porta d'ingresso.
Dottore. Adalgisa! Per cortesia, la porta!
A Pino:
Vede, oggi non ho neppure la Gianna, la mia infermiera: anche per lei è il suo giorno libero. Un'idea di Adalgisa, naturalmente, perché non vuole che io sia disturbato, da nessuno. Secondo mia moglie, il giorno di riposo io dovrei starmene qui, a pancia all'aria, a godermi il paesaggio da questo finestrone. Come se io potessi stare inattivo tutto il giorno! Io, un medico! Lei ha perfettamente ragione: chi dice donna dice danno.
Sorride. Suonano ancora alla porta.
Adalgisa!
A Pino:
E la me dòna, oltretüt, l'è un danno sénsa urèg.
Ad Adalgisa:
Adalgisa!
Adalgisa (attraversando la scena, da sinistra a destra).
Végni, végni.
Dottore. Mi stava dicendo, signor, signor?
Pino. Pino.
Dottore. Ah, sì, che sbadato: signor Pino. Non riesco a
ficcarmelo in testa, e sì che ci conosciamo da anni. Ma di cognome fa...
Pino. Téstâ.
Dottore. Ah, sì. Pino Testa.
Rumori fuori scena.
Maria (entrando come un tornado, seguita da Adalgisa che
cerca di trattenerla e l'afferra per il vestito a fiori, di pessimo gusto). Talchì. La savìvi, mi, ca sérat a dré parlàm a dré. Anca al dutùr, làssat no stà! La sò passión, siur dutùr - cal ma scüsa: buongiorno siur dutùr - la sò passión, siur dutùr, disìvi, la passión da cal nimàl chì (parchè al me òm l'è un nimàl!), l'è parlàm a dré. La me dòna l'è in sì, la me dòna l'è in sà, la fa quaschì, la fa quallà. Basta andà in gir a cuntà di bal a dré a mi. Cl'òm chì l'è pég d'üna sabèta.
Pino. Ma se at'zè stata propi ti, brüta figüra, a dim da gnì
dal dutùr a cüntàg tüt còss!
Maria. Mi? Mi t'ho dì d'andà indè ca vurìvat parchè pudìvi
pü supurtàt. E poe t'ho dì da gnì a cüntàg i to ball, no da parlàm a dré. Ca sa duvarìssi parlà mi... Madòna dal Signùr!
Si chiude la bocca con la mano.
Dottore. Mi scusi se la interrompo, signora, signora?
Pino e Maria. Maria.
Dottore. Signora Maria, ecco. Suo marito ha ragione. Mi
sembrava di aver capito che era stata proprio lei a consigliargli di farsi visitare.
Maria. Fass visità, ma no gnì chì a parlàm a dré!
Pino. L'ha vist, siur dutùr, m'ass fa a vultà al fioe in dla
cüna? Mi poedi nanca pü parlà, tirà foera i me mal e i me guai, che salta foera chilé.
Maria. I sò guai, siur dutùr! I sò mal! La sa qual'è 'l sò
guai? Al g'ha voeja no ad lavurà! Quaschì l'è 'l so guai! E ag disi no i àltar, dumà parchè g'ho vargògna.
Pino (giungendo le mani, come in preghiera). Ma si m'han
miss in cassa integrassión, sa poedi fa?
Maria. Ma quale cassa integrassión? Quale cassa
integrassión? T'han miss pr'una smana, par erùr, e poe t'han mandà a ciamà.
Pino. L'è vera no, siur dutùr, cag creda no.
Maria. Sarò mia scema! Pudarò vèg questi chì
si piazza le corna sulla fronte
ma scema son namò.
Pino. Alùra sarò mi, al scemo.
Adalgisa (intervenendo). Sì, io ho visto subito che ce ne
aveva la faccia.
Maria. T'è vist? S'nincòrgian tüti.
Pino (rammaricato). Mi g'ho no la faccia dal scemo.
Si osserva nello specchio.
Dottore (gridando). Signori! Signori! Vi prego. Procediamo
con ordine. Adalgisa, fuori.
Adalgisa. Ma qui non si tratta di medicina.
Dottore. E chi te l'ha detto? Per cortesia, Adalgisa,
lasciaci soli.
Adalgisa. Oh, insomma, io voglio sapere come finisce. Me ne
vado tra il pubblico.
Dottore. E vattene tra il pubblico.
Adalgisa scende dal palco borbottando e si siede per terra, tra le gambe di uno spettatore della prima fila.
Dottore (alla platea). V'la lassi par poc temp. Am
racumândi: trèla no in strà parchè la 'm sèrva un mo.
Verso Pino:
Facciamo così, signor, signor?
Pino e Maria. Pino.
Dottore. Signor Pino. Ricapitoliamo. Lei, signor Pino,
sostiene di aver cessato di lavorare, cioè di essersi trovato in cassa integrazione a zero ore. In quale periodo?
Pino. Da genàr in poi.
Dottore. Cioè, lo è anche attualmente.
Pino. Pürtròp.
Maria. L'è vera no.
Dottore. Lei, signora, sostiene invece il contrario. Mi
sembra di aver capito che lei dice che suo marito è rimasto in cassa integrazione per una sola settimana. I primi di gennaio, quindi. Questo è successo a seguito di un errore, che è stato subito rimediato.
Maria. L'è propi in sì.
Dottore (al pubblico, con autoderisione). Am par da vèss
Sherlock Holmes.
A Pino e a Maria:
E chiaro che uno di voi due mente.
Pino. Lé.
Maria. Lü.
Pino. No, l'è lé.
Maria. No, l'è lü.
Dottore. Calma, signori, calma. Lei
si rivolge a Pino
Come può provare di essere attualmente a casa?
Pino. I m'han mai mandà a ciamà, i m'han mai dat un frânc.
Par dedüssione logica, integrassión o no, mi son a cà.
Dottore. Lei, invece, signora, come può provare che suo
marito ha ripreso il lavoro?
Maria. Ag la ripéti. Séri mi presenta quand l'ha vèrt la
lètera dla ditta, e poe al g'ha anca telefunà al diretùr par scüsàss dal malinteso.
Dottore. E suo marito ha risposto?
Maria. L'ha rispost sì.
Pino. L'è vera no, m'ha mai telefunà nissün.
Maria. E poe...
Dottore. E poi?
Maria. E poe sum andàt un dì a truvàl in sal laurà, e l'er
lì cal lauràva.
Pino. Quând?
Maria. La setimàna passà.
Pino si accascia sulla sedia, scuotendo la testa.
L'è propi in sì, siur dutùr.
Pino. Al vèda? Mi capìssi pü niént, siur dutùr. Capissì pü
niént. Ho mai vèrt nessüna lètera, m'ha mai telefunà nissün e mi poedi giürà in sla tésta dla me dòna...
Maria. Ué! Proeva un po' giürà in sla tua!
Pino. Poedi giürà che da genàr in coe ho mai miss un pé in
funderìa. So no, m'la fa la me dòna a dì ca séri a dré laurà. E poe, ma fo, siur dutùr, ma fo vèss a laurà sa son a spass par Pavia, a stracàm ad fa niént tüt al dì? e g'ho i testimoni, siur dutùr, g'ho i testimoni chi poedan cunfermàm. Ma fo?
Dottore. Questo non lo so, signor, signor?
Pino e Maria. Pino.
Dottore. Precisamente. Vorrei però parlare con sua moglie, a
quattr'occhi, e a lei non dispiacerebbe accomodarsi nella stanza accanto? Con lei riprenderò il discorso più tardi, dopo aver sentito sua moglie.
Pino va verso l'ingresso.
No, non di lì. C'è un altro salottino qui a destra, appena apre la porta.
Fa cenno alla porta di sinistra.
Le dispiace?
Pino (uscendo). Tüt quel cal voera, siur dutùr.
Dottore. Cara signora, fuori l'osso. Io non voglio sapere se
lei ha detto cose vere o false sulla sincerità di suo marito. Vorrei semplicemente che mi parlasse di lui. Spassionatamente.
Maria. Poedi dig propi tüt?
Dottore. Sono un medico, signora.
Maria. Gh'è una quaicòss ca va no.
Dottore. Questo l'avevo capito.
Maria. Poedi parlàg tame'ss parla a un prèvi?
Dottore. Signora!
Maria. No, parchè, al sa... i còran...
si piazza la mano in fronte, a mo' di corna
s'iss vèdan no, ien pìcul; ma s'la vus la gira, i végnan gròss, in sì gròss ca passi pü par la porta ad cà.
Dottore. Signora, suo marito ha bisogno di una mano...
Maria (facendo le corna). Una mân chì in ssima?
Dottore. Ma no, signora, non mi fraintenda. Un aiuto, una
spinta per rimettersi in moto. Lei può aiutarlo se non mi tace nulla sul suo conto.
Maria. Alùra parlarò. Parchè, al vèda, mi'g voeri bén al me
òm, anca sl'è un malnàt. Ma l'er no in sì, gl'assicüri: l'è gnüd in sì in dal gir ad poc temp. Par quèst ho pensà cla poeda vèss anca una malattia.
Riflette un momento.
Par restà in tema ad laurà - cl'è la roba meno scabrusa - al me òm al porta a cà al so stipendi, regulàr. Epür, mi la vèdi a cà tüt al dì. Vo magari a truàl in sal laurà, m'ho fat la setimàna passà, e la troevi lì in funderìa, cal laura me un nègar... quand un quart d'ura prima l'era a cà, bità giù in sal let. Turni a cà ad vulada e la troevi stravacà in sla pultrùna. «Ma alùra», ag fo, «sérat a lavurà o che ròba?». Lü al trà foera dü oeg in sì: «Mi, a lavurà?», am disa, «ma sl'è dü mes chi m'han miss in cassa integrassión!»
Dottore. Ed è vero?
Maria. Ma va! A stipendi l'è intrég, ho vist la lètera dla ditta cla ciamava un mo in servissi e ho sentì dabón la telefunada dal diretùr. Ma spiega, siur dutùr, tüta cla facénda chì? E poe certi mumént l'è rabiùs me un cân, certi àltar mumént l'è cuntént me una Pasqua. Di vòlt am disa una ròba, di altar vòlt am disa al cuntràri. Mi capìssi pü niént, siur dutùr.
Dottore. E - mi scusi la domanda, ma è importante anche
questo - l'attività sessuale di suo marito, com'è? Ha notato nulla di strano, di anomalo?
Maria. Attività... sessuale?
Dottore (con imbarazzo). Sì, insomma... in dal lét... la
sira... Inssùma, al fa andà? Scusi, neh, l'espressione...
Maria. Ah, ho capì. No, siur dutùr, l'è un pari 'd mes cal
dorma e basta. Al g'avrà un quài gir cun di àltar dòn.
Dottore (sorpreso). Come? Ma com'è possibile, che suo
marito... una persona così a modo!
Maria (scoppiando a piangere). Sì, siur dutùr. L'è sücèss
propi in coe. G'avìvi di suspèt, parchè un dì a la setimàna al catàva tüti i scüs par caciàm foera d'in cà. In coe son turnà un po' prima e - l'avrìssi mai fat - l'ho truvà in lèt cun vüna. «Scarùsa, d'una scarùsa!» vusi a dré a lilé. La dòna l'ass vestìssa ad vulàda e via par la strà. Al me òm al ma guardà suridént. Mi gl'ho fata pü: son cursa in dal bagn e m'son miss a caragnà me una fiulìna. Quand som gnüda foera al me òm al gh'er pü. Ho pensà al dutùr Urlând e son gnì chì a cercà cunsìli.
Dottore. Ha fatto benissimo, signora. E suo marito l'aveva
preceduta...
Maria. So no, siur dutùr.
Dottore. Come, non sa?
Maria. So no, parchè quand son rivà in strà ho guardà sü,
vers la cüsìna, e l'ho vist là, al me òm, ca sla rideva in da par lü. Inssùma, l'er un mo in cà. Vegni chì e la troevi in dal sò stüdi. Tachi a pensà cl'è no in da par lü.
Dottore. Come sarebbe a dire?
Maria. Sì, cag n'è un àltar fat tame lü, precìsi spüdà, vün
cal va e cal végna par la nossa cà, fat tame al me òm, ma cl'è no al me òm.
Dottore. Un sosia!
Maria. Un gemél.
Dottore. Ma a lei, signora, risulta che suo marito abbia mai
avuto dei gemelli?
Maria. Dumà al dì da spusalìssi in césa: iéran quèi ad la
camìsa, parchè in famiglia l'er un fioe sul.
Dottore. Ma nemmeno un fratello, magari lasciato
all'orfanotrofio per mancanza di mezzi di sostentamento?
Maria. No, no, sò pàdar gh'javìva, i danè. Lg'ha lassà fina
la cà. L'er no un siur, ma 'l pudìva mantégn lü, la sò dòna e 'l fioe, sensa fa fadìga.
Dottore. E allora, mi scusi, signora, ma è proprio
impossibile che esista un sosia così perfetto e così preparato da sostituirsi a lui. C'è nelle storie, nei racconti, nelle commedie.
Pino (facendo capolino). Poedi gnì déntar?
Dottore. Aspetti! Non ho ancora finito.
Pino. Ma mi sto in t'un cantón, am moevi no, e sto citu.
Dottore. Fuori, fuori, per cortesia!
Pino esce.
Dottore. Le dicevo, signora, che ho pensato, così,
d'istinto, a certi testi letterari. Anzi, soprattutto al teatro. Ci sono ad esempio due commedie famose. Le ricordo bene perché le avevo viste al teatro Fraschini, prima che incominciasse questa vergognosa trafila dei restauri che non iniziano mai (ma questo è un altro discorso). Sì, lei mi dirà che non va a teatro. Che c'entra poi il teatro? C'entra, perché un certo Goldoni ha scritto «I due gemelli veneziani», e un certo Plauto, parecchi secoli prima, «I due Menecmi». In entrambe le commedie appare all'improvviso un gemello del protagonista, un gemello di cui non si è mai saputa l'esistenza. Sono esempi, in fondo, presi dal reale; testi letterari che si ispirano a fatti accaduti davvero. Potremmo quindi essere di fronte ad un caso analogo.
Maria lo guarda con faccia poco convinta. Il medico sorride.
Beh, forse mi sto lasciando contagiare. Anche la fantasia di un medico galoppa... Il problema di suo marito potrebbe essere anche di altra natura. Suo marito...
Entra il Sosia di Pino dalla porta di destra. L'abito presenta qualche differenza rispetto a quello di Pino, per rimarcare la diversità del personaggio. Anche la voce sarà diversa. Maria resta pietrificata dallo stupore. Il dottore, invece, in quel momento dà di spalle alla porta di destra.
Sosia di Pino. L'è permèss? Gh'er la porta vèrta e son gnì
déntar.
Dottore (guardandolo di sfuggita, senza accorgersi della
differenza). Per cortesia! Fuori. Non insista, la prego. La chiamerò io quand'è il momento.
Sosia di Pino. Ma mi vurévi dumà savé sa gh'er chì la Giàna.
Dottore (c.s.). Fuo-ri!
Il Sosia di Pino esce.
Dottore. Le dicevo, signora, che suo marito... Ma signora!
Maria si alza e va all'uscio di destra. Guarda fuori. Non c'è nessuno. Si porterà allora all'uscio di sinistra:
Maria. Pino!
Pino (entrando). Son chì. Poedi gnì déntar?
Maria (in preda alla confusione). Sì, sì, vè déntar. Ma ti,
ind'è ca t'zè stat fin adèss?
Pino. Ind'è ca son stat? Seri chì, ind'è ca mi miss vi
àltar.
Maria (al dottore, con titubanza). L'ha vist anca lü, siur
dutùr, c'al me òm l'er chì e l'è anca gnì déntar dla par da là... un minüt fa? L'ha vist, l'è véra?
Dottore. Può darsi, signora, ma io ero girato di spalle, non
ho badato...
Maria. La vus, siur dutùr! Cla vus là! E ag disarò cl'er la
stessa vus d'incoe, quand l'ho truvà in dal lét... lü al ma capìssa, siur dutùr.
Uno scricchiolio alla porta di destra.
Dottore. Sst!
Si leva le scarpe e si avvicina all'uscio. Lo spalanca di colpo e scopre suo figlio Riccardo, in atto di origliare. Lo prende per un orecchio.
Piccolo mascalzone! É così che rispetti la professionalità di tuo padre? É così, eh?
Riccardo (parlando in maniera forbita, con una vistosissima
«erre» moscia). Ma no, ti giuro, babbo, stavo cercando una moneta che mi era caduta.
Dottore. Ti faccio cadere io uno sberlone su questa testa
di rapa! É così che studi, eh? Origliando dietro le porte!
Riccardo. Aspetta, aspetta, babbo, lasciami dire. Lasciami
parlare. Io ti posso aiutare, davvero.
Dottore. Mi puoi aiutare?
Maria. C'la lassa parlà, siur dutùr.
Riccardo. Grazie, signora. Sì, vedi, babbo, proprio ier
l'altro, preparando un esame di psicopatologia, mi sono detto: Riccardo...
Pino. Sl'ha dit?
Riccardo (rimarcando la «erre» moscia). Riccardo.
Pino. E sal voer dì «Viccàvdo»?
Riccardo (c.s.). Riccardo vuole dire Riccardo e basta.
Maria. Al so num.
Pino. Ah.
Riccardo. Riccardo, mi sono detto. Prima o poi ti capiterà
per le mani un caso del genere. E casca a fagiolo, babbo, perché il signor Pino...
Dottore. Come sai che si chiama così?
Riccardo (confuso). Ecco, io ho sentito che tu urlavi e...
Dottore. Come puoi sapere se quello che hai studiato casca a
fagiolo per questo caso?
Riccardo. Insomma, io, babbo, ma sì, ecco. M'è cascato
l'orecchio sulla porta e io...
Maria. C'la lassa parlà, siur dutùr. L'è un fioe giùin, ma
s'vèda cl'è in gamba.
Dottore (con sopportazione). Sentiamo.
Riccardo (ricomponendosi). É un caso tipico, egregi signori:
il paziente...
Pino. Ca sarìssi mi, véra?
Maria (con dispetto, verso Pino). L'ho sémpar dit ca sérat
tròp inteligént.
Riccardo (rispondendo a Pino). Sì, è lei. Il paziente
rappresenta un esempio di schizofrenia dei più singolari.
Dottore. Anch'io, inizialmente, avevo pensato a qualcosa del
genere. Ma continua, sentiamo almeno se hai studiato.
Riccardo. Nello schizofrenico le allucinazioni visive,
quando ci sono, possono consistere in semplici fotopsie, o fosféni, ossia, per fare loro un esempio: percezioni di scintille, di bagliori, di lampi, di stelle splendenti piene di colori, di scie luminose celesti fatte come le comete, eccetera eccetera. Oppure possono consistere in allucinazioni visive complesse o figurate, come le visioni di cavalli infuocati nel cielo, di serpenti nel letto, di parole o di frasi intere che in genere esprimono minacce, ammonimenti, profezie, eccetera eccetera. Ma esiste una forma tutta particolare di allucinazione visiva figurata che è la cosiddetta autoscopìa; e questo è il punto che, a mio parere, ci interessa maggiormente. L'autoscopìa. Questa consiste nel vedere il proprio corpo come un'entità a sé stante, del tutto estraniata dalla persona dell'allucinato, come se appartenesse ad un'altra persona. Se a questa allucinazione visiva si associa un'allucinazione uditiva del genere complesso o verbale, cioè costituita da parole bisbigliate oppure pronunziate a voce alta, ecco spiegato il fenomeno del presunto sosia. Il quale sembra esserci, ma non c'è. Poi ci sono le altre caratteristiche della schizofrenia: le varie allucinazioni tattili, i disturbi della memoria e in particolare, per quanto concerne il nostro caso, io aggiungerei le amnesie e le paramnesie, ossia le costruzioni fantastiche di falsi ricordi, il senso del già vissuto, «déjà-vu». Mi spiego?
Pino (con sarcasmo). Ho capì tüt.
Maria (al dottore, e indicando Pino). Mi ho capì tame lü.
Adalgisa (lasciando la platea e salendo sul palco). Ma sì, è
così semplice! Riccardo non dice altro che questo signore è pazzo, completamente pazzo, e ci sta contagiando tutti.
Maria. Oh, finalmént la buca dla verità.
Pino. Mi sarìssi mat?
Maria. Sì, mat, parchè l'è culpa tua se anca mi incuminci
vèd al to gemél, girà par Pâvia, gnì déntar chì, pïàm in gir...
Adalgisa. Matto, completamente.
Riccardo. Ma no, mamma, non ho detto questo.
Dottore. Insomma, signori! E tu, Adalgisa, se non ascolti le
mie visite non stai bene. É così? Ma allora è un vizio di famiglia, come tuo figlio, che sta tutto il santo giorno con l'orecchio appiccicato alla porta per origliare ciò che dico ai miei pazienti!
Riccardo. Non è vero.
Dottore. Non è vero?
Riccardo. Ma io, babbo, lo faccio per imparare, per fare
esperienza.
Dottore. Te la do io, l'esperienza! A te e a tua madre. Voi
siete due origliatori cronici, ecco cosa siete, e un giorno o l'altro vi porterò dal professor Bianchi, e vi farò stendere su un lettino, sperando che vi guarisca una volta per tutte.
Pino. Cal ma scüsa, siur dutùr, ma 'l pudarìssa no purtàm
anca mi da cal prufessùr lì, sl'è in sì brav?
Dottore. Il professor Bianchi è uno psichiatra: non è il suo
caso.
Riccardo. Come, non è il suo caso, babbo? É un chiaro
esempio di schizofrenia e dici che non è il suo caso?
Dottore. Il medico sono io, e ti dico che fino a prova
contraria questo paziente è assolutamente sano.
Pino. Oh, finalmént un quaidün cal disa ca son no mat.
Dottore (rivolto a Pino). Vede, caro signor, signor?
Pino, Maria, Adalgisa e Riccardo. Pino.
Dottore. Signor Pino. Mio figlio ha detto anche cose
sensate. Lei - questo è ormai più che certo - ha un sosia, un essere uguale a lei. Ora, bisogna stabilire se questo sosia è reale o meno. I casi sono tre: o lei possiede, a sua insaputa, un fratello gemello, che è riapparso dopo anni e anni trascorsi altrove. O lei si trova al centro di una serie paurosa di coincidenze, «paurosa» perché sarebbe veramente incredibile. Oppure, ultima soluzione, ha ragione mio figlio: lei è malato. Ma io l'escludo, l'escludo categoricamente. Le dirò di più: io propendo per la prima soluzione. Lei insomma ha un gemello, o perlomeno un fratello, un sosia...
Pino, Maria, Adalgisa e Riccardo. Un sosia?
Riccardo. Ma via, babbo, se il signore dice che non ha mai
avuto fratelli...
Dottore. Sì, un sosia. É un caso raro, da commedia (se si
vuole), ma perché una volta tanto non scegliamo la soluzione meno logica? Perché nella vita tutto deve essere logico, perfettamente matematico? Un gemello. Questo signore ha un gemello.
Riccardo. Un gemello... inesistente, babbo!
Pino. Un gemél inesistént?
Suonano alla porta. Adalgisa, ad un cenno del marito, corre ad aprire, tutti restano meditabondi. Entra Gianna, l'infermiera del medico, vestita elegantemente e truccata in maniera vistosa, come se ritornasse da un appuntamento galante.
Gianna (parlando con Adalgisa). Cla ma scüsa, siura
Adalgisa, son passà déntar parchè ho lassà chì al me scussàl, e dévi purtàl a cà da lavà, insì dumân l'è giamò prónt.
Adalgisa (cordialmente). Giàna, cla sa preoccupa no. Cla
faga pür i sò còmud.
Gianna (vedendo Pino). Pino!
Pino si guarda attorno, come se avessero chiamato un'altra persona. Lascia intendere che non la conosce.
Maria (scorgendo Gianna). Chi l'è cla siura chì, siur dutùr?
Dottore. La mia infermiera.
Maria (a Gianna). Brüta porca, d'una brüta porca! Anca chì
végnat a cercà al me òm! L'er lé, siur dutùr, cla brüta figüra ch'ho truvà in lét cul me òm. E adèss la g'ha la fàcia ad tòla da gnì chì a cercàl.
Gianna. L'è vera no, l'è vera no!
Pino. Mi l'è la prima volta cla vèdi.
Adalgisa. Gianna! Come spieghi tutto questo?
Dottore. Signori, signori!
Adalgisa. Esigo una spiegazione.
Gianna (scoppiando a piangere). Pino, ajutâm ti.
Pino (a Gianna). Mi? Ma mi l'ho mai vista, cara la me siùra!
Maria. Cüntabàll d'un cüntaball! Sérat in lét mes'ura fa,
cun lilé!
Pino. Mi? Ma ti t'zè mata!
Maria. Sì, siur dutùr. Son sicüra, l'er propi cla dòna chì,
cla brüta porca dla sò inferméra.
Dottore. Signori: basta!
Torna il silenzio. Solo qualche singhiozzo di Gianna.
E tu, Gianna, sentiamo, devi darci una spiegazione.
Gianna (con rammarico). Sì, siur dutùr. Cla siura chì
indica Maria
la g'ha ragión. Séri mi. L'è un po' 'd temp cal siur Pino al ma sta a dré, am fa la corte, inssùma. So nanca mi ml'è stat...
Maria. At'zè un bel porcu!
Pino. Am dèva crèd, siur dutùr.
Gianna (a Pino). Giüda Iscariota! Ta me giürà ca son al to
amur, ca t'è mai vursü in sì ben a una dòna...
Maria (scoppiando a piangere). O Signùr, sa'm tuca sentì!
Pino (a tutti). No, no, no. Seri no mi. Vurìv no capì? Seri
no mi!
Gianna (fra le lacrime). Am vurìvat ben!
Maria (c.s.). Porcu. Sèt dü vòlt nimàl: prima t'è tradì la
to dòna, poe tradìssat anca la to murùsa. Pussè fals d'insì...
Pino. At giüri, Maria...
Adalgisa (con severità). La g'ha ragión, la g'ha ragión,
siura Maria.
A Pino:
Nimàl, schifùs, d'un libidinùs.
A Gianna, con rimprovero:
E ti, l'inferméra dal dutùr Urlând!
Dottore. Signore, signore mie... Adalgisa, per cortesia, non
ti ci mettere anche tu.
Suonano alla porta. Adalgisa va ad aprire. Rumori fuori scena. Entra un vecchio, Pierino, seguito da un'infermiera che lo aiuta sorreggendolo per un braccio.
Pierino. Quanta gént! Buonasera, siur, buonasera siur dutùr.
Infermiera (ridendo stupidamente). Buonasera, buonasera.
Il medico guarda il pubblico con aria di sopportazione.
Dottore (a Pierino). Buonasera.
Pierino. Ass ricorda ad mi? Son Pierino, dl'uspìssi di veg,
al Pertusati.
Adalgisa (al marito). Io ci ho detto che era il giorno di
riposo, ma questo signore non ha fatto una piega. E poi ci ho detto anche che avevi una visita. E lui: - Sa gh'è dla gént, poedi stag anca mi. - Ha detto così.
Dottore. Non importa, Adalgisa. Sì, mi ricordo di lei,
Pierino.
Pierino. Mi son chì pr'una ròba... grossa.
Dottore. Talchì un àltar! Ma oggi per Pavia girano solo
«robe grosse»!
Al pubblico:
Ma sl'è, Pavia, la cità di elefânt?
A Pierino, con molta pazienza:
Forza, mi dica. Spero solo che non sia una «roba grossa» come quella di questo signore
indica Pino
se no... fuma nòt!
Pierino (dubbioso, guardando Pino). Cal siur chì l'ho giamò
vist, mi.
Infermiera (ridendo). Anca mi, anca mi.
Pino. M'avrà vist al café Voltone, siur, o magari in
funderìa, o a spassi in cità.
Pierino. Nisba. Mi l'ho vist dü minüt fa, chì da bass. Al
giràva suta al balcón me un'àvia mata.
Riccardo. Ma via! É impossibile!
Pino (al dottore). L'ha vist, siur dutùr, cl'è véra: gh'è in
gir un àltar, un àltar fat tame mi.
Maria. Ag crèdi no. Cal vég chì l'è d'acòrdi cul me òm.
Adèss capìssi tüt còss: al s'è travestì tame 'l me òm e prima l'è gnüd chì a fa capolino e a fam crèd da vèss lü. E mi ho bucà tam'un sciatlón.
Adalgisa. Sì. sì, il Pierino da giovane ha fatto anche
l'attore.
Dottore. Signori, basta, per cortesia. Vediamo di ragionare.
Pierino. No no no no no no no no. Mi Voeri savé, cari i me
siur, parchè i trat in pé cal gabè chì. Mi turni a dì che cal siur chì l'er lì da bass, suta al balcón dla sò cà, siur dutùr, dü minüt fa.
Si volta verso l'Infermiera.
L'è no vera?
Infermiera. L'è véra, verissima.
Scoppia a ridere. Il medico si gratta la testa poi si rivolge a Pierino.
Dottore. Guardi, lasciamo perdere. Mi dica che disturbo ha,
così le prescrivo qualcosa e la mando a casa. Con questi signori ho in ballo una questione molto delicata.
Pierino. No no no no no no no no. Adèss voeri savé anca mi
me cl'è la facénda.
Maria. Gh'la cünti mi, siur Pierino (anca sa crèdi no che lü
al sa propi niént!). Donca: al me òm al disa cal g'ha un sòsia, un gemèl, vün cal fa al sò masté, ca sta indè ca sta lü (cioè in dla nossa cà), cal sa porta in lét di àltar dòn (fra l'àltar, propi l'inferméra dal dutùr Urlând) e che di vòlt al végna addritüra in lét cun mi. Al me òm - e quaschì l'è sicür - lg'ha mai vü di gemél, nanca di fradé. Al fioe dal dutùr, Viccavdo, cal stüdia anca lü da dutùr, al disa cl'è una «schissofvenìa». Mi so no sa voera dì, sl'è ca schissa la «schisso-fvenia». Al sarà anca malà, ma cla facenda chì, dal gemél cl'è no un gemél, la m'va giù no.
Pierino (calmissimo). So mi me cl'è la facenda.
Scoppia un putiferio. Tutti parlano contemporaneamente.
Dottore. Signori! Signori! Già che ci siamo, proviamo ad
ascoltare.
Pierino (c.s.). Cari i me siur, mi ho fat tânta masté. Ho
fat al garsón d'inciuè, al tübàt, al picassàss, al tapessè, al magüt
guarda Adalgisa
l'atùr, sì, ho fat anca l'atùr... par beneficénsa. E ho fat di àltar masté c'ricordi nanca pü. E giràvi, giràvi par Pavia. I strà, i vìcul, i trutadùr, i sass, al pavé, i finèstar cuj arc, i tur; ho fat di strà dla Pavia végia ch'esìstan nanca pü. E l'è lì, in ti vìcul, in més a chi nebión fort, ch'j ho vist. Iéran impalpàbil, cremùs, mass fa a dì: iéran me iéran e me ièn un mo adèss.
Pino. Cal ma scüsa, ma mi ho capì no. Chi ròb lì
impalpàbil... inssùma, l'avìva vist che ròba?
Pierino. Che ròba jèn i làdar.
Ridacchia, poi si fa serio.
Mi ho vist lur, i fantasma ad Pavia.
Dottore, Pino, Adalgisa, Riccardo, Maria, Gianna e Infermiera. I fantasmi?
Dottore. Via, non dica sciocchezze.
Riccardo. Ridicolo, ridicolo.
Pierino. No no no no no no no no. Sa disi fantasma, l'è
parchè jéran fantasma.
Dottore. Be', ma che c'entra tutto questo, quand'anche fosse
vero, con il caso in questione?
Pierino. Gh'entra. Parchè, al vèda, siur dutùr, Pavia l'è
una cità strana; una cità bèla, ma strana. Se lü pruvarìssa passà un dì ad nebbia par Calcinara, par San Teodòr, ma anca püssè in là: San Michél, piassètta dla Roesa, piassa dal Papa, cuntràda dl'Acqua - ah, no, adèss ass ciàma via Volta - inssùma: passà da chi par da lì, par la Pavia végia, al sentarìssa un brüsìo: jèn vus, vus dla gént antica ca vivìva in da chì cà lì. Ué, ma vus chi g'han tresént, quatarcént, cincént'an, e forse püssè! Pavia, cari i me siuri, l'è fata ad fantasmi. Parchè, da qualsiasi par ad gìrat, chì l'è storia, là l'è storia, là in fund l'è un mo storia. Mi son un ignurânt, cara la me gént, ma par sentì chi ròb chì gh'è no bisògn da vé stüdià. Ass séntan. Ass vèdan.
Pino. D'acòrdi, l'è véra. Ma al me gemél?
Pierino. Un mumént. Adèss ag rivi. Al fantasma al poeda
ciapà di furm, o poeda anca ciapài no. Ma sa j a ciàpa...
Infermiera (sorridendo). A prupòsit ad ciàpa, siur dutùr. Mi
g'ho da fag vèd
solleva un lembo della gonna
la me ciàpa sinistra, parchè m'son fat un'iniessión e m'è gnì un ematòmo... un bognóne... la m'è gnüda a cò...
Dottore. Signorina! Per cortesia, mi lasci ascoltare, Più
tardi mi farà vedere... Continui, Pierino, vada avanti.
Pierino. Disìvi, siur dutùr, c'al fantasma poeda ciapà vari
furm. Magari i sò fum uriginàri; e alùra al vedarà in gir i suldà vestì ad fèr, cun di alabàrd long in sì; o magari i dòn, cun la sòca larga e grossa, i parücón pién ad canelòtti; o magari fantasmi impurtânt (parchè gh'en anca i fantasma impurtânt!), fantasmi tame quèl ad Capsón, ad fra Bossolaro, di fradé Cairoli, ad Pasquale Massacra, tüta gént cl'è pü da chì. Ma al fantasma al poe anca schersà e ciapà di furm ad gént di nòssi dì.
Dottore. Cioè, può trasformarsi e creare dei sosia!
Pierino. Propi in sì.
Riccardo. Ma via, babbo, queste sono superstizioni. Un uomo
di scienza non può credere a queste ridicolaggini.
Pino. No, cara 'l me fioe! Pierino al g'ha ragión: son no
mi, l'è al me fantasma...
Pierino. No no no no no no no no. L'è no al to fantasma. L'è
un fantasma d'un quài òm cl'è mort sécul e sécul fa, e adèss al salta foera e al ciàpa la to fàcia.
Gianna (che finora se n'è stata in disparte). Fermi tutti.
Alùra mi sarìssi andata cul fantasma?
Sviene. Tutti le si ammassano attorno, tranne Pierino.
Maria (spaventata). O Signùr!
Adalgisa. Presto, i sali!
Dottore. Calma, signori, calma! Fate spazio! Ecco, tenetela
distesa, così.
Pino. L'è dré passà.
Riccardo. Si riprende, ecco, si riprende.
Gianna. Indè ca son?
Dottore. Calma, calma. É tutto a posto. Un'emozione.
Pino (rivolto a Pierino). Cal ma scüsa, ma parchè al
fantasma al deva ciapà propi la me fàcia?
Pierino (alzando le spalle). Ma! Parchè la so fàcia e no la
fàcia ad quallì?
Indica uno spettatore.
O ad quallì
ne indica un altro
o ad quallà cun la barba (eh, siur,
si rivolge allo spettatore vicino a quello con la barba
mass sénta a stà setà rénta a un fantasma pavés?).
A Pino:
E s'al ciaparìssa i fac ad tüta cla gént chì?
Indica la platea
Pensa: una cungregassión ad fantasmi... Ma! Parchè Pavia l'è magica? Gh'è no un parché a chi ròb chì. E poe la magìa la sénta chi la voera sentì. Nè, siura Maria?
Maria. Ma 'l fa savé al me num?
Pierino (ridacchiando). Ml'ha dit al gemél dal so òm, chì da
bass, suta al balcón dal dutùr.
Maria (avventandosi contro Pierino). L'è véra no, l'è vera
no! Lü l'è d'acòrdi cul me òm, l'è d'acordi!
Il dottore e Pino trattengono Maria.
Pino. Maria, par piasé...
Dottore. Signora! si calmi!
Maria (divincolandosi). Sì, jèn d'acòrdi, i voeran fam gnì
mata, i voeran mandàm al Mondino... Ma mi son no mata!
Pino. Maria, piântla, par piasé!
Riccardo. Babbo, questa storia si sta facendo ridicola!
Adalgisa. Ci ha ragione la signora Maria: al Pierino l'è un
atùr, un balìsta. Mi la cunùssi: l'è d'acordi cul so òm par gnì chi a fa 'l sentimentàl e cercà da cunfùnd la facénda di còran...
Si piazza la mano sulla fronte a mo' di corna.
Pierino. Mi disi dumà la verità.
Maria. Mata, siur dutùr! am fan gnì mata!
Riccardo. Ma babbo, è insopportabile questa ridicola
rappresentazione!
Maria (sovrastando il clamore degli altri). Siur dutùr, o
siur dutùr! L'è una farsa! Cal ga dumànda, cal ga dumanda a cl'òm chì, al Pierino, sl'er la so «ròba grossa»!
Un momento di silenzio.
Pierino (calmissimo). Niént, niént, siur dutùr. Ag disarò: a
parlà dla me Pavia am passa tüt còss. Pudàss
sorride
pudàss ch'un quài fantasma al ma fat un massàg in dla vita, indè ca sentévi mal; magari intânt ca séri dré parlà cun vi àltar. E poe, ag disi un mò, basta parlà ad Pavia ca'm sa slarga al coer.
Maria. L'ha vist, siur dutùr? L'ha sentì? Tüt bal, tüt bal
par gnì chì... d'acòrdi cul me òm! Fals! I òm jèn tüt di falsón!
Pierino. No no no no no no no no.
Pino. L'è véra no, Maria, l'è véra no!
Adalgisa (a Pino). Scarùs, schifùs d'un libidinùs!
Riccardo. Una farsa! Ridicolo, ridicolo!
Infermiera (ridendo come una pazza). Adèss, siur dutùr,
poedi parlàg dla me ciàpa?
Gianna scoppia a piangere.
Pierino (agli altri). No no no no no no no no.
Maria. Mi voeri no gnì mata par fav un piasé a vi àltar!
Pino. Maria, crèdam! Mi son d'acòrdi cun nessün!
Riccardo. Ma via! Babbo!
Dottore (spazientito, scavalcando il clamore delle voci).
Basta, signori, basta! Fuori, tutti fuori! Mi volete fare impazzire? anche lei, Pierino, fuori! E si porti fuori
quell'idiota della sua infermiera!
Ricomponendosi.
Mi scusino. Ci penserò, signori. Ho bisogno di tempo per pensarci, ho bisogno anche di silenzio. Mediterò sul caso, poi, domani, saprò dire qualcosa.
Pino (nell'atto di andarsene). Ma siur dutùr, cal ma scüsa:
alùra mi sa dévi fa? Son mi, al mat, propi mat, o jèn dabón i fantasma?
Dottore (rassicurandolo, ma continuando a sospingerlo verso
l'uscita). Non si preoccupi, non c'è nessun fantasma, lei non è matto, mi faccia solo riflettere, e domani le darò la spiegazione precisa. Ma sì, passerò io da casa sua, anzi: mi telefoni...
Pino. Ma al so fioe...
Dottore. Mio figlio? Quanto mai si è messo di mezzo!
Riccardo! Vai di là, sparisci, e pòrtati via la mamma: tanto i signori conoscono la strada. Voglio restare solo... per pensare...
Pino (uscendo, con Maria). E al fantasma?
Dottore (rassicurandolo nuovamente). Nessun fantasma.
Pino. E al gemél?
Dottore. Nessun gemello.
Maria (fermandosi sulla porta). Ma sì, inssùma. Al me òm,
siur dutùr, l'è malà o l'è malà no? E l'er al me òm quel c'ho truvà in lét cun la so inferméra? o l'er un àltar...
Dottore (spingendo anche Maria). Ma sì, ma sì. É suo marito.
No, cioè, quello a letto con la Gianna non lo era... Però... Le dirò domani. Mi faccia pensare.
Maria (insistendo). Cal ga pénsa pür, siur dutùr, ma cal ma
disa la verità, parchè mi g'ho pagüra di fantasma...
Dottore. Non c'è problema, non c'è da preoccuparsi...
Buonasera, signori, buonasera.
Escono tutti, tranne il dottore ed Adalgisa. Riccardo esce a sinistra.
Buonasera... Ah, Adalgisa, vieni qui, resta.
Adalgisa. Preparo la cena?
Dottore. Aspetta, Adalgisa, aspetta.
Pausa.
Boh! Una soluzione ci sarà, ci deve essere. O magari è tutta una montatura, una serie di coincidenze. Io non credo ai fantasmi, Adalgisa.
Le prende una mano.
Ma che mano fredda!
Adalgisa. Sarò mica un fantasma?
Ridono entrambi.
Dottore. Vieni. Una volta tanto sediamoci a guardare fuori
dal finestrone, con un buon sigaro tra le labbra...
Il dottore si va a sedere sulla poltrona, si accende un sigaro e gira le spalle al pubblico. Il finestrone lascia intravedere il calare della luce. É quasi sera. Adalgisa resta in piedi, appoggiata allo schienale della poltrona, anche lei dando di spalle al pubblico. Riccardo riapre la porta di sinistra e vi rimane nascosto ad origliare.
Sì, vedi, Adalgisa, Pavia è un po' magica, nostalgica, se si vuole anche affascinante, ma è tutta questione di atmosfera, di suggestioni, di sensazioni intime, di quel particolare rapporto che c'è tra il Pavese e la storia che lo circonda. Storia con l'Esse maiuscola, s'intende; storia di re, di imperatori, di guerrieri longobardi, di lotte medioevali; storie rimaste nei muri, nelle strade della città. I fantasmi... Boh!
Guarda fuori e indica.
E quei piccioni, e quei passeri, lì, attorno alla Torre civica, al Duomo. Guarda: se ne vanno a dormire insieme al sole. Sì, anche loro fanno parte dell'atmosfera. Il vecchio Pierino direbbe che anche loro possono essere dei fantasmi, fantasmi con sembianze di animali. E magari sarebbe un fantasma anche la Torre civica, un immenso fantasma di una torre scomparsa qualche secolo fa. Ne sono scomparse tante! No, no, che assurdità! Lo vedi, Adalgisa, mi sto lasciando influenzare, e se la magia pavese ti entra nel sangue...
Adalgisa. Ma no, caro. Ci hai solo bisogno di un po' di
riposo, dopo tutto questo putiferio. Non dobbiamo lasciarci contagiare: i fantasmi pavesi non esistono.
Il fumo del sigaro continua ad uscire abbondante dalla poltrona, ma il medico è interamente coperto dallo schienale. Si apre la porta di destra ed entra il Sosia del Medico, con un sigaro in bocca, si guarda attorno con aria circospetta, si avvicina al dottor Orlandi, gli fa cadere un po' di cenere in testa, da dietro la spalliera. Sorride al pubblico, poi esce ridendo dalla parte opposta, a sinistra. Anche Riccardo e Adalgisa non si sono accorti di nulla. Sipario.
NOTA.
Mi sembra doveroso rimarcare la funzione della poltrona del medico nella scena finale: le sue dimensioni (schienale alto, eventuali braccioli, ecc.) devono consentire all'attore di lasciare il proprio posto all'insaputa del pubblico e di essere sostituito da una controfigura provvista anch'essa di sigaro acceso. L'interprete del dottor Orlandi, grazie alle battute di Adalgisa, troverà il tempo materiale per fare il suo ingresso nei panni del Sosia del Medico.