All’Angelo azzurro

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All’Angelo Azzurro

All’Angelo Azzurro

di

Giuseppe Manfridi

PERSONAGGI:

RAAT/NARRATORE - Un dèmone. Un dèmone sotto mentite spoglie. Uomo maturo, ma avvenente, eppure capace di occultare la propria avvenenza come se si trattasse di un’arma da non ostentare. Veste solo abiti estremamente scuri o estremanente chiari. La cattedra pare essere per lui una postazione di controllo, un espediente, una strategia di battaglia. Tutt’altro che un debole. Nelle scene in cui, atteggiandosi a cronista di se stesso, si farà Narratore, mostrerà amabilità e suadenza. E anche la crudeltà, allora, si trasformerà in una dandystica leggerezza.

LIU’ - Innanzitutto, perché la chiamo così? Il ‘900 è abitato da tre miti femminili che, curiosamente, hanno nomi imparentati: la Lulù di Wedekind, la Lola di von Sternberg (ben lontana dalla Rose di H. Mann), e la Lolita di Nabokov-Kubrik. Ebbene, il mio personaggio non è nessuna di costoro, ma un po’ d’ognuna e qualcosa d’altro. Perciò, Liù. Una sviata, una danneggiata, un’utilizzata da tutti. O semplicemente, una stupefacente femmina dall’intelletto un po’ torpido. Tanto ingenua quanto caritatevole. Eppure, la sua alterazione può covare pericoli fatali. Come la carezza d’una medusa.

TABORI - Un principe non solo per titolo araldico. Scivoloso, algido, imprendibile. Per prima cosa, non mente mai. La sua anima è totalmente a vista, priva di quasiasi doppio fondo. Al punto che è quasi difficile credere che egli sia davvero quello che appare, invece è proprio così. Lo scoprirà, a proprie spese, Raat. Taborì è anche una sorta di asceta. Lo si direbbe l’adepto (o di già il guru) di qualche misteriosa setta monacale. Dice di scrivere drammi e poesie, ma assai di più gli si confarrebbe la composizione di ‘haiku’.

SCHWARZ - Disinibito e sempre sicuro del fatto suo. Ostenta un’esperienza del mondo che, probabilmente, non acquisirà mai. La sua età gli va stretta. Sapersi nobile, lo aiuta a fare lo scavezzacollo.

STEINHERZ: Più impacciato del suo compagno, e sempre esposto a complessi di inferiorità nei suoi confronti. Appartiene a quella piccola borghesia che, da un lato, si tiene lontana dall’Angelo, dall’altra, è sopportata con fastidio a casa Raat.

LENE - Cinquantenne, eppure ancora dalle carni appetitose. Si dichiara artista circense, ma è senz’altro una puttana con ambizioni da ‘maitresse’. Quando appare di buon cuore, non c’è dubbio che la sua bontà sia di maniera. Va dove si mangia meglio. Vuol bene a Liù poiché, in fondo, la ritiene inferiore a sé.

CINKUS - Un morto di fame. E’ l’improvvido gestore dell’Angelo. Da quel po’ che di lui vediamo, non c’è da meravigliarsi che alle prime difficoltà (la partenza di Liù) il locale sia scostretto a chiudere.

THERESE - Per quanto il suo ruolo potrebbe farci immaginare altrimenti, Therese non è affatto brutta, anzi. Il punto è che a Raat, suo padrone, non fa piacere supporla attraente; gli scombinerebbe qualche piano. Siamo a un passo dalla ‘zitellona’ lorchiana, ma la linea non è ancora varcata. Guai, nella sua ultima scena, a farne una ‘pazza di Chaillot’. Pure da barbona, non è una barbona; pure da pazza, non è una pazza. E’ solo una donna molto, molto arrabbiata.

CONSOLE MOELLER - Un uomo in cui le smanie senili non sanno venire a patti con le mielosità di un ‘bon ton’ impossibile da dismettere. Imbarazzabile e pavido. Però difficile da mettere in ginocchio. Infallibilmente elegante. D’una vecchiezza non spregevole.

GIUDICE MAYER - Collerico e irrisolto. Non ci sta a perdere, a ma ancor meno a smettere di giocare. Difficile immaginarlo con la toga addosso; noi, nella nostra storia, lo incontriamo al suo peggio. Nell’unica battuta che pronuncia con lucidità (la sua ultima, rivolta a Liù), assurge, per un istante, alle sembianze di un Regolo che vada al supplizio.

KODALY - Un ‘parvenu’, ma con dei meriti. Ama divertirsi, ma non al punto da lasciarci le penne. Soprattutto nella scena sulla nave, lo si direbbe un tipo da vignetta della ‘Belle époque’. Poi si verrà sapere che è un magnate del ferro, alché, stranamente, ci farà sorridere un po’ di meno. Chissà che non sia pure nelle sue officine che il Reich, di lì a non molto, andrà a fare rifornimento!

JUAN - Biscazziere casanoviano. Me lo figuro lungo e ossuto. E’ uno dei pochi a vedere d’un lampo chi sia per davvero Raat, e chi Liù. La sua astuzia lo indurrà a cercarne la complicità, piuttosto che l’ostilità. L’unico metro che ha per affezionarsi a qualcuno è nel guadagno che potrà cavarne. Quandanche si tratti di Ramona, sua sorella.

RAMONA - Un’antilope. Creola. Fiammeggiante. Meno disponibile di quanto appaia. Sedurre la stanca, ma le basta poco per riuscirci benissimo. Forma col fratello (sempre che non sia il suo amante) un’associazione ‘a delinquere’ aperta a nuovi ingressi. Ad esempio, Raat.

MARINAIO - Lascivo, come preteso dalla circostanza in cui appare quando la sua impudenza mostrerà a Raat le delizie e le insidie di certi paraggi a una certa ora della notte. Un piccolo omaggio a Fassbinder.

EPSTEIN: Uno dei testimoni della mutazione di Raat. Celebra, da buon ebreo, i riti del Sabato, e scrutina, con acume cattolico, le pecche del suo interlocutore per poi utilizzarle al momento opportuno.

LE VOCI DELLA CITTÀ: A volte un rosario, a volte un coro, a volte un magma. I loro interventi sostituiscono (o costituiscono) delle vere e proprie azioni

drammatiche.

I ATTO

(Alla ribalta, davanti al sipario abbassato. Una donna in costume sgargiante, tra la ‘maitresse’ e la domatrice di circo, affronta il pubblico come farebbe con una folla di passanti. Brandisce mazzetti di foto. Un passo dietro di lei, un uomo impennacchiato tiene il ritmo della sua chiacchiera con dei cembalini)

LENE: Attrazioni attrazioni,

signore e signori!

Qui da noi ce n’è per tutti,

sia per i belli...

CINKUS: Che per i brutti.

LENE: Ce n’è per lui, ce n’è per voi,

qui puoi trovare...

CINKUS: Quello che vuoi.

LENE: Mi presento: Lene Cinkus... funambola versatile in ‘sketch’, ‘calambour’, e scioglilingua; nonché acrobata provetta in salti, avvitamenti e piroette. E questo qui presente è mio cugino.

CINKUS: Peer Cinkus.

LENE: Cinkus per cinkus, venticinkus. Questo quando la famiglia si riunisce.

CINKUS: Peer, se permetti è il nome, mentre Cinkus...

LENE: Tutti i capelli delle tue belle chiome.

CINKUS: No, il cognome.

LENE: Scherzi a parte - e non interrompermi, cafone! - ... lei, biondino, laggiù, perché mi scappa?... Abbiamo novità, non la interessa?

CINKUS: Dai, Lene, lascia stare, è con la moglie.

LENE: Oh, ma pure le signore son gradite. E noi da venerdì, passaparola, ne abbiamo una che torna a gran richiesta.

CINKUS: E dove se n’è stata sinora la signora?

LENE: S’ignora.

CINKUS: Già l’hai detto.

LENE: Intendo, signore, che ignoro ove sia stata sinora la signora. Come che sia... Donne, tremate! Maschi esultate!... Torna Liù, e torna equipaggiata dell’intero suo corredo. Dalle cosce...

CINKUS: In sù.

LENE: Dalle cosce...

CINKUS: In giù.

LENE: Ossia quel che v’aspettate...

CINKUS: E assai di più.

LENE: Lei dica, giovanotto, l’ha mai vista?... No, mai? Possibile?... (Porgendo le foto a qualcuno del pubblico) Tenga, s’abitui. (Ad altri) Qualcun altro ne gradisce?... (Come pressata da mille richieste) Oh-oh... per dirla con mio zio che fa il merciaio: l’articolo funziona. (Scendendo in platea per distribuire foto di Liù a tutti) Prego, prendete, ce n’è, ce n’è... - lei, mi scusi... può farle circolare, sia gentile!... (Risalendo sul palco) E alla nostra taverna non c’è solo Liù, ma pure...

CINKUS: Cinkus Peer, ginnico terrestre.

LENE: (A lui) Nel senso che non voli, dì per bene. (Agli altri) E con lui... (un inchino) lasempre vostra Lene.

(Un colpo di cembalo, e i due scompaiono. Si apre il sipario)

(Gabinetti. Sulla parete di fondo è murata una fila di orinatoi coi loro annessi di tubature, mentre su quella laterale sono campite le porte dei water, una delle quali è senz’altro chiusa. Su ciascuna delle porcellane - diciamo all’altezza dello sguardo di chi se ne servisse - è graffita, in una serie di repliche fedeli, la figurina di una donna di gamba lunghissima e presumibilmente in abiti succinti. Due studenti, all’incirca diciassettenni, hanno abbandonato i loro libri sugli spigoli di un orinale e, incappottati, si stanno dando da fare nel passare in rassegna due mazzi di cartuccelle. E’ chiaro che stanno mercanteggiando. Nell’ombra oltre la soglia è comparsa la figura di un uomo intabarrato che, tenendosi defilato presso lo stipite, se ne sta immobile a spiare la scena)

STEINHERZ: Allora facciamo due di queste per quella dove si vedono le tette.

SCHWARZ: Sì, ciao bello!

STEINHERZ: Tre?

SCHWARZ: Tre di quali?

STEINHERZ: Due che scegli tu e una io.

SCHWARZ: Fammi capire. Per quella di Liù?

STEINHERZ: Ma pure queste sono di Liù. Guarda quante ne ho!

SCHWARZ: Ci credo... quelle le hai ritagliate dal giornale, sai che sforzo!

STEINHERZ: Senti chi parla, per una mezza sisa... se vai All’angelo te le tirano dietro.

SCHWARZ: Come questa, dubito.

STEINHERZ: (Artigliandosi tra le gambe) Dai, solo prestarmela!...

SCHWARZ: E ci rifai. O tutte o niente.

STEINHERZ: Non fare il bastardo... dieci minuti, te li pago.

SCHWARZ: So io quant’ho penata per averla! (E fa per mettersela in tasca)

STEINHERZ: Va bene, dimmi almeno come hai fatto che ci provo anch’io.

SCHWARZ: Ma figurati! Ce n’è voluto a convincerla, mica la mollava.

STEINHERZ: Già, perché adesso sarebbe stata lei che te l’ha data!

SCHWARZ: Perché, ti secca?

STEINHERZ: (Aggredendolo) Sei un bugiardo! Uno schifoso bugiardo!...

(Ne viene fuori una zuffa presto interrotta dall’ingresso dell’uomo che stava a spiare. E’ Raat. Comparirà avvolto in un soprabito indossato a mò di mantello, impugna una sottile stecca da passeggio e calza un floscio cappellone a larghe falde, scuro come il resto dei suoi vestiti. I due, a vederlo, scattano in piedi come molle. Raat va a smuovere con la sua stecca le foto sparse per terra)

SCHWARZ: Professore... che quelle, veramente... sarebbero cose mie, di famiglia!

RAAT: (Spingendogli tra i piedi una foto premuta sotto il puntale della canna) E questa chi è? Tua sorella?... Beh, devi farcela conoscere. (Silenzio) Via, filare!

SCHWARZ: (Recuperando i libri, al compagno) Bella mossa. Sarai contento adesso!...

STEINHERZ: Fottiti!

(E si allontana mostrandogli il medio della destra chiusa a pugno. Schwarz, mentre Raat gli volge le spalle, ci pensa sù un attimo, quindi si lancia a raccogliere una foto più alla sua portata ma l’altro, prontissimo, si volta e lo secca assestandogli una solenne fustigata sulla mano e quello, guaendo per il dolore, infila l’uscita di gran carriera. Rimasto solo, Raat si mette a rovistare in ogni angolo, anche nel più lurido. Poi va ai graffiti sul muro. Controlla una delle foto recuperate per valutare la somiglianza tra questa e quelli. D’improvviso, è distratto dal rumore di uno scarico. Una delle porte si apre e ne esce un ragazzetto sottile e pallido, con un gran ciuffo chiaro sulla fronte. Tiene tra le braccia un pila di libri stretti in una cinghia. Ha lo sguardo vago, e nient’affatto turbato dalla vista del Professore che gli si impone di fronte impedendogli l’uscita)

RAAT: Taborì... tutto bene, Taborì?...

(Il ragazzo, a capo chino, annuisce)

RAAT: Notavo queste simpatiche incisioni. Mi ricordano qualcosa. La sua calligrafia, può essere?...

(Taborì tace)

RAAT: Ha nulla in contrario se mi permetto una piccola perquisizione? L’ora non lo consentirebbe, ma il luogo sì. (Silenzio) Vuole accostarsi, per favore?...

(Taborì avanza di qualche passo, sino alla portata del bastone di Raat che inizia a tastarlo tra le gambe, sui fianchi e sotto le ascelle. L’altro, come al palo della tortura, lascia fare. Da ultimo, Raat se ne andrà spedito a controllare nel gabbiotto del water da cui è uscito il ragazzo. Niente)

RAAT: (Puntando risoluto il bastone verso i graffiti) Sono sue quelle schifezze?...

(Taborì, senza alcun disagio, annuisce)

RAAT: E la volta che potrebbe godersele, evita. Preferisce intanarsi al chiuso. - Lei è solo al servizio degli altri, vero Taborì?... Beh, anch’io. Responsabilità non da poco. Da Re. Sbaglio?... (Silenzio) Vada. (Nessuna reazione) Se ne vada!

TABORÌ: Quando pensa che potrò riavere il mio diaro?

RAAT: A che titolo questa pretesa?

TABORÌ: Ci sono cose private, e vorrei sapere quando potrò riaverlo.

RAAT: Lo teneva nel suo banco. Dunque, sequestrabile, come tutto quello che si porta in classe.

TABORÌ: Mi scusi, ma anche i calzoni sono costretto a portarmi in classe.

RAAT: Me ne dia motivo, e le sequestro pure quelli.

TABORÌ: Mi faccia i suoi rimproveri, Professor Raat. Vorrei capire.

RAAT: Professor Raat... bella leccata, c’è tutto lei. - I miei rimproveri sono per come, invece, mi chiamano alle spalle i suoi compagni, e per il fatto che siano i delinquenti che sono. Per tutto questo, io punto il dito contro la sua arietta da cascamorto.

TABORÌ: Ma se neanche mi amano troppo!...

RAAT: Ovvio. Sono suoi dipendenti, non possono amarla. Più lei non m’insulta, più lo fanno loro. E’ un codice che le sfugge? Non credo. Li conosce bene i suoi trucchi su come si governa. (Andandogli di fronte) Lei è un capobrigata. Se non per elezione, per adozione istintiva da parte della massa. (Stringendolo al mento) Ma lei la odia la massa, dico bene, Taborì?... Come me.

TABORÌ: Non mi piace... confondermi.

RAAT: Sicché è solo per questo che è l’unico a non chiamarmi ‘sorcio’?... O lo fa, ma è l’unico a non farsi mai beccare?... No, non ce la vedo. Però scommetto che se gli altri non lo facessero, lo farebbe eccome. E stia sicuro che se cominciasse a farlo, quelli smetterebbero all’istante. Ci provi. Scenda dalle sue altitudini, si metta al loro livello. Sù, ha sentito quello che le ho chiesto?... Lo faccia, o lo segnerò a verbale.

TABORÌ: Che non la insulto?

RAAT: No, che si abbandona a componimenti osceni.

TABORÌ: Osceno cosa? Non c’è niente di osceno, io ho solo...

RAAT: Favoleggiare di donne insudiciate non è un’oscenità, secondo lei? O raccontare d’una, la cito!, che si vanta d’essere la giumenta di tutti i marinai... neanche questa sarebbe un’oscenità?

TABORÌ: Ma sono canzoni, ci vuole la musica!

RAAT: Ah, non sapevo che amasse esibirsi. Mi faccia sentire.

TABORÌ: Per cortesia...

RAAT: Forse m’è sfuggito il senso delle sue creazioni. Potrei ricredermi. Canti.

TABORÌ: (Intonando stentatamente) "Oh capitano, mi cercate invano. / Chiedete ad altre / quel che non vi do. / Perché sperare? Non m’avrete mai. / Io sono la giumenta di tutti i marinai."

RAAT: Immagino il Principe suo padre se potesse sentirla... la mia piccola puledrina!...

TABORÌ: Quelle canzoni non le scrivo per me.

RAAT: E per chi?

TABORÌ: Per un’artista, signore.

(Raat va presso i graffiti sul muro)

RAAT: Per lei?... Si chiama Liù questa puttanella, vero?... (Mostrando le foto che aveva in tasca) Lei è un discreto ristrattista, si riconosce che è la stessa, e qui c’è scritto ‘Liù’. Cos’è? Una prim’attrice? Una ‘chanteuse’?

TABORÌ: E’ più... una danzatrice.

RAAT: Ah, l’eterno fascino di Salomè!

TABORÌ: Io però so che potrebbe anche cantare benissimo.

RAAT: Stupefacente creatura! Giumenta di tutti i marinai, sfogo di tutti i miei allievi, e musa di un grande poeta!... Davvero efficace. E quando potremo avere il piacere?... Di ammirarvi, dico. (Silenzio) Mi spiacerebbe mancare alla vostra reciproca consacrazione.

TABORÌ: Tornerà in città solo il prossimo venerdì.

RAAT: Sapremo aspettare.

TABORÌ: Me lo ridarete?

RAAT: Chiamami ‘sorcio’.

(Taborì fa di no con la testa)

RAAT: Ti garantisco l’immunità assoluta.

TABORÌ: Non mi faccia attribuirle bassezze che non ha. Io la rispetto.

RAAT: Allora obbediscimi.

(Taborì fa nuovamente di no con la testa)

RAAT: Tu sei il più formidabile paravento che mi sia capitato tra i piedi in quasi quarant’anni di scuola, Taborì. Ma se c’è uno che riesco a penetrare sino alle midolla della sua diversità, quello sei proprio tu. - Ora sparisci!

(Taborì accenna un saluto col capo, e va)

RAAT: A venerdì, caro il mio principino!... Ma intanto, Raat, fagli dimenticare che stai aspettando. - Che non ci pensi più, come se me lo fossi dimenticato anch’io..

(Va ai graffiti. Estrae di tasca un temperino. Sembra che voglia infierirvi sù, mentre non farà che rendere gli intagli ancora più espliciti. Infine, si leva manto e cappello, si volta, e viene al proscenio. Il suo sguardo, adesso, appare quieto e amichevole)

NARRATORE: Meritate una spiegazione. Oh, non per quello che avete visto, ma per questo mio improvviso rivolgermi direttamente a voi sapendovi lì, seduti dove siete. Intendo raccontarvi la storia di un uomo dal nome molto maligno; la sua, e quella della sua signora. Autori e vittime di un delitto fesso ma feroce, e di cui, personalmente, so tantissimo. Affinché la narrazione proceda con meticoloso rispetto dei particolari, io mi prenderò la briga d’essere me stesso e lui, lui e me stesso. Ora, è evidente, non sono lui. - Raat... che nome maligno, vero? Poiché troppo facile da virare nell’immagine di un sorcio. Il professor... sorcio. Beh, da quasi quarant’anni lui sa di essere per tutti... questo. E sa che il suo nome viene strillato di nascosto: che lo senta - poiché, da quasi quarant’anni, Raat sembra aver dichiarato guerra a quella città in cui giunse giovanissimo con l’animo di chi volesse farne un campo di esperimenti personali sorretti da una strana smania di livellamento. Già. Il suo credo politico era: solo la mediocrità garantisce la democrazia, e solo la democrazia, poiché schiacciabile, consente un governo forte. Cosa di cui egli è sempre stato fautore. Quanto a me, io sono un suo ex alunno. Oggi ho gli anni che aveva Raat quando iniziò a precipitare, e provo la strana sensazione che suppongo provi un figlio quando raggiunge l’età in cui è morto suo padre. Perciò ve ne parlo. Lo faccio per lui, ma anche per Liù. E a nome della mia città che ha bisogno di farsi perdonare qualcosa. Ebbene, nei giorni successivi a quell’imbarazzante colloquio, le cose andarono esattamente come Raat aveva stabilito. Sino a venerdì. A venerdì notte. A stanotte. Se ne è reso conto quasi all’improvviso che oggi è venerdì. A ricordarglielo, una strana agitazione fra i ragazzi in aula. Lui zitto, nemmeno li ha ripresi. Poi le ombre del pomeriggio, e il nero della sera. Ci siamo! Si tratta di uscire... di avventurarsi nella città di notte. A caccia di Liù. O di Taborì?... O di quei piccoli diavoli che, a dio piacendo, potrà mettere nel sacco una volta per tutte?... (Con altro tono, verso l’interno) Therese, esco!... (Di nuovo al pubblico) No, non pensate ci siano donne a casa sua. Solo una strana domestica che, per lui, potrebbe anche non avere un accidente tra le cosce. (Con gesto da mago, vestendo gli orpelli di Raat e illustrando lo spazio attorno) Eccola la città di notte!... Dentro vi brucia qualcosa. La carne di quel corpo graffito. Ma dove?... Dove?

(Il Narratore volta le spalle alla platea e s’inoltra, con passo incerto, tra profili di case, porte e lampioni. A condizionarne i movimenti, è la pioggia di voci che gli cade addosso facendolo fuggire di qua e di là. Luci che si accendono e si spengono ovunque, con allucinata intermittenza)

VOCE: Fate rientare i bambini, la città è infestata di sorci!

VOCE: Sorcio! Sorcio!

VOCE: Thomas, subito a casa!

VOCE: E come sono grossi!...

VOCE: Tira fuori il gatto!

VOCE: E che gli fa? Quello se lo mangia in un boccone!

VOCE: Le autorità dovrebbero intervenire!

VOCE: Sorcio! Sorcio! Sorcio!

VOCE: Non lo stuzzicare, è peggio.

VOCE: Invece per me è carino.

VOCE: Quello se s’arrabbia morde.

VOCE: Infetta, altro che morde!

VOCE: Chiudi, fa’ freddo.

VOCE: Sofia, va’ a letto!

VOCE: (Di bambina) Lo voglio vedere! Lo voglio vedere!

VOCE: (Di bambina) E’ quello che striscia? Quello laggiù? E’ quello?...

VOCE: Nemmeno a quest’ora si può stare più tranquilli!

VOCE: (Di bambina) Sorcio-sorcetto! Sorcio-sorcetto!

(Una finestra che sbatte, poi tante altre appresso. Dietro un cantone compaiono Schwarz e Steinherz che spiano Raat disorientato presso un crocicchio)

I DUE: "O capitano mi cercate invano. / Perché sperare? Non mi avrete mai. / Io sono la giumenta di tutti i marinai."

RAAT: (Mulinando il suo bastone) Chi è là?

(I ragazzi schizzano via)

RAAT: Ho detto chi è la!... (Poi è distratto da qualcosa che annusa nell’aria, come il brivido di una melodia che subito svanisce) E’ dal porto... questa musica viene da liggiù... - Niente, finita. - Ah, notte infame, vuoi fare a pugni? Bene, faremo a pugni!

(Un marinaio dalla divisa innaturalmente candida attraversa la scena)

RAAT: Scusi, lei!... Solo un attimo, per cortesia!... Ha idea, per caso, di dove possa essere un certo posto, che io, insomma... che io dovrei...

MARINAIO: Cos’è? Vescica piena?

RAAT: No, mi lasci dire! Prima c’era come della musica qui. Si sentiva benissimo. Lei no?... Il fatto è che dovrebbe esserci tipo un posto dove fanno della danza da queste parti, e se fosse così cortese da... da...

MARINAIO: Accompagnarla?

RAAT: No, no, a me basta solo che me lo indichi.

MARINAIO: Ne conosco dieci per dito. Potremmo fare un piccolo ‘tour’.

RAAT: Ma che ha capito? Non sono in cerca di divertimenti, io! Ci mancherebbe altro!

MARINAIO: E chi dice il contrario! Nulla di più serio che andare a caccia del proprio piacere. O no?... (Tirando fuori un’armonica) Forse la musica che sentiva era più o meno questa?... (E suona)

RAAT: Sì, questa, questa! Santiddio, dov’è che la fanno?... Per carità, me lo dica!

MARINAIO: Va là, che tu non cerchi un posto, cerchi un postaccio. Dico male, vecchio puttaniere?... (E si allontana suonando)

(Raat rimane senza fiato. Per ridarsi tono beve un sorso da una borraccetta che si teneva in tasca, finché scorge delle figure sgusciare oltre uno spigolo)

RAAT: (Muovendosi a casaccio) Taborì!... E’ lei Taborì?...

TABORÌ: (Comparendo dalla parte opposta) Non mi cerchi lì, sono quaggiù.

RAAT: Dove diavolo sta andando?

TABORÌ: A casa da noi abbiamo un ricevimento. A me stancano ma, se le va, mio padre sarà felicissimo di rivedere il suo vecchio Professore.

RAAT: M’avrebbe invitato, non l’ha fatto.

TABORÌ: Colpa mia che avrei dovuto farmi portavoce. Mi segua.

RAAT: Ma è venerdì stasera!

TABORÌ: Difatti si cena di magro.

(Taborì scompare. Raat sta per seguirlo ma altre figure guizzano alle sue spalle chiamandosi con un fischio)

STEINHERZ: Dai, svelto, intanto che Laszlo lo semina per strada!

SCHWARZ: Diamine, è tardissimo!

RAAT: (Voltandosi di scatto) Ah, maledetti!... (Altrove) Taborì!... Taborì!... (Urlando) Dove l’avete nascosta? Dov’è?... Questa vacca, voglio sapere dov’è!

EPSTEIN: (Comparendo sparutissimo dal fondo. E’ in maniche di camicia e indossa delle goffe brache di fustagno appese con bretelloni alle spallucce ossute) Signore, signore... lo imploro... rispetti il riposo dovuto a Dio. - Ah, Professore, è lei.

RAAT: (Schermandosi la fronte per capire chi sia stato a parlare) Ci conosciamo?

EPSTEIN: Epstein, il sarto. Mi ha onorato più volte della sua fiducia. Quell’orlo al mantello gliel’ho fatto io. Stiamo infornando il pane per il sabato, vuole farci compagnia?... Certo, mio figlio si spaventerà a vederla, me lo fa trottare mica male, ma sapesse quanto le è affezionato!

RAAT: Ah, caro Epstein... mi perdoni, che c’erano certi manigoldi...

EPSTEIN: Eh queste strade!

RAAT: Piene di sorci, vero?...

EPSTEIN: Bestiole innocue. Quelli che mi fanno più paura sono gli uomini.

RAAT: E le donne?

EPSTEIN: A chi pensa, Professore?

RAAT: Mi permetta di parlarle schiettamente. Lei ha un figlio ancora ragazzetto e può capirmi. La nostra gioventù è a rischio, e io ho deciso di schierarmi a sua difesa.

EPSTEIN: Debbo rientrare.

RAAT: Aspetti! C’è un locale qui da noi... un locale... verso il porto, credo... qui vicino... sì, molto vicino... un locale di cui tutti sembra siano al corrente, tranne me...

EPSTEIN: Se è un indirizzo che cerca... beh, si renda conto, sono un uomo sposato. Lei, d’accordo, ne ha tutti i diritti, ma se io ora mi lasciassi andare a qualche... diciamo suggerimento... che figura ci farei?...

RAAT: Allora sa di che parlo!

EPSTEIN: Oh no no no no... non ho detto questo. Ma capisco di che ha bisogno.

RAAT: Io non cerco una donna qualsia... cioè, un posto qualsiasi. Io cerco....

EPSTEIN: Scccch!... Ci sentono.

RAAT: Ma non ho nulla da nascondere, per dio!

EPSTEIN: (Accusando la bestemmia) Pregherò per lei... pregherò per lei. (E scompare nel buio)

(Raat, furente, va a un portone e, senza tante premure, sta per bussare ma nota il nome sulla placca e si trattiene)

RAAT: No, a te ti conosco bene. Ti ho rotto le ossa in tribunale diecianni fa. (Altro portone) A te pure... è un bel po’ che ho mandato in galera tuo padre. (Altro portone) Con te, per carità, ho una causa in corso. (Altro portone) Questo, poi, l’ho bocciato tre volte di fila, e ora guardatelo... notaio. - sembra che, qui, le mie punizioni le convertano in referenze. - Siete tutti figli miei, bastardi! Tutti figli miei!

(Ora sì che ha bisogno di orinare. Si acquatta in un angolo e si appresta a farlo. Sente qualcosa a cui tende l’orecchio. Si tratta di un suono che viene da una feritoia in basso. Raat si inginocchia e ascolta. Canticchia sulla musica, e canticchia le parole di Taborì. Salta sù. Prova a spingere il portone di fianco. Chiuso. Si apre una porticina dall’altra parte e sull’uscio compare Lene. Nonostante la sua vistosità, sia il trucco che l’abbigliamento si direbbero incompleti, tanto che la donna ha tra le mani una scatoletta di crema e dei pennellini)

LENE: Si può sapere che cerca?

RAAT: Io, una... una... c’è un locale qui con una...?

LENE: Liù?

RAAT: Sì, Liù!

LENE: Ma è per vederla o che le deve parlare? Se è per vedere, l’ingresso è dall’altra parte.

RAAT: No, no... parlare... cioè, vederla, ma per parlare!

LENE: (Dandosi un’allisciata alla chioma con la mano unta) Ah, ma forse lei... per caso è il signore delle orchidee arrivate questo pomeriggio?

RAAT: Eh?... (Mentendo) Ah, sì sì... sono io. (Mostrando una foto a mò di lasciapassare) Ecco, guardi, m’ha dato anche un suo ritratto!

LENE: (Insistendo a tenergli gli occhi addosso e prendendo a truccarsi in faccia a Raat) Ma lo sa che da come l’ha descritta quella matta - lo dico con affetto, s’intende - la facevo più vecchio. Poi non doveva tornare sua moglie? Liù era già tutta in lutto...

RAAT: Invece no. Mi faccia entrare.

LENE: Venga, venga... - Certo, mamma mia, che sembra un angelo del giudizio! Qui siamo gente semplice, ci spaventiamo per nulla. (E scompare all’interno)

(Raat si leva manto e cappello e torna, come in precedenza, al proscenio mentre alle sue spalle la città scompare; al suo posto, luminescente, il camerino di Liù. Sul fondo, il risvolto scolorito di una tenda color prugna. Vediamo Lene farsi largo tra sedie sghimbesce, cumuli di stracci, e mazzi di fiori accatastati alla rinfusa)

NARRATORE: Chissà qual è stato il momento esatto in cui Raat ebbe l’intuizione che un nome di donna potesse trasformarsi in un progetto! Forse guardando dritto negli occhi lo strafottente figlio del Principe Taborì; o forse avventurandosi lì dentro. O, meglio ancora, quando la sua Caronte scostò morbidamente la tenda del camerino, e portandosi un dito alla bocca gli disse...

LENE: (Scostando, mostrando, e come rivolgendosi a qualcuno che l’abbia seguita) Voleva Liù?... Eccola lì.

(E finalmente la vediamo, Liù... giganteggiare nel bagliore fumoso della ribalta inquadrata di trequarti col ventre avvinghiato da un corpetto sfavillante di lustrini azzurri che la strizza sotto le ascelle lasciando libere le bianchissime spalle, e con una vaporosa gonna a falde crèmisi da cui, come stratosferici compassi carnosi, fuoriescono le gambe protese in una serie di potenti passi di danza. Nel busto, a diadema tra i seni, è spillato un grosso fiore di stoffa blù. Il Narratore, voltandosi, si riatteggia di nuovo a Raat e, come calamitato dall’invito di Lene, avanza verso il punto focale rappresentato da Liù. Lo vedremo nascondersi tra le pieghe della tenda con lo sguardo fisso in quella forma di polpa e sangue che si espone alle smanie di un’invisibile ciurma)

LENE: (Offrendogli uno sgabello) Non faccia rumore, per carità. A proposito... ha visto che bella figura fanno qui dentro le sue orchidee?...

RAAT: (Assolutamente irretito) Dio, che pezzo di carne bianca!

LENE: Gesù, ma è maniera di dire?...

RAAT: Poi che fa? Non canta?

LENE: (Sedendo presso una scheggia di specchio e riprendendo a truccarsi) Casca bene. Da un po’ di tempo gli ha preso pure questa voglia, e sa chi è stato a convincerla? Uno studentello che si è messo a dedicarle un mucchio di canzoni scritte apposta. Capirà, di giovanotti qui ne girano parecchi. Beh, s’intende che ospiti di riguardo come lei sono tutt’altra cosa. Me l’ha fatto vedere, sa, il braccialino che le ha regalato... che gusto! Che finezza!

(Nel frattempo Liù ha terminato il suo numero di danza. La gente ulula e batte i pugni. Lei fa un cenno all’orchestra. Si direbbe per l’attacco di una canzone)

LENE: Basta, sto zitta. Se la goda in santa pace.

(Liù comincia a cantare. La platea, seppure sgranando qualche brontolio isolato, sembra sottostare a quella melodia offerta con gesti che trasudano eros)

Nota importante: immaginando il palcoscenico fittizio come una struttura ruotante, potremo veder Liù cantare di faccia alla platea reale, purché si mantenga percepibile il colloquio di segni tra lei, Raat e Gusta. Terminato il pezzo, il palcoscenico tornerebbe, poi, a vedersi di sguincio.

RAAT: Che versi indegni!

LENE: Glielo dica e non la canterà più.

(Liù, infastidita dai rumori che giungono dal camerino, si volta in quinta con espressione rovente. Raat ha un immediato scatto all’indietro che lo porta del tutto a riparo del tendaggio. Lene fa segno all’altra che si tratta di ‘quello del braccialetto’, alché, la rabbia della ‘soubrette’ dissipa all’istante, mentre, con lo sguardo, cerca di raggiungere l’uomo nel suo nascondiglio. Raat se ne accorge e solleva rapidissimo un lembo di stoffa a coprirsi gran parte della faccia. Per un attimo, i suoi occhi incrociano quelli di lei)

LENE: Inutile che si nasconde... tanto ormai lo sa che sta qui. Stringe il cuore vedere quanto le vuol bene

RAAT: E zitta!

(Liù continua a cantare lanciando, con arte, il senso dei suoi caldissimi versi all’indirizzo di Raat. Poi, un disarmonico scrosciare di applausi, ma pure qualche fischio che Liù mette a tacere con un poderoso colpo d’anca)

RAAT: (Inorridito) Ma che fa?

LENE: Li addomestica. Un tempo sapevo farlo anch’io di usare il corpo come uno scudiscio, che si crede! (E si alza con una mossa che equivale a un’ultima assestata)

LIÙ: (Al suo pubblico) Calmi, ragazzi, calmi!... Me lo fate un regalino? Solo un attimo di silenzio, per cortesia?... Ve lo chiedo a mani giunte, devo dirvi una cosa importante...

VOCE: Perché non ce la dai, invece di dircela?

LIÙ: Per cose d’affari, prego rivolgersi alla mia segretaria.

(Risate, e qualche smorta folata di applausi)

RAAT: Ma tutto ciò è scandaloso!

LENE: Perché? Non lo vede che più li eccita, e più li smorza?

LIÙ: Vorrei tanto... vorrei tanto...

ALTRA VOCE: Sapessi io!

LIÙ: Bravo, mettici del ghiaccio!... Vorrei tanto, se solo ve ne state un po’ tranquilli, presentarvi un giovane di valore di cui... oh! Vogliamo stare zitti o no? Dicevo che vorrei presentarvi il giovane poeta che ha composto la splendida canzone che avete tanto apprezzato. Dato che è tra voi, lo pregherei di salire quissù con me così gli potete fare un bell’applauso.

(Taborì, filiforme e lunare, compare sul palco affianco di Liù. Riceve il suo stiracchiato tributo a mani giunte, come un sacerdote orientale)

RAAT: Disgraziato, ma come si permette!

LENE: Non gli dia peso, Cavaliere. Quello, il massimo che chiede è di mettere in bocca a Liù le sue parole e basta. (Poi sguaiatamente) Mica come lei.

LIÙ: Poi... non ho finito...

LENE: (Presso la tenda, pestando i piedi) Gesù, quanto chiacchiera! Io ho freddo.

LIÙ: Per una volta, cosa che non faccio mai, consentitemi una dedica...

LENE: (Strizzando l’occhio a Raat) Ah-ah, ci siamo.

LIÙ: No no, tanto non faccio nomi. Dico solo che questa canzone la dedico al mio spettatore più discreto... dunque a nessuno di voi, razza di bestioni che non siete altro!... (Accennando in quinta) E chi deve capirmi, m’ha capito. (Di nuovo un cenno all’orchestra che riprende)

LENE: Visto! Quella ragazza ce l’ha in pugno, glielo dico io!

(Taborì, nel frattempo, è scomparso dal palco dove Liù sta terminando la sua ‘performance’ con un ultimo passo di danza. Infine, dopo una sorta di genuflessione, si alza dritta in piedi e, con una fiera spallata, si volta in quinta come per offrirsi all’uomo dietro la tenda. Questa visione frontale si rivela insosopportabile per Raat che, mentre lei sta per raggiungere l’uscita di scena, fugge via a precipizio)

LENE: (Gridandogli dietro) Cavaliere!... Ma che fa? Proprio adesso?

LIÙ: (Entrando in camerino) E allora? Che fine ha fatto?

LENE: Boh, avrà visto la moglie. (E si lancia nelle luci dei riflettori)

(Lei s’accorge del manto, del bastone e del cappello abbandonati da Raat, quindi, sollevando lo sguardo e rivolgendosi a qualcuno che non vediamo)

LIÙ: No, Schwarz... lasciatemi perdere. Stasera non ne ho nessunissima voglia.

(Il camerino rientra nel buio. Riappare tutto attorno il profilo della città notturna. Raat è fuori. Senza il suo soprabito è scosso dai brividi. La mano destra sul cuore a calmarne i battiti)

RAAT: Sorcio!... Sorcio che non sei altro!... Ora vallo a ripescare!... Dirà: non ero io. E certo... mica l’ha chiamato per nome. - La festa da suo padre... canaglietta schifosa!...E te lo sei fatto scappare solo perché una puttana ti guardato negli occhi!... Ma pensa ai tuoi libri, Raat! A tutto quello che sai. Tutto quello che sai, è tutto quello che puoi.

(Alle spalle di Raat compare Liù: avvolta nel mantello di lui, e con in mano il suo corpicapo e il suo bastone)

LIÙ: Cavaliere!... E allora? Perché fa così?... (Gli si avvicina. Lui si scosta per tenerla a distanza) Ma cos’è stato?... Non le è piaciuta la mia dedica?... Non dovevo?... Per me è stata una tale gioia vederla! Chi se l’aspettava?... Ma mi muore di freddo così... avanti, si copra! (Fa per togliersi il manto ma lui si allontana di nuovo tenendo il viso reclinato d’un lato) E non dia retta alle chiacchiere di Lene. Ci fa tutta la scivolosa, ma quella sputa invidia, non se n’è accorto?... (Allunga una mano da dietro le spalle di lui per accarezzarlo sotto il mento. Raat si fa di pietra. Poi lei, scuotendo il polso cinto da un lezioso monile a ciondolo...) Guardi... il suo regalino.

RAAT: (Infine voltandosi, quasi in un ringhio) Non è il mio regalino!

LIÙ: (Ritraendosi) Oddio... e lei chi è?... Lene m’ha detto che c’era il signor Furster... m’ha pure fatto il segno... dice, quello del braccialetto.

RAAT: Io, signora, non ero lì per lei.

LIÙ: E chi lo pretende!

RAAT: Io, signora, a dirla tutta, ci sono finito di peso in quest’imbroglio.

LIÙ: Il mio è solo stupore, non le sto facendo nessuna colpa.

RAAT: Io... io...

LIÙ: (A fargli il verso) Signora.

RAAT: Sì, proprio!... (Strappandole il bastone) E non mi prenda in giro!... Io ero lì per quel bellimbusto che lei ha avuto l’impudenza di esibire davanti a tutti.

LIÙ: Forse ho il piacere di avere qui il signor Principe?...

RAAT: Professor Raat, del Ginnasio Comunale. E quello sciagurato è uno dei miei allievi. Per cui, spero si renda conto.

LIÙ: Di che? Mica glielo rubo durante le ore di lezione.

RAAT: Posso anche commiserare le sue idee in fatto di disciplina, ma non giustificarle.

LIÙ: Non vedo che c’entra! Io dicevo un’altra cosa.

RAAT: Un accidente!

LIÙ: Strano, non pensavo che i professori imprecassero così. O forse, boh. Io dico per quello che hanno insegnato a me.

RAAT: Lasci stare la sua educazione, posso ben immaginarla!

LIÙ: Il circo, signore.

RAAT: Ecco, il circo, che ha il suo bravo tendone e lì finisce. La scuola no! E’ una coccarda che ci si porta sul petto ovunque. E che si può infangare ovunque. E chi, come me, ne sta a presidio, sarebbe un impostore se pensasse di limitare i suoi doveri tra due squilli di campanella e basta. - Perché ride? Che c’è da ridere?

LIÙ: Parla di impostore, proprio lei che si fa passare per uno che non è.

RAAT: Vivete di trucchi voi, e vi scandalizzate se lo fa un altro!

LIÙ: Noi chi?

RAAT: Voi voi voi... saltimbanchi!

LIÙ: Perché non si siede?... Lì c’è un gradino. Venga, si appoggi a me.

(Raat, sgarbatamente, rifiuta l’aiuto ma non il consiglio, e, arrancando, va a sedersi sul gradino indicato da Liù. Una volta giù, lei gli impone il cappello in testa)

LIÙ: Dio, è talmente sudato!... Si prenderà una congestione. Dia retta, si copra!

(Così dicendo, si svolge di dosso il ferraiolo mettendoglielo sopra a mò di coperta. Raat, irretito dall’apparizione del corpo di lei a un passo dal suo naso, la lascia fare senza il minimo gesto di reazione)

LIÙ: Meglio?

RAAT: (Quasi espettorando) No!

LIÙ: Torni dentro, starà più comodo. Potrei offrirle qualcosa.

RAAT: M’immagino che.

LIÙ: (A riprenderlo) Oh-oh... questo non può dirlo.

RAAT: E perché?

LIÙ: (Ficcando una mano tra le pieghe del mantello e tirandone fuori una borraccetta) Ma lo sa che è davvero un bel tipo!... Fa tante prediche, poi se ne va in giro con scorte di liquori in tasca. Mi divertirebbe capirla meglio, sa... - Posso? (E manda giù un’abbondante sorsata)

RAAT: Per un sorso come quello, ai miei ragazzi gli avreste vuotato le tasche.

LIÙ: Se mi dice quant’è!...

RAAT: Sa bene di che parlo. Pensi a pelare i suoi marinai, lei... a cui le piace tanto far da giumenta!

LIÙ: Mamma mia, come la mette giù dura. Tutto per una canzonetta. Ma perché, non le è piaciuta? A me moltissimo. - Ci crede? Io non ci pensavo quasi più a cantare. Per un po’ l’ho fatto, ma avevo smesso. Solo che quando quel ragazzino si è presentato con questa cosa a dirmi: "Giuro, l’ho scritta per te" - anzi "Per lei", mi dava del lei... - beh... m’ha intenerito. Poi, oh... quando pure me l’ha letta, mica era male. Allora gli ho fatto: "D’accordo, ci sto, proviamoci. Se piace, vuol dire che me ne scriverai delle altre" - Beh, l’ha visto, pare che piace.

RAAT: C’è proprio da andarne fieri!

LIÙ: Ma, Professore, è una finzione. Giumenta, me l’ha spiegato lui, è come per... più o meno un simbolo di fertilità, ecco. Poi sa come dico io? Che per finta si può dire tutto, e fare parecchio. Su un palcoscenico, ovviamente.

(Per alcuni istanti Raat la fissa fremente)

RAAT: Che rimane a fare?... La staranno aspettando, vada.

LIÙ: E aspettino, aspettino. (Accovacciandosi per mettersi viso a viso con Raat) Quelli m’aspettano quanto mi pare e piace.

RAAT: Che vuole da me?

LIÙ: Dunque, vediamo... cosa voglio da lei... beh, sì!... Capire quello che vuole lei da me. Poi tanto, uff... lì in camerino è sempre la solita storia. (Prendendo il bastone e risollevandosi in piedi) Sa che quasi quasi ci vorrebbe pure per me un bastone come il suo!... Sarebbe un’idea. Sapesse come ringhiano quando si fanno sotto con quelle zampacce che gliele taglierei... allora io, zac!... Una bella botta sulle manine e tutti in riga. Dica... in classe l’ha mai usata? Secondo me funziona.

RAAT: Ho altri metodi, io.

LIÙ: Me l’insegni.

RAAT: Capiscono di più quando li sbatto nello sgabuzzino dei soprabiti. Chi la fa grossa, se ne va al buio.

LIÙ: No, con me non andrebbe. Cioè, nel senso che quando mi capita qualcuno che la fa grossa, se lo chiudo al buio in genere è contento.

RAAT: (Con uno slancio a vuoto) Mi ridia il bastone!

LIÙ: Che buffo! L’avevo presa per un ammiratore che m’ha regalato un bracciale, e invece, guarda là... non mi degnerebbe nemmeno di un pezzetto di legno.

RAAT: (Incapace di alzarsi) Ma se lo tenga, chi se ne frega!

LIÙ: Ma si parla davvero così al ginnasio? ‘Chi se ne frega’... io non lo dico mai.

RAAT: Con lei - posso.

LIÙ: Perché è tanto cattivo?

(Sul fondo appare la fisionomia sbilenca di Cinkus)

RAAT: E’ lei, Taborì? (A Liù) Chi è? Il suo ganzo?...

LIÙ: (Piano, a Raat) Mi regga il gioco, è il proprietario. (All’uomo nell’ombra) Cinkus, che vuoi? Ti disturba se esco?

CINKUS: Dipende a fare che. Ci sono ancora clienti. Quanto vuoi farla sgobbare la povera Lene? Ha il fiato corto, lo sai.

LIÙ: Anche qui, se permetti, ci sono clienti. L’altra settimana, fattelo dire da tua moglie, il signore ha offerto da bere a tutti. Forse è il caso di usare un altro tono.

CINKUS: (Avanzando di un passo e con gesto ossequioso) Ah, certo... quello tanto gentile dello ‘champagne’. Stavo giusto dicendo: "Mannaggia che non c’ero!". E’ che mi tocca sempre galoppare di qua e di là, lei capisce... (per presentarsi) Cinkus... mi prenda un po’ come il povero domineddio di tutta questa baraonda. A ogni modo, mi creda, è per me un grande un onore che una personalità come lei - cavaliere, se non sbaglio - sappia gradire lo svago offerto dalla nostra umilissima casa.

LIÙ: E piantala! Gli farai venire i foruncoli con tutta la tua melassa.

CINKUS: (A Raat) La rivedremo, sì?... Ormai, vero, conosciamo i suoi gusti e da noi troverà sempre quello che, insomma... sì, di cui ha necessità, non so se mi spiego.

LIÙ: Che è, ti si è impicciata la lingua? Dai, vattene, non fare storie!

CINKUS: (Sempre a lui) Bell’articolo, eh! Ma tutto è conoscerla. Bah... con permesso. (Poi a lei, a mezza bocca) Non più del dovuto, non più del dovuto. (E va)

RAAT: Del dovuto cosa? Ho sentito quello che ha detto! Ma per chi mi ha preso?

LIÙ: Per quello che gli ha lasciato credere lei. Tant’è... ora siamo davvero complici. Ma a me, per carità, fa comodo, e se pure a lei non dispiace... dico di avere un piccolo segreto con me.

RAAT: Tipo?

LIÙ: Ma questo. Torni a trovarmi, Professore. Se vuole, le prometto che continuerò a chiamarla ‘cavaliere’. Anzi, sarebbe pure meglio. Così almeno per un po’ quel deficiente la pianterà di tenermi il fiato sul collo. Mi tratta sempre coi guanti di seta quando pensa che me la faccia con qualcuno che ha voglia di spendere. Per cui, è tanto semplice... se a me conviene e a lei diverte...

RAAT: Queste ruffianate le lasci ad altri! Se tornerò, lo farò col mio nome e cognome.

(Ancora ombre che sgusciano nell’ombra. Poi da un punto imprecisato...)

VOCE SCHWARZ: Ma che gratta in fondo all’orcio? / Niente niente fosse un sorcio? (Sghignazzi in fuga)

RAAT: Ah, cani! (Sull’impeto va addosso a Liù strappandole il bastone di mano) E si levi di mezzo lei! (Correndo vanamente appresso ai suoi sbeffeggiatori) Schwarz... t’ho riconosciuto, piccolo teppista!... Prova a dirmi di no domattina in classe, voglio proprio vederti! (Poi voltandosi verso Liù, a cui il suo gesto rabbioso ha lacerato il corpetto) Eccoli i bei vantaggi del mettere limiti all’istituto scolastico!

LIÙ: Guardi... mi ha rotto il costume. Lo vede che ha fatto?... Io ci lavoro con questo, mica ne ho altri. Volevo solo giocare con lei, invece non se lo merita neanche un po’. Fa bene a dire che non torna. Non voglio vederla più... mai più. (E fugge via)

(Raat si guarda attorno con l’aria stravolta di chi abbia commesso il più efferato dei delitti. Rcompare il marinaio di prima. La sua divisa sembra meno immacolata)

MARINAIO: Ci si rivede. Trovato quello che cercavi?

(Raat annuisce nervosamente)

MARINAIO: Strano, non hai l’aria di uno che abbia risolto tutti i suoi problemi. (Chinandosi a raccogliere la borraccetta, accanto al fiore di stoffa) Tua?

(Raat fa di no con la testa)

MARINAIO: Ma il cappello forse sì.

(Raat fa di nuovo no con la testa)

MARINAIO: (Prendendo) Beh... tutto fa brodo. (Accostandosi) Che hai da guardare?... Qualcosa che non va?... Stavi già qui, te li potevi prendere tu.

RAAT: Niente. Non guardo niente.

MARINAIO: Oh, sì... altroché se guardi. Non ti convinco?... (Facendo una giravolta su se stesso) Allora?... Prese bene le misure?... Beh, se non ti vado a genio, mica sono il solo che è sceso a terra stanotte. Tranquillo, ne avrai di scelta!

(Raat farfuglia qualcosa scuotendo il capo e arretrando di qualche passo)

MARINAIO: Veniamo dai ghiacci, paparino. Dall’Islanda. Pensa che viaggio. Beh, tu capirai che abbiamo bisogno di scaldarci... ma scaldarsi costa. Dì, come la vedi?... Io ora scaldo un pochino te, (stropicciando le dita) e poi tu mandi a scaldare me.

RAAT: Lei... lei disonora la Marina! Disonora lo Stato!

MARINAIO: Oh, dico... a chi è che parli? E’ a me che parli?... Ma se ce l’hai dipinto in faccia quello che cerchi! (Pizzicandolo sulle guance) ‘You’re very baby face... very baby face’. Stanotte la città è piena di gente affamatissima. Mi sa che rischi di divertirti pure a fare quello che ‘io no, io no’. (E, ridendo, scompare)

(Attorno, la città dissolve, mentre compare un massiccio tavolo da lavoro sormontato da un leggìo. Sopra il leggìo, un imponente volume. Raat, liberandosi del mantello, raggiunge il tavolo e vi si siede tuffando la testa nel cono polveroso di una luce da scrivania. Volta le pagine nervosamente sino a strapparne una per sbaglio. Ha una smorfia di sofferenza quasi infantile. Prova a gualcire la carta con enorme tenerezza. Infine, si abbandona col corpo allo schienale della sedia)

RAAT: (Chiamando) Therese!... Preparami una tazza di the... e del carbonato a parte.

(Torna a ispezionare le condizioni del foglio. Recupera della colla e tenta di limitare i danni. Inutilmente. Si pulisce le dita appiccicose sul risvolto della giacca. Da ultimo, con rabbia, strappa via una volta per tutte la pagina ferita)

RAAT: E così... via Fourier!

(Lo raggiunge Therese con un vassoio)

RAAT: Beh? Mica te l’ho chiesto freddo...

THERESE: Questo è di prima, ancora tiepido.

RAAT: E il carbonato?

THERESE: Lì c’è il flacone e qui l’acqua.

RAAT: Prepararlo ti costava fatica!

THERESE: Mi ha lasciato la stanza che è un porcile. Me lo vuole dare il tempo di sistemare un po’? (Andando a ripiegare il mantello) Guardi come butta la roba!... (Sbattendoglielo sotto il naso) Puzza di liquore, dico solo questo.

RAAT: Hai qualche diritto su questa casa, Therese? Hai qualche diritto suoi miei diritti?... No, se è così, spiegamelo.

THERESE: Ne ho, eccome. E lei lo sa che ne ho. Quando mi prese a servizio me lo disse chiaro: "Ora cominciamo così, ma se dopo una certa età sarò ancora solo...". Parole sue. E io scema che, per digerire i due soldi che mi dà, ci continuo a credere! Beh, a dirla tutta, ne ho parlato con chi ne capisce, e mi ha assicurato che ho mille maniere per farglielo ammettere in faccia al mondo quello che mi spetta!

RAAT: (Alzandosi rosso di collera) Ma da dov’è che sbuchi tu, si può sapere?... Da dov’è che strisci?... Sono anni che mi stai in casa come la muffa delle pareti, ed era questo che ti covavi!... Lì a spiare quando fosse arrivata una certa età! E oggi, proprio oggi, vieni ad avanzare pretese... di che? Di ficcarti nel mio letto?... Tu?... - Che hai fatto stanotte, Therese?... Dov’eri? Che hai visto?...

THERESE: No, sono io che glielo domando: che ha fatto lei stanotte?

RAAT: E a chi è che dovrei rispondere? A una sguattera?

THERESE: Non si creda di cacciarmi via come un pidocchio dal colletto. Quando sono entrata qui per una paga da fame, a convincermi è stata solo una cosa: di aver trovato dove fermarmi, e ora... quello che ho non me lo gioco.

(Raat le si accosta a prenderle il volto nella destra chiusa a morso come farebbe col muso di un cavallo)

RAAT: E dovrei abituarmi a te. Io. - Per forza. Bel guaio un marito che non s’abitua a sua moglie! Potrebbe svegliarsi nel cuore della notte col fuoco nelle mani e combinare di tutto. Te lo sconsiglio.

THERESE: Marito in che senso?... Che dovrei sposarla?... Ma a chi? A lei?... (E scoppia a ridere) O Gesù, ci mancherebbe altro... ho proprio di queste voglie!...

(Un campanello. Lei fa per andare, poi voltandosi...)

THERESE: Ah, prima che mi scordo... (si cava da una tasca della gonna il fiore azzurro di Liù e lo lancia sul tavolo) Magari lo sta cercando.

RAAT: Dov’era?

THERESE: Tra la mondezza che mi ha portato in casa. (E va)

(Raat, carezzando il fiore, torna a sedersi. Borbotta versi incomprensibili. Forse di qualche canzonetta. Prende un foglio e appunta. Si ripresenta Therese)

THERESE: Il piccolo Taborì. - Che fa? Non c’è nemmeno per lui?

(Nessuna replica, Therese esce. Raat, appena solo, fa scomparire sia il fiore che i fogli. Sull’ipotetica soglia si presenta Taborì che fa scattare il capo in un rigidissimo inchino)

RAAT: Come mai quest’improvvisata?

TABORÌ: Vengo a nome della classe per avere sue notizie. Non vederla stamane a scuola ci ha preoccupato. Dicono che in tanti anni non fosse mai successo.

RAAT: Dovrebbe essere arrivato un certificato di malattia. Non vedo dove sia il difetto.

TABORÌ: No, niente... che appunto la classe mi avrebbe mandato in rappresentanza per porgerle i nostri auguri.

RAAT: Ah. (Squadrandolo) Voialtri, invece, come va?... Belli in forma?

TABORÌ: Sissignore.

RAAT: Chi vi ha fatto supplenza? Harning?

TABORÌ: Sissignore.

RAAT: Non si creda che apprezzi più di tanto la sua visita. Per me non è che una vilissima piaggeria. Immagino che si sia candidato da sé per ottenere questo squallido incarico. E’ ancora il suo quaderno che vuole?... (Tirandolo fuori da un cassetto) Se lo riprenda.

(Taborì obbedisce)

RAAT: Deve’esserci stato un malinteso ieri sera. Pensavo m’avesse invitato a seguirla.

TABORÌ: Quando mi sono voltato non l’ho più vista.

RAAT: Colpa del buio, evidentemente.

TABORÌ: Peccato, è stata un’eccellente serata.

RAAT: Già, perché lei se l’è goduta, vero?

TABORÌ: No, io no. Sarei tornato indietro solo per accompagnare lei.

RAAT: E che ha fatto di bello?

TABORÌ: Beh, era venerdì, ieri. Gliel’ho spiegato, si ricorda?...

RAAT: Che il venerdì cenate di magro?

TABORÌ: No, che venerdì sarebbe tornata quella signora per cui avrei scritto queste cosucce qui. Beh, sono andato a sentirla. Le ha cantate, sa. E mi ha anche fatto salire sul palco a prendere gli applausi. Sì, mi rendo conto, sarà poco umanistico, ma anche Plauto componeva per il teatro popolare. Anche Molière.

RAAT: Importante è che lei si senta a posto con la sua coscienza. E con Molière.

(Ancora uno scatto del capo, e Taborì si allontana. Raat apre nuovamente il cassetto e ne recupera la coccarda azzurra di Liù. Se la porta al naso come per assaporare l’impossibile profumo di quel fiore finto e slabbrato. Infine, solleva lo sguardo verso il pubblico mostrando di notarne la presenza)

NARRATORE: La sincerità... che colpo crudele!... Che colpo crudele quell’eccesso di schiettezza proprio quando Raat sentiva d’essere lì lì a un passo dal mettere il suo nemico con le spalle al muro. E l’avrebbe fatto anche a costo di compromettere se stesso ammettendo "Ero lì, t’ho visto!" - Sembrava dover essere chissà quale segreto, e invece eccolo spiattellato come una preghierina... "Sono andato da Liù a sentirla canticchiare i miei versi". Ma possibile che l’inferno abbia proporzioni tanto domestiche? Tanto banali?... Alla portata di qualsiasi studentello che voglia prendersi la briga di farci avanti e indietro a suo piacere? E rimanendo, per giunta, perfettamente immacolato!... E perché loro sì e lui no?... Quando, ad esempio, era stato sul punto di stuprare la sua domestica... quanto c’entrava quella smania che, prima di incontrare Liù, il professor Raat non aveva mai conosciuto?

(Via il tavolo, mentre ricompare il camerino con Liù, Schwarz e Steinherz. Raat si defila con fiore e mantello)

LIÙ: Uffa, ma siete proprio dei seccatori!... E tu sta’ attento dove ti appoggi che mi rovesci tutta la cipria!... Insomma, volete farmi preparare sì o no?

SCHWARZ: L’hai detto: no.

LIÙ: Ah, ma senti che pretese! E perché, di grazia?

STEINHERZ: Quelli non ti meritano, lascia perdere.

LIÙ: Già, perché voi sì!?

SCHWARZ: Scegli. Uno di noi due te lo devi beccare per forza.

LIÙ: Se foste dei veri uomini non fareste scegliere a me, ma ci pensereste da soli.

SCHWARZ: Vuoi un bagno di sangue? Prontissimi.

LIÙ: E la piantate di farmi sparire le cose?... Dio, che mani da scimmia... fermi, vi ho detto!... (Risistemando quello che i ragazzi si divertono a metterle fuori posto) La spazzola, qui. (Schwarz le rifila un pizzicotto) Oh, ma sei scemo!

SCHWARZ: Se non me le fai tenere occupate...

(Anche Steinherz prende coraggio e le rifila a sua volta un altro pizzico. La reazione di Liù stavolta è quasi violenta, tanto da far volare un sonoro ceffone)

LIÙ: E vi ho detto basta, fuori dai piedi!... Non ve lo permetto!

STEINHERZ: Oh, m’hai fatto male!...

LIÙ: Neanche foste a casa vostra! Come se di padroni non ne avessi già abbastanza!... (A Schwarz) E tu, giù le mani da quella foto!... Non c’è niente di vostro qui dentro, volete capirlo o no? Non è vostra la spazzola, non è vostro niente, e tantomeno io!

STEINHERZ: Ehy, ma che t’ha punto? Abbiamo sempre scherzato, e adesso?

LIÙ: Tu m’hai punto, deficiente! - (Tornando a sedersi) E siete avvertiti: inutile che m’aspettate.

SCHWARZ: Certo che sei strana. Per una settimana di fila è tutto un sì; poi, all’improvviso... (Silenzio) Oh!... E dai, rispondi, almeno!

LIÙ: (Terminando di truccarsi) L’amico vostro che fa? Sapete se viene?

SCHWARZ: Che t’importa di Taborì? Tanto con quello non ci si combina un fico.

LIÙ: Tenetelo d’occhio, date retta.

(Dal palco, ansante e sudata entra Lene. L’orchestrina suona il pezzo di ingresso per Liù che esce. Strepiti e fischi, mentre la tenda ricasca alle sue spalle)

LENE: Ne avete ancora per molto? Si soffoca qua dentro.

SCHWARZ: Dice che se restiamo possiamo offrirle da bere.

LENE: Sì, alla fontanella. - (A Steinherz) E molla quella tenda!

STEINHERZ: Solo mezzo seco...

LENE: T’ho detto giù!

(Sulla soglia compare Raat, con un mazzo di orchidee e col fiore azzurro. Accorgendosi della presenza dei suoi studenti, si fa di pietra. I due altrettanto)

LENE: Cavaliere... ah, ma allora non è che ce l’ha con noi. Ieri è scappato così all’improvviso che m’ero quasi spaventata. (Notando come Raat guardi truce i ragazzi) Forse non vi conoscete. Loro... loro... sono con noi in compagnia... un po’ alle prime armi, e allora... - Insomma, ha imparato la strada, mi fa piacere.

(All’unisono, i due studenti scattano verso l’uscita lanciando un frettoloso "‘Sera!" a Raat e sgattaiolando fuori)

LENE: Eh, questi giovincelli... hanno l’argento vivo addosso. - Bon... e la sua signora?... Che dice? Che fa?

RAAT: Morta.

LENE: Gesù! Quando?

RAAT: Un’ora fa, di febbre gialla. Per cui, se sono qui ne ho tutto il diritto.

LENE: Per carità, anzi... a che serve macerarsi, dico io!... E che venga da noi per trovare un po’ di conforto, ma sapesse che gioia!... Cioè, ‘gioia’ per dire... emozione, ecco.

(Boati dalla sala. Fa irruzione dentro Liù con un’espressione nerissima e tenendo tra le mani un lembo della gonna strappata)

LIÙ: Animale!... tè, guarda il livido che m’ha fatto! (Gridando fuori) Sì, urlate, urlate!... Ve lo sognate che riesco se continuate a comportarvi come dei selvaggi!

(Dalla sala si ode, quantomai ebbro, il coro "Li-ù! Li-ù! Li-ù!")

LIÙ: (A Gusta) Fa’ il piacere, torna tu, io poi vedo. (A Raat) Ah, lei!

GUSTA: (Sussurrandole in un orecchio) E’ libero, la moglie è defunta.

(Gusta, rassegnata, rivà in scena accolta da dei sonori: "Buuu... buuu")

LIÙ: (Sedendo) Il mio povero vedovello.

RAAT: L’ho detto per lei. Ci teneva e l’ho fatto. (Porgendo le orchidee) E le avrei portato queste. Mi è parso che le gradisse. (Liù, accingendosi al trucco, scontrosamente non replica) E pure questo (il fiore). - Con le mie scuse.

LIÙ: Sicché ne è capace! Buono a sapersi. (Prendendo) Brr, che mano fredda! Ieri, con tutto quel gelo, era così sudata!...

RAAT: Ieri non la conoscevo affatto. Ammetto: avevo paura di lei. Stupidamente.

LIÙ: E io di lei. Ma ne ho ancora, sa. (Cercando di sistemare la gonna alla benemeglio) Ha visto che cafoni! Quando dicevo che mi ci vorrebbe il suo bastone mica scherzavo. Si credono che sono fatta di gomma. Pigliano e strizzano. Zulù!

RAAT: Come me ieri notte.

LIÙ: Ma ci scommetto che lei non lo rifarebbe mai. Quelli, invece!...

RAAT: Torna fuori?

LIÙ: Se ci tiene...

RAAT: Lo farebbe per me?

LIÙ: Perché no!

RAAT: Come mai le interessa farmi piacere?

LIÙ: Vuole la verità?... Forse perché ho la sensazione, boh... come se da lei potessi imparare qualcosa. D’altronde è il suo mestiere. - Sù, mi racconti della sua classe.

RAAT: Per quel che vale! Lei i suoi li chiama bestie? Beh, io i miei lo stesso.

LIÙ: Professore, che fa? Si mette al mio livello? Paragonare il mio pubblico alla sua scolaresca!... Io non m’azzarderei mai. - Mi passa quel carnicino, per favore?

RAAT: Quel che?...

LIÙ: Il carnicino. Lì, sulla mensoletta. (Bordate di risa da oltre la tenda) Gusta ha attaccato col suo repertorio di cabaret. Con quello ci sa fare, tirerà avanti parecchio. Però meglio sbrigarsi. (E, alzandosi, si volta di spalle a Raat che, a sua volta, si è seduto sullo sgabello presso la tenda) Se mi desse una mano... dovrebbe slacciarmi qui dietro, lo vede il gancio?

RAAT: Beh, francamente... che non so... non credo di essere molto pratico.

LIÙ: Si spicci. Vuole sentirmi cantare sì o no?

(Raat, con gesti impacciati, fa quanto gli è stato chiesto. Dopodiché, Liù, spalmandosi il canicino sulle guance, fa scivolare in terra la gonna a colpi d’anca)

LIÙ: Adesso la sottana bianca, per cortesia. (E Raat gliela passa, lei se la infila). Il suo fiore... (e si appunta il fiore azzurro sul corpetto. Poi, risedendosi...) Ci dovrebbe essere un barattolo di crema dietro di lei. Intanto che sistemo i capelli, me ne spalmi un po’ sulle caviglie.

RAAT: Questa?

LIÙ: Sì sì, quella. Sulle caviglie. E pure più su. Così, in scena, coi fari brillano.

RAAT: Che?

LIÙ: Le gambe. Cosa, sennò?

(Raat esegue inginocchiandosi ai piedi di Liù)

LIÙ: Ci crede se le dico che mi sembra quasi di conoscerla da un mucchio di tempo?... Davvero! - E’ da quando lavoro All’angelo tutti i ragazzi che vengono - ma tutti, giuro! - hanno qualche storia che la riguarda.

RAAT: (c.s.) Non m’è sembrato che il mio nome le dicesse un granché.

LIÙ: Vorrei vedere, lei mi ha detto Raat.

RAAT: (Sollevando lo sguardo da sotto in sù) E allora?

LIÙ: Beh, non collegavo. - Comunque, parola, l’ho sempre pensato: quel signore chissà quanto deve avercela con me!... Guardi, se non m’avesse cercato lei, prima o poi l’avrei fatto io. - Così... tanto per chiuderla.

RAAT: Ma io non è questo quello che voglio.

LIÙ: Sembrava di sì.

RAAT: Ammetto, sono stato molto sgarbato. Le chiedo di perdonarmi.

LIÙ: Quando due ancora non si conoscono, naturale stare un po’ sulla difensiva. D’altronde, pur io avrei potuto raccontarle qualcosa di me. Guardi lei: non c’ha pensato due volte.

RAAT: Io? Non direi

LIÙ: Oh, mi ha fatto capire un mucchio di cose, altroché. - Massaggi più forte!... (Facendogli il verso) - Professor Raat del Ginnasio comunale... - Per non dire del suo modo di parlare quando s’arrabbia.

RAAT: Mi scuso anche di quello.

LIÙ: Schioccezze. Si è solo un po’ lasciato andare, succede. Magari questo vuol dire che non le metto soggezione.

RAAT: Da quando in qua imprecare è diventato un segno di galanteria?

LIÙ: Intanto lei ha avuto il coraggio di smascherarsi, io no. - E le ho chiesto più forte.

RAAT: Poi non capisco che diavolo dovrei sapere! M’ha raccontato che è nata in un circo, e tanto basta.

LIÙ: Non riprenda quell’aria. Finirà per pentirsi, e si dovrà scusare di nuovo. - Certo, se parte dal principio che tanto basta... (Incipriandosi, mentre Raat insiste a massaggiarla) O che magari è davvero un po’ presuntuosetto. Vizio del mestiere... sempre dietro una cattedra. Me ne sono accorta sa da che? Proprio da una cosa che ha detto sul circo. (Raat stenta a raccapezzarsi) Ma sì, l’altra sera... del tendone... quando ha detto: "E lì finisce"... si ricorda?... Beh, l’ha quasi indovinata, ma non del tutto. Quel tendone, per me, era davvero murato... peggio di una porta inchiavardata. - (Più direttamente) Là di fianco dovrebbe esserci il mio asciugamano, se me lo passa... (Raat obbedisce) Grazie. - Dietro la gabbia delle scimmie, dormivo lì. E sapesse quante ne succedevano dietro la gabbia delle scimmie. (Mostrando un avambraccio) Mi ci tenevano legata, vede... ho ancora i segni. Io li chiamo i miei braccialetti perenni. Ah, questi di sicuro non me li ruba nessuno. - Beh, insomma, lì. Avevo diecianni. Anche meno. Sa, per ridere, cosa mi dicevano?... "Se vuoi farti mandare una cartolina, dì che il tuo indirizzo è sulla paglia degli elefanti, dietro la gabbia dei babbuini". E chi voleva, sapeva dove trovarmi. Il primo a capire che potevo servire a qualcosa è stato uno dei pagliacci. Il più buffo di tutti. Ma anche il più cattivo. - (Cambiando gamba) Lì basta, faccia qui. E ancora un po’ più forte, se le riesce. - Stavo dicendo?... Ah, sì... il pagliaccio...è stato quello che ha insegnato la strada agli altri. Che erano parecchi, sa. Cioè... quando l’hanno scoperto, io all’inizio ero quasi contenta. Pareva che lo volessero menare, e tutta felice mi son detta: "Dai, Liù, che se dio vuole è finita!". Poi, però, qualcuno ha cambiato idea, e allora anche gli altri hanno cambiato idea, e si sono messi a fare tutto di nascosto perché le donne non dovevano saperlo. E mica l’hanno più menato. Macché, anzi! Hanno cominciato a mercanteggiare dicendogli che se voleva farli stare zitti doveva cacciar fuori un mucchio di soldi, lui invece gli ha risposto che per quanto gliene importava potevano anche mettersi in fila e che ce n’era per tutti. Così è finita con gli altri a pagare e con lui a tenere i conti. Eccolo il mio circo. Tanto per spiegarle cosa significava per me quel tendone. (Mostrando l’interno di una coscia) Ma dico, ha visto che lividi!

RAAT: E i suoi genitori dov’erano? Non stavano lì con lei?

LIÙ: Oh, a mia madre, guai a dirle qualcosa. Quanto a mio padre, vuol ridere? Lui era il pagliaccio. - Ora grazie, direi che basta. Ma lo sa che è stato bravissimo.

RAAT: (Alzandosi, infastidito dalle mani incremate) Strana storia da raccontare così, al primo che capita.

LIÙ: Ma io la racconto solo a quelli che vanno aiutati a essere un po’ gentili con me. E debbo pure starci attenta, sennò poi finisce che mi trattano anche peggio. - Questo per dirle che mi fido. (Porgendo uno straccio) Venga qui che l’asciugo.

RAAT: (Porgendo le mani a Liù che gliele massaggia) Come mai la venivano a trovare?

LIÙ: Perché, non se lo immagina?

RAAT: Forse.

LIÙ: C’era a chi a bastava solo toccarmi. Ad altri invece no.

RAAT: E dovrei bermela?

LIÙ: Che c’è di strano? Mica è una storia tanto particolare. Sapesse quante ne conosco che sono anche peggio di questa! (Tendendo l’orecchio) Ah, ora attacca una musica bellissima. (Alzandosi) Venga, presto, si metta al posto mio.

RAAT: Perché?

LIÙ: E non si faccia pregare, andiamo!

(Raat obbedisce. Lei si accomoda sulle sue ginocchia)

RAAT: Io pretendo di sapere che progetto si è fatta su di me!

LIÙ: Magari solo di capire qual è il suo.

RAAT: Per la miseria, si alzi!

LIÙ: Lo faccia lei.

(Raat non reagisce. Liù, aspettando da fuori l’accordo giusto, intona delle strofette appenna sussurrate. Del tipo di queste che suggerisco)

LIÙ: "Sono venuta sin qui per te

sono venuta a veder te,

e tu che quasi nemmeno mi guardi!

Che uomo crudele s’è scelto il mio cuor!

O cuore mio, tu lo sai il perché

un uomo crudele vorresti per me.

Eppure nessuno all’infuori di te

vorrebbe il mio cuore tenere per sé."

(Poi, alzandosi, danzerà di fronte a Raat in una sorta di recita fatta solo per lui)

LIÙ: (Da ultimo) Ti sono piaciuta, topolino?

(Via il camerino. Compare una cattedra al centro del proscenio. D’attorno, un diluvio di voci a mò di coro)

VOCE: E’ deciso, lo cacciano.

VOCE: Quando?

VOCE: Tra un paio di giorni al massimo.

VOCE: Dalla scuola?

VOCE: Ma speriamo dalla città.

VOCE: Al Ministero hanno già deciso.

VOCE: Dio volesse!

VOCE: D’altronde, se l’è cercata.

VOCE: L’umanista! L’esegeta di Omero!

VOCE: E senza più pudore: sa la porta a spasso ovunque.

VOCE: A braccetto.

VOCE: Manin manina.

VOCE: I fidanzatini!

VOCE: Che poi, a letto, solo a pensarci mi viene il voltastomaco.

VOCE: E le ha pure rinnovato il guardaroba.

VOCE: Con cosa poi, se non ha un soldo?

VOCE: Figurati quella! Sarà pure un po’ tocca, ma sai quanto se lo tiene senza stipendio!

VOCE: Capirai, con tutto il codazzo che c’ha appresso!...

(D’un lato, avanza Raat. Indossa qualche bizzarro segno di frivolezza. Ha il viso spalmata di una biacca cadaverica che ne attenua ridicolmente le rughe)

VOCE: Eccolo che viene! Ma dove va?

VOCE: Non è possibile: a scuola! Io dico come non si vergogna!

VOCE: Beh, finché la decisione non è ufficiale, tecnicamente può.

VOCE: Può un corno! Un marinaio che conosco, non sai che m’ha raccontato!

VOCE: Perché, Epstein?... Roba da non credere.

VOCE: Guardatelo che entra!

VOCE: Certo, se uno pensa a quello che l’aspetta a casa, un po’ d’invidia...

VOCE: Ma fila via, maiale!

VOCE: Meglio maiale che sorcio.

(Il Professore sale sul piedistallo della cattedra e scruta la platea come fosse la trincea di un esercito nemico. Sfoglia il registro che trova sul ripiano; quindi, solleva lo sguardo dritto sul pubblico)

RAAT: Una volta tanto, non manca nessuno. Bene bene, la classe mette giudizio. Sei d’accordo, Schwarz?... E tu, Steinherz Ti vedo, ti vedo, inutile che ti nascondi. (Controlla di nuovo il registro) Si direbbe che il professor Harning non si sia sprecato molto in queste due settimane di supplenza. Proprio vero che quando il gatto non c’è... chi è che balla, Schwarz?... Nessuna risposta?... Ve lo dico io. Voi. I sorci siete voi. Sempre sorci ho avuto davanti. Tutti della stessa pasta. Nemmeno capaci di odiare. Capaci di niente. - Ah, no... qualcuno manca. Non vedo Taborì.

TABORÌ: (Dalla platea, alzandosi) Ci sono, Professore.

RAAT: M’illudo sempre che tu non ci sia, invece no. Sei troppo muto, sarà per questo.

TABORÌ: M’interroghi e vedrò di risponderle.

RAAT: Per carità! Note di merito te ne ho date abbastanza. Ci penserà qualcun altro da adesso in poi. - E, con ciò, se vuoi chiamarmi in quel modo che vi piace tanto, fa’ pure. Ti confermo l’immunità già promessa.

TABORÌ: E io le confermo il mio rispetto, Professore.

RAAT: Sei un mollusco. Lo chiedessi a Schwarz, lo farebbe eccome. Chiunque lo farebbe. E tu, il migliore, saresti meno di chiunque? (Silenzio) Qui, alla cattedra!

(Taborì lo raggiunge presso la cattedra)

RAAT: Che sono quelle macchie lì?

TABORÌ: Un po’ di fango, ma per la pioggia.

RAAT: Ciò significa che i tuoi calzoni infangano questa classe. Levateli. (Taborì lo fissa allibito) Levateli! Sequestrati. (Agli altri) O qualcuno pensa che non possa? (A lui) Sto aspettando.

(Taborì esegue. Raat gli strappa i calzoni di mano)

RAAT: Ora via, nello sgabuzzino.

(Il ragazzo si allontana nel buio)

RAAT: Aspettate che mi caccino, vero?... Errore. Sono io che vi caccio. Vi caccio tutti quanti fuori dalla mia vita. Ma rimandate i festeggiamenti, questa giornata mi appartiene ancora. Oggi voi mi appartenete ancora. - Nessuno oserà mettermi alla porta. Sono io che me la chiudo alle spalle. (Mostrando un foglio) Le mie dimissioni. Che gioia, vero?... Beh, le sconterete più voi di me. Non è il mio fallimento questo, ma il vostro. Avreste potuto avere una guida capace di dare un criterio all’indecenza dei vostri destini, e l’avete scansata. Certo, era più divertente combattermi! Quando sarete soli, però - non ora: da soli! - allestitelo faccia a faccia con quel che siete il vostro processo al vostro maestro. Scoprirete che alla sbarra degli imputati, al posto di questo povero diavolo, c’è una moltitudine in cui la vostra coscienza stenterà a riconoscersi, ma che lì sta. Tra coloro che sbeffeggiano e che rinnegano. Voi, pieni di peccato... schierati da impostori tra le fila degli angeli immacolati!... Ma la purezza, signorini cari, pretende occhi molto acuti per essere avvistata. (Brandendo i calzoni di Taborì) La purezza, a volte, è nello spogliare, non nel vestire. - Spreco fiato, lo so. L’ho fatto per anni, per decenni. Oggi almeno mi godo il piacere di capire quanto tesoro vi sia nelle parole che vi dico, e di capire quanto queste parole suonino mute e incomprensibili ai vostri cervellini di ricotta. (Smanacciando i pantaloni s’accorge di qualcosa. Ficca la mano in una delle tasche e ne tira fuori il fiore blù. Poi, più tra sé) Piccolo ipocrita!... Se questa è una sfida, preparati a una guerra senza fine.

(Rimette il fiore dov’era. Lascia cadere i pantaloni sul registro e si allontana. Via la cattedra. Sulla sinistra, compare Schwarz; sulla destra, Steinherz)

STEINHERZ: Oh, l’hai saputo? L’hanno fatto secco.

SCHWARZ: Tanto che gli frega! Dice: "Do le dimisioni". Contento lui!

STEINHERZ: No, a parte il sorcio, io dico Taborì.

SCHWARZ: Che c’entra Taborì?

STEINHERZ: C’entra che l’hanno perquisito all’uscita e nella tasca dei calzoni gli hanno trovato il fiore di Liù, quello che si vede nei manifesti. Poco ma sicuro, o lo salva il padre o lo cacciano.

SCHWARZ: Cristo, quello è stato Raat. L’ha denunciato lui, per forza. L’ha capito mica male che chi tiene in pugno lei, ne tiene in pugno parecchi.

STEINHERZ: Oh, non che io ci morissi per Taborì. L’unica è che adesso bazzicare Liù la vedo un po’ difficile.

SCHWARZ: Anzi! Scommetto che il sorcio la metterà a disposizione della comunità.

STEINHERZ: Dici?

SCHWARZ: Mano sul fuoco.

STEINHERZ: Stasera lì?

SCHWARZ: Stasera lì.

(Via tutti e due. Cala dall’alto un timpano di teatro in cartapesta con l’effige di un angelo ambiguo e discinto dalle ali color turchese. In fondo, sulla sinistra, una tenda color rosso vivo che viene scostata da un avambraccio bianco e tornito... è quello di Liù che, in abiti di scena e col bastone di Raat tra le mani, avanza, cantando, attraverso coltri di vapori. Una volta al proscenio, darà l’idea di ricacciare a nerbate qualcuno giù dalla ribalta. A canzone finita, Liù si inchina, e come parlando al pubblico del suo locale...)

LIÙ: Questa canzone l’ho cantata stasera per la prima volta. Nella speranza che l’abbiate apprezzata, permettetemi di chiamare qui l’autore che ha voluto onorarci della sua presenza. (Porgendo mollemente il braccio in direzione della tenda da cui verrà fuori Raat) Il professor... cavalier... Hans Theodor Raat.

(Raat le si affianca. Appare ancora più imbelletato di quanto non lo fosse in classe)

RAAT: (Fronte al pubblico, serrandola al polso) Non hai detto tutto, Liù. Dì tutto.

LIÙ: Oh, beh... sì, ecco, il fatto è che temo per un po’ di dover rinunciare a voi. Questo tanto perché qualcuno di mia conoscenza si metta l’anima in pace. Beh, diciamo, sì, che nella vita possono accadere cose molte strane...

RAAT: E improvvise.

LIÙ: E improvvise, davvero.

RAAT: Come ad esempio?...

LIÙ: Già, sì... come, ad esempio... dio, come dirlo?... Beh, insomma... come, ad esempio... quella di diventare la signora Raat.

(Raat indaga la folla con occhi affilati, poi stringe a sé Liù baciandola violentemente. Come a sbranarle il viso. Solleva di nuovo lo sguardo sul pubblico... spazia con un’occhiata feroce su tutta la platea. Infine, a fior di labbra...)

RAAT: Vi ho inquadrati... vi ho inquadrati tutti, uno per uno.

II ATTO

(Lene, col suo costume da parata, sta davanti al sipario abbassato)

LENE: (Agitando il cembalino)

"Attrazioni, attrazioni!

Volete carne?

Volete farne?

Volete bere?

Tutte le sere

tra balli e canzoni

ce n’è per tutti,

sia per i belli

che per i brutti..."

(Come replicando a qualcuno che l’abbia interrotta) Liù?... Che c’entra Liù?... - No, non lo so quando torna Liù, ma che vuol dire? Mica c’è solo Liù! Il nostro locale, garantisco, ha risorse infinite. Venire per credere. Certi piattini da leccarsi i baffi. Avete più di dodicianni? E’ il posto che fa per voi. - Gesù, ancora con questa Liù!... E non lo so dov’è che andata!... - Ve l’ha pur detto che si sposava, no?!... Certo, che siete buffi... vi ha fregato tutti quanti, e ancora la cercate. Bon, ricominciamo!...

"Attrazioni, attrazioni!

Volete carne?

Volete farne?...."

(Di nuovo interrotta) No, accidentaccio, non le ho portate le sue foto! Poi vorrei capire a che vi servono. (Porgendo un mazzetto) Ma ho quelle di Elise, non v’interessano?... Una coi fiocchi, Elise. E Minù la conoscete?... Dritta dritta da Parigi. L’avete mai vista? No. E allora prché giudicate prima di sapere? (Offrendo invano) Sono per voi, prendetele!... Signori, ma dove scappate? Guardatele, almeno! (Rinunciando) Oh, alla malora! (E va. Si apre il sipario)

(Sul pontile di una nave da crociera. A sinistra, l’accesso ai locali interni del piroscafo. Al capo opposto, un sedile bifronte a doghe. Alcuni viaggiatori si divertono a far scivolare dei pesanti dischi di legno sospingendoli con bastoni a rastrello. Si immagina, sul fasciame, un tracciato che definisca i punti e l’area del gioco. Un signore massiccio e dall’espressione svenevole - in abiti feriali malamente indossati - sta insegnando a una giovane creola elegante e di bell’aspetto il giusto movimento da eseguire per lanciare il disco. L’uomo si chiama Kodaly; la donna, Ramona. Alle spalle dei due, in paludamenti color ghiaccio, uno spilungone dal profilo aguzzo - con sottili baffi nerolucidi, un robusto sigaro tra i denti, e la mazza da gioco tra le braccia conserte - segue disincantato quella sorta di smancerosa lezioncina. Il suo nome è Juan. Più discosto, seduto sulla panca bifronte, sta Raat. Tiene le mani una sull’altra, poggiate su una stecca dal pomo d’argento. Dunque, non la sua solita. All’anulare sinistro, una panciuta vera d’oro. Lui, giocherellandoci, sembra quasi ostentarla. Indossa una giacca di lino sfoderata e pantaloni color crema. Dall’interno giungono le leziosaggini suonate dall’orchestrina di bordo)

KODALY: (Alle spalle di Ramona, guidandole le braccia) Se lei, mia cara, insiste a non chinarsi un po’ in avanti, le garantisco che il colpo le uscirà sempre storto.

RAMONA: Io mi chino pure, caro Kodaly, ma lei la pianti di starmi così addosso.

KODALY: Per guidarle la mano.

JUAN: Non si lasci infinocchiare da mia sorella, Eccellenza. Quello che scansa, chiede.

RAMONA: (A Juan) A cretinate sei maestro!

JUAN: (A Kodaly) Prema, prema.

KODALY: (A Juan) Per piacere... così mi mette in imbarazzo.

JUAN: Che imbarazzo, scusi? Proprio quando sono io a darle il permesso?

RAMONA: (A Kodaly) Davvero... faccia un passo indietro.

KODALY: Sì, ma la stecca, mi raccomando... tra gomito e fianco.

RAMONA: Alè! (E, lanciando, si produce in un sussulto che la porterà a colpire col diddietro il ventre dell’altro) Oh, pardon. Fatto male?

KODALY: Si figuri!

JUAN: Ramonita, te l’ha spiegato tanto bene. La stecca... tra gomito e fianco.

RAMONA: (A Juan) Ah, le risate! (E va per recuperare il disco)

JUAN: (A Kodaly) Sta di fatto che me l’ha compromessa. Che conta di fare?

KODALY: Io veramente m’ero spostato... beh, l’ha visto... io... io...

(Ramona va presso Raat, che ha bloccato il disco col piede)

RAAT: Suo fratello ha ragione. Certe ‘avances’ non vanno fatte cascare nel vuoto.

RAMONA: Ah, ma ce l’avete tutti con me! Allora ditelo che volete mettermi in mezzo, almeno lo so e pace. (E strappa il disco di sotto il piede di Raat)

JUAN: (Accingendosi a tirare) Sono tuo fratello, metterti in mezzo non è affar mio. Ma se qui abbiamo dei candidati... (Tira) Buon punto.

KODALY: (Prendendo tono) A ogni modo, guardate che sono ancora scapolo. State attenti perché se davvero la signorina mi consentisse di farci un pensierino...

JUAN: Noi glielo imponiamo, altro che consentirglielo! - Prego, sta a lei.

KODALY: Ah, beh, tutto è saperlo. Mi si chiama alla pugna?... (E tira) E pugna sia!

RAMONA: Non si sbilanci troppo, che poi ci credo. - Ritocca a me?

KODALY: Stavolta nemmeno m’accosto.

JUAN: Ma se le ha appena detto di sì?...

KODALY: Senta un po’, Juan... mi stesse prendendo in giro, per caso?

JUAN: Io?... A lei?... E magari irridendo il sacro vincolo matrimoniale? Ma se ci tengo tanto a schivarlo proprio perché ne ho un rispetto assoluto!... D’altronde, abbiamo qui chi ne potrebbe tessere le lodi a buon diritto. - (A Raat) Professore... lei che è in viaggio di nozze mi venga in soccorso. Spero sia d’accordo con me quando affermo che una come la mia Ramonita mica la si trova dove capita capita!...

RAAT: Ha scritto San Paolo: "Meglio maritarsi che ardere".

JUAN: (A Kodaly) Sentito, Eccellenza? Da come suda, sembra fatta apposta per lei. - E allora? A quando l’annuncio che lo telegrafo a casa?

RAMONA:Pensa mamma... stenterà a crederci... fidanzata con uno dei più valorosi industriali del Paese. (A Kodaly) E’ esagerato dire del Paese?... Mi ricordi... di cosa si occupa lei?

KODALY: Ferro.

JUAN: Ferro... una parola che si commenta da sé.

KODALY: Beh, in effetti... un settore che ha buone prospettive.

JUAN: Lo dico e lo ripeto, solo incontrarla valeva questa crociera.

RAMONA: (A Raat) E la sua signora? Che fa, non viene?... Ma lo sa che è stata davvero incantevole ieri in salone.

RAAT: Sì, è portata. Per quanto ami cimentarsi giusto così... diciamo per gli amici.

KODALY: Signori... quasi quasi scenderei a darmi una rassettata prima di cena.

JUAN: Si ricordi San Paolo. Contro certi bollori non basta una sciacquata al viso.

KODALY: (Facendo il baciamano a Ramona) Non per sgarbo, ma ho assoluta necessità di mettermi un po’ disteso.

(Si presenta Liù. E’ uno splendore. Raat, alzandosi, ne ha anticipato l’arrivo)

RAAT: Cara Liù... i nostri amici mi stavano appena facendo i complimenti per la tua esibizione di iersera.

RAMONA: Dal profondo del cuore.

KODALY: (Irretito) La sua signora, immagino.

JUAN: Ci ha stregati. La parola c’è, usiamola. Stregati.

KODALY: Già... sentivo di questa sua ‘performance’.

LIÙ: Oh, beh... un tempo, sì, mi ci dedicavo parecchio ma oggi, capirete... la moglie di un professore.... come potrei?

RAAT: Ex-professore. Quel che dovevo dare ho dato.

KODALY: Spero, signora, che mi omaggerete di una replica.

JUAN: Purché si spicci a stringere amicizia. Il marito ha parlato chiaro: solo per gli intimi.

KODALY: (A Liù) E sarebbe un’ambizione esagerata?

(Liù guarda Raat come a cercare nei suoi occhi la risposta giusta)

RAAT: Non vedo perché.

LIÙ: Ah, certo. (A Kodaly) Non vedo perché. Le migliori amicizie, a parer mio, sono proprio quelle nascono dalla simpatia di un attimo. Ieri non c’entra, è stata una cosa un po’ particolare... sarà che c’era la musica, e allora... - senza dire che non sono stata io la prima a cominciare, altrimenti, ve l’assicuro, non avrei mai avuto il coraggio, per carità. Ma così, davanti a tutti, non me lo chiedete più perché non me la sento. Davvero. Già mi sono talmente pentita!...

RAMONA: Eppure sembrava del tutto a suo agio.

LIÙ: Magari, poi, quando siamo un po’ più verso l’arrivo se ne riparla.

KODALY: E mi costringerà ad aspettare tanto?

RAAT: (Correggendole uno sbaffetto sul fondotinta e ravviandole i capelli) Attenta, Liù... con questo vento non dovresti tenerli così sciolti.

JUAN: Signori, permettetemi di caldeggiare la causa del nostro nuovo amico. Nonché mio probabile cognato. La musica ce l’abbiamo, sconosciuti non ce ne stanno...

KODALY: (A Liù) Sentite!? Non sono il solo.

LIÙ: Oddio, ma che cos’è? Una trappola?

RAMONA: (A lei) Il suo fascino è un peso che le tocca sopportare. Signora, la invidio.

LIÙ: Ma se ieri è stata più applaudita di me?

RAMONA: Con lei, però, ululavano.

KODALY: Più ne parlate, e più maledico il mio ritardo a imbarcarmi.

LIÙ: Hans, che devo fare?

RAAT: Non ho voce in capitolo. Sei tu l’acclamata.

RAMONA: (A lei) Tutte le fortune: anche un marito ideale! Tanta devozione e non un’ombra di gelosia. Ne trovassi io uno così!

JUAN: (A Kodaly) Eccellenza, ora avrà capito quale il modello a cui dovrà ispirarsi.

LIÙ: (A Raat, perché le si accosti) Topino... (Sussurrandogli qualcosa all’orecchio) Giuro, non me la sento. Ma si dici che debbo per forza...

RAAT: Ti ho mai fatto fare qualcosa per forza? (A Kodaly) Dolente, ma l’ispirazione di mia moglie è ondivaga. E purtroppo non sono io a governarla.

LIÙ: Signore, mi creda... lei è tanto cortese e non la prenda a male. Ieri l’hanno fatto tutte e allora è toccato pure a me. Ma giusto così, per gioco.

RAMONA: Mi creda, ha saputo giocare da vera professionista.

LIÙ: Sarà che a volte basta un pizzico di talento per dare quest’impressione. (A Kodaly) Mi spiace, l’ho delusa?

KODALY: Illuso, altro che deluso.

LIÙ: Dio mio, spero che conoscendoci meglio tanta compiacenza non si traduca in un’aspettativa da nulla.

KODALY: Oh, signora, non lo dica. Lei sa umiliare ogni più ardente fantasia!

JUAN: (A Ramona) Occhio al fidanzato, sorellina.

RAMONA: E falla finita! Bel gioco, dura poco. (A gli altri) Scusate, vi anticipo.(Ed esce)

RAAT: (A Kodaly) Ma noi non ci siamo ancora presentati... (Porgendo un biglietto da visita) Mi permetta... Hans Theodor Raat.

KODALY: (Contraccambiando) Oh, perdoni... avrei dovuto già farlo io. Walter Kodaly. Che sono a bordo solo da questo pomeriggio, e allora...

JUAN: L’avrebbe mai detto che ci conosciamo da poche ore appena!

RAAT: C’è a chi bastano.

LIÙ: (A Kodaly) Comunque, gliel’ho detto, ricapitando l’occasione... magari in città, se verrà a trovarci. Mica che lo faccio per puntiglio.

KODALY: Terribile quando una donna sa di poter incatenare chiunque ai suoi piedi!

LIÙ: Purché non ne gioisca troppo. Sarebbe un bel guaio.

KODALY: Gesù mio, sino a tanto non so immaginarla.

RAAT: (A Kodaly) Fatto sta che la nostra amicizia è consacrata. Io e mia moglie le abbiamo promesso il giusto tributo. A patto che lei sia disposto a pagare il suo.

KODALY: (Di slancio) Mi dica cosa!

RAAT: Volerci bene. Cos’altro, sennò?

(Suona una sirena)

JUAN: (A Liù) La sua arte, gentile signora, l’ha scampata dall’obbrobrio di questi starnazzi. Vogliamo avviarci al ‘buffet’?

(Kodaly fa strada a Ramona e a Liù. Restano per ultimi Raat e Juan che, sulla soglia, ferma l’altro per un braccio porgendogli il proprio biglietto da visita)

JUAN: A proposito!... Noi ancora non ce li siamo scambiati. Tenga.

RAAT: (Contraccambiando) Stavo per dirlo. Sarebbe una sciochezza perdersi di vista.

JUAN: (Controllando) Qui c’è ancora ‘Professore’. Forse dovrebbe sostituirlo con ‘impresario’.

RAAT: Quando lei lo scriverà sul suo. Entri, ci aspettano.

(Rimane solo Raat che, riatteggiandosi a Narratore, affronta la platea mentre scendono le ombre della sera)

NARRATORE: Cenarono insieme. Tutti e cinque. La stanchezza di Kodaly non dette più segno di sé. Così, perlomeno, tramandano le cronache. Ossia, la deposizione resa poi dallo stesso Kodaly alla polizia. Ma non corriamo. Per la prima volta, quella sera, Raat volle mettersi alla prova. Passo cruciale nell’esperimento che stava portando avanti con dedizione alchemica. Quando il simpatico industriale, alleggerito dal vino, spinse Liù a un ‘tete-à-tete’ sul ponte, lui si impose di sparire. Ma solo per loro. Poiché c’era, eccome. Lì, dietro un oblò. Al buio. Nel salone dei balli ormai deserto.

(Di nuovo Kodaly e Liù. L’uomo ha la giacca slacciata e la cinghia dei calzoni allentata. I due vanno al sedile. Lui la bacia sul collo, lei lo lascia fare)

KODALY: (Scostandosi) Ma il suo corpo, povera Liù, è tutto un livido.

LIÙ: Cipria.

KODALY: Cipria?

LIÙ: Basta sapersi truccare e non si nota.

KODALY: Dica la verità: che le fa quella canaglia?

LIÙ: Quale? Ne ho in mente parecchie.

KODALY: Suo marito, per la miseria!

LIÙ: Ah, lui! Niente, giochiamo.

KODALY: Anche adesso?

LIÙ: (Portandolo sul lato nascosto del sedile) Venga di qua. Almeno si vede il mare.

NARRATORE: (Additando l’ipotetico oblò) Ora non lo vedete, ma sta davvero lì. A bere sino in fondo il dolceamaro calice della gelosia. Sopportabilissimo. L’esperimento funzionò. Quanto ai lividi... sciocchezze. Opera sua, ma di pennello. Molto Astuto, Raat. E più fine conoscitore delle perversioni umane di quanto egli stesso avesse mai ritenuto d’essere. Insomma, quel viaggio rappresentò per lui una sorta di tirocinio per verificare la pericolosità di Liù, e per apprendere a utilizzarla. (Attorno, i segni della nave iniziano a disfarsi) Di ritorno dalla traversata, i coniugi Raat, attrezzarono quello che, sino ad allora, era stato il grigio antro di un erudito in un caldo ritrovo dove rasi e ‘creton’ fecero piazza pulita di lugubri tappezzerie annerite dai fumi del petrolio. Finanche i negozianti che ne ebbero il loro tornaconto storsero il naso. Era come se la città capisse che nel suo ventre si stava innescando un’arma. Alzando il cane di una pistola. Liù, questa la voce, poteva di essere di tutti. Anche di coloro che mai prima avrebbero osato mettere piede alla locanda dell’Angelo. (Si allontana)

(Spazio aperto. Il dialogo ci dirà che siamo per strada. In un angolo, un fagotto di cenci. Compaiono con aria furtiva Schwarz e Steinherz. Rispetto all’atto precedente, vestono più da adulti, con tratti che danno quasi nel ridicolo)

STEINHERZ: Insomma, sicuro, ci vai?

SCHWARZ: Non vedo l’ora. Perché, hai cambiato idea?

STEINHERZ: Ma senza un soldo...

SCHWARZ: Ah, ricominci! T’ho spiegato, mica devi giocare per forza.

STEINHERZ: E mi farebbero entrare?

SCHWARZ: Puoi scommetterci. L’altro giorno, quando l’ho incontrato, dovevi vedere il Professore come ha insistito!

STEINHERZ: Se penso che sino a un anno fa ci avrebbe messo al muro!...

SCHWARZ: Credimi, è cambiatissimo.

STEINHERZ: Ma, insomma, una volta lì come funziona?

SCHWARZ: Niente. Chi vuole chiacchierare chiacchiera, chi giocare gioca, e chi trova da beccare, meglio per lui. Ma che hai da guardarti in giro?

STEINHERZ: E’ che dovrei essere da un’altra parte. Ma tu quand’è che ci sei stato?

SCHWARZ: Ancora mai, però lo so. La settimana scorsa stava a cena da noi il console Moeller, e quando se n’è andato a fumare con mio padre ho sentito che gli raccontava di uno che ci si è rovinato. Uno grosso, dell’esercito. Tipo un tenente, o peggio.

STEINHERZ: Rovinato giocando?

SCHWARZ: Pare.

STEINHERZ: E Liù?

SCHWARZ: C’è.

STEINHERZ: Ma a fare che?

SCHWARZ: A fare, a fare.

STEINHERZ: Pure questo l’hai sentito?

SCHWARZ: Dai, è ovvio. (Accorgendosi di una sagoma che si muove sotto i cenci) Ahia, la matta!

(Spettrale, dal convolvolo di panni, si solleva Therese)

THERESE: Chiuso, non si passa! Sciò, sciò...

SCHWARZ: Su, levati di mezzo!

THERESE: Vi riconosco a voi. Mica parlavate così quando venivate col berretto della scuola in testa e quando qui c’era una casa per bene che ci si doveva pulire le suole a dovere prima di metterci piede. Pallidi come lenzuola e con gli occhi a terra, così venivate. Guardatevi adesso! Forza, salite. So io a chi dirlo dov’è che siete.

STEINHERZ: Non provarci nemmeno, sai!

SCHWARZ: Ma lasciala perdere. Non lo vedi che è? Una barzelletta vivente.

THERESE: Dice, il cane da guardia. Sì, il cane da guardia, e allora?... Con gli stracci per strada m’ha scaraventato, e io di qui non mi muovo. Più mi portano via, e più ritorno. Sempre sotto gli occhi mi deve avere. Lui, lei, e tutte le canaglie che ci vanno a pascolo.

STEINHERZ: Che facciamo, Schwarz?

SCHWARZ: Io me ne sbatto.

(Scansa con una manata la donna e va)

THERESE: (Gridandogli appresso) Che tu sia maledetto! Neanche un porco avrebbe faccia di comportarsi come fate voi con le cose degli altri, ma all’inferno avete i posti segnati tutti quanti, dal primo all’ultimo! (A Steinherz) In nome di Dio, vattene a casa. Bella figura farvi trovare lì dentro!... Dei giovanotti come voi che possono avere tutto quello che vogliono.

STEINHERZ: Non me lo devi insegnare tu dove trovare quello che voglio! (E, superandola, si decide anche lui a salire)

THERESE: (Ricascando tra le sue cose, mentre alle sue spalle si configura l’interno di casa Raat) Io servo. Lo sa il cielo quanto servo. Dal Signore m’è venuto questo ordine e io lo accetto. Esserci. Stare. E’ nella miseria del mio corpo che è scritta la vergogna del corpo di un’altra. Qui! Qui! - Volete salire? Pagherete pegno guardandomi. L’orrore di quella puttana eccolo spalmato addosso a questa martire defraudata! In queste pezze qui! Nel sudicio che mi tocca! Io ero una di voi. Volevo quello che vogliono le vostre donne, perciò guardatemi bene. Un giorno capirete.

(Sera. Nel salotto di casa Raat. A descrivere l’ambiente basteranno alcuni elementi fondamentali: dei ‘puff’, un paio di poltroncine e un divanetto arabescati, un tavolino da gioco con sù bottiglie e bicchieri, un fonografo e un paravento orientale che allude a un ‘separè’. Al tavolo, il giudice Mayer, un quarantenne po’ tozzo e calvo, Juan e Kodaly; tutti e tre con le carte tra le mani. Sul divano, Ramona, scalza, con Moeller, che è il più azzimato della compagnia, attorno ai sessanta. Su una poltroncina più defilata verso il fondo, quasi a governare la sala, Raat. Per la prima volta lo vediamo suggere da una sigaretta. Sul bracciolo della poltroncina, con un braccio attorno alle spalle di Raat, Liù, che, di tanto in tanto, aspira dalla sigaretta del marito. Per ogni dove, piatti e piattini con avanzi di ‘buffet’. Le ‘mises’ dei presenti sono ineccepibili, ma, nell’insieme, si avverte un clima d’eleganza pronta a degradare per un nonnulla. Una nube di fumo ristagna a mezz’aria. Musica dal fonografo)

JUAN: Banco!

MAYER: Ancora?

JUAN: (Ramazzando) E’ lei che se l’è voluto vendere.

RAAT: Mai mollare i posti di comando, Giudice.

KODALY: Ciò non toglie che una certa fortuna...

RAMONA: Zitto lei, spergiuro!

KODALY: Oddio, la pianteremo mai con questa storia?

RAMONA: Colpa mia se ogni volta che la vedo mi rimonta il sangue alla testa?

KODALY: Ma dato che che ormai mi vede quasi tutte le sere, ammetterà che comincia a farsi un po’ pesante.

JUAN: Banco!

KODALY: Ecco, a distrarmi.

LIÙ: (A Ramona) Ringrazia, almeno qualcuno che ti fa giustizia. Così quello che aveva promesso a te, finisce che lo dà a tuo fratello.

RAMONA: Altra contabilità, lasciamo perdere.

MOELLER: (A Raat, centellinando da un bicchiere quasi vuoto) Comunque, per concludere il concetto, è davvero fantastico, Professore, con quanto spirito lei abbia saputo risollevarsi da una situazione che ne avrebbe fatti soccombere ben più d’uno. E pure a costo di rimestare in una piaga fresca, debbo ribadirle la mia più sincera ammirazione.

RAAT: Roba morta e sepolta, caro Moeller. E la sua ammirazione la prendo con ossequio, ma per quel che è: un refolo istantaneo.

MOELLER: La prego di dare un po’ più di credito alla mia coerenza.

RAAT: Al mille per mille, ma dopo la brutta storia del tenente Graad, meglio non abbassare la guardia. In città mi guardano tutti un po’ in cagnesco, faccia caso.

LIÙ: Come se c’entrassi qualcosa tu! Quello gioca come un disperato...

RAAT: Il tavolo a cui s’è rovinato quello è. Colpa mia? No, ma intanto...

MAYER: (Sbattendo le carte) Oh, si vedesse un po’ di luce, che diamine!

RAAT: Quasi che il demone glielo infiltri io! (A Moeller) Ancora un po’ di ‘riesling’?...

MOELLER: Guardi, l’ultimo goccio e vado. E’ che da lei non ci si può proprio permettere di rifiutare nulla.

RAAT: Liù, per piacere...

(Liù si alza e va al tavolo da gioco per prendere la bottiglia)

LIÙ: Spiacente ma serve.

MAYER: (Anticipandola con gesto sgraziato e versandosi) E mi lasci riempire almeno! (Cingendola alla vita) Comoda, lei... prende e se ne va, poi logico che le cose girano storte. La fortuna le sta appiccicata addosso.

LIÙ: (Staccandosi la mano di Mayer dal fianco) Giudice, sia gentile!

MAYER: (Con voce vieppiù sgranata dall’alcool) Ma lo sia lei, piuttosto!

(Raat, girato di trequarti, non può né vuole vedere quel che accade, mentre fanno irruzione dentro Schwarz e Steinherz, che, appena un passo oltre la soglia, frenano il loro slancio)

STEINHERZ: Sa-alve.

SCHWARZ: (A Moeller) Console.

(Moeller corrisponde con un imbarazzato cenno del capo, mentre Liù gli riempie il bicchiere)

RAMONA: E questi leoncini?

LIÙ: Gramigna sempreverde. Così che dice Hans. (Ai due) Da voi, a quanto pare, non c’è proprio verso di scamparla.

SCHWARZ: E’ stato tuo... suo marito che...

RAAP: Confermo, li ho invitati io. Un po’ di nuova linfa per il nostro cenacolo.

KODALY: Maledizione, Juan, ma che ha fatto? Un patto col diavolo?

JUAN: (Ancora intascando) Con reciproco profitto.

RAMONA: (Andando alla pila di lacche presso il fonografo) Digliela tutta... (a Kodaly) ha uno zoccolo al posto del piede.

LIÙ: (Ai due) Beh, se volete bere, la bottiglia è qui, i bicchieri in giro. ‘Fate vobis’

LENE: (Comparendo. Al suo solito, è la più vistosa del gruppo) Visto che bella sorpresa? I signorini si sono messi in ghingeri. Quando uno dice ‘un pubblico fedele’.

RAAT: (Sgarbatamente) Lene, dacci un taglio!

LENE: E che avrò detto mai!? Come se fosse una novità.

RAMONA: (Ondeggiando al suono dello strumento) Cioè, quale?

RAAT: Fesserie.

RAMONA: Le adoro.

RAAT: (Raggiungendola) Strascichi di un passato ormai decrepito. - Rabocco?

RAMONA: Strascichi?... Per quelli, poi, vado letteralmente pazza. (E porge il calice)

LENE: Ma il mio povero console... guardatelo là, tutto abbandonato e solo...

MOELLER: Non mi faccia arrossire.

LENE: (Andando pitonesca sul divano) Che amore!... Altro che quei mocciosetti! Lei sì che mi fa tenerezza, lo sa?...

RAAT: (A Moeller, premuto da Lene) Rabocco?

LENE: Non si preoccupi per lui. Il signore è sotto la mia specialissima protezione.

SCHWARZ: (A Steinherz, adocchiando Liù che ha raggiunto Ramona per accompagnarla nella sua danza solitaria) Tu non fiuti nulla?... Io sento un’arietta...

RAMONA: (A Liù) Mi piace come ti muovi. Non saprei che preferire... se di ballare con te, o come te.

LIÙ: Dio, se tu fossi stata un uomo, già m’ero sciolta.

RAMONA: E così no?

LIÙ: Chi lo sa. Può essere che lo capisca in sogno.

STEINHERZ: (Al compagno) Ma sentile!

SCHWARZ: Scommetto che lo fanno per noi.

MAYER: (Grugnendo, a Juan) Alla prossima che imbrocca, giuro, le do del baro.

JUAN: Ringrazi che m’ha parlato dalla parte dell’orecchio scemo.

LIÙ: (Ai ragazzi) E a voi la musica non piace più? Un tempo mi sembrava di sì.

SCHWARZ: Oh, beh... accipicchia, altroché... stiamo qui, guardiamo.

LIÙ: Non mi sembrava che guardare fosse il suo forte, piccolo Conte Schwarz.

RAMONA: Conte... addirittura! (A Steinherz) E lei?

STEINHERZ: Steinherz... Johann Steinherz. Ex alunno del professor Raat.

RAMONA: E basta?

STEINHERZ: Credo.

RAMONA:Mi spiace, Johann, il mondo è crudele, impone gerarchie. (Tendendo la mano a Schwarz per coinvolgerlo nella danza) Posso insegnarle qualche passo, Conte?

(Schwarz non può sottrarsi all’invito di Ramona mentre Liù scivola via e scompare)

RAAT: (Andando con una nuova bottiglia al tavolo) "Vai dalle donne? Porta la frusta." - Non lo dico io, ma Nietzche. (A Kodaly) Rabocco?

KODALY: Un dito, grazie. - La verità, diciamolo, è che bisogna incartarle nei bigliettoni queste bambinelle, sennò...

RAAT: (A Mayer) E lei gradisce?

MAYER: (Chiaramente alticcio) Gradirei di più se quando ha finito mi lasciasse la bottiglia... ‘garcon’.

MOELLER: (Nell’imbarazzo di esporsi con Lene affianco allo sguardo di Etrzum, che è tra le braccia di Ramona) E a casa, Conte... suo padre che fa? Sempre affogato nei libri?

LENE: Ma non lo vede che è tutto preso! Lo lasci perdere.

MOELLER: (A Raat) Una cosa è certa: qui da lei, chiunque trova quello che vuole.

MAYER: (Spintonando il tavolo come per chiudere i giochi) All’inferno!

RAAT: Detesto promettere senza mantenere.

MAYER:Soprattutto quando promette a nome di sua moglie... vero, Professore!?

MOELLER: (Vilmente) Io andrei un minutino di là. (E si allontana. Dopo poco uscirà anche Lene)

MAYER: (A Raat, che finge di non averlo sentito) Debbo ripetermi?

RAAT: Attento, Giudice. Quel vino picchia.

MAYER: Posso permettermi di straparlare quanto mi pare e piace. Credo di aver pagato a sufficienza.

RAAT: Lei non ha pagato un bel niente. Ha semplicemente perso, il che è un altro paio di maniche.

MAYER: Lo spieghi ai miei soldi perché hanno cambiato tasca!

RAAT: Apprezzi il fatto che sta bevendo gratis.

MAYER: (Tirandosi su barcollante, mentre attorno cala il gelo) E insiste! Ci ho lasciato l’anima tra i suoi ‘puff’ da bordello e pretenderebbe pure che la trattassi come... come...

RAAT: Come il padrone di casa.

MAYER: Già, di questa casa. (Andando a tirar via con un gracchio insopportabile il disco dal fonografo) E basta con questa musica!

JUAN: Giudice, non per prendere le parti di nessuno, ma lei mi sembra abbastanza alterato.

MAYER: E mi va di restarci, va bene?

JUAN: E’ per rispetto alla sua toga. Domani dovrà rindossarla. Le piacerebbe sentirsi sghignazzare dietro per qualcosa di cui non poter dire: "E’ falso"?

RAAT: Ah, Juan... i tuoi barocchismi sono un salvagente di prim’ordine. Benedico il nostro incontro, consacrato in una Pasqua di rose!

MAYER: Ma di che state blaterando tutt’e due?

RAAT: Di come tutelare il suo onore. Ci dica grazie.

MAYER: Me ne fotto del mio onore quand’è smanacciato da gente come voi!

RAAT: Cosa detta, non le si corre appresso.

MAYER: Minaccia?

RAAT: Se così le sembra è perché, da umilissimo servitore, mi limito a farle da specchio. - Juan, trova chi può accompagnarlo.

JUAN: Per me son pronto.

MAYER: Me ne andrò da questo letamaio come e quando mi piacerà.

RAAT: Nessuno l’ha mai chiamata.

MAYER: Altro che no! A viva forza, canaglia!

RAAT: E da chi? Da me?... Da qualcuno a mio nome?... Non mi risulta?

RAMONA: Oh, Giudice bello... sapesse io invece come la capisco! Il suo è il destino degli uomini passionali. Montano in sella al vento e chi s’è visto s’è visto.

MAYER: Liù! Dov’è Liù?

RAAT: La signora Raat amerebbe essere chiamata come si conviene.

MAYER: (In un ruggito) Debbo proprio?

KODALY: Oh-oh, questa è pesantuccia.

MAYER: Dov’è?

RAAT: Ha detto una cosa molto grave, se ne rende conto?

JUAN: Calmo, Theodor... diciamo che s’è fermato in tempo.

RAAT: Ma tu l’hai pensata. - (A Ramona) E tu pure... (a Kodaly) e lei forse no?... Pure i ragazzi, ci scommetto. Dunque, l’ha detta. Quella parola pesa nell’aria più greve di una nube da temporale. - Giudice Mayer... mi guardi! Lei ha il codice stampato nel cervello. Beh, lo sfogli e mi dica se, da quanto le risulta, c’è una colpa da punire oppure no?

MAYER: Liù... ne rispondo solo a lei.

RAAT: C’è una colpa o no?

(Nel silenzio solo il bisbiglio dei ragazzi)

SCHWARZ: Ho un amico alla gazzetta che per roba del genere paga salatissimo.

STEINHERZ: Beh, vacci.

SCHWARZ: Tempo al tempo.

RAAT: La sua colpa, Giudice. Voglio saperlo: se la riconosce?... Se la riconosce?

MAYER: (Additando il paravento) Dipende da chi c’è là dietro. Butti giù quel paravento!

RAAT: Per dimostare che?

MAYER: Che quella parola, pronunciata o meno, ha un senso.

RAAT: Cioè, che la signora Raat è una puttana?

KODALY: Professore, nessuno avrebbe voluto arrivarci!

RAAT: Neanch’io.

MAYER: (Con voce strozzata) Lo butti giù!

(Raat inizia a girare intorno a Mayer, ormai ridotto un bolso mastice sbuffante e malfermo sulle gambe)

RAAT: Se, come credo, sua Eccellenza ha interesse che la cosa rimanga circoscritta, stabiliamo sin d’ora la pena da pagarsi e, per quanto mi riguarda, l’increscioso incidente verrà ingoiato dalla stessa notte che l’ha partorito. E semmai risultasse che la signora Raat s’è meritata la sua manciata di fango, a pagare, beninteso, sarò io.

KODALY: Ah, per diffamazione si rischia la galera, altroché.

RAAT: Ma la galera ha mura poco adatte agli ospiti della mia casa. (Al Giudice) In fondo, per quanto lei dica di disprezzarle, queste fra cui si trova sono pur sempre meglio, non crede?

MAYER: E la smetta di montare in cattedra! E’ da quel dì che non fa più per lei.

RAAT: Allora, questa pena? Non sono io l’uomo di Legge.

RAMONA: Uffa, ma così è noiosissimo. Posso farla io una proposta sensata? (A Raat) Che la decida sua moglie, e contenti tutti.

RAAT: Complimenti, senorita. Una volta di più è assodato che, in materia di perversioni, lei può dare lezione a chiunque. Me compreso. (Al Giudice) Beh, che ne dice?... Nulla da eccepire? (Mayer tace. La sua espressione è terrea) Juan, fa’ il favore. Sposta quell’arnese.

(Juan sposta il paravento, dietro al quale un ampio specchio riflette la scena di un’alcova dove, scomposti tra le coltri, stanno abbracciati Lene e Moeller)

RAMONA: Ma quello è Moeller!

JUAN: Stupefacente... un Console con una donna-clown.

RAAT: Signori, rispetto! Siamo dinanzi al lieto fine d’una struggente storia d’amore.

STEINHERZ: (A Schwarz) Hey, ne avrai da raccontare al tuo amico!

SCHWARZ: E lui da scrivere. (Fila via seguito a ruota da Steinherz)

(I rimanenti fanno capannello presso lo specchio in cui è riflessa la coppia)

RAAT: (Sollevando il calice) Dal momento che, oramai, questo spettacolo ci si impone, e dacché siamo costretti a sapere quel che, forse, avremmo preferito non sapere... propongo un brindisi da farsi sottovoce alle nostre candide vittime di Cupido!

(Alle spalle del gruppo compare Liù che va a sistemare un disco sul fonografo. La musica riparte)

LIÙ: Direi di rimettere quel paravento dov’era. Che indelicatezza approfittare così dell’intimità altrui!

(Gli altri si voltano verso di lei)

LIÙ: Vorrei vedere se lo facessero con voi.

(Juan risistema il paravento)

LIÙ: Beh?... Cos’è questo crollo d’umore? Vi ho lasciato che eravate tanto allegri...

RAAT: Amor mio, temo proprio che tu ti sia persa il momento più piccante della serata. Ma consolati... è stabilito che toccherà a te concluderla. Io e il mio ex alunno Alfred Mayer - non sapevi che l’ho avuto sotto torchio? Beh, non c’è dubbio che da allora di strada ne abbia fatta - io e il caro Alfred, ti dicevo, siamo reduci da una scommessa che ha testè decretato uno sconfitto. Ora sta a te decidere il pegno da fargli pagare. Di qualsiasi entità. Motivo per cui... pendiamo tutti dalle tue labbra.

LIÙ: E chi sarebbe il perdente?

RAAT: Dirtelo sarebbe sleale. Fossi io, potresti essere indotta a una disdicevole clemenza. Sicché, fa’ tu.

LIÙ: Carino, mi piace.

(Liù attraversa la sala nel silenzio assoluto avventurandosi tra i vari convitati come tra statue di sale)

LIÙ: E io, allora, voglio... voglio... voglio...

RAAT: Ah, dimenticavo... una cosa da farsi, non da dare. (Al Giudice) Anche questo per amor di giustizia. Toccasse a me pagare, rimarrebbe in famiglia. (A Liù) Da farsi.

LIÙ: Ma... crudele?

RAMONA: Oh, sì, sarebbe fantastico!

JUAN: Io non forzerei la mano.

LIÙ: Schhh! Così mi fa capire.

JUAN: Mi cucio la bocca.

LIÙ: E allora, voglio voglio voglio... sì, ho trovato!... Voglio che lo sconfitto si faccia una paseggiata sino al ring... scalzo e senza camicia... a dorso nudo.

RAMONA: Beh, mi credevo chissacché. Neanche fa troppo freddo.

LIÙ: Solo col mio corsetto addosso. (Una pausa) Giudice, la vedo impallidire. Forse tocca a lei?

MAYER: (Cui l’angoscia ha restituito lucidità) Ragazza mia... sa cosa c’è di terribile in tutto questo? Che lei ha pronunciato la sua sentenza con una leggerezza infinita, sicura d’essere stata simpaticamente all’altezza della situazione. Ma io, ora, quello che lei ha detto, lo dovrò fare e lo farò. Vedremo, allora, quanto piombo può esservi in una spiritosa invenzione pronunciata da labbra che ancora non hanno capito il peso del loro potere.

(Detto ciò, il Giudice si leva prima la giacca poi la camicia restando a petto nudo)

LIÙ: Potreste voltarvi?... Ramona... se mi dai una mano...

RAAT: (A Ramona) No, ferma! (A Liù) Sono tuo marito, posso farlo io.

(Raat abbassa le spalline di Liù lasciandola a seno nudo)

LIÙ: Ma così, davanti a tutti?...

RAAT: (Facendo scivolare a terra il vestito e denudandola completamente) La virtù, spesso, è nello spogliare, non nel vestire.(Raggiungendo, col corsetto in mano il Giudice Mayer) Giudice... se mi permette...

(E - mentre Liù, umiliata quanto l’altro, si ricompone - il Giudice, sottomettendosi alla sevizia, lascia che Raat gli agganci l’indumento dietro la schiena)

KODALY: Dio, mi sta venendo la nausea.

RAAT: (A Mayer) Una volta tanto, Therese avrà di che levare le sue giaculatorie a ragion veduta quando se la vedrà sfilare davanti così conciato. - Vada pure.

(Mayer, con passo cadaverico, fa per avviarsi)

LIÙ: No, aspetti!... Io ho detto la prima cosa che m’è venuta in mente. Forse ho esagerato, non lo so. Dio mio... per me, se volete, posso anche pensarne un’altra.

RAMONA: Sei matta? Più perfetta di così!...

(Poi un silenzio. Mayer solleva uno sguardo supplichevole verso Raat)

JUAN: (A Raat) Vacci piano. Qua finisce che si chiude bottega.

RAAT: Ai tempi della scuola, se non ricordo male, l’allora giovane Alfred Mayer era un ottimo scacchista. Lui sa bene che il pezzo spostato non ammette ripensamenti. - Prego, procedere. E ci riporti, a comprova, qualche primula del Ring.

(Il Giudice esce)

RAAT: Una tisana, Kodaly?... (Kodaly fa di no con la testa. Poi, a Liù) Ho la sensazione che tu fossi tornata per deliziare i nostri ospiti con qualche numero. Pensavi di cantare?... Di ballare?... Stiamo aspettando.

LIÙ: Siamo rimasti talmente in pochi.

(Barcollante e con gli abiti sprimacciati, si ripresenta sulla soglia Moeller)

RAAT: Eccoti smentita. Si è sparsa la voce, c’è afflusso.

MOELLER: Che è?... Che succede?

RAAT: E la nostra Lene?... Sa per caso che fine ha fatto?...

MOELLER: Io?... Oh, no... mi ero solo steso cinque minuti al buio per riprendere un po’ di forze. Dio sa se ne avevo bisogno.

RAAT: La vedo incerto, si appoggi.

MOELLER: Grazie, bene così. - Bah... credo che andrò. Già, già... sul serio.

KODALY: Aspetti, Console... scendiamo insieme.

MOELLER: Sicché, niente... alla prossima, caro Raat. - Gentili signore!...

RAAT: Le auguro una buona notte. Per quel che ne rimane

(I due vanno)

JUAN: (A Raat) Ora che siamo tra noi, parliamoci chiaro. Ci ho messo anche del mio qui dentro. Se vuoi fare troppo a modo tuo non ci rivedi più. E credo che, tra me e lei (Ramona), a qualcosa serviamo. - Intesi?...

RAAT: Bò bò bò bò.

JUAN: (A Ramona) Su, bellezza... leviamo i tacchi. - (A Raat) Ah, la vostra quota è sul tavolo.

(Anche Juan e Ramona se ne vanno)

RAAT: Tutto dice che la serata è perfettamente riuscita. Addolora solo che il ritorno di Mayer avrà poco pubblico.

LIÙ: Mi hai fatto essere di una cattiveria che sto cominciando a capire poco alla volta. Non dovevi.

RAAT: Tu sei impossedibile, Liù. Sembra assurdo, ma forse è poprio per questo che riusciamo a intenderci noi due. Qualsiasi cosa io ti chieda, tu la fai. Ma qualsiasi cosa tu faccia, niente potrebbe mai bastare a farmi sentire che sei in mio potere.

LIÙ: Hai mai pensato che possa avere dei segreti?...

RAAT: Per me? (Liù annuisce) Mai. Mi ci costringi adesso.

LIÙ: A te piace sempre figurarti dei grandi misteri, quando magari potrebbe solo trattarsi di una cosa che non sai.

RAAT: Nessun problema, va bene così. M’interessano i tuoi effetti, non le tue cause. (Carezzandola tra i capelli) Ah, Liù, Liù... quanto dolce e adorabile sai fare la vergogna!... Ti piace?... Shakespeare.

(Da dietro il paravento, sbadigliando, compare Lene)

RAAT: Toh, la nostra consolatrice di Consoli! (A Liù) Ti lascio alla tua amichetta. Avvertimi quando arriva il Giudice col suo omaggio floreale. (Va)

(Lene, abbandonandosi sul divanetto, si versa da bere)

LENE: Oggi ho rivisto il vecchio Cinkus. Torna alla carica. Adesso dice che mi rivuole.

LIÙ: Mi lasci pure tu?

LENE: Pur io in che senso?

LIÙ: Niente. E’ che mi fa bene saperti qui.

LENE: (Abbassando la voce, come per alludere a qualcuno in casa) Oh, Lù... tu l’hai capito, vero, che quello è un criminale!... Si vede lontano un miglio che tipo è. Se ne frega anche di se stesso. L’unica cosa che gli importa è di far danno agli altri.

LIÙ: A me non ne fa.

LENE: Ma difatti mica ti dico ‘scappa’. Tutto è saperlo. Anzi, uno così lo si tiene al guanzaglio facile facile.

LIÙ: Insomma, torni ‘All’angelo’?

LENE: Se ringrana... certo, che da soli...

LIÙ: Non guardare me. Sono una donna sposata, che vuoi?

LENE: Ma pur io, che ti credi?... Mica gli ho detto sì. Per me importante è sapere che quando voglio so dove trovarlo. Dico il locale.

LIÙ: (Con la testa altrove) Quell’uomo ha la tremenda potenza di sostenere tutti i suoi delitti.

LENE: Eh?

LIÙ: Raat.

LENE: Ah.

LIÙ: E anche lo scandalo più spaventoso. Ce la farebbe benissimo.

LENE: Ma dì... hai paura?

LIÙ: Poi mi dice: meglio ingannato da te che amato da un’altra.

LENE: Insomma, Liù... hai paura?

LIÙ: Casomai di farne agli altri. Perché ho scoperto che ne faccio, sai... spavento moltissimo.

LENE: Ma piantala! La verità è che tu sei troppo buona.

LIÙ: Vuoi ridere? E’ quello che mi ripete pure lui.

LENE: Parli come una che si senta in trappola.

LIÙ: No. Magari. Mi sento di essere io una trappola. Anche per me stessa.

LENE: Vanitosa! Perché piaci e lo sai.

LIÙ: Come quand’ero piccola... nel tendone da cui m’hai portato via tu. Capisco quello che succede solo quando non c’è più niente da fare.

LENE: Ma lì eri lagata sul serio. Qui, se non ti va, chi t’impedisce di mollare tutto e far fagotto? E non mi dire perché sei sposata. Capirei se lo amassi.

LIÙ: Amare chi? Neanche mi bacia.

LENE: Dico, tu lui.

LIÙ: Ma se mi amasse lui, forse riuscirei ad amarlo anch’io. Invece non posso quasi avvicinarmi. Dice che soffre di cuore e rischierebbe di morire. Se l’inventa, lo so. Finge che gli tremano le gambe, e secondo me ha anche imparato come impallidire a comando pur di tenermi a distanza. Poi, davanti agli altri, è capace di darmi certi baci da torcermi il collo. Lene, lo sai che non mi specchio più da mesi?

LENE: Tu?...

LIÙ: Te lo giuro su quello che vuoi. Mi succedeva anche da ragazzina. Quando mi sentivo rifiutata, finivo col rifiutarmi da me. Ma qui è peggio. Perché lui più mi rifiuta e più mi vuole, capisci?... Così quando passo davanti a uno specchio, lo specchio mi parla e mi dice: "Io sono tuo, ma tu di chi sei?"

LENE: Bugiardella! Questa non è farina del tuo sacco, te l’ha scritta il principino. Lo sai che sono un’impicciona, e tu le sue lettere non fai che lasciarle in giro dappertutto. Finché non le scopre tuo marito.

LIÙ: Lo sa benissimo. Anzi! E’ lui che le conserva. A lasciarle in giro non sono io.

LENE: Come come?

LIÙ: Poi è Hans a dettarmi come rispondergli. Certe parole di fuoco! Pare assurdo, ma sono quelle che gli scriverei davvero.

LENE: Ma che porcata sarebbe?

LIÙ: Fa di tutto perché ritorni. Non aspetta altro. Non so cos’abbia contro quel poveretto, ma so che lo vuole qui. Perciò usa le mie lettere. Io, però, sai che ho fatto? Mi sono messa d’accordo con uno dell’ufficio postale, e prima che vengano spedite l’ho convinto a ridarmele, così ci metto quello che voglio io e che è molto più... semplice, innocuo. Lo so, non è una bella storia. Ma farei di tutto pur di proteggerlo.

LENE: Lo vuoi un consiglio? Infila quella porta e vattene.

LIÙ: Credimi, non posso.

LENE: Ma perché? Se è per difendere Taborì, mi sembra abbastanza cresciutello. Ci pensi da sé.

LIÙ: C’è qualcun altro.

LENE: E chi?

LIÙ: Lascia stare, non stasera.

LENE: Che fai? Prima mi metti la curiosità, e poi...

LIÙ: Meglio di no. Anche per te.

LENE: Bell’amica!

LIÙ: Non stasera.

LENE: E quando?

LIÙ: Un’altra volta, ora non me la sento.

LENE: Oh, me l’hai promesso. (Liù annuisce. Poi, notando il disco che l’altra tiene tra le mani) Sù, da’ qua... metto? (Liù annuisce di nuovo)

(Parte una musica su cui Lene induce l’altra a cantare)

LENE: "Cos’è questo freddo che il cuore mi stringe?"

LIÙ: "Cos’è quella macchia che il muro dipinge?"

LENE: "E’ l’umido brivido d’un triste inverno?"

LIÙ: "Oppure l’amore, l’amore mio eterno?"

LENE: "Che c’entra l’amore, dai dimmelo tu,

se fredda è la casa e calor non c’è più?"

LIÙ: "Non c’entra la casa ma pace non ho

da quando qui venne chi il cuor mi spezzò."

(Poi, accorgendosi di Steinherz che ha fatto capoccella da dietro il paravento battendo le mani...) Eccolo lì... un altro incorreggibile.

LENE: Ma siete dappertutto! Con voi ci vuole proprio l’insetticida!

STEINHERZ: (A Liù) Schwarz dice che qui, praticamente, si può fare come all’Angelo. E’ vero?

LIÙ: Cioè?

STEINHERZ: Beh, di starsene un po’ per i fatti nostri.

(Trambusto da fuori. Una porta che sbatte)

LIÙ: Sparisci se non vuoi che stavolta ti pizzichi sul serio!

(Steinherz torna dietro al paravento)

LENE: Ma hai sentito che macello là sotto?

(Rientra Raat. Ha il corsetto di Liù tra le mani)

RAAT: Era Juan. Hanno trovato questo sulla banchina a pochi metri da qui. Con la luna che c’è, dice che il corpo di Mayer si può vedere sul fondo del fiume quasi a occhio nudo. - Ah, benedetti figlioli... quando ripeto che non sopportano mai di essere pizzicati è perché li conosco. Ora che c’entrava buttarsi giù!?...

(Rumori da oltre il paravento che oscilla. Raat si affetta a nascondere il corsetto)

RAAT: Chi è? Uno dei ragazzi?

LIÙ: Sì, ma è uno fuori da questa storia. E’ arrivato adesso.

RAAT: Mica sarà lui, per caso? Tu sai chi dico.

LIÙ: Tranquillo, non è lui.

RAAT: Magari lo fosse! Quanto a quello... se ti va, accontentalo. - Purché si indebiti.

(Via gli elementi della casa. Sulla scena rimane solo Raat, ora fronte al pubblico)

NARRATORE: Purché si indebiti. - Purché si indebitassero tutti. Purché si degradassero. Purché si rovinassero. Purché si annientassero. Purché dilapidassero i loro beni, e poi quelli dei parenti, degli amici, delle mogli, in una catena di cadute una sull’altra. Sino a mentire. Sino a truffare. Sino a rubare. Sino ad uccidere, possibilmente. Sino ad uccidersi. - Siamo alla stretta, signori. La città aveva consentito il diffondersi del virus da cui ora si sentiva minacciata. - La banda Raat. Così la chiamavano. Così la volevano. Così la volevamo. Mi ci metto dentro pur io. In questo ‘confiteor’ ci siamo tutti, poiché Liù è servita a tutti. A chi la desiderava, e a chi la odiava. - E Raat? Che c’entrava Raat? Moltissimo c’entrava. Raat era parte di Liù. Di quella Liù strappata all’‘Angelo’, e issata su un piedistallo pagano nella piazza centrale. Lui era parte di lei, e lei di lui. Che diabolico ermafrodito! Penetrare Liù, era un modo per farsi penetrare da Raat. - Ma basta, non divaghiamo! Dopo la morte di Mayer i due si azzardarono a uscire. Così... come una coppia qualsiasi. Una deliziosa coppietta che se ne vada a spasso sottobbraccio.

(Entra Liù vestita da ‘promenade’. Porta con sé il bastone, il manto e il cappello di Raat - tutte cose nuove di zecca - che consegnarà a lui. Infine, i due si metteranno, come annunciato, sottobbraccio)

NARRATORE: Ma non lo fecero la mattina appresso, quando ancora di quel suicidio erano in pochi a sapere qualcosa. No. Alcuni giorni dopo. Nella certezza assoluta di tutta la città che quel corpo seminudo sollevato con gli argani dalla melma del fiume fosse un’opera firmata. Hans Theodor Raat, e signora. Con tutto ciò, la polizia non poteva far nulla, e la Legge tantomeno.

(Liù e Raat, sempre a braccetto, si espongono pressoché immobili agli improperi che li tempestano)

VOCE: La pompa! Usa la pompa, Georg!... Buttagli l’acqua addosso!

RAAT: Tienti al centro, mia cara. Rischi di bagnarti.

VOCE: Altro che acqua! A quei due bisognerebbe rovesciargli addosso i pitali!

VOCE: Ne hanno ammazzati pochi!... Ora anche il povero Giudice!...

VOCE: Fino a quando dovremo sopportarvi, carogne?

LIÙ: Per piacere, vorrei tornare a casa.

VOCE: Ci hai ridotti in miseria, maledetto! Lo dobbiamo a te se mio figlio ha fatto bancarotta!

VOCE: E se mio marito l’hai costretto a vendersi la casa!

VOCE: E se a mia figlia hai mandato all’aria il matrimonio!

VOCE: Tu e quella sgualdrina che ci punti contro come una canna da fucile!

RAAT: Dio mio, quanta popolarità!

LIÙ: Ho bisogno di andare a casa. Davvero.

VOCE: Porci! Mi avete succhiato l’anima nel vostro bordello!

RAAT: Non è quello dei ‘nècessaires’ d’argento?... Prima ci ha riempito di regali, e adesso sentilo!

LIÙ: Fammi andare a casa, ti prego.

VOCE: Ladro!

VOCE: Magnaccia!

VOCE: Assassino!

RAAT: Chissà come mai a nessuno viene più da dire ‘sorcio’?...

LIÙ: Hans...

LIÙ: Che c’è, tesoruccio?

LIÙ: Vuoi saperlo perché sto ancora con te?

RAAT: E’ superfluo. A me basta credere che mi ami. Tu continua a dirmelo di tanto in tanto, e io non ti chiedo di più.

LIÙ: Ho un figlio.

RAAT: (Ignorandola) Una volta a settimana è sufficiente. Mi dici: "Topolino, ti amo", e io sono a posto.

LIÙ: Ha dodicianni. Tutto quello che tu mi obblighi a fare, io lo faccio per lui. Non mi resta altro. A volte, quando pensi che io sia chissà dove, è perché lo vado a trovare.

RAAT: A me è sufficiente sapere di essere il primo della lista.

LIÙ: All’inizio, forse, non è stato solo per lui che ho accettato tutto questo, ma ormai non trovo altre giustificazioni per fare quello che faccio.

RAAT: Poi lo sai: nella lista puoi metterci chi vuoi. Soprattutti uno. (Silenzio) Hai sentito che ho detto? Soprattutti uno.

LIÙ: Ma sì, sì! Me lo ripeti di continuo.

RAAT: E insisterò fin quando non ne verremo a capo. So che è tornato in città.

LIÙ: E tu hai sentito quello che ti ho detto io? Era il mio segreto, te l’ho svelato.

RAAT: (Con l’orecchio altrove) Si sono zittiti. Direi che possiamo anche rientrare.

(Compare, presso il proscenio, un tavolino da caffè con due seggiole. Sul ripiano tondo di marmo, un vassoio con un bricco e una tazza. Su una delle due sedie è poggiata una borsa con una alcuni pacchetti. Raat resta dov’è, Liù va al tavolo. Si siede, si versa del liquido nella tazza, e beve a fior di labbra. Appare prostrata)

NARRATORE: Quando Liù usciva per i fatti suoi - casa rara, ma accadeva - nessuno, stranamente, si azzardava a dirle nulla. Ci voleva Raat al suo fianco per renderla infernale, tremenda. Fuori dalla sua tana, lei era al bando. Come quella mattina che era andata a fare qualche compera. E che, in verità, non era affatto sola. E che obbediva ai suoi ordini. Parlo della mattina in cui tutto giunse a compimento.

(Il Narratore-Raat arretra di qualche passo, in una zona d’ombra. In piena luce compare Taborì che s’accorge di Liù china sulla sua frugale colazione. Il ragazzo veste con particolare eleganza. I suoi modi ci dicono quanto sia cresciuto)

TABORÌ: (Accostandosi al tavolo) Ci si rivede, egregia signora. Ne è passato di tempo!

LIÙ: Taborì! Di nuovo in città?

TABORÌ: Per poco. Posso?

LIÙ: Mio marito non ne sarebbe contento.

TABORÌ: E lei?

LIÙ: Che presunzione! Non gliela ricordavo.

TABORÌ: Domando sinceramente.

LIÙ: (Dopo un silenzio) Solo pochi minuti però.

TABORÌ: (Spostando borsa e pacchi sul tavolo, e sedendosi) Il Professore ce l’ha sempre avuta con me perché le sue grinfie mi scivolano addosso. Non ha mai voluto credere che il mio rispetto fosse autentico.

LIÙ: Lo era?

TABORÌ: Se mi dà pochi minuti usiamoli per noi. So che è divenuta una celebrità, nel frattempo.

LIÙ: Parla di rispetto, e subito che mi prende in giro.

TABORÌ: Forse per gelosia.

LIÙ: Non me ne ha mai dimostrata, che le prende? Le confesso che quasi me l’aspettavo, e invece niente. I suoi amici, in questo, erano maestri. Si vede che non erano solo le grinfie di Raat a scivolarle addosso.

TABORÌ: E le mie lettere, allora?

LIÙ: Poco più che cartoline.

TABORÌ: Come le sue risposte.

LIÙ: Mi avrebbe voluta più invadente?

TABORÌ: Più sincera, semmai.

LIÙ: Non mi sembrava fosse il tipo da amare il linguaggio della passione.

TABORÌ: Neanche nelle canzoni che le ho dedicato?

LIÙ: Che bugiardo! Sapesse quanto ci ho sperato che fossero quelle le sue vere lettere per me, ma lei l’unica cosa che voleva era di trovare una buona interprete per le sue creazioni, dica la verità?

TABORÌ: Ognuno spasima come può.

LIÙ : Ne ha scritte ancora?

TABORÌ: Di canzoni poche. Più teatro.

LIÙ: Importante è che non si sia allontanato da se stesso.

TABORÌ: Quanta assennatezza per una che, mi dicono, ha meso a soqquadro la città!

LIÙ: Ah, Taborì... si ricorda de ‘L’angelo’?... Tutto sommato, resta ancora il meglio.

TABORÌ: Sì, forse. Quei tempi in generale.

LIÙ: Su quel palcoscenico covavo un desiderio finito lì. Trovare qualcuno per cui essere un sogno, e non un bisogno.

TABORÌ: La ritrovo come l’ho immaginata in questi due anni di viaggio, tale e quale. Se le dico come, non rida. - Una sonnambula dell’amore.

LIÙ: Davvero, Taborì?

TABORÌ: Non mi chieda che significhi. L’immagine è tutta qui.

LIÙ: Ma io la capisco benissimo, non deve spiegarmi nulla. Sono io! Sono io!

(Entra Therese. A vederla, Liù si gela)

THERESE: (Incombendo sui due che restano seduti, a Liù) Puoi tirare un bel sospiro di sollievo, me ne vado!

LIÙ: Therese, io non volevo farti del male.

THERESE: Dillo alla mia ombra, te la lascio al portone. Non mi vedrai più sotto casa mia-mia-mia, per sempre mia, non tua! Ma prima ho voluto farci una visitina. L’ho fatto mille volte quando non c’eravate.

LIÙ: Io ti voglio bene, Therese.

THERESE: Toh, guarda! (E tira fuori da una borsaccia un grappolo d’ori e di monili) Grida ‘al ladro’ e te li faccio ingoiare! Mi appartengono.

LIÙ: Se lui non c’è, puoi salire quando vuoi.

THERESE: Ora sai che faccio? Me ne vado dove ho visto il giudice sfilarsi le tue porcherie di dosso. Dove l’ho visto ululare e saltare di sotto. Stesso punto del fiume. E questi mi serviranno per arrivare prima. Non mi va di tirarla per le lunghe. Vedo il nostro principino che freme. (A lui) Mancava solo lei alla collezione. Non avrà da lamentrasi. Vedrà che ottima moglie sa essere la moglie del Professor Raat! (E va)

LIÙ: Andrà a dirgli che ci ha visti. Perché lui sta lì fuori. Sa tutto. Ci spia. Dietro il vetro, lì. Prima, quando lei m’ha chiesto di sedersi, le ho detto che non sarebbe stato contento. Non è vero. E’ lui che me l’ha ordinato... di mettermi qui, di aspettarla. E io ora dovrei dirle quello che davvero vorrei, solo che vorrei dirglielo come una cosa mia, e invece, così, si tratta solo di quello che si aspetta mio marito.

TABORÌ: E cos’è che si aspetta?

LIÙ: Che io la inviti a salire. Ma possiamo farlo lo stesso! Magari non ora, che lo vorrebbe lui. Ma domani, che non lo saprà.

TABORÌ: Sono fuori da questi giochi, Liù.

LIÙ: Abbiamo mai giocato noi due?

TABORÌ: Non amo mescolarmi.

LIÙ: E c’è bisogno di dirlo? Un aristocratico come lei!...

TABORÌ: Mescolare le carni, mi capisce?

LIÙ: Bugiardo! Bugiardo! Se l’inventa per me, per scacciarmi!

TABORÌ: L’onore del mondo viene diminuito se aumenta il suo piacere.

LIÙ: E vuole fare il teatrante?

TABORÌ: Capire le armonie della vita. Sono così, mi creda.

LIÙ: Un presuntuoso. Avevo ragione io.

TABORÌ: Un testimone, questo vorrei diventare.

LIÙ: (Prendendogli le mani che terrà avvinghiate a sé) E chi le ha scritte, allora, le parole delle sue canzoni? La supplico, mi dica che ne ha un po’ di nostalgia!

TABORÌ: Le ricordo a malapena.

LIÙ: E di me ne ha?

TABORÌ: Infinitamente.

LIÙ: Allora mi salvi!

TABORÌ: Non le basta di avere chiunque alla sua mercè? Che vuole di più?

LIÙ: Appartenergli.

TABORÌ: Sta per venire, mi lasci.

LIÙ: (Sporgendosi verso di lui, intonando a bassa voce) "Oh capitano, mi cercate invano. / Chiedete ad altre / quel che non vi do. / Perché sperare? Non m’avrete mai. / Io sono la giumenta di tutti i marinai."

(Dal fondo, avanza Raat, che arriverà presso il tavolo, sino a sovrastarli. Taborì si alza in piedi in un silenzioso gesto d’ossequio)

RAAT: (Sfilandosi un biglietto dal taschino e porgendolo al giovane) Caro Principe... lei ce l’ha sempre il nostro indirizzo, sì?... A ogni buon conto, come ‘pro memoria’...

LIÙ: Lascia stare, non serve. Gliel’ho detto, ma preferisce di no.

RAAT: Davvero?... (A Taborì) Vecchio vizio che le rimprovero da tempo questo di non saper tener dietro alle sue miserabili intenzioni. Una meschinità che, per paradosso, la rende quasi inattaccabile.

TABORÌ: Le mie intenzioni ce le ha tutte sotto gli occhi, Professore.

RAAT: Lei è una creatura di vetro. Finirà in frantumi. E mia moglie con lei.

TABORÌ: La lasci fuori da questa rissa in cui non c’entra. Mi è molto cara.

RAAT: Molto cara?... (Di slancio gli afferra un braccio e lo spinge a smanacciare il petto di Liù) E allora, per dio, si decida a metterle le mani addosso a questa troia!

LIÙ: (Tenuta per le spalle) No, ti scongiuro... non vuole! Non vuole!

RAAT: Toccala, maledetto ipocrita! Toccala! Te la vuoi scopare? Scopatela!

(E, infoiato, spinge violentemente Taborì addosso alla donna come a premerli in un abbraccio assurdo. I tre cadono in terra trascinandosi appresso il tavolo e quello che vi stava sopra. Il ragazzo, riuscendo a liberarsi, afferra Liù per un braccio e, di corsa, la porta via con sé. Raat, crollato, si voltola in terra tra i bricchi in frantumi e i pacchi rovesciati, da cui sono usciti vestiti e giocattoli)

RAAT: Che chiamate?... Le guardie?... Perché, che ho fatto?... Non è successo niente, tutto a posto. Ci sono feriti?... Non mi sembra. E lasciatemi stare! Giù queste mani, levatevi di mezzo!... (Rimettendosi in piedi) Signor pliziotto, a sua disposizione. Una stupidaggine, solo un piccolo incidente. Le garantisco, posso spiegare tutto. Per le tazze e il tavolo, se c’è da pagare pago. - Ma no, che uccidere mia moglie! E lasci stare quelle manette, non sia ridicolo!... No, ho detto ridicolo così... per la situzaione, mica a lei. (Rassegnato, tende la braccia a polsi uniti) Non aspettavate altro, eh?... Guardateli là, tutti i sorci a raccolta. Puah... rivoltosi dei miei stivali! Che indegno pubblico di stoccafissi per la caduta di un tiranno. Bello spettacolo, vero?... Ve la urlo in faccia la mia sola colpa: di aver avuto troppa forza per tutto, tranne per la felicità. Io che me la potevo permettere, avrei dovuto fermarmi lì. Prendere esempio da voi, che non spasimate per altro e non ci arriverete mai. (Alzando le braccia che si immaginano incatenate) Oggi però, esultate!, ne potrete rosicchiare almeno un briciolo. Possa andarvi di traverso! (Come rivolgendosi a qualcuno che stia affianco) Vengo, vengo... - no, nessuna uscita di servizio, mi sta bene di lì. In faccia al branco! Me li tenga alla larga, però! Puzzano. - Sì, che puzzate. Di fogna, tutti quanti!

(E si volta spalle al pubblico. Le voci che seguono sgranate, dovranno sentirsi quasi in sovrapposizione, dando l’idea di un coro infoiato e schizoide)

VOCI: Fuorilegge! Fuorilegge! Fuorilegge!

VOCE: Fermi, indietro! Fate passare!

VOCI: Sei finito per sempre, Raat!...

VOCE: Ho detto indietro! Ma che fate?... Largo! Largo!

VOCI: Lo lasci a noi, guardia! Lo lasci a noi!

VOCE: Siete impazziti? Non così addosso, non così addosso!

VOCI: Hey, ma cos’è? E’ caduto davvero!

VOCE: Via! Via! Volete che vi arresti tutti quanti?

VOCI: Lo calpestano, guarda! Cristo, voglio starci pur io, fatemi passare!

VOCE: Calpestano dove? Non lo vedo più!

VOCE: E’ caduto, ti dico. Gli stanno sopra. E non spingete!

VOCI: Pur io! Pur io!

VOCE: Oh, al diavolo!

VOCE: L’ho toccato!

VOCE: Hurrà... un pezzo della sua camicia!

VOCE: Il suo bastone!

VOCE: Il suo mantello!

VOCE: E’ mio, l’ho preso io!

VOCE: Aria, si soffoca!

VOCE: Dov’è? Dov’è?

(Raat allrga le braccia, come liberate. Si volta di nuovo. Avanza di qualche passo)

NARRATORE: Presi uno per uno, nessuno, forse, lo avrebbe voluto, ma tutti insieme lo hanno fatto. Tutti quelli che lo aspettavano al varco fuori dal caffè per vederlo uscire ammanettato. Tutta la città, insomma. Tutti noi. Cominciarono quelli più in fondo che si misero a premere per poter dire anche loro: "C’ero, l’ho visto: con le catene ai polsi". Quelli davanti, allora, gli si trovarono addosso e, dal disgusto, quasi nacque la smania. Impossibile dire chi fu a spingerlo. Probabilmente, neppure chi lo fece se ne rese conto. Certo fu... che cadde. Oggi c’è chi dice: "Io mi sono chinato solo per tirarlo sù". Chissà che non sia vero. Ma ogni mano che si protese contribuì a macinarlo. Poi tutti i corpi gli furono sopra, e nessuno di quei corpi potè più rifiutarsi di fare ciò che fece. Sotto le suole, sotto i tacchi. Morto schiacciato. Una morte da topi. Poltiglia nella poltiglia. I più crudeli si accanirono sulle sue cose. Ma su di lui, in verità, nessuno. Ossia, tutti. Anche quella guardia, alla fin fine, ebbe la sua parte. E dunque... a quel punto... chi processare? Chi mettere alla sbarra? Quale la fiamma dell’incendio che brucia la casa? Voi sapreste indicarla? - Ci fosse stato un processo, la giuria avrebbe dovuto condannare se stessa. Ovviamente, non ci fu nessun processo. Tranne questo che stiamo consumando ora tra noi. Il verdetto? Siamo a teatro, è nel racconto stesso. Rimane Liù. Rimase Liù. Beh, diciamo che Liù se ne tornò in patria.

(Cala dall’alto l’effige dell’angelo. Più sul fondo, cala di trequarti la tenda rossa)

NARRATORE: Al suo ‘Angelo’. Che, in fondo, rimaneva pur sempre il meglio. - Quanto a me, il mio nome, gentile pubblico, oggi come allora, è Friedrich... Taborì. (E si infila nel risvolto della giacca il fiore di stoffa blù facendosi d’un lato e rimanendo nell’ombra)

(Una musica strepitante d’orchestra. Il palcoscenico viene invaso d’improvviso da guitti e ballerine, tra cui riconosciamo anche Lene e Cinkus. C’è chi salta, chi danza, e che si cimenta in giochi d’equilibrio o di prestigio. Poi, al culmine dell’effervescenza, la musica cambia e, da oltre la tenda, fuoriesce Liù in abiti di scena. Sul palco tutti zittiscono facendo largo alla donna, che avanza cantando verso la ribalta. Questa canzone sarà l’atto finale della nostra storia)