Amore senza stima

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AMORE SENZA STIMA

Commedia in quattro atti

di paolo ferrari

Riduzione di Vittorio Campi

PERSONAGGI

Conte STEFANO MONTESILVA

GEROLAMO BARCHETTI

Barone PASTORANI,

Vi­sconte NEROTTI, giovani ele­ganti

ANDREA, cameriere di Stefano

CARLO, cameriere di Agnese

AMBROGIO, ca­meriere dell'albergo

Contessa LIVIA, moglie di Stefano, fi­glia di Girolamo

Marchesa AGNESE, donna giovane ve­dova

ANGIOLINA, camerie­ra di Livia

LISETTA, came­riera di Agnese

Epoca 1880.

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Un salotto nell’appartamento che la marchesa Agnese oc­cupa in un grande albergo di Milano.

(Andrea e Carlo sono in livrea. In livrea gallonata il primo, in mezza li­vrea senza fregi il secondo. Lisetta in elegantissimo abito da cameriera con grembiulino a pizzi e nastri e graziosa cuffietta. Ambrogio in abito nero, cra­vatta bianca e sal­vietta sotto il brac­cio. Nella stanza vi­cina, in seconda a sinistra, la sala da pranzo, dove si im­magina siano la mar­chesa, Stefano, Pastorani e Nerotti. I servi stanno ciarlando e bevendo. An­drea è seduto con aria di grande importanza sul piccolo divano a sinistra. Lisetta con arie di gran signora è presso di lui. Carlo è appoggiato aristocraticamente allo schie­nale di una poltrona. Ambrogio è in piedi al di là del piccolo tavolo ch'è situato fra il divano e la poltrona. La conversazione è festosa, un tantino rumorosa, per quanto il tono sia sommesso. I fumi dello champagne hanno creato un leggero stato di euforia che però non toglie ai personaggi il perfetto controllo dei loro atti e parole. Gente abituata a trattare con persone distinte ed eleganti, han modi civilissimi).

Andrea                          - Evviva il carnevale!

Carlo                             - Evviva il carnevale di Milano!

Ambrogio                      - E soprattutto evviva la signorina Lisetta, la più graziosa ed elegante cameriera che sia passata per l'Albergo Reale (e le bacia la mano come ad una gran signora).

Lisetta                           - Ricambio l'evviva a voi, signor Ambrogio. Bisogna convenire che voi siete un compitissimo cava­liere, certo il più simpatico fra i camerieri del primo piano.

Andrea                          - Carlo, se accendessimo un cerino? (con ironia).

Ambrogio                      - Per me, se la signorina permette, acco­modatevi pure. E' innegabile che voi siete veramente adorabile (e di nuovo s'inchina e le bacia la mano).

Lisetta                           - Se voi me lo dite, devo credervi ed es­serne lusingata (e ride compiaciuta e civettuola).

Ambrogio                      - Canzonate pure, so che non c'è più nulla da fare. Il posto è già preso. Magari non lo fosse. Non so che cosa darei!

Lisetta                           - (divertita del giuoco, incitatrice) Suvvia, che cosa dareste?

Ambrogio                      - Tutta la mancia che la marchesa, vostra padrona, lascerà per il servizio.

Lisetta                           - (come sbalordita dell’offerta) Signor Am­brogio... E' una generosità superiore al mio merito. Che pazzie!

Ambrogio                      - (con subito interesse) Scusate... credete dunque che lascerà molto?

Lisetta                           - (ridendo) Ah! Avete paura d'aver offerto troppo?

Andrea                          - Vergognatevi, signor Ambrogio. Non è un gesto da gentiluomo!

Ambrogio                      - Siete in errore, caro amico. Io mi preoc­cupo solo di sapere se avrei fatto un'offerta degna della signorina Lisetta.

Lisetta                           - Non v'inquietate. Vi credo sulla parola, e appagherò la vostra legittima curiosità. La signora marchesa, nostra padrona, è vero (indica in un gesto sé e Carlo), a casa sua, a Firenze, conta il centesimo, ma quando è fuori, e specialmente qui a Milano, ha la mania di farsi credere inglese o americana e spende e spande come una milionaria... Quando poi si torna a Firenze si mangiano gli avanzi del giorno prima, per pagare i grossi debiti.

Andrea                          - Infatti qualche cosa di simile l'avevo sen­tito dire dal conte Stefano. Il mio padrone deve cono­scere bene la marchesa Agnese. Credo sia stato suo amico d'infanzia, e ora è più il tempo che passa qui con lei che a palazzo con la moglie. Credevo però fos­sero soltanto chiacchiere, e mi stupisce, perché, a dirla fra noi, il conte Stefano è talmente superbo, si crede talmente al di sopra di tutti, che se sapesse veramente eome stanno le cose, non le starebbe così attorno.

Carlo                             - Mah! E' affar suo. In ogni modo, dato che siamo fuori di casa, vale a dire nel periodo d'oro, è certo che la nostra padrona si guarderà bene dal lesi­nare, e la mancia sarà principesca.

Ambrogio                      - Benone! Ma purtroppo è inutile, che io offra, signorina Lisetta. Il posto è preso, e Andrea lo sa bene.

Andrea                          - Sentite, signorina Lisetta? L'amico è con­vinto che noi flirtiamo!

Lisetta                           - E ne siamo così lontani.

Cablo                            - Sfido io. Andrea ha moglie.

Ambrogio                      - Avete moglie?

Andrea                          - Infatti. Cosa volete farci? E' così. Mia moglie è la cameriera della contessa Livia, moglie a sua volta del mio padrone.

Ambrogio                      - E con questo? Credete persuadermi? Cosa conta la moglie? Anche il conte Stefano, vostro padrone, è ammogliato, e fa l'amore con la marchesa Agnese, padrona della signorina Lisetta.

Lisetta                           - Oh! Fa... l'amore... Che modo di dire!

Carlo                             - Si dice fa la corte o flirta.

Andrea                          - Ah! Questi camerieri d'albergo! Stanno troppo in portineria.

Ambrogio                      - (un po' piccato) O corte o flirt, o... amore, la conclusione è sempre quella lì!

Carlo                             - Per il conte Stefano e la marchesa Agnese la conclusione è ben altra. Non fanno che litigare con­tinuamente. Sei divertimento far l'amor... flirtare in quel modo.

Lisetta                           - Anche oggi non mancherà una scenata. Ne sono certa.

Andrea                          - Scusate, ma chi volete che vada d'accordo con quella serpe velenosa della vostra padrona?

Lisetta                           - Oh, per questo, caro signore, il vostro pa­drone non è meno serpente della mia signora.

Carlo                             - Non vi arrabbiate. Mettetevi d'accordo: sono dei serpenti tutt'e due.

Andrea                          - Ma sì! Conveniamo purtroppo, cari amici, che la stirpe dei padroni è in piena decadenza: più le persone di servizio progrediscono, camminando «oi tempi, e più i padroni diventano impossibili! Io mi domando dove andremo a finire!

Carlo                             - Passiamoli in rassegna questi signori pa­droni. Uno peggio dell'altro. Del conte Stefano e della marchesa abbiamo già detto abbastanza. Prendiamo ad esempio quel barone Pastorani ch'è di là a pranzo da noi. Ne so qualcosa io che ho avuto la disgrazia di stare al suo servizio. Uno scroccone di prima forza, e che alla servitù fa perfino patire la fame. Ma... silenzio, eh?

Andrea                          - E quel visconte Nerotti, ch'è a pranzo di là anche lui? Sono stato in casa sua, ma per carità non lo ripetete, quello paga il cameriere rivendendo i dol­ci che, durante i pranzi o i tè, fa scomparire nelle sue tasche.

Ambrogio                      - E si ubriaca anche...

Carlo                             - E dice corna di tutti quelli che lo ricevono.

Lisetta                           - Per questo è il degno compagno del ba­rone Pastorani, la lingua più malefica di tutta l'alta Italia.

Andrea                          - E veniamo ora alla contessa Livia, la mo­glie del mio padrone...

Lisetta, Carlo, Ambrogio- (curiosissimi, attorniandolo) Ah! Com'è? Dite! Raccontateci.

Andrea                          - Ecco... Come padrona, in fondo, è tanto una brava diavola, perfino tre volte buona, che la si può anche sopportare. Capirete... Piuttosto che cambiar servizio, a rischio di capitar peggio, io e mia moglie si chiude un occhio e si tira avanti. Ma c'è suo padre... Bene, di questo diremo poi. Come moglie    - i oh, che la cosa non esca di qui      - come moglie, il meno che si voglia dire è ch'è una gran stupidona! Il padrone gliene fa, ma di quelle!... e lei... niente. Se le beve ch'è un piacere! Oggi, per esempio, il padrone è ve­nuto a casa con un muso lungo un braccio...

Lisetta                           - Sfido io... aveva attaccato lite con la mia padrona. Non so perché... Lei lo aveva invitato a pranzo, ma lui ha rifiutato e se n'è andato rabbioso.

Andrea                          - Alle sette, il padrone stava per mettersi a tavola con la signora, ma ecco che arriva un fattorino di piazza con un biglietto.

Carlo                             - Certo doveva essere la mia padrona. Ha la manìa dei bigliettini.

Andrea                          - Infatti, era lei. Il conte legge il biglietto e subito lo ripone in tasca. La signora domanda: « Chi è? », e lui, con una faccia tosta incredibile: « Sai, è quella seccatrice della marchesa Agnese... Mi prega as­solutamente di accettare l'invito che mi aveva fatto di andare da lei a pranzo... Ma io non ci vado. Mi annoia veder gente e soprattutto antipatica... ».

Ambrogio                      - Che fintone!

Andrea                          - Zitto, che ora viene il bello. « Ma perché caro? dice la signora. Voi non potete mostrarvi così scortese con una signora del vostro rango... ». « Mi secca, anche perché dovrei lasciarvi sola », dice lui, e lei con tutta dolcezza: « Ma sì, Stefano, accettate e non vi preoccupate di me. Vi divagherete... ».

Lisetta                           - (ridendo) Oh, che stupida!

Andrea                          - Il padrone, che non cercava di meglio, esclama: «Ah sì?! Sta bene! Vi andrò! ». E dà ordine in tutta fretta di far attaccare.

Lisetta                           - Presente la moglie?...

Andrea                          - Peggio. Ha fatto finta di andare in collera e si è messo a gridare: «Ah sì? Allora vuol dire che vostro marito vi è d'incomodo se preferite lasciarlo an­dar a pranzo fuori. Ma se è questo che volete, vi servo subito ». E senza lasciarle neppure il tempo di fiatare, giù a precipizio per lo scalone, e subito salta in car­rozza, e frusta il cavallo, e, a costo di metter sotto qual­cuno, a tutto galoppo vola qui dalla sua bella.

Lisetta                           - Oh! Gli uomini, che canaglie! Birbanti, impostori... e non dico di più per educazione. Ecco lì una bella sposina, giovane, buona, innamorata - brutta stupida - di suo marito, e questo mascalzone- (ad un gesto dei tre) ormai l'ho detta - che la pianta sola per correre dietro a una civetta che lo fa impazzire... E dico civetta per non dir peggio. E' la mia padrona, e non voglio dirne male.

Andrea                          - Ma volete sapere il perché, la ragione vera, per la quale il mio padrone maltratta la signora?

Lisetta, Carlo, Ambrogio - Dite. Raccontate. Perché?

Andrea                          - Perché... è pentito d'aver sposato una con­tadina! Per carità, che la cosa rimanga qui. Non mi piace pettegolare come le serve.

Ambrogio                      - Cosa dite? La moglie del conte Stefano non è nobile?

Andrea                          - Nemmeno per idea. E' la figlia di un certo signor Girolamo Barchetti, che adesso è un gran mi­lionario e ha fatto educare la figlia come una princi­pessa, ma lui, come lui, è nato in campagna e ha an­cora la terra fra le unghie, come diciamo noi.

Lisetta                           - (con un sorriso trionfante) Eh? Cosa vi dicevo io, Carlo? (Agli altri) Il primo giorno che l'ho vista, ho subito detto: «quella lì non è della nostra razza! ».

Ambrogio                      - Strano. A me è sembrata una signora distintissima, educatissima.

Lisetta                           - Povero diavolo! Si vede che siete un cameriere d'albergo.

Andrea                          - Non è l'educazione che fa il nobile, caro amico. Educata fin che volete, ma le manca quel certo non so che... (A Lisetta) Sì, quello che c'intendiamo noi.

Lisetta                           - Sì, quel certo « savoir-faire », quel « de­gagé », di chi insomma sa di essere venuto al mondo con un blasone nella camicia!

Ambrogio                      - Cosa?

Lisetta                           - Sono finezze che voi camerieri d'albergo non potete capire.

Ambrogio                      - (offeso) Cosa volete? Io non porto la livrea, ma solo l'abito nero!

Andrea                          - (canzonando) Sicuro, che par perfino fatto a suo dosso. (Si ride).

Carlo                             - E la cravatta di tela gian...battista. (Si ride).

Ambrogio                      - Almeno è roba mia, e se cambio ser­vizio la porto con me.

Lisetta                           - Portate via anche i tovaglioli che tenete sotto il braccio? (Si ride).

Ambrogio                      - Quelli li lascio alle mocciose per... pu­lirsi il naso!

Lisetta                           - Uh! Che vergogna! Prender cappello a fine carnevale! Allegri! Allegria! Qua, facciamo la pace e che torni il buonumore. Ho il piacere di offrirvi il fondo di queste bottiglie di champagne. Presto, i bic­chieri... (Non ve ne sono che tre. Versa ad Ambrogio, ad Andrea e poi a Carlo) Passa? (ad Ambrogio).

Ambrogio                      - Scusatemi, se m'è scappata un'asineria.

Lisetta                           - Figuratevi. Ne scappano a tutti...

Carlo                             - (vedendo che Lisetta è senza bicchiere) E voi?

Lisetta                           - Non ci sono altri bicchieri... berrò dopo, nel vostro.

Andrea                          - (galantemente) Non permetterò mai. Ac­cettate il mio. Vi ho appena accostato le labbra, ma ho la bocca pulita... Non fumo... che sigari avana del mio padrone.

Lisetta                           - E voi allora?

Andrea                          - M'ingegnerò con la bottiglia!

Lisetta                           - Alla nostra salute!

Gli altri                          - Evviva!

Lisetta                           - Abbasso i padroni!

Gli altri                          - Abbasso!

Lisetta                           - Evviva la servitù ed i salari!

Gli altri                          - Viva! (e toccano e bevono).

Carlo                             - (ad un tratto come sentendo rumore dietro la porta della sala da pranzo) Attenti! Vien gente. Via! (Ambrogio e Lisetta fuggono dal fondo. Carlo e Andrea dai lati).

(Pastorani e Nerotti vengono dalla sala da pranzo. Modi eleganti e signorili. Entrano a braccetto, ridendo fra loro).

Pastorani                       - Oh, che scena, che commedia! Un vero teatro. Non mi sono mai divertito tanto come a questo pranzo!

Nerotti                          - Non ho mai fatto tanta fatica per nonridere.

 Pastorani                      - Il pranzo però non poteva essere più detestabile!

Nerotti                          - Né i vini più velenosi! Mi spieghi, ora, perché ad ogni poco lasciavi cadere il tuo tovagliolo?

Pastorani                       - Non avevi capito? Per avere un pretesto di dare un rapido sguardo sotto la tavola e sorprendere le manovre dei piedi della marchesa Agnese e di Stefano.

Nerotti                          - E li sorprendevi?

Pastorani                       - Altro che, e sempre in pieno combatti-, mento. Le cortesie, o i sarcasmi, le punzecchiature, che con alterna vicenda si scambiavano quei due tempestosi amanti, venivano esattamente commentati dall'atteggia­mento dei loro piedi che, o s'intrecciavano premendo dolcemente, o sì scambiavano piccoli calci rabbiosi.

Nerotti                          - (accendendo una sigaretta, così come fa anche Pastorani) Ah, dunque... si scambiavano dei calci?

Pastorani                       - Si scambiavano, veramente è inesatto. Non si scambiavano... I piedini della marchesa davano dei calci, e gli stinchi del «onte li ricevevano.

Nerotti                          - Oh che commedie!

Pastorani                       - Ti ricordi quando la marchesa ha detto: « Quest'anno le ragazze del corpo di ballo sono tutte molto carine»? e io ho risposto: «Il conte Stefano ne sa qualche cosa! » e che in quel momento il conte ha fatto un «ah! » che «i ha fatto voltare?

Nerotti                          - Ha detto che andava soggetto a delle fitte di cuore.

Pastorani                       - Andava soggetto ad un calcio!

Nerotti                          - Ma che amori rabbiosi!

Pastorani                       - Che gelosie idrofobe! (Suono di campa­nello. Carlo entra nella sala da pranzo, poi subito torna). E non sai tutto. Ieri Stefano è stato da Borgatti e gli ha ordinato un braccialetto di dieci-quindicimila lire.

Nerotti                          - Un braccialetto di quindicimila lire?...

Pastorani                       - E domani è Santa Agnese!...

Nerotti                          - Ah già, è l'onomastico della marchesa. Oh, di', Pastorani, ma noi non lo sappiamo!

Pastorani                       - S'intende. Faremo poi le scuse per la nostra distrazione. Eh, gran disgrazia, caro Nerotti, es­sere tenuti in amore al regime della civetteria e della virtù al tempo stesso, che è come offrire a un pover'uomo l'aperitivo e il caffè senza il pranzo.

Carlo                             - (tornando) Il signor conte vi prega di scu­sarlo se si trattiene ancora un momento. Ha detto che se credete lo troverete al Circolo o alla «Scala ». (Via dal fondo).

Nerotti                          - Ehi, Pastorani, che la marchesa si sia de­cisa ad offrirgli anche il pranzo?

Pastorani                       - Potrebbe anche darsi: ad ogni modo sono cose che non ci riguardano. Il guaio è che così dobbiamo andarcene a piedi. Ah, un'idea! Più tardi andiamo a prendere il tè dalla contessa Livia.

Nekotti                          - Benissimo, è un tè passabile!

Pastorani                       - La contessa sarà certo su tutte le furie contro Stefano e ci divertiremo a farla parlare.

Nerotti                          - Non è facile.

Pastorani                       - Parleremo noi. In fin dei conti non è che una campagnola e con lei si può scherzare con tutta libertà.

Nerotti                          - Povera ragazza! E' un fatto che merite­rebbe miglior fortuna, e bellina com'è...

Pastorani                       - Colpa sua, si vendichi. Se io fossi la contessa...

Nerotti                          - Saresti una gran civetta.

 

 Pastorani                      - Ah sì, accetterei la corte di tutti gli im-becilli che mi capitassero davanti.

Nerotti                          - Accetteresti anche la mia?

Pastorani                       - Ho detto di tutti! Figurati poi la tua!

Nerotti                          - Spiritoso!

Pastorani                       - (ridendo) Andiamo (ed escono dal fondo),

(Il campanello suona a lungo, insistente, a scatti, rab­bioso. Dalla prima porta a sinistra quasi subito esce il conte, a pugni stretti, esasperato).

Agnese                          - (di dentro) Lisetta...

Il Conte                         - Maledetta donna! Maledetta passione! Ma­ledetto me... Andrea!

Andrea                          - Comandate?

Il Conte                         - Il mio soprabito, presto!

Andrea                          - (a se) Mare in tempesta! (Via, poi torna. Altro sbattere di campanello).

Il Conte                         - Maledetto il giorno che costei è arrivata a Milano. Sarà la mia rovina!

Agnese                          - (comparendo sull'uscio in prima di dove è entrato il conte) Ma insomma... Lisetta!

Lisetta                           - (accorrendo dal fondo)Scusate, non avevo sentito.

Agnese                          - Presto, prendete un candelabro... e porta­temelo in camera!

Lisetta                           - Signora, volete già...

Agnese                          - Voglio quel che vi ho detto, senza chiac­chiere!

Lisetta                           - Il Vesuvio fuma! (Esce dalla sala da pran­zo, poi torna).

Il Conte                         - (passeggia verso il fondo avanti e indietro a testa bassa, nervosissimo).

Agnese                          - (sempre sull'uscio, con le braccia incrociate, battendo il piede impaziente, guarda Stefano, tosse per farlo voltare, poi sarcastica) Caro Stefano, vi avverto che sono qui.

Il Conte                         - Sarebbe a dire, cara Agnese?

Agnese                          - (c. s.) Che in presenza di una signora non è né elegante, né educato il passeggiare a testa bassa come una bestia feroce! (Lo canzona con grazia sorridendogli un poco).

Il Conte                         - (avvicinandosi) E chi, chi è che da sei mesi mi rende feroce? Chi mi ha fatto diventare una bestia? Chi?

Agnese                          - (avvicinandosi un poco anche lei) Ma in­somma, mi fate il piacere di dirmi che cosa vi ho fatto?

Il Conte                         - Mi trattate peggio di un servo.

Agnese                          - Ma se siete voi a provocarmi.

Il Conte                         - Ma non capite che vi amo pazzamente?

Agnese                          - E' appunto questo che non voglio mi diciate!

Andrea                          - (con premura) Ecco il soprabito.

Il Conte                         - Non vedi la marchesa, imbecille? Aspetta di là.

Andrea                          - (esce).

Lisetta                           - (entra recando un candelabro acceso) Metto in camera, signora?

Agnese                          - No, riportatelo: credevo che fosse più tardi.

Lisetta                           - Sono a momenti le...

Agnese                          - Non vi chiedo le ore, stupida. Andatevene.

Lisetta                           - (uscendo, fra i denti) i Che dolce caratterino!

Agnese                          - Caro amico, non volete dunque compren­dermi? Voi mi amate... Questo, se è vero, non posso im-pedirvelo; ma non debbo saperne nulla. La mia onestà, data la vostra condizione di uomo ammogliato, deve anzi respingere la possibilità di un tale sentimento. Posso essere anche lusingata per aver suscitato in voi tanta pas­sione, ma non posso permettervi di parlarmene.

Il Conte                         - Ma se non mi riesce di frenarmi!

Agnese                          - Ah, Stefano, se davvero mi amaste dovreste prima di tutto stimarmi; e stimandomi trovereste ben naturale che la vostra passione mi offenda.

Il Conte                         - Sì, ne convengo; ma bisognerebbe che vi offendesse sempre, mentre il mio amore vi offende sol­tanto quando restiamo soli.

Agnese                          - Come sarebbe a dire?

Il Conte                         - Quando siamo soli, è indubitato che fra me e voi è come si innalzasse una parete di ghiaccio. La vostra onestà, il mio legame sono argomenti indiscu­tibili e ai quali potrei anche piegarmi...

Agnese                          - Stefano...

Il Conte                         - Lasciatemi dire! Ma quando c'è gente, al­lora è tutt'altra cosa. La vostra freddezza cessa d'incanto e sapete trovare sorrisi e gesti furtivi per cui la mia passione s'accende maggiormente; avete occhiate che mi sconvolgono e mi incoraggiano... Quando c'è gente que­sta mia passione non vi fa più paura, non vi offende più perché vi sentite sicura, protetta.

Agnese                          - Ma se potete regalarmi questo lusinghiero ritratto di civetta, perché dunque mi siete sempre at­torno?

Il Conte                         - Perché è un destino maledetto che mi tiene legato a voi come a una catena.

Agnese                          - Voi non siete che un pazzo e un maleducato!

Il Conte                         - Ah, sono un pazzo?

Agnese                          - Siete un pazzo.

Il Conte                         - Edo maleducato?

Agnese                          - E un maleducato!

Il Conte                         - Maleducato e pazzo?

Agnese                          - Pazzo e maleducato.

Il Conte                         - Basta così, vado e non mi vedrete mai più! (Si avvia alla porta e chiama) Andrea! Non so dove andrò, ma vado via! (Fa un passo verso la porta, ma su­bito retrocede per dire) Vado, parto, vi lascio e non mi vedrete mai più. (Ripete il giuoco come sopra) Mai più! Mai più! (Resta fermo non sapendosi decidere ad uscire).

Agnese                          - Ma sì, andate, andate! Voi non comprendete il male che mi fate. (Chiama) Lisa? (Al conte) Andate, andate, non siete che un ingrato, non avete neppure com­preso che cosa mi costi difendermi da questo vostro amore. (Si abbandona come vinta sopra una poltrona a sinistra, spiando però l’effetto delle sue parole).

Il Conte                         - (commosso, esita, resta un momento immo­bile, poi corre a lei) Ebbene, no, non posso, sono qui, vi domando perdono...

(Lisetta e Andrea entrano: la prima con il candelabro, il secondo col soprabito; appena entrati si fermano e si guardano fra loro).

Agnese                          - No, troppo tardi.

Il Conte                         - Vi supplico, vi scongiuro!

Agnese                          - Badate, ci sono i domestici.

Il Conte                         - Parlerò piano... Perdonatemi, Agnese... Mi avete detto, se ho ben compreso, che vi faccio soffrire, che dal mio amore dovete difendervi... Ebbene, questo mi compensa di tutto, mi fa tutto dimenticare. Perdo­natemi!

Agnese                          - Piano... ci sono i domestici!

Il Conte                         - Meglio, c'è gente, non avrete paura di me, mi concederete un sorriso, una parola...

Agnese                          - Via, via non mi tentate, siate generoso!

Andrea                          - Signor conte, sono qui...

Il Conte                         - Va' al diavolo, imbecille!

Andrea                          - (a sé) A rivederci a mezzanotte.

Lisetta                           - Metto qui?

Agnese                          - Naturalmente, sciocca!

Lisetta                           - (a se) A momenti glielo tiro sulla testa, (Depone il candelabro sul tavolo di sinistra ed esce per tornare a tempo).

Il Conte                         - Dunque, Agnese, mi avete perdonato?

Acnese                          - (sorridendo, carezzevole, indulgente) Da quando sono a Milano, non faccio altro!

Il Conte                         - (prendendole le mani, e conducendola a se­dere sul divano a destra) Cara Agnese!...

Agnese                          - Vi perdono, ma badate... a patto che non torniate a parlarmi... Ma dove mi conducete?

Il Conte                         - Non volete sedere un attimo accanto a me?...

Agnese                          - Che cosa volete che pensino i domestici? Le persone di servizio vi hanno già veduto sul punto di andarvene...

Il Conte                         - I Ah! Già... sicuro, le persone di servi­no!... Di modo che... non mi rimane altro da fare se non levarvi l'incomodo.

Agnese                          - Amico mio, siate bravo, ve ne prego!

Il Conte i                       - Sì, sì, sono ragionevolissimo! Che dia­mine! In un impeto di tenerezza ho saputo frenare la mia collera. Ho messo sotto i piedi il mio amor proprio, ogni orgoglio, ogni dignità... A costo del ridicolo, sono giunto al punto di chiedervi perdono umilmente... Ma tutto questo non conta nulla. Pur di mandarmi via, ogni scusa è buona.

Agnese                          - Voi fingete di non capire. Sì. I domestici sono un pretesto. Più di quello che avranno detto, cosa volete che dicano ancora? Voi desiderate di rimaner qui per ripetermi ancora quel che non dovete più dirmi, per parlarmi della vostra passione, ed è questo che non voglio!

Il Conte                         - Ecco che vi allontanate nuovamente da me, a io - stupido - che mi sono lasciato commuovere...

Agnese                          - Oh! Alla fine che cosa pretendete? Io sono libera, ma voi non lo siete. Non l'avete voluta voi quella vostra sciocchina? Con che frettolosa impazienza re la liete sposata!

Il Conte                         - Mia moglie non c'entra. Lasciatela stare.

Agnese                          - Oh! Non ve la tocco, non ve la sciupo. Ve la ricordo!

Il Conte                         - « Capisci, mio caro Stefano? La marchesa ti dà una magnifica lezione ed è lei a farti diventar rosso per la vergogna. Ti sta come un guanto, imbecille! ». Sicuro, io sono uno sciagurato... voi siete la sola però che non ha il diritto di rimproverarmelo... ma il fatto è vero, sono uno sciocco... Ma è anche vero però che quando ti ha nelle vene non dell'acqua fresca ma un maledetto sangue bollente come il mio, e che si subisce il fascino di una creatura come voi...

Acnese                          - Bel fascino davvero quello di una donna ehe vi rende feroce, che vi ha fatto diventare una bestia trattandovi come un servo!

Il Conte                         - Sì, sì! Vi amo, vi adoro, per voi farei qualsiasi pazzia... e nondimeno vorrei uccidervi con le mie mani. Che assurdo, vero? Eppure non c'è nulla di più vero di questa stupida assurdità; che voi non potete capire, perché non avete neppur tanto così di cuore!

Agnese                          - Lisetta!

Il Conte                         - Andrea!

 Lisetta                          - Signora?

Acnese                          - Portate in camera... (indica il candelabro).

Andbea                         - Il soprabito?

Il Conte                         - Il soprabito! (Ad Agnese) I miei ossequi! (Esce dal fondo).

Agnese                          - Al diavolo! (Esce dalla prima a sinistra).

Andrea                          - (ridendo, a Lisetta) Cataclisma! Diluvio!

Lisetta                           - (idem) Eruzione! Scoppia il fulmine!

(Carlo e Ambrogio, che spiavano dalla porta di fondo, entrano).

Carlo                             - Ebbene?

Ambrogio                      - Cos'è accaduto?

Andrea                          - (raggruppando lutti con un gesto, attorno a se, fa per parlare, ma scoppiando a ridere esclama) Oh, che bei matti!

Lisetta                           - (c. s.) Che scene!

Ambrogio e Carlo         - Ma insomma?!

Andrea                          - Ecco qua: la marchesa... (e mentre comincia a raccontare cala la tela).

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

Un salotto nell'appartamento della contessa Livia a palazzo Montesilva.

Livia                              - (è seduta vicino a un tavolino a sinistra. Legge svogliatamente. E' triste, preoccupata. Guarda l'orologio e sospira. Angiolina e il servo portano il tavolo da tè ponendolo un po' indietro a destra, dove è un altro an­golo del salotto, con basso divano, poltroncine, cu­scini, ecc.) Stasera credo sarà inutile preparare il tè. Non aspetto che mio padre, e a lui il tè non piace.

Angiolina                      - Perché, signora, immaginate che non possa venire altri?

Livia                              - C'è la prima alla « Scala ».

Angiolina                      - Scusate, ma alla « Scala » questa sera c'è riposo: ho veduto io l'avviso.

Livia                              - Il giornale annuncia però la prima rappre­sentazione dell'opera nuova.

Angiolina                      - Ma verso le cinque ho visto io attaccare i cartelli che sospendevano la recita.

Livia                              - (guardando nuovamente l'ora) Le dieci!... Se alla « Scala » c'è riposo, sarà ancora là da lei, felice, beato! (e cercando di scacciare il pensiero doloroso cerca di riprendere la lettura).

Angiolina                      - (commossa, prende e bacia la mano di Li­via) Povera e buona signora!

Livia                              - (schermendosi, anche per nascondere la sua com­mozione) Che fai, pazzerella?...

Angiolina                      - Scusatemi, signora, ma mi fate una pena!... Ah, se il signor conte l'avesse a fare con me!...

Livia                              - Andiamo, via! Non sai quello che dici.

Angiolina                      - Perdonatemi se oso... Ma vi voglio tanto bene, è tanta la riconoscenza che ho per voi! Sono stata quasi allevata in casa vostra... Maritandovi mi avete vo­luto ancora con voi, mi avete permesso di sposare Andrea rimanendo entrambi al vostro servizio... Son cose che non si dimenticano, e, voi capite, a vedervi così mal corrisposta...

Livia                              - (severamente) Angiolina!

Anciolina                      - Se Andrea si azzardasse a fare altret­tanto con me, starebbe fresco. Ma Andrea, con tutte le sue arie, l'ho avvezzato come un cagnolino! Sapete come si fa ad avvezzare i cagnolini?

Livia                              - (sorridendo suo malgrado) Sì, grazie, ti di­spenso...

Angiolina                      - Poche carezze e molta dieta.

Livia                              - Sì, basta.

Angiolina                      - Qualche volta, magari, un bocconcino prelibato...

Livia                              - Basta, ti prego!

Angiolina                      - Ma con molta parsimonia.

Livia                              - Insomma!

Angiolina                      - E soprattutto farglielo sospirare.

Livia                              - Basta così, finiscila! Guarda piuttosto che mi pare sìa entrato qualcuno. Deve essere il babbo.

Angiolina                      - (guardando verso la grande apertura a de­stra) Sì, signora, è il vostro papà.

Livia                              - Ti raccomando. Non ti lasciar sfuggire che mio marito non è rimasto a pranzo. Papà ne soffre, e io non voglio.

Angiolina                      - State tranquilla, però siete troppo buona.

Girolamo                       - Cara la mia bella figliola, buona sera.

Livia                              - Buona sera, caro papà.

Girolamo                       - Prima di tutto, qua... Vediamo un po' il visetto. Su, alta la testina... un bel sorriso al vecchio papà. Come va?

Livia                              - (sforzandosi ad un sorriso) Bene!

Girolamo                       - Proprio?

Livia                              - Proprio!

Girolamo                       - (ad Angiolina) Di' tu, bocca della verità. E' vero che va bene?

Angiolina                      - Sì, signore. Di salute va bene.

Girolamo                       - Ah!... E di umore?

Livia                              - Anche d'umore.

Girolamo                       - (ad Angiolina) E' vero?

Angiolina                      - Se lo dice la signora.

Girolamo                       - Allora non è vero! (A Livia) Cos'ha fatto tuo marito? Ha gridato?

Livia                              - Ma no!

Girolamo                       - (ad Angiolina) No?

Angiolina                      - Sfido io!

Girolamo                       - Cosa sfidi? Non capisco.

Angiolina                      - Non ce n'era motivo, intendo dire.

Girolamo                       - Il mio signor genero non ha bisogno di motivi per gridare! (A Livia) E' in casa?

Livia                              - No, è già uscito.

Girolamo                       - Da tempo?

Livia i                            - Non è molto.

Angiolina                      - Alle sette.

Girolamo                       - (sobbalzando) Prima di pranzo?

Livia                              - Ma no!

Angiolina                      - Volevo dire che alle sette si è messo a tavola.

Girolamo                       - E durante il pranzo come si è compor­tato? E' stato carezzevole con te?

Livia                              - Sai che Stefano ha un carattere un po'... un po'...

Girolamo                       - Altro che po'. Un carattere infame, la­sciamelo dire. Infine, com'è andato il pranzo? Come te la sei passata? (Ad Angiolina) Come se l'è passata?

Angiolina                      - Capirete, lì sola a tavola come un!

Girolamo                       - Sola? (sorprendendo le azioni fra Livia che rimprovera e Angiolina che si scusa) Insomma, la verità è che il signor conte ha pranzato fuori di casa.

Livia                              - Ma sono stata proprio io che l'ho persuaso ad andare; era così di cattivo umore...

Girolamo                       - E tu tre volte buona... Tu sei un angelo.

Angiolina                      - Questo si può giurare.

Girolamo                       - Ma lui a condursi così con te, è un gran bue!

Angiolina                      - E si può giurare anche questo!

Livia                              - Angiolina!

Girolamo                       - E io a dartelo per marito sono stato un bue molto più grosso di lui.

Angiolina                      - E' ver... (ss arresta subito, tappandosi la bocca).

Livia                              - (spazientita, severa) Angiolina!

Girolamo                       - Lasciala dire. Ha ragione. (Ad Angio­lina) Ti dò il permesso io.

Livia                              - (ad Angiolina) Vai di là.

Angiolina                      - (mortificata) Perdonatemi... (e fa per andare).

Girolamo                       - Da chi è andato a pranzo?

Livia                              - Con alcuni amici del Circolo...

Girolamo                       - (guardando di sottecchi Angiolina che an­cora in scena gli fa dei segni) Alcuni amici... e... nes­suna amica? (Angiolina fa segno di sì. Livia si volta, la vede, ma Angiolina dissimida guardando in aria. Via. Girolamo ha un sospiro doloroso) Dunque siamo alle solite?... A pranzo dalla...? Insomma, da lei, là!

Livia                              - (vorrebbe rispondere, negare, ma non può e si abbandona piangendo fra le braccia del padre).

Girolamo                       - (commosso) Sì, cara, povera figliola mia, piangi, sfogati col tuo babbo che ti vuol tanto bene... (Con un repentino cambiamento) Ma io non merito il tuo. La colpa è tutta mia. Buffone, vanaglorioso, bifolco! Per la boria di sentirti chiamare contessa ti ho sacrifi­cata! Pare incredibile. Si ha un bel gridare vantando la sola nobiltà che conta, quella del lavoro, ma se appena ci capita fra i piedi un titolato che si degni di dirci due parole gentili, pur facendoci ben capire che lui è di un'altra razza, eccoci subito ad andare in brodo di giuggiole, felici, gongolanti di consegnargli le no­stre figlie, e i nostri milioni, perché si godano le une e gli altri, rendendo il più spesso infelici le nostre creature. Per il denaro passi, ma per la figliuola no!

Livia                              - No, papà, la colpa è tutta mia!

Girolamo                       - (con impeto e stupore) Tu? La colpa è tua?

Livia                              - Sì, babbo!

Girolamo                       - (con repentina risoluzione, si alza e fa per andare) Addio. Buona notte!

Livia                              - Papà, perché?

Girolamo                       - Certe cose non le posso neppure sentire. Lasciami andare.

Livia                              - E vuoi lasciarmi così?

Girolamo                       - (pentito del suo scatto) Hai ragione! sono un gran contadino!... Scusami, figliuola mia! (Ri­tornando prende per le mani Livia e la conduce a se­dere accanto a se) Sono qui, vicino a te. Fammi il favore di spiegarmi come può essere tua la colpa.

Livia                              - Non sono una stupida. Dovevo immaginare che anche il mio, come tutti in genere i matrimoni fra persone di troppo diversa condizione, non poteva finir bene. Passato il capriccio del momento, giungono i pen­timenti. Ti rimproveri la tua ambizione. Ma non devo io pure rimproverarmi la mia? Quando si presentò Stefano, con la scusa di essere nostro vicino di cam­pagna, invece di lusingarmi della sua corte, e prima di accettarla, dovevo fare un serio esame di coscienza. Ri­flettere prima di tutto che, malgrado le sue cortesie, appartenevamo ad un mondo troppo diverso, e chie­dermi - a parte la mia educazione che in un certo senso può anche essere perfetta - se, col mio carattere debole, avrei potuto tenere il mio posto in una società che mi sarebbe stata indubbiamente ostile, senza che mai mio marito dovesse provarne il più piccolo imba­razzo. Ed è subito accaduto precisamente questo: al primo contatto con quel mondo non sempre generoso, e dove Stefano si muove naturalmente, io mi sono sen­tita umile, mediocre, quasi goffa, e ho preferito vivere da «ola la mia vita, lontana dalle feste, dai ricevimenti. Mi pareva che mio marito dovesse bastarmi, perché io lo amavo e lo amo più di me stessa. E infatti nei primi mesi ho goduta intera la mia felicità. Ma poi, pian piano, Stefano ha cominciato ad allontanarsi. Ho sentito che anche quelle rare volte che mi accompagna a teatro, o alle corse, egli si sente a disagio, quasi abbia vergogna di me...

Girolamo                       - Bue! Somaro!

Livia                              - Giunta a questo, come impedirgli i ritrovi, le amicizie? Non sarebbe stato peggio? Avrebbe finito con l'odiarmi!

Girolamo                       - Che stupidaggini. Odiare una buona e bella creatura come te!

Livia                              - L'ho temuto, e oggi più che mai ne ho paura. E mi sento tanto, tanto infelice. Molto meglio avessi sposato un giovane della mia condizione.

Girolamo                       - E io avrei dunque lavorato tutta la vita per farti la moglie di un bottegaio qualunque?

Livia                              - Non esagerare...

Girolamo                       - Se non proprio un bottegaio, un impie­gato qualsiasi. Che bella esistenza ti avrei preparato! La domenica, e tutte le altre feste comandate, chiuder la casa di buon mattino, caricare sul calesse la serva, i bambini, la cagnetta e magari la gabbia del merlo, e andarsene a mangiare in qualche trattoria fuori di città, annoiarsi tutto il santo giorno e tornarsene a casa la sera per mettersi a giocare a tombola dopo cena con gli inquilini del piano di sopra. Bella vita!

Livia                              - Sempre da un eccesso all'altro.

Girolamo                       - Sì, ammetto che fra l'impiegato e que­sto caro signore c'era tanta altra roba da scegliere... Ma tu eri innamorata di lui, e io del suo titolo...

Livia                              - Papà, ormai quel ch'è fatto è fatto, ed è inu­tile rammaricarci. Indietro non si può tornare.

Girolamo                       - Ma si può, si deve difendere la tua pace. E ci sto pensando da giorni... Visto che la vita con lui non va, perché ad esempio non troviamo un pretesto per fare un bel viaggio, che so io, in Ger­mania, in Svizzera, oppure in Egitto? Un bel certifi­cato dal nostro medico... Necessità di distrazione, di altro clima... A tuo Marito non parrà vero di rimaner solo per qualche tempo... E magari ce ne andiamo poi ad abitare a Napoli, là in una bella villetta che ho giusto preso a Posillipo, e se il signor conte non vorrà richiamarci presso di lui, tanti saluti, e buon prò gli faccia. Io non permetto che tuo marito ti renda infelice. Finché vivo staremo assieme, e quando io me ne andrò, vivrai da gran signora a modo tuo.

Livia                              - Ma hai pensato bene al tuo progetto? Vuoi separarmi da mio marito?

Girolamo                       - No. Stabilirti con tuo padre in un clima diverso per ragioni di salute.

Livia                              - E perché con mio padre e non con mio marito?

Girolamo                       - Perché il clima che fa bene a te, fa male a lui. Ordine del medico.

Livia                              - E credi che il mondo chiuda gli occhi e non s'accorga del pretesto?

Girolamo                       - Se non li vuol chiudere li tenga aperti, A me preme mia figlia, e me ne infischio del mondo. Li chiude pure sulla condotta di tuo marito!

Livia                              - Oh, non li chiude, no! Domandalo a lui, che è tanto più nervoso in casa, quanto più s'accorge che il mondo è lì, pronto a giudicarlo.

Girolamo                       - Cosicché per l'opinione del mondo, tu devi rimaner schiava di quest'uomo?

Livia                              - Non sarei degna della povera mamma, se non mi rendessi conto che, pur soffrendo, il mio posto è accanto a mio marito! E infine c'è una ragione che non si discute: io lo amo sempre.

Girolamo                       - (commosso) Sei veramente una buona figliola, e meritavi ben altro. Ma c'è un'altra cosa che ho sullo stomaco. E se è vero quello che già si mor­mora..., sì... di una certa fiamma...

Livia                              - So quello che vorresti dire. Ma io non posso rinunciare così alla mia vita. Devo tentare di riconquistare mio marito, e senza scandali, senza far chiac­chierare la gente... Ho un'idea. Non credo la marchesa Agnese...

Girolamo                       - Dunque tu sai ch'è lei?...

Livia                              - ...non la credo così cattiva, così perfida... E' una donna... anche lei avrà amato, sofferto, e... chissa?... Mi resta ancora una speranza.

Girolamo                       - Non comprendo quello che intendi dire, ma devo concludere che tu sei tanto buona quanto io sono bestia. Fa' quello che il cuore t'ispira, e che Dio ti benedica.

Angiolina                      - Il barone Pastorani e il visconte Nerotti.

Livia                              - Falli entrare.

Angiolina                      - Stanno levandosi il soprabito.

Girolamo                       - Dio li fa e li accoppia!

Angiolina                      - (piano, confidenziale) La prima cosa che hanno domandato è stata se il tè era pronto! Pare che abbiano premura.

Girolamo                       - Non li posso sopportare.

Nerotti                          - (entrando) Dunque, eh, contessa? Niente «Scala», niente spettacolo! Il teatro è chiuso, e anche stasera uno dei soliti riposi.

Pastorani                       - Norma ha il raffreddore!

Nerotti                          - E così daccapo è rimandata l'andata in scena.

(Strette di mano con Girolamo e baciamano prima a Livia).

Pastorani                       - Contessa, indovinate cosa veniamo a chie­dervi con tanta premura.

Livia                              - Un po' di giudizio?

Pastorani                       - No, un contravveleno.

Livia                              - Siete stati avvelenati?

Pastorani                       - Come due personaggi da tragedia ro. mantica, come due seconde parti della « Lucrezia Borgia », in un lauto banchetto. Solo che i veleni di Lucrezia erano farmachi salutari in confronto ai pranzi di donna Agnese.

Livia t                           - Siete stati a pranzo dalla marchesa?

Nerotti                          - Domattina tutti i giornali pubblicheranno il nome e cognome delle vittime! E con le fotografie!

Pastorani                       - E ci troverete quella di una certa per. sona...

LrviA                            - (simulando indifferenza) Ah! Già... quella di mio marito.

Pastohani                      - Non l'ho detto io.

Livia                              - E quale sarebbe il contravveleno?

Nerotti                          - Per noi due: un vostro sguardo, un vo­stro sorriso e una tazza del vostro tè.

Pastorani                       - Per quella certa persona penserà poi Lucrezia Borgia!

Livia                              - Che pessimi amici! Avete dunque lasciato mio marito solo nel pericolo?

Pastorani                       - Domanda insinuante!

Nerotti                          - Che vuole riflessione.

Livia                              - Pastorani, volete tè con latte o con rhum?

Pastorani                       - Tè, rhum e latte...

Livia                              - E voi, Nerotti?

Nerotti                          - Tè, latte, rhum, anch'io.

Livia                              - E tu, papà?

Girolamo                       - Rhum, senza latte e senza tè. (Livia serve). Scusate, barone. Perché avete detto che la do­manda di mia figlia circa suo marito era insinuante?

Pastorani                       - Ah, questo è un interrogatorio in tutte le regole. Vi sarò grato se non vorrete insistere.

Nerotti                          - Non intendiamo seminare sospetti.

Livia                              - (con molta serietà e distinzione) Io ritengo che un nomo, anche se ammogliato, e una signora onesta possano rimanere a conversare insieme, senza dar motivo a sospetti e tanto meno a maldicenza.

Girolamo                       - Bene! Brava! (Un leggero imbarazzo).

Pastorani                       - (vedendo dei libri ed esaminandone qual­cuno) Stavate leggendo, donna Livia?

Nerotti                          - Libri istruttivi, o romanzo?

Livia                              - Facevo due chiacchiere col babbo.

Pastorani                       - Babbo veramente fortunato! Può van­tarsi di avere in sua figlia il modello delle mogli vir­tuose!

Girolamo                       - Oh, questo poi si!

Nerotti                          - E quella birba di Stefano possiede un si­mile tesoro e...

Pastorani                       - Vorrei essere io al suo posto.

Livia                              - Non credo che guadagnerei nel cambio (scher­zosa).

Pastorani                       - (c. s.) Non parlo con voi, contessa, parlo coi babbo! E il signor Girolamo lo permette. Non è vero che lo permettete?

Nerotti                          - E ci si diverte! E' vero che vi divertite?

Girolamo                       - (a Livia) Cosa vuoi farci? Sono due mattacchioni... lasciali dire.

Nerotti                          - Ne parlavamo anche a pranzo dalla mar­chesa di donna Livia.

Girolamo                       - Ah sì?

Pastorani                       - E i confronti che facevamo fra la mar­chesa e la contessa, eh!, Nerotti?

Livia                              - (sorridendo) E la marchesa tollerava tali confronti?

Pastorani                       - Parlavamo piano, io e Nerotti. La mar­chesa, che parlava piano col suo vicino, non aveva il tempo di badare a noi.

Livia                              - E mio marito?

Nerotti                          - Anche lui non badava a noi, occupato co­m'era a parlare con la sua vicina.

Livia                              - Parlavate tutti piano, a due a due; dovevate essere certo in numero pari.

Pastorani                       - Eh già! in quattro.

Girolamo                       - (a se) Assassino, l'ha voluta sputare!

Livia                              - (cercando vincere la propria sofferenza) Vo­lete ancora tè? Prendete dei « bombons », qualche «mar­ron glacé »...

Pastorani                       - (a Girolamo) Ma guardatela, guardate vo­stra figlia. Che incanto! Ma come si fa a preferire, a tanta grazia, la civetteria dispettosa di certe signore?

Livia                              - Adesso è troppo. Basta! Io non mi curo delle vostre insinuazioni, ma non permetto che in casa mia si passi il limite di uno scherzo, che il vostro lauto pranzo non basta a giustificare. (Si allontana sdegnata).

Girolamo                       - E permettimi di aggiungere che mia figlia...

Nerotti                          - Ci ha dato una lezioncina, da quella per­fetta signora che è!

Girolamo                       - Ma...

Pastorani                       - Lezione meritatissima di una dama che, certo, ha in sé tutte le virtù materne.

Girolamo                       - Ma„.

Nerotti                          - E questo sul serio, signor Girolamo!

Pastorani                       - Sul serio, parola d'onore! (stendendo tutti e due la mano).

Girolamo                       - (a Livia forte) E' inutile... Mi fanno un'ira, una rabbia, una stizza... Ma poi guardali qua, questi due... coccodrilli... (E stringe loro la mano. In questo momento entra Stefano).

Il Conte                         - (entrando, burbero, nervoso) Buona sera.

Girolamo                       - Ecco l'uomo selvatico.

Livia                              - Buona s'era, Stefano.

Il Conte                         - Ah, siete qua voialtri? (Stringe bruscamente la mano ai due).

Pastorani                       - Siamo venuti a salutare donna Livia.»

Il Conte                         - (con una smorfia ironica a Girolamo) Padrone mio!...

Girolamo                       - (c. s.) Servitore vostro!

Livia                              - Stefano, volete una tazza di tè?

Il Conte                         - Per carità! Quel decotto di camomilla!

Livia                              - Stefano!

Il Conte                         - Parlo del tè in generale, non del vostro che sarà certamente squisito.

Girolamo                       - Infatti i vostri amici lo trovano squisitissimo.

Il Conte                         - Oh, in quanto ai miei amici sono capaci di adulare vostra figlia anche per il tè.

Pastorani                       - Non l'aduliamo niente affatto.

Il Conte                         - Sarebbe per lo meno strano che ne con­veniste.

Livia                              - Pare dunque che i vostri amici mi adulino an­che in altre cose!...

Il Conte                         - Mia cara Livia, ma voi prendete tutto or­ribilmente sul serio. Non si può avere un momento di buon umore?

Livia                              - Ah, perché siete di buon umore?

Il Conte                         - (serissimo) Non lo vedete?

Pastorani                       - Ma sì, non vedete quanta gaia ilarità sprizza dal suo volto?

Il Conte                         - Donna Agnese vi saluta,.

Livia                              - Venite da casa sua?

Il Conte                         - No, vengo dalla « Scala ». (Sorpresa di tutti).

Livia                              - Dalla «Scala!»... Cosa c'era alla «Scala»?

Il Conte                         - Come, cosa c'era?! Lo spettacolo. La ripresa della « Norma » (E prende un giornale per leg­gere. Pastorani e Nerotti si guardano fra loro facendo sforzi per non scoppiare in una risata. Girolamo freme. Livia dissimula la sua pena).

Livia                              - Ah! C'era spettacolo? C'era la «Norma»?

Il Conte                         - (guardando distratto il giornale) Ma come, non lo sapete? Si parla da settimane di questa ripresa.

Livia                              - E la marchesa Agnese c'era anche lei?

Il Conte                         - Sì, c'era anche lei. (Risa contenute degli altri).

Livia                              - C'era molta gente?

Il Conte                         - Esaurito!

Livia                              - Com'è stata l'esecuzione?

Il Conte                         - Peuh! Mediocrissima!

Pastorani                       - (piano a Nerotti) Se non andiamo via scoppio.

Nerotti                          - Anch'io non ne posso più.

Pastorani                       - (alzandosi) Se lo spettacolo era mediocre, meglio per noi che abbiamo fatto un cambio così vantaggioso.

Il Conte                         - (leggendo) Vi adula.

Nerotti                          - Stefano ci chiami pure adulatori, questo non muta le nostre opinioni, donna Livia, sulla vostra squisita bontà, sul vostro spirito, e anche sul vostro tè.

Il Conte                         - Lascio libero ciascuno della propria opinione.

Livia                              - Quanto paghereste Stefano per dividere la loro?

Pastorani                       - Contessa, buona sera.

Nerotti                          - Buona sera, signor Girolamo.

Pastorani                       - Caro Stefano!

Nerotti                          - Buona sera!

Il Conte                         - (avvicinandosi per salutarli) A rivederci.

Pastorani                       - (piano) Imprudente, la « Norma » è stata rimandata.

Nerotti                          - (c. s.) La « Scala » stasera era chiusa, ba­lordo. (Escono).

Il Conte                         - (fra i denti) Maledizione! (Dopo aver ac­compagnato alla porta i due, ridiscende verso Silvia e con severità) Che sia l'ultima volta che vi permettete tanta libertà con i giovani che vi visitano.

Livia                              - Libertà? Io?... Fortuna che il babbo era già qui quando sono venuti.

Il Conte                         - I genitori che vedono corteggiare le figlie, chiudono volentieri gli occhi.

Girolamo                       - (sdegnato) Ah, caro genero...

Il Conte                         - Insomma, «o io quel che dico! (Chiamando) Andrea! (e nello stesso tempo suona).

Girolamo                       - Ma io vi dico...

Il Conte                         - Andrea!

Andrea                          - (entrando) Comandate?

Il Conte                         - Accendi la luce nel mio studio, e prepa­rami il letto nel mio appartamento.

Andrea                          - Subito, signor conte. (Via).

Il Conte                         - (a Girolamo stringendogli seccamente la ma­no) Buona notte.

Girolamo                       - Altrettanto. (Contenendosi a stento) Anche camere separate! Povera figliola!

Il Conte                         - (a Livia stendendole la mano, avvicinandosi appena) Buona notte.

Livia                              - (trattenendolo e levando verso di lui uno sguardo d'angoscia, parlandogli quasi senza voce) Stefano, perché?... Perché mi trattate così?

Il Conte                         - Dio mio! Non prendete le pose di Didone abbandonata. Ho da scrivere a lungo, devo alzarmi presto, e come non amo essere annoiato, non desidero seccare.

Livia                              - Se è per questo... se è per usarmi una pre­mura... va bene, vi ringrazio. Buona notte.

Il Conte                         - Fatemi il favore di non prendere quelle arie da vittima. Non le posso sopportare.

Livia                              - (con le lacrime nella voce) Ma Stefano... Non parlo, non dico nulla, non mi lagno di nulla!...

Il Conte                         - Già! Voi non dite mai nulla, ma ogni vostro gesto è una lagnanza, ogni sospiro un'accusa! E queste sapete come le chiamo io? Ipocrisie! Abbiate al­meno il coraggio di dirmi quello che pensate. Lo sape­vate che questa sera alla « Scala » c'era riposo... E mi fate delle domande ipocrite! Mi tendete dei tranelli. Ditemi in faccia quello che volete dirmi. Domandatemi conto della mia bugia. Preferisco una scenata a tutte le vostre smorfie.

Girolamo                       - Conte!...

Livia                              - (frenandolo con un gesto, imponendosi una gran calma) Non amo fare scene. Non è nel mio carattere. Perdonatemi se è diverso dal vostro.

Il Conte                         - Oh, diverso, molto diverso! Io dimostro solo quello che sento, e non so fingere.

Livia                              - (perdendo la calma) Allora vuol dire che, non sapendo nascondere, devo dai vostri modi ritenere che per me non sentite che avversione...

Il Conte                         - Accusatemi di tutti i difetti, di tutti i torti, ma non d'essere ipocrita.

Girolamo                       - (scattando) In questo caso non mi resta che condurre mia figlia con me, via di qui.

Il Conte                         - Siete padrone di farlo, e io convengo che non ho il diritto di oppormi.

Livia                              - Ma Stefano! Sono vostra moglie!

Il Conte                         - Purtroppo!

Livia                              - (coprendosi il volto con le mani, disfatta) Ah!

Il Conte                         - Dico purtroppo per me, come per voi!

Livia                              - Oh, Stefano!

Il Conte                         - Siamo stati due pazzi.

Girolamo                       - Basta!

Il Conte                         - Anzi tre pazzi, e voi più di noi.

Girolamo                       - Non vi permetto...

Livia                              - Ora ve ne accorgete che siamo stati dei pazzi? Doveva venire a Milano la marchesa Agnese per farvelo comprendere?! ...

Il Conte                         - (con impeto minaccioso) Perdio! Livia, badate a quello che dite!

Girolamo                       - (mettendosi in mezzo) E voi a quello che fate!

Il Conte                         - (imponendosi calma) Via, Livia, siate ragionevole, andate con vostro padre, almeno per qualche tempo. Andate! (A Girolamo) E voi, già che l'avete pro­posto, conducetela via. (Chiamando) Andrea! (Ripren­dendo) Sono uno sciagurato, ne convengo, ma all'amore non si comanda, e quando se n'è andato, a volerlo ri­chiamare si rischia di tramutarlo in odio. (Impazientito) Ma Andrea!...

Andrea                          - (entrando) Sono qui, signore.

Il Conte                         - Aspetta i miei ordini, non ti muovere di qua. (Esce da sinistra).

Livia                              - (tormentandosi dolorosamente) Che fare! Che fare, Dio mio!...

Girolamo                       - Vieni via con me. Per ora non c'è altro da fare.

Livia                              - E' impossibile. (Suona il campanello).

Girolamo                       - Ma quello è capace di batterti.

Livia                              - E' un gentiluomo. Non arriverà mai a questo.

Girolamo                       - Non sarebbe il primo gentiluomo a ba­stonare una gentildonna.

Livia                              - Babbo, non è possibile che mi separi da mio marito. Lo amo, lo amo, lo amo e voglio difendere il mio amore. Il mio posto è qui. Dammi un bacio, e vat­tene tranquillo. So quello che voglio.

(Angiolina entra e rimane nel fondo con Andrea).

Girolamo                       - Che cosa ti devo dire? Che Dio ti pro­tegga, e preghi per te la tua povera mamma... Povera figliola mia! Dammi un bacio... buona notte... e coraggio. (Commosso esce dalla destra).

Livia                              - Angiolina, vieni un momento con me. (Esce dal fondo).

Angiolina                      - Eccomi. (Ad Andrea) E voi, signor ma­rito, cosa fate qui?

Andrea                          - Attendo gli ordini del padrone.

Angiolina                      - Aspettami. Torno subito. Ne so delle belle! (Esce dietro Livia).

Andrea                          - (grattandosi un orecchio) Cosa ci sarà di nuovo?... Aspettami... torno subito... ne so delle belle... Questo sarebbe, come dire?, il lampo; fra poco arriverà il fulmine. Se un giorno o l'altro non mi ribello, finisce che quella mi picchia di santa ragione. (Prende un gior­nale e finge di leggere). Ci siamo... Eccola qua!

Angiolina                      - (con le mani dietro la schiena, si avvicina ad Andrea, adagio, minacciosa).

Andrea                          - La tigre mi guata, ora prende lo slancio...

Angiolina                      - (sillabando quasi le parole, con studiata pa­catezza) Ti avverto che ho saputo che in casa della marchesa c'è una giovane cameriera, elegante e civetta! Io ti avverto che tu cerchi sempre qualche pretesto, o per andare a far ambasciate, o ad andar tu a prendere il padrone con il calesse, con la scusa che il cocchiere rimane a disposizione della padrona. E ti avverto anche che, se non lo «metti, ti accomodo io!

Andrea                          - (senza muoversi, leggendo) Va bene. Ho capito.

Angiolina                      - E non rispondi altro?

Andrea                          - (c. s.) Non si risponde altro.

Angiolina                      - Beh? Che ti piglia? Che ordini aspetti dal signor conte?

Andrea                          - Ignoralo!

Angiolina                      - Che modo è questo di rispondere? Igno­ralo!

Andrea                          - Anzi... E' una parola forbita.

Angiolina                      - Sei brillo? Ti hanno dato da mangiare dalla marchesa?

Andrea                          - Può essere.

Angiolina                      - E da bere?

Andrea                          - Può darsi.

Anciolina                      - Di' su, idiota, a me si risponde: può es­tere, può darsi?

Andrea                          - A voi, esattamente!

Angiolina                      - Certo hai bevuto. Non mi hai mai ri­sposto così.

Andrea ........................ - Se non l'ho fatto prima, ho avuto torto. Comincio ora.

 Angiolina                     - Sei diventato matto? Perché non mi vuoi rispondere?

Andrea                          - Perché non sono obbligato a rendervi certi conti.

Angiolina                      - Perché sei diventato un discolo come il tuo padrone. (Gli strappa il giornale che getta via). Lui fa l'asino alla marchesa, e tu alla cameriera. Canaglie! Ma tu l'hai da fare con Angiolina Briscoli. Pezzo d'asino!

Andrea                          - A me?

Angiolina                      - A te!

Andrea                          - (alzandosi con autorità) Oh, pettegola im­pertinente. Cominciate col portarmi rispetto!

Angiolina                      - (furiosa) A me pettegola? A me imper­tinente? (andandogli incontro).

Andrea                          - (un po' impressionato) Zitta, che il padrone non senta!

Angiolina                      - Il padrone? L'ho qui in tasca io! A me pettegola, a me impertinente?

Andrea                          - (accomodante) Sono cose che si dicono fra marito e moglie...

Angiolina                      - Se tu sai le cose che si dicono, io so quelle che si fanno.

Andrea                          - Zitta, che se il padrone sente...

Angiolina                      - Tanto peggio. (Campanello).

Il Conte                         - (di dentro) Andrea!

Andrea                          - Il padrone! Vengo!...

Angiolina                      - (afferrandolo per Pabito) Va', va' pure... Ci verrai in camera!...

Andrea                          - Ebbene?

Angiolina                      - Ni-en-te. T'aspetto al varco. (Esce minac­ciosa, mentre appare il conte).

Il Conte                         - Andrea. Com'è? Suono, ti chiamo, e non vieni?

Andrea                          - Quel serpente di mia moglie...

Il Conte                         - L'ho capito. Già l'avevo detto alla con­tessa. Marito e moglie non possono stare allo stesso servizio. Per la fine mese provvedetevi tutt'e due.

Andrea                          - Oh Dio, signor conte, per carità...

Il Conte                         - Non far chiacchiere inutili. Domattina prima delle nove questa lettera alla marchesa: svegliami alle cinque. Per le sei e mezzo avverti Francesco che tenga pronta la carrozza per andare alla stazione. (Va per uscire).

Andrea                          - Permettetemi, signor conte...

Il Conte                         - Non ho altro da aggiungere. (Esce chiu­dendo la porta).

Andrea                          - Che razza d'uomo è diventato! (Guarda la lettera). Non sono io se non mi vendico. Questa la con­segno senz'altro alla contessa. (Comincia ad aprire pian piano la busta).

Livia                              - (entrando) Andrea!

Andrea                          - (sorpreso, cercando di nascondere la lettera) Signora!

Livia                              - Il conte è ancora alzato?

Andrea                          - Era qui ora.

Livia                              - Ditegli che vorrei... Che cos'è quella lettera?

Andrea                          - (tentando nascondere la lettera) Nulla.

Livia                              - Nulla?... Per chi è quella lettera?...

Andrea                          - Ah, signora!...

Livia                              - Datemi quella lettera. (Andrea la consegna confuso. La contessa legge l’indirizzo, ha un moto dolo­roso) Per lei!...

Andrea                          - Perdonatemi, signora... Il .padrone ha licenziato me e Angiolina... Allora un po' per vendetta, un po' per rimorso...

Livia                              - E cosa c'entra il rimorso, la vendetta con questa lettera?

Andrea                          - Volevo portarla a voi.

Livia                              - (un po' combattuta) A me?...

Andrea                          - (piano) Sì, signora contessa...

Livia                              - (risolutamente suona il campanello. Entra dopo un attimo l'altro servo) Domattina recapitate questa lettera all'Albergo Reale. E' per la marchesa Agnese. (Il servo s'inchina ed esce).

Andrea                          - Perdonatemi...

Livia                              - Un'ora dopo averla lasciata, sente ancora il bisogno di scriverle...

Andrea                          - Devo dire al signor conte...?

Livia                              - No... sarà già coricato. Lo vedrò domani, i Via dal fondo).

Andrea                          - Benone! Di male in peggio. E io dove vado? In camera da mia moglie? Fossi matto! Medea a letto on mi ci acchiappa. Chiudo le porte e passo la notte su questa poltrona!

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

La stessa scena dell'atto primo.

Acnese                          - (è in veste da camera, elegantissima nella sua semplicità. Qualcosa di poeticamente voluttuoso in tutta la persona) C'erano lettere?...

Lisetta                           - Sì. Una lettera del signor conte, che è stata portata a mano prima delle nove; i giornali, un libro... (Consegna la lettera).

Agnese                          - E' venuto nessuno?...

Lisetta                           - La sarta. Tornerà oggi alle cinque. Il pel­licciaio ha mandato a ritirare il mantello di zibellino. Ri­manderà in settimana. Nessun altro.

Agnese                          - Bene. Chi ha portato questa lettera? Andrea?

Lisetta                           - No, l'altro cameriere del signor conte, quello nuovo, Francesco.

Agnese                          - Ha parlato con nessuno?

Lisetta                           - Con me soltanto.

Agnese                          - Ti ha detto nulla?

Lisetta                           - Doveva forse dirmi qualche cosa?

Agnese                          - Voglio dire, se ti ha parlato del conte, di casa sua...

Lisetta                           - Sapete bene, signora, che io non incoraggio mai certi discorsi.

Agnese                          - Eh, Dio mio! Non è un delitto chiedere no­tizie della salute.

Lisetta                           - Ah, quelle le ho domandate.

Agnese                          - E sono buone?

Lisetta                           - Mi ha detto d'aver saputo da Andrea che il conte ha vegliato tutta la notte, inquieto, smanioso.

Agnese                          - Ah sì?...

Lisetta                           - Già, perché, a quanto pare, il conte rien­trando in casa ha avuto una scena con la signora.

Agnese                          - Davvero?

Lisetta                           - Già, con la signora e il padre della signora. Il bello è che il conte per non dire che aveva passata qui la «era, disse che era stato con voi alla «Scala». (.Ride).

Agnese                          - (divertita un po') Che sciocco! Era chiusa!

Lisetta                           - Già, era chiusa.

Agnese                          - E sua moglie lo sapeva?

Lisetta                           - Glielo avevano detto i signori Nerotti e Pastorani che erano andati a prendere il tè dalla con­tessa. Anzi, il conte trovando quei due in grande alle­gria con la moglie montò su tutte le furie, e quando rimasero soli, moglie, marito e suocero, il conte diede della civetta a donna Livia, e questa gli rispose, almeno così afferma Francesco: «Non confonderete, spero, vostra moglie con le vostre amiche! ».

Agnese                          - Che insolente!...

Lisetta                           - Il conte minacciò la contessa; il vecchio vo­leva portar via la figlia. Il conte diceva: « magari », e la contessa rispondeva che prima doveva restituire la dote!... (Maliziosa, e pettegola) Perché pare che il conte l'abbia toccata, almeno così dice Francesco!

Agnese                          - Fortuna che tu non incoraggi mai certi discorsi.

Lisetta                           - Non ho ragione? Guardate quante me ne ha contate in un mezzo minuto!

Agnese                          - Va bene.

                                      - (Lisetta esce).

Agnese                          - Cosa può avermi scritto subito dopo avermi lasciata. (Apre e legge) «Marchesa»         - soltanto? «Il « vostro è un giuoco pericoloso. Io non sono per voi che « un trastullo... Ebbene, no! Fin che sono ancora in tempo, «da onest'uomo prendo una risoluzione definitiva. Questa notte parto, e quando riceverete questa mia, io «sarò molto lontano. Non mi vedrete mai più! Questa « sera stessa sarò a Venezia sul punto d'imbarcarmi per «un lunghissimo viaggio. Addio! ». Buon viaggio, e meglio così!... (Nervosa, inquieta) Eppure, no, non è questo che volevo!

Lisetta                           - Il signor conte Stefano.

Agnese                          - (stupita, non credendo) Chi?

Lisetta                           - E' qui il signor conte!

Agnese                          - (guarda la lettera ed è presa a poco a poco da una gran voglia di ridere).

Lisetta                           - Lo faccio passare?

Agnese                          - (ridendo) Ma sì, fallo passare. (Lascia pro­rompere il riso che aveva contenuto a fatica, poi si ri­compone, scuotendo il capo in un sorriso di trionfo; va allo specchio, si passa la cipria sul volto, e torna ad ada­giarsi sul divano dopo averne accomodato i cuscini, pren­dendo una posa languida e sofferente).

(Lisetta introduce il conte. Esce subito).

Il Conte                         - (entra avvilito, vergognoso di sé, ma tra­scinato dalla passione. Rimane quasi sulla soglia, esi­tante. Agnese si avvolge con qualche voluttà nella sua elegante vestaglia, sorridendo, provocante. Mostra la let­tera al conte e, sorridendogli dolcemente, gli tende la mano. Tutto questo con la maggior grazia e castigatezza. Il conte si avvicina pian piano, fa per prendere la mano che Agnese gli tende, poi ha un pentimento e ripiglia un contegno austero. Agnese cambia il movimento della mano in un cortese invito al conte dì accomodarsi).

Agnese                          - Stavo leggendo la vostra lettera... (Con un sorriso pieno di dolcezza) Ero con la mente a Venezia... vi cercavo tra la folla sulla piazzetta... in atto di salire sulla gondola che vi avrebbe condotto all'imbarco...

Il Conte                         - (serio) Ho perduto il treno.

Agnese                          - (sempre sorridendogli) Che cosa avete per­duto?

Il Conte                         - Il treno.

Agnese                          - Avevo capito un'altra cosa!

Il Conte                         - La testa, avevate inteso?

Agnese                          - Proprio quella.

Il Conte                         - Quella invece l'ho ritrovata.

Agnese                          - Già. (Facendosi seria e mesta) E... così?... Quando partite?

Il Conte                         - Fra un'ora.

Agnese                          - (dopo un silenzio) Con vostra moglie?

Il Conte                         - No! Solo!

Agnese                          - Eh! Pazienza! Vi ringrazio di questa vo­stra visita. Se non altro ho potuto rivedervi, e pregarvi di dimenticare qualche mia stranezza.

Il Conte                         - Tocca a me scusarmi. E sono venuto uni­camente per questo.

Agnese                          - Scusarvi di che?

Il Conte                         - Del mio pessimo carattere.

Agnese                          - Il torto è mio.

Il Conte                         - No, no: è il mio!

Agnese                          - Vedete come siete? Se voglio aver ragione, no, siete voi che la volete. Se ammetto d'aver torto, niente affatto, il torto è vostro.

Il Conte                         - Scusate, ma lo stesso rimprovero posso farlo io a voi.

Agnese                          - Ed ecco già che ritorniamo daccapo! Par­tite!... E' meglio per tutti e due!... Per me specialmente!

Il Conte                         - Per voi?

Agnese                          - Sì, per me. Ora che ve ne andate per sem­pre... perché siete ben deciso, è vero, di andarvene?

Il Conte                         - Decisissimo!

Agnese                          - E per sempre!

Il Conte                         - Per sempre. Ve lo giuro.

Agnese                          - Bene. Sono tranquilla. Dal momento che è irrevocabilmente deciso che fra poco sarete lontano, che tutto sarà finito, e per sempre, posso farvi una con­fessione. Stefano, era ormai necessario che vi allonta­naste da ime... Sono una donna anch'io, e la vita non è stata generosa con me. Pensate! Vedova dopo neppure un anno di matrimonio... Ma sul serio, mi credete di ghiaccio?... Non vi siete dunque accorto che la mia forza di resistenza era per venir meno?... I miei modi, i mu­tamenti di carattere che voi avete scambiato per civet­teria, non erano altro che la mia difesa. Speravo guarire voi dalla vostra follìa, e salvare me stessa. Ma se voi foste rimasto... Oh! come avrei potuto ancora resistervi... (Respirando affannosamente, commossa) Andate via, ma subito... (E si allontana). Solamente una preghiera... E' l'amica, all'amico d'infanzia. Quando ricorderete come vi ho tormentato, come vi ho fatto disperare, invece d'im­precare, di maledire, dovrete dire: «Povera creatura - ma ditelo, veh! povera creatura, soffriva più di me!».

Il Conte                         - (profondamente turbato) Voi volete lusin­garmi, Agnese!

Agnese                          - Ma è la verità... Così vero che (prenden­dogli le mani con doloroso trasporto) che avevo prepa­rato tutto per partire io!... Per partire stasera, senza dir nulla a nessuno! Neppure a voi.

Il Conte                         - Partivate?

 Agnese                         - Stasera, e... curiosa... per Venezia anch'io!

Il Conte                         - Per Venezia?

Agnese                          - Ora che ci penso... Se fossimo partiti tutti e due, all'insaputa l'uno dell'altro... avremmo potuto incontrarci... e... allora sì!

Il Conte                         - (affascinato) Oh, Agnese!,..

Agnese                          - (come a rompere l'incanto) E adesso... Ad­dio!... E buon viaggio!

Il Conte                         - Ma io non parto più!

Agnese                          - E il vostro giuramento?

Il Conte                         - Non me ne importa.

Agnese                          - E io che vi ho confessato!... E sia. Allori partirò... domani, subito!

Il Conte                         - E' quello che spero!

Agnese                          - Che cosa volete dire?... Che intendete fare se parto?

Il Conte                         - Andate a Venezia, e là lo saprete!

Agnese                          - Ma... che avete? Siete pallido!...

Il Conte                         - Vi amo!

Agnese                          - Voi meditate qualche pazzia!... Ditemi quello che farete se vado a Venezia.

Lisetta                           - (entrando) Il signor Pastorani.

Agnese                          - Seccatura! Che passi. (Gira dall'altro lato del conte e passandogli davanti prosegue) Insomma, vo­glio assolutamente sapere che cosa intendete fare se parto.

Il Conte                         - A Venezia lo saprete!

Agnese                          - No, no, adesso!

Il Conte                         - (piano dissimulando) Badate, Pastorani! (Si scosta).

Pastorani                       - Marchesa, corre fra i vostri amici una notizia allarmante...

Agnese                          - Ah, adulatore! Quella della mia partenza.

Pastorani                       - Urge calmare l'agitazione con una for­male smentita.

Agnese                          - Infatti è una notizia inesatta, prematura.

Pastorani                       - Inesatta? Prematura? Siamo morti: fatto compiuto!

Agnese                          - No, non ho ancora deciso nulla. Voi dun­que, caro conte, siate così cortese di passare dal mio avvocato per quel contratto... (Gli si è avvicinata con tutta naturalezza, e gli dice piano) Voglio sapere che cosa intendete fare se parto.

Il Conte                         - (piano dissimulando) Seguirvi, raggiun­gervi!...

Agnese                          - Siete pazzo?...

Pastorani                       - Questo è il momento di guardare delle fotografie. (Poi forte) Oh, carina... (ed esamina atten­tamente l'album).

Agnese                          - No, no... (Stefano!... Il mio onore!... Vostra moglie!...

Lisetta                           - (entrando) Il signor Nerotti.

Agnese                          - Seccatura! Che passi.

Pastorani                       - (scherzando ad Agnese) Seccatura? Se­conda edizione. La prima l'ho esaurita io. Non me ne ho a male. Ecco qua... Un album anche per lui.

Nerotti                          - (entrando in fretta) Sarebbe dunque vero? Voi ci abbandonate, marchesa?

Agnese                          - Vi ringrazio della premura, ma non c'è ancora nulla di stabilito.

Pastohani                      - Nerotti, vieni qua, ma subito!

Nerotti                          - Cosa c'è?

Pastorani                       - Vieni qua!

Nerotti                          - (si accosta a Pastorani) E così?

Pastorani                       - Vedi quest'album? Prendilo! Ci sono delle fotografie... Guardale!

Agnese                          - A proposito di fotografie, nei miei album mancano sempre le vostre.

Pastorani                       - Se andassimo subito a casa a prenderle?...

Agnese                          - No, siete a tempo questa sera.

Pastorani                       - Dunque, voi partite davvero?...

Il Conte                         - (piano ad Agnese) Dite di sì!

Agnese                          - Ebbene... sì... parto domattina.

Pastorani                       - E per dove, se è lecito?

Nerotti                          - Tornate a Firenze?

Il Conte                         - (c. s.) No!... a Venezia!... Dite a Venezia.

Agnese                          - Ebbene, vado a... Venezia.

Pastorani                       - Nerotti... vogliamo accompagnarla?

Il Conte                         - No, per carità! (Riprendendosi) Lasciarmi qui solo... Sarei troppo invidioso di voi!... E allora, marchesa, passo dal vostro avvocato. A rivederci, cara Agnese! A rivederci, capi scarichi! (Ed esce allegro).

Pastorani                       - Si direbbe che la vostra partenza lo metta di buon umore.

Agnese                          - F un caro amico, ma un po' lunatico.

Pastorani                       - Altro che lunatico! Bisognava vederlo ieri sera dalla contessa.

Agnese                          - Quale contessa?

Nerotti                          - La moglie di Stefano, la contessa Livia.

Agnese                          - Ah! Livia.

Pastorani                       - (a Nerotti piano) Non vuol sentire che la si chiami contessa. Ora la servo io (sedendo).

Agnese                          - E dunque?

Pastorani                       - Oh, che luna!

Agnese                          - E Livia, aveva la luna anche lei?

Pastorani                       - No, signora, anzi la contessa era di buo­nissimo umore.

Nerotti                          - Cera anche il vecchio genitore!

Agnese                          - Il genitore di chi?

Nerotti                          - Della contessa Livia.

Agnese                          - E si potrebbe sapere il perché siete andati a prendere il tè da Livia, mentre vi ho invitati io?

Nerotti                          - Già, ma... è che...

Pastorani                       - Che avevamo un invito precedente.

Agnese                          - Da chi?

Pastorani                       - Dalla contessa Livia.

Agnese                          - Dove, bevendo il tè, avrete detto corna del vostro prossimo.

Pastorani                       - Vi dirò: la contessa Livia tollera anche lei che si dica male del prossimo, ma lei, come lei, la contessa Livia non dice male di nessuno; la contessa Livia ha invece una grazia tutta sua d'i dire e non dire.

Nerotti                          - Accusa e pare che lodi, la contessa Livia.

Pastorani                       - - Il sistema della contessa Livia è questo: s'indigna contro i pettegolezzi, e per ben mostrarne la cattiveria li riferisce. Dirà ad esempio: «Guardate a che punto arriva la malignità: dicono che la tale non sia che una avventuriera! Mi sono venuti perfino a raccon­tare che fa la corte a mio marito! Oh, le male lingue! ».

Acnese                          - Ah, Livia ha detto questo?

Nerotti                          - No, noi non diciamo che la contessa Livia abbia precisamente detto questo.

Pastorani                       - E' un esempio per dimostrare il sistema della contessa Livia.

Lisetta                           - La signora contessa Livia è giù in carrozza, e chiede di voi, signora.

Agnese                          - Eh! sciocca, anche tu con la contessa Livia!

Nerotti                          - Diavolo (a se).

 

Pastorani                       - Questo è un imbroglio.

Agnese                          - E' una visita che mi secca.

Nerotti                          - Fategli dire che siete uscita.

Pastorani                       - O che siete in bagno.

Agnese                          - Non crediate che mi sgomenti riceverla. (A Lisetta) Di che la facciano salire. (Lisetta, via).

Nerotti i                        - Basta consigliarle una cosa».

Pastorani                       - Perché ne faccia subito un'altra.

Agnese                          - Livia, qui da me? Uh! Che strano! Da sei mesi che sono a Milano, ci siamo incontrate due o tre volte, ma fuori, alla « Scala », o a « San Siro ». Non capisco, e quando non capisco vuole dire che c'è sotto qualche cosa. Scommetto che voi due non siete estranei a questo avvenimento! Ne sapevate qualche cosa?

Pastorani                       - Io no. E tu Nerotti?

Nerotti                          - Che vuoi ne sappia.

Livia                              - (con modi briosi, disinvolti) Buon giorno, cara marchesa.

Agnese                          - Buon giorno, contessa (incontrandola e conducendola a sedere avanti).

Pastorani                       - Contessa!

Nerotti                          - Donna Livia!

Livia                              - Buon giorno, buon giorno - (e tende loro la mano).

Agnese                          - Che smiracolo è mai questo di vedervi in casa mia?

Livia                              - Prima di tutto, oggi è la vostra festa e vi porto i miei auguri.

Agnese                          - (scherzando) Questo è il motivo ufficiale e ve ne ringrazio. Veniamo a quello particolare. Scom­metto che ce n'è uno.

Livia                              - Infatti. Naturalmente, ho bisogno di voi.

Agnese                          - Di me?... Sono ben felice di potervi essere utile. Di che si tratta?

Livia                              - Si tratta... (Ai due che si protendono) Scu­sate: segretucci di signore.

Nerotti                          - Fate pure.

Pastorani                       - Un'altra ripassata alle fotografie. (E vanno al tavolo).

Livia                              - (piano ad Agnese) Desidero parlarvi da sola a sola.

Agnese                          - (c. s.) Sono amici comuni.

Livia                              - E' una cosa un po' delicata.

Agnese                          - Aspetteremo che se ne vadano. E così, caro Pastorani?!

Pastorani                       - Poco fa vi abbiamo veduta, contessa.

Livia                              - Dove?

Nerotti                          - Dal gioielliere Borgatti.

Pastorani                       - Stavate provandovi un braccialetto.

Livia                              - (ridendo un poco) Se sapeste che cosa mi è accaduto!

Agnese                          - Che cosa?

Livia                              - (sempre con brio) Entro da Borgatti e gli dico: «Vorrei un braccialetto così e così ». «Ah! dice Borgatti - è già stato messo da parte per la signora con­tessa ». Io resto stupita, perché non ho ordinato nulla, e dico: «Siete ben sicuro, Borgatti, di non sbagliare? ». « Oh - dice lui - conosco troppo bene la persona che l'ha ordinato; eccovi il braccialetto ». E me lo dà.

Agnese                          - Che marito gentile.

Livia                              - Ad ogni modo ho detto dentro di me: «Non spingiamo tropp'oltre le indagini! Non si sa mai! ». Ho preso il braccialetto e l'ho portato via.

Acnese                          - E perché temevate le indagini?

Livia                              - : Mia cara, la prudenza non è mai troppa! se non fosse stato ordinato per me? Gli uomini hanno tante amicizie « de par le monde... » e « de par le demi-monde » (sorridendo con molta grazia).

Pastorani                       - Gran tè, contessa, gran tè quello che ci avete offerto ieri sera.

Livia                              - Era in giuoco la mia riputazione e dovevo metterci un impegno particolare!

Agnese i                        - Perché?

Livia                              - (mentre Pastorani e Nerotti sono allarmatissimi) Per mutare il tema dei loro entusiasmi!

Agnese                          - Ne avevano già un altro?

Livia                              - Il vostro pranzo, marchesa.

Pastorani                       - (rassicurato) E' vero. I pranzi della mar­chesa, e i tè della contessa, sono due cose insuperabili.

Agnese                          - E il tè riesce più saporito, quando lo si beve malignando...

Livia                              - (ridendo) Già, come il caffè dopo pranzo.

Pastorani                       - (alzandosi) Marchesa!

Nerotti                          - (c. s.) Marchesa!

Agnese                          - Fuggite?

Pastorani                       - Andiamo al Conservatorio.

Nerotti                          - AI Concerto della Società del Quartetto.

Agnese                          - Buon divertimento! (ridendo un po'). .

Livia                              - Musica classica.

Pastorani                       - (salutando con Nerotti le due signore) Ci divertiremo mortalmente!

Livia                              - Profani! (/ due escono).

Agnese                          - Siamo sole, finalmente. Potete parlare con tutta libertà.

Livia                              - Grazie, cara Agnese. (Una pausa d'imbarazzo, subito superato). La mia allegria non è che apparente. Vengo da voi, come da una buona amica, a chiedere consiglio.

Agnese                          - Per quanto sorpresa... noi non ci vediamo spesso... In quello che posso esservi utile, disponete di me.

Livia                              - Siete donna, siete stata moglie, e certamente mi comprenderete. Neppure a mio padre ho aperto l'ani­mo mio, così come sto per fare con voi. Da questo com­prenderete quanta stima ho di voi, della vostra ami­cizia, della vostra onestà.

Agnese                          - Mi confondete...

Livia                              - Se a questo inondo è possibile un po' di fe­licità, voi sapete bene che non la si può trovare che nella propria casa, fra coloro che amiamo e che ci amano.

Agnese                          - Senza dubbio.

Livia                              - Ebbene, io questa felicità l'ho perduta. Ve­dete, cara Agnese; Stefano, che un tempo non lontano ancora mi amò con tanto affetto, che superò ogni osta­colo per avermi, che per più di un anno fu lo sposo più premuroso e gentile, da qualche mese, prima, o dopo, che voi veniste a Milano, cominciò a mutare carattere. Sulle prime cercai non darvi peso, ma il mutamento che si operava in lui crebbe con tale rapidità che alla fine dovetti rinunciare ad ogni illusione... E oggi che vi parlo, non più una premura, non una parola gentile, non uno sguardo... neppure di compassione. E' giunto al punto di mancarmi di riguardo anche in presenza di estranei, di offendermi come se io fossi la sua più mor­tale nemica.

Acnese                          - E’ veramente doloroso quanto mi raccon­tate... ma, scusate, perché venite proprio da me a fare un simile sfogo?

Livia                              - Perché voi certamente dovete sapere qual è, anzi... chi è, la causa del cambiamento di mio marito verso di me. Agnese             - Sarebbe a dire?

Livia                              - (con qualche impeto) E' una donna, cara Agnese, è una donna.

Agnese                          - Sia pure una donna, ma non capisco.

Livia                              - (riprendendosi) Perdonatemi, mia cara Agnese. Non so vincere i miei poveri nervi. Vi dirò su­bito perché vengo da voi. Voi avete conosciuto fin dall'infanzia... mio marito. Egli vi stima, vi ammira, vi ama... come una sorella, s'intende, e sono sicura che voi pure lo amate... come un fratello. Non vi pare dunque logico, umano che io ricorra a voi, per pregarvi di aiu­tarmi a riconquistare il cuore di mio marito?

Agnese                          - E credete che io abbia tanta influenza su di lui?

Livia                              - Parlategli per me, cara Agnese. Voi sola po­tete convincerlo a ritornare per me quello che egli era prima. Se... come temo... una nuova passione me l'ha portato via, ditegli che le passioni sono come gl'in­cendi... che quando scoppiano purtroppo, non si sa mai come siano cominciati, né come abbiano fatto ad acqui­stare tanta violenza. Ma, ditegli anche, che un incendio appiccato, così per capriccio, per il gusto malvagio di guardarne le fiamme, per la bestiale vanità di poter dire: queste fiamme le ho fatte divampare io, non può essere opera che della più bassa depravazione...

Agnese                          - Livia!

Livia                              - Sì, queste cose voi gliele saprete dire con più calore di me, con migliori parole, perché voi due siete cresciuti nella stessa atmosfera, e io no, e troppo spesso devo ricordarmi di questa differenza! Ma se egli ha unito il suo nome illustre a quello della figlia di un uomo che non ha altra nobiltà che quella del suo la­voro, ditegli che questa moglie contadina, sì, ditelo pure, non ha macchiato e non macchierà mai il suo, mentre poteva capitargli in moglie una di quelle dame blaso­nate capaci di macchiare perfino il nome dei loro amanti! Parlo alla buona, come so, ma voi certo saprete dire tutto questo con parole più garbate.

Agnese                          - - Se vostro marito non ascolta voi, come po­tete pensare che ascolterà me?

Livia                              - Oh, fra noi due c'è una grande differenza. Con me, mio marito non può ammettere, non può con­fessare il motivo vergognoso del suo mutamento. E non posso neppure parlargliene. Ma con voi la cosa cambia aspetto. Per quanto vergognosa questa passione, perché: non dovrebbe potervela confessare?

Agnese                          - A me?

Livia                              - Sì, come ad una buona amica... ad una so­rella.

Agnese                          - Cara Livia, francamente, mi credete voi. una buona amica di vostro marito?

Livia                              - Vi credo buona amica sua, e buona amica mia. Potrei dubitarne?

Agnese                          - No certo: ma con tutta franchezza anch'io; la malignità è tale da non stupire più di nulla. Non vi avrebbero fatto credere per caso...

Livia                              - Io credo soprattutto che voi siate una si­gnora, « quello » che si dice una vera dama, capace di apprezzare tutta l'importanza del passo che ho fatto. E poiché voi conoscete e apprezzate tutti i doveri di una signora onesta, di una donna di cuore, credo che siate convinta come me che una donna che, per calcolo o per passeggero capriccio della sua civetteria, getta la deso­lazione in una famiglia è la più spregevole femmina della terra; che con che per vanità o per invidia adesca il marito altrui, ne perverte il carattere, coprendolo solo di ridicolo, è una creatura infame che merita il più in­sultante sfregio sul viso! Mi date ragione, non è vero? Mia cara Agnese, mi raccomando, mi raccomando a voi! (Si bussa).

Agnese                          - Chi è? Avanti! (Entra Lisetta).

Agnese                          - (nervosissima) Cosa vuoi?...

Lisetta                           - (con un po' d'esitazione) Signora marchesa!

Agnese                          - Che c'è? . .

Lisetta                           - (con intenzione) C'è la... sarta... che...

Agnese                          - Perdonate... (avvicinandosi a Lisetta).

Livia                              - Fate pure...

Lisetta                           - (piano) C'è il signor conte Stefano.

Agnese                          - (c. s.) Digli che se ne vada presto. C'è qui sua moglie!

Lisetta                           - (forte) Allora le dico di tornare con l'abito domani? (Via a tempo).

Agnese                          - Sì    - (e ritorna vicino a Livia).

Livia                              - (a se) Era lui! (Fremendo ma contenendosi).

Agnese                          - Eccomi a voi, scusate.

Livia                              - Per carità. Posso dunque contare sul vostro aiuto?

 Agnese                         - Sta bene. Gli parlerò.

Livia                              - Gli descriverete bene, ma bene, tutta l'in­famia di quella donna?

Agnese                          - (con un moto d'impazienza che appena riesce « contenere) No, cara Livia. Preferisco descrivergli le virtù di sua moglie, perché la vostra è quella virtù, modesta e cauta, che non avendo mai combattuto si guarda bene dal cantare vittoria.

Livia                              - (facendosi seria e dopo averla ben guardata) Marchesa, nelle vostre parole non vi sarebbe per caso dell'ironia?

Agnese                          - (con un sorriso forzato, superbo) Se la vo­stra coscienza non vi dice di meritarla, non cercate più in là.

Livia                              - Non potrei meritarla che in un solo caso, marchesa.

Agnese                          - Quale, contessa?

Livia                              - Non cercate più in là, se la vostra coscienza non ve lo dice! (S'inchina graziosamente ed esce).

Agnese                          - (rimane immobile per qualche secondo, poi scatta rabbiosamente) Ah, viperetta! Ha aspettato l'ul­timo Momento per levarsi la maschera. Mi ha umiliata, offesa, vibrandomi ogni sorta di colpi. E non poter ri­spondere. Bada, però, carina... Tu non mi conosci an­cora.. Non dubitare... mi vendicherò, e più presto di quello che tu creda! (Chiamando) Lisetta?

Lisetta                           - (entrando subito) La signora è fuori per la colazione?

Agnese                          - No, preparami un vestito per il pomeriggio.

Lisetta                           - Quale, signora?

Agnese                          - Quello di velluto nero.

Lisetta                           - Va bene, signora.

Acnese                          - Uscirò verso le due. Ordina la carrozza.

Lisetta                           - Bene. (Si bussa alla porta).

Agnese                          - Vedi chi è.

(Lisetta apre. Entra Carlo. Ha in mano un braccia­letto di brillanti. E" assai imbarazzato).

Lisetta                           - E' Carlo.

Agnese                          - Che cosa volete?

Carlo                             - Ho questo braccialetto per voi, signora (Lo consegna a Lisetta, che lo passa alla marchesa).

Agnese                          - Chi lo manda?

Carlo                             - Il signor conte Stefano.

Agnese                          - Chi l'ha levato fuori dall'astuccio?

Carlo                             - - Non c'èra astuccio; era così.

Agnese                          - Non è possibile. Chi ve l'ha dato?

Carlo                             - Ambrogio, il cameriere dell'albergo.

Agnese                          - E chi l'ha consegnato ad Ambrogio?

Carlo                             - Il cameriere del conte, Andrea.

Agnese                          - Chiamate Ambrogio.

Carlo                             - Subito, è qui fuori. (Va all'uscio e fa entrare Ambrogio).

Acnese                          - Che pasticcio è questo!

Ambrogio                      - Signora marchesa.

Agnese                          - Andrea vi ha consegnato questo braccia­letto senza l’astuccio, così?

Ambrogio                      - Sì, signora, così com'è, senza astuccio. Ecco, vi dirò: mentre la contessa Livia saliva in car­rozza, è arrivato in fretta il signor Borgatti e le ha detto qualche cosa. E subito la signora contessa ha cavato il braccialetto dall'astuccio e l'ha dato ad Andrea dicen­dogli: «Consegnatelo a un cameriere, che lo porti al cameriere o alla cameriera della marchesa Agnese, da parte del conte 'Stefano ». Io ero lì sul portone, e ho ricevuto il braccialetto. La contessa vi ha aggiunto una sua carta. Eccola. (La consegna).

Agnese                          - (attonita, mate dissimulando il suo furore, prende la carta e legge a parte) « Cara marchesa. Che cosa vi avevo detto? II braccialetto non era per me! ». (Fremente) Andate! La carrozza, presto! (Carlo e Ambrogio via in fretta). E anche senza astuccio... così! (A Lisetta) Vieni a vestirmi.

Lisetta                           - E la colazione, signora?

Agnese                          - Non faccio colazione, al diavolo! (Esce).

Lisetta                           - Oh, questi gran signori! Infuriarsi così per un'astuccio. Un braccialetto di quel valore?!

Agnese                          - (di dentro strillando) Lisetta!

Lisetta                           - Vengo! Astuccio, o non astuccio, io? lo prenderei a volo, e grazie tante. (Esce).

Fine del terzo atto

ATTO QUARTO

La stessa scena del secondo atto.

Angiolina                      - Quel birbante di mio marito! Piuttosto che darmela vinta, ha preferito passare la notte qui sopra una poltrona,.. Ho una rabbia... che, se mi capita fra le mani, gli cavo gli occhi!

Andrea                          - (entra con premura e non vede subito Angio­lina. Trovandosela ad un tratto davanti fa una conver­sione a destra per evitarla) Accidenti! Medea!

Angiolina                      - Ehi, signor marito!

Andrea                          - Ho altro per il capo, cara signora moglie. Devo fare un'ambasciata della padrona.

Angiolina                      - Non potete farla a me?

Andrea                          - E sia, la farò a voi. La contessa, dopo aver visitata la marchesa Agnese, è andata in cerca di suo padre. Se non lo trova viene a casa, perciò se il signor Girolamo capitasse qui, pregatelo di trattenersi. Avete capito? Corro a servire il padrone.

Angiolina                      - (ponendosi ancora davanti a lui) Servite il padrone anche la notte... anche dormendo... su una poltrona?

Andrea                          - Se fossi venuto in camera, con la bella no­tizia che avevo da darvi!...

Angiolina                      - Quale notizia?

Andrea                          - Il padrone vi ha sentita quando mi mal­trattavate, e proprio per i vostri pettegolezzi, ci ha li­cenziati tutti e due.

Angiolina i                    - E con una disgrazia simile avete avuto il coraggio di lasciarmi sola?

Andrea                          - Così imparerete a portarmi rispetto! E ba­sta così. Non tollero osservazioni!... Se no... poltrona anche questa notte!

Angiolina                      - (sottomessa) Scusami... Sarò buona!... No, eh?... la poltrona stanotte?

Girolamo                       - (con molta premura) C'è mia figlia?

Angiolina                      - No, è andata a casa vostra.

Girolamo                       - Allora scappo...

Andrea                          - Non occorre. Anzi la contessa mi ha man­dato a casa per pregarvi, se non vi trovava, di atten­derla qui.

Girolamo                       - E' che ho molta urgenza di parlarle.

Angiolina                      - ; Corri a casa del signor Girolamo e av­vertila.

Andrea                          - Ma la signora sarà già di ritorno.

Angiolina                      - (con impeto) Fa' quello che ti dico. Te­stardo!

Andrea                          - La poltrona!...

Angiolina                      - (umile) Ti prego, caro, ti prego! Va' in­contro alla carrozza.

Andrea                          - (va per uscire soddisfatto e pettoruto) Così va bene! Vado. (Esce).

Angiolina                      - Scusate, signor Girolamo, ci sono novità?

Girolamo                       - Cosa vuoi che sappia! Non ci capisco più nulla. Ma temo di sì. Ho trovato il signor Borgatti che mi ha raccontato una storia, di un certo braccialetto... Non mi ci raccapezzo più. Sentiremo mia figlia. E' un pezzo ch'è uscita?

Angiolina                      - Saranno due ore.

Girolamo                       - E non sai dove sia andata?

Angiolina                      - Preciso no, ma pare sia stata a far vi­sita alla marchesa Agnese.

Girolamo                       - Oh, povero me!..; Ma perché?

Angiolina                      - Io non saprei...

Girolamo                       - Di che umore era?

Angiolina                      - Molto nervosa.

Girolamo                       - Povera cara!... E suo marito l'ha vista prima che uscisse?

Angiolina                      - - E' uscito ancora prima della contessa, e non ha detto niente a nessuno.

Girolamo                       - Ma lei, mia figlia, non ha tentato di par­largli, di vederlo?

Angiolina                      - E come, lo ha tentato.

Girolamo                       - Angelo! E cosi?

Angiolina                      - Si era chiuso in camera a chiave e non ha risposto a nessuno.

Girolamo                       - Bue! E «osa diceva mia figlia?

Angiolina                      - Sospirava.»

Girolamo                       - Asino...

Angiolina                      - ... e piangeva.

Girolamo                       - Mulo! Povera figlia mia! Ma lui non le fa mai una carezza?

Angiolina                      - Non la guarda neppure.

Girolamo                       - (sempre più commosso) Porcospino!... Sei una brava ragazza, Angiolina.

 Angiolina                     - La signora è tanto buona e tanto infelice!

Girolamo                       - (al colmo della commozione) Mi scoppia il cuore!

Angiolina                      - (vedendo entrare il conte) Il padrone. (Via).

Ix Conte                        - (scorgendo Girolamo) Oh, bravo! Anche voi. E se Dio vuole oggi avremo un'altra giornata allegra, temporale, tempesta con quel che segue. Siete già] informato? La sapete già la storia del braccialetto?

Girolamo                       - Il signor Borgatti mi ha detto...

Il Conte                         - ...bel confusionario anche lui. Vostra) figlia gli ordina un braccialetto... Lui gliene dà uno, dicendo, che l'avevo già ordinato io... poi siccome noni gli avevo ordinato nulla, si accorge dello sbaglio, e va: per ritirarlo. Livia naturalmente non crede... Pensa ai delle stupidità.:. Per colmo, vostra figlia pare sia andata! a fare una scenata a... Ah, in parola d'onore che me la godo io la vita! La spendo bene! (e passeggia nervoso] in lungo e in largo come una belva in gabbia. Dopo uni certo silenzio, trovandosi a faccia d faccia con Girolamo Buon giorno!

Girolamo                       - Buon giorno!

Il Conte                         - Cosa volete da me?

Girolamo                       - Ero venuto per salutare Livia.

Il Conte                         - Non c'è.

Girolamo                       - Lo so!

Il Conte                         - (ironico) E' andata a far visite...

Girolamo                       - Lo avete già detto.

Il Conte                         - Ma preghi Dio di non aver fatto una delle sue solite villanate!

Girolamo                       - (che comincia a perdere la pazienza) Se io sono nato e cresciuto in campagna - il che non è un) disonore - a mia figlia ho potuto far dare una educazione tale, che la ritengo incapace di villanate.

Il Conte                         - Chi di gallina nasce...

Girolamo                       - (scaldandosi) Ma non dite.» sciocchezze, e ditemi piuttosto che cosa vi ha fatto quella povera! disgraziata?!

Il Conte                         - E anche voi con la solita canzone: cosa m'ha fatto, cosa mi ha fatto... Niente mi ha fatto, no, niente. Io non dico che mi abbia fatto qualche cosa, ma è inutile, è così! E' così!

Girolamo                       - E' così, è così! Che cosa? Non capisco.

Il Conte i                       - Se non capite tanto peggio per voi.

Girolamo                       - Io capisco una sola cosa: che voi l'odiata senza motivo.

Il Conte                         - E non si ama anche senza motivo?

Girolamo                       - Amare è un istinto; ma quando si prende ad odiare una moglie giovane, bella, onesta, non è già che il motivo non ci sia, dite piuttosto che avete veri gogna di confessarlo.

Il Conte                         - (con ira) Signor Girolamo!

Girolamo                       - Il motivo vero è che voi siete preso da un'altra donna!

Il Conte                         - (con furia) Non è vero! Che preso... che donna... che confessare! Non ho niente da confessare... non amo nessuna donna, non amo nessuno, odio tatti, me stesso più di tutti!... Voglio essere libero, libero di fare quello che mi pare e piace e non voglio avere da render conti a nessuno!... E mi lascino stare... lasciatemi stare, cominciando da voi,

Girolamo                       - lo difendo la mia creatura!

Il Conte                         - Se poi continuate a provocarmi, vi dirò.. ebbene, sì, il motivo c'è.

Girolamo                       - Quale? ditelo.

Il Conte                         - Non posso.

Girolamo                       - Perché?

Il Conte                         - Perché si possono raccontare i torti di un'amante, ma quelli di una moglie non si mettono in piazza.

Girolamo                       - Io sono suo padre, non sono una piazza! E vi dirò poi che il vostro modo di tacere accusa assai più di qualunque rivelazione! E' una ipocrisia di cui non vi credevo capace.

Il Conte                         - Io, ipocrita?

Girolamo                       - Sarà la prima volta che mentite, ma que­sta volta mentite.

Il Conte                         - Non è vero.

Girolamo                       - Allora, fuori i motivi.

Il Conte                         - Volete che parli?

Girolamo                       - Sì.

Il Conte                         - E sta bene, parlerò. Mia moglie riceve troppo spesso dei giovani ai quali accorda delle confi­denze che la compromettono.

Girolamo                       - A tutti quanti le accorda?

Il Conte                         - A tutti quanti no, ma a qualcuno, il che è ben peggio.

Girolamo                       - Nome e cognome.

Il Conte                         - Lo so io e basta.

Girolamo                       - Si tratta di mia figlia, del suo onore.

Il Conte                         - Lo dirò quando vi rimanderò a casa vostra figlia.

Girolamo                       - (sorpreso, cambiando tono) Volete ri­mandarmela a casa? Che Dio vi benedica, ma... zitto, piano e venite qui. So benissimo che a mia figlia voi non potete rimproverare nulla perché siete il primo a essere convinto della sua onestà, ma non importa. Senza tanti strepiti, senza scandali, datemi la mia figliola e io d'amore e d'accordo me la prendo e me la porto via,

Il Conte                         - Badate che sono capace di prendervi in parola.

Girolamo                       - Sta bene, eccomi qua.

Il Conte                         - Non siete persuaso che questo è l'unico mezzo per non giungere al peggio?

Girolamo                       - Persuasissimo.

Il Conte                         - Non dico separazione legale...

Girolamo                       - Ma, intanto, separazione!

Il Conte                         - Col tempo poi...

Girolamo                       - Maturali le nespole!

Il Conte                         - Questo non toglie che si possa rimanere buoni amici.

Girolamo                       - Altro che, buonissimi amici.

Il Conte                         - Oh bravo, voi siete un uomo che sa vi­vere.

Girolamo                       - Troppo buono.

Il Conte                         - No, no, lo dico sinceramente.

Girolamo                       - Allora vi avverto che condurrò mia figlia a Napoli. Avete niente in contrario?

Il Conte                         - Sono anzi contentissimo. Anche il medico le aveva ordinato quel clima per la sua salute. E' un paese incantevole e Livia sì divertirà.

Girolamo                       - Speriamolo. E quando vorreste effettuare la cosa?

Il Conte                         - Quando vorrete voi.

Girolamo                       - Anche oggi?

Il Conte                         - Anche oggi!

Girolamo                       - Appena ritorna a casa?

Il Conte                         - Appena ritorna, se vi fa piacere.

Girolamo                       - E scusate ve', ma... per la dote come dob­biamo regolarci?

Il Conte                         - Fate voi, approvo tutto quello che farete.

 

Girolamo                       - Vi dispiace farmi due righe?

Il Conte i                       - Subito. Dettate voi.

Girolamo                       - Diremo dunque: «Milano lì, ecc. ecc. Do­vendo la mia signora consorte... ».

Il Conte                         - (scrivendo) «... la mia dilettissima signora consorte... ».

Girolamo                       - Lasciate andare...

Il Conte                         - Sono riguardi dovuti.

Girolamo                       - Ah già! Sicuro... «... recarsi a Napoli per motivi di salute che riconosco legittimi... ».

Il Conte                         - «... che riconosco legittimi e ai quali prendo un vivo interesse... ».

Girolamo                       - (ironico) Riguardi dovuti, eh?

Il Conte                         - Si, riguardi dovuti!

Girolamo                       - Già, già « ... e non potendo io con mio rammarico recarmi colà... ».

Il Conte                         - «...e non potendo io recarmi colà...».

Girolamo                       - E i riguardi?...

Il Conte                         - Ipocrita, no!

Girolamo                       - Giusto! « ...aderisco di buon grado che vi si rechi senza di me ». Questo « di buon grado » sì, eh? che Io scrivete di gusto?

Il Conte                         - Oh! di gusto, di gusto proprio no, ma lo scrivo: «...aderisco di buon grado che vi si rechi senza di me...».

Girolamo                       - « ... in compagnia di suo padre ».

Il Conte                         - « ...in compagnia dell'egregio suo signor padre ».

Girolamo                       - Siete di una compitezza veramente squi­sita.

Il Conte                         - Per carità, mio dovere.

Girolamo                       - « E durante il tempo di sua lontananza, pur continuando io ad amministrare la dote di mia mo­glie, mi obbligo di corrisponderle...». Ecco io direi: la rendita della dote si può calcolare in circa ottantamila lire: pagatene sessantamila.

Il Conte r                      - E le altre venti?

Girolamo                       - Le terrete voi per compenso delle spese di amministrazione.

Il Conte                         - Diremo dunque così: «...mi obbligo cor­risponderle in rate mensili lire centomila annue... ».

Girolamo                       - Altro che compenso! Tutto il frutto e ventimila lire del vostro?

Il Conte                         - Faccio per arrotondare la cifra.

Girolamo                       - Ma io non posso permettere...

Il Conte                         - Scusate, è un affare che riguarda la mia delicatezza.

Girolamo                       - Non so che cosa dire. E' un tratto da gentiluomo.

Il Conte                         - E ricordatevi bene di scrivere. Desidero spesso vostre notizie. Anch'io scriverò.

Girolamo                       - Bene.

Il Conte                         - Non c'è altro?

Girolamo                       - Altro.

Il Conte                         - Allora, ecco la mia firma... ed eccovi la carta. Siete contento?

Girolamo                       - Contentissimo. (Si stringono la mano).

Livia                              - (entra inavvertita dai due. Vedendoli in così cor­diale atteggiamento le si illuminano gli occhi di speranza e si ferma un momento in attesa).

Il Conte                         - Non vi lagnerete certo di me.

Girolamo                       - No certo, non vedo l'ora che ritorni a casa mia figlia.

Il Conte                         - Quando verrà potrete così consolarla.

Livia                              - Sono qua, papà, sono qua, Stefano, non mi fate soffrire ancora, consolatemi subito.

Girolamo                       - Ah sei già qui?... Già, sicuro che ti consolerò.

Livia                              - (a Stefano scrutandolo in viso) vero? Mi vuoi ancora bene?

Il Conte                         - Parlate con vostro padre.

Girolamo                       - No, preferisco che le diciate voi la cosa.

Il Conte                         - No, no, diteglielo voi.

Livia                              - Insomma, o l'uno o l'altro, ma toglietemi da questa incertezza.

Girolamo                       - Figliola mia, vieni qui. Tu sei sempre stata una buona creatura, ubbidiente, una sposa dolce e rassegnata. Ebbene, oggi è giunto il momento di fare ap­pello a queste tue virtù... Non ti impressionare, non c'è motivo per desolarsi. Qui c'è tuo padre e c'è tuo marito che pienamente d'accordo hanno combinato per la tran­quillità di tutti un bellissimo piano. Tu adesso dai i tuoi ordini e tutte le necessarie disposizioni che tuo ma­rito s'incarica di far eseguire appuntino; ti tieni il tuo mantello, il tuo cappellino, e vieni via col tuo babbo a casa tua, e domani si parte, noi due insieme, e si va a Napoli. Tu non sei mai stata a Napoli... Vedrai! Una città bellissima... Il mare, Santa Lucia, il Vesuvio, Pompei, Capri... Un clima che il medico ti ha sempre consigliato... (Livia piange sommessamente con la testa appoggiata sulle spalle del vecchio). Sì, cara... Piangi... non si può farne a meno, vero?... Sì, poverina, e qualche lacrimuc-cia ti farà bene... ma poi, su, coraggio. Si tratta di una separazione momentanea. Oramai siete troppo lontani l'uno dall'altro. Fra qualche tempo tornerà il sereno. Non è vero, conte?

Il Conte                         - Infine non si tratta che dr qualche mese. Non è una separazione... Io non vi abbandono». Vi lascio andare con vostro padre, soprattutto per riguardo a voi, alla vostra salute. E ci scriveremo ogni tanto, oppure mi scriverà vostro padre, e io gli risponderò.

Girolamo                       - E questo devo dirtelo: tuo marito si è comportato da vero gentiluomo circa la dote. Te ne la­scia l'intero frutto, più ventimila lire del suo. Guarda (e le dà la carta. Livia, che si sente perduta, appena vi getta un'occhiata). Dunque? Che cosa rispondi?

Livia                              - (si scuote, si asciuga gli occhi, poi risoluta, fiera) Rispondo... che quando si spendono quindicimila lire in un giorno per la propria amante...

Il Conte                         - Livia!

Livia                              - Sia pure per un'estranea, non c'è nulla di straordinario che se ne spendano ventimila in un anno per la propria moglie. Rispondo che se mio marito può accusarmi di qualche colpa, mi accusi e mi scacci di casa, ma se nessuna accusa mi si può muovere, se invece sono io che potrei accusare, io sola ho il diritto di decidere su quello che conviene alla mia pace e alla mia dignità. L'offesa sono io, io sola. Non lo capisci, papà?... Questa indegna obbligazione che tu ritieni generosa, è il peggior insulto che egli possa farmi, perché con questa... (strap­pandola a pezzetti) egli intende pagarmi il prezzo della sua libertà! (Esce).

Girolamo                       - Oh, povero me!

Il Conte                         - Ah sì? E' così?!... Vuol rimanere qui ad ogni costo, per tormentarmi con le sue lacrime, con le sue scene! Badate. Non rispondo più di me. Diteglielo. Ditele che se crede di farmi impazzire, posso diventare così matto da farla amaramente pentire!

Girolamo                       - Calma... calma per carità. Qui si perde tutti la testa. Oh, povero me, povero me! (Esce dietro Livia).

 

Il Conte                         - (che si era buttato di peso su una poltrona si alza di scatto e fa per andarsene) Al diavolo tutti!

Andrea                          - (con premura) Signor conte, signor conte... La marchesa Agnese.

Il Conte                         - La marchesa qui?

Andrea                          - Cerca della signora. Mi pare fuori d'ogni grazia di Dio.

Il Conte                         - Dille che la contessa non è in casa.

(Agnese, che si era già affacciata sulla soglia, ha sentito le ultime parole).

Agnese                          - (entrando risoluta) Il male è che l'ho ve­duta io stessa rientrare.

Il Conte                         - (fa cenno ad Andrea di uscire).

Agnese                          - (dissimulando la sua collera) Vi prego dunque... Siccome parto forse questa notte - e non per Venezia - desidero restituire a vostra moglie la sua visita.

Il Conte                         - Vi prego, vi supplico, vi scongiuro, mar­chesa. Ho avuto in questo momento una scena delle più disgustose... ne sono ancora esasperato, e appena riesco a padroneggiarmi... Livia si è andata a rinchiudere in camera sua...

Agnese                          - . Vostra moglie è padrona, se le piace, di fare quanti scandali vuole in casa sua, ma non le per- " metto di venirne a fare nel mio albergo.

Il Conte                         - Degli scandali, da voi?

Agnese                          - Quella pettegola ha avuto il coraggio di venirmi a dire che sono una donna spregevole, che se­duco e porto via i mariti... che meriterei uno sfregio sul viso, e non so quante altre impertinenze!

Il Conte                         - E voi, col vostro temperamento, vi siete lasciata dire tutto questo, e solo adesso venite a lagnar-vene? Mi pare incredibile!

Agnese                          - Sfido io! Ha condotto il discorso in modo che lì per lì non mi è riuscito di risponderle. Le allu­sioni, per quanto trasparenti, potevano anche non essere dirette a me. Me ne sono accorta subito dopo, e il dub­bio non poteva essere più possibile.

Il Conte                         - Non si è diretta dunque proprio a voi?

Agnese                          - Avrei voluto che si fosse solo provata!

Il Conte                         - Ma allora, chi sa! Potreste veramente aver equivocato. Per essere giusti, mia moglie non manca mai d'educazione.

Agnese                          - (nervosa, sarcastica) Ah, già! Ma se lo so!... s Guai a toccarvi la moglie! Non m'importa. Non è dun­que visibile la signora contessa?

Il Conte                         - Vi ho detto...

Agnese                          - (con calma affettata) Tornerò.

Il Conte                         - Se partite questa notte...

Agnese                          - Tornerò fra un'ora.

Il Conte                         - Agnese, vi supplico...

Agnese                          - Volete spiegarmi intanto la storia di questo braccialetto? (che leva dalla borsetta).

Il Conte                         - (molto sorpreso) Come lo avete avuto?

Agnese                          - Me lo ha mandato la vostra carissima moglie.

Il Conte                         - Mia moglie?

Agnese                          - La vostra adoratissima moglie, ha dato il braccialetto ad Andrea, perché lo consegnasse ad un ca­meriere dell'albergo, che lo portasse al mio servo con l'incarico di passarlo alla mia cameriera che lo rimettesse finalmente a me, da parte vostra. Ha fatto in modo che il braccialetto, così, senza neppure l'astuccio, passeg­giasse per le mani di mezzo mondo perché tutti sapes­sero che il signor conte mi manda dei braccialetti, cosi come si farebbe con una qualsiasi ballerinetta!

Il Conte                         - (fremendo) Ah, maledetta! Agnese, qui adesso non posso spiegarvi... fra poco verrò da voi, e sa­prete come è accaduto...

Agnese                          - Da me? Guardatevene bene.... Ho già dato gli ordini in portineria, è non vi lascerebbero salire!

Il Conte                         - Agnese, che dite?!...

Agnese                          - Dico che fra noi tutto è finito!

Il Conte                         - Ma non sono io che vi ho offesa.

Agnese                          - Avete permesso che vostra moglie mi of­fendesse. E' ancora peggio. Ah, io sono una spregevole donna che porta via i mariti?... Chi vi vuole!... Chi vi cerca!... Andate, andate da lei!

Il Conte                         - Mi mettete alla disperazione.

Agnese                          - Ringraziatene la vostra dolcissima signora!

Il Conte                         - (minaccioso, cupamente) La ringrazierò, non dubitate!

Agnese                          - Vorreste farmi credere che mi vendiche­rete? Parole!

Il Conte                         - Non saranno parole questa volta!

Acnese                          - Che cosa farete?

Il Conte                         - La caccerò dalla mia casa.

Agnese                          - Bravo, ancora uno scandalo che ricadrà su di me.

Il Conte                         - Andrò via io da Milano, fuori d'Italia, all'inferno!

Agnese                          - Una fuga. Che eroica vendetta.

Il Conte                         - (convulso) Che debbo fare!... Che debbo fare?...

Agnese                          - Non dovevate sposarla!

Il Conte                         - Ormai è fatto e non c'è rimedio. E allora?

Agnese                          - Allora non dobbiamo vederci più, assolu­tamente!

Il Conte                         - Agnese, Agnese!

Agnese                          - (freddissima) Non insistete. Questa volta è inutile, sono decisissima.

Il Conte                         - Ho la testa che non mi regge più. Volete vedermi impazzire?

Agnese                          - Tornerò dunque fra un'ora per vostra moglie.

Il Conte                         - Non posso, non voglio rinunciare a voi. Lo capite?

Agnese                          - (fredda e gentile) Bisogna! Non sarò mai la vostra amante! Fra me e lei, avete scelto lei. E' giusto, non me ne lamento!

Il Conte                         - Agnese! Io sono qui, legato a due catene, una più odiosa dell'altra. Quella disgraziata mi tiene le­gato, con la sua onestà, col suo buon diritto, con la sua rassegnazione, col suo amore più crudele ancora perché so di non meritarlo... Voi... Ah, voi... mi tenete anche più stretto... perché sento che vi fate giuoco di me, perché non mi amate, mentre io sono pazzo di desiderio... Sento che sono sul punto di commettere qualche cosa che mi fa paura!... Agnese! Abbiate pietà!...

Agnese                          - Mi fate veramente pena. Addio! (Ed esce tranquillamente).

Il Conte                         - (resta irrigidito, i pugni stretti, lo sguardo fisso nel vuoto).

Andrea                          - (entra recando un vassoio con un bicchiere, dell'acqua, e una boccetta contagocce sulla quale è scritto «veleno», «« gocce ») Scusate, signor conte...

Il Conte                         - (riprendendosi un poco, ma con un profondo smarrimento in tutto il suo essere) Che cosa vuoi... cosa c'è?...

Andrea                          - La signora ha avuto un attacco di convulsioni. Per fortuna che proprio in quel momento è arri­vato il dottore che le ha ordinato questo calmante.

Il Conte                         - Ah!... (Quasi lontano, assente) E ora come sta?

Andrea                          - Angelina ha detto che si è ripresa. Posso andare?

Il Conte                         - Si... (Quasi inconsciamente) Lascia qui, penserò io...

Andrea                          - (esitando) Il dottore ha raccomandato di far attenzione. Non più di venti gocce, è un veleno.

Il Conte                         - Veleno... (quasi macchinalmente).

Andrea                          - Posso?...

Il Conte                         - Sì... (Poi, quasi senza rendersi conto) Posa lì sopra (indicando il tavolino a destra) ... Che cosa dicevo?... Ah... ecco: scendi subito giù dal portiere e spiegagli... che... sì, se mai tornasse la marchesa Agnese... non c'è nessuno... non si riceve nessuno... spiegagli bene... (Accennando la medicina) Penso io... Hai capito?

Andrea                          - Sì, signor conte (ed esce).

Il Conte                         - (si assicura che Andrea sia uscito, apre, poi rinchiude la porta. L'idea del delitto lo ha assalito, lo tiene: convulso, febbrile, sospettoso, vorrebbe volgere lo sguardo altrove, sfuggire alla tentazione irresistibile, poi        - decisamente prende la boccetta).

Livia                              - (appare silenziosamente sull'arcata di fondo in questo stesso momento e, non comprendendo quello che il conte stia facendo, si ferma, in preda ad un indefinito terrore).

Il Conte                         - (versa nel bicchiere più di metà del conte­nuto della bottiglietta che è incolore, e lo riempie a metà d'acqua, poi si allontana dal tavolo, come per non più vedere, e con la voce che non vuole uscirgli dalla gola chiama) Angelina!... Angelina!

Livia                              - (dominando il terrore, l'angoscia per la cosa mostruosa che ha veduto, acquistando in pari tempo una calma sovrumana, scende verso di lui e dice dolcemente) Non chiamate nessuno! (Il conte è sgomento, palli­dissimo, smarrito). Rimanete, vi prego. Non vi disturberò troppo, e non vi farò perdere molto tempo... e se mai... ne sarete compensato dalla piena libertà che vi lascerò dopo questo nostro ultimo colloquio.

Il Conte                         - (non si rende conto, non può parlare. Quando è entrata?... Ha veduto? No, non è possibile che abbia veduto, non sarebbe R davanti a lui così padrona di sé. E" già pentito. Il pensiero mostruoso è già lontano da lui. Ora vorrebbe solo distruggere la prova di quello che ha tentato).

Livia                              - Non dite nulla... Ascoltatemi soltanto (e si siede vicino al tavolo). Perdonatemi, ma sono tanto stanca, e desidero tanto un po' di pace. Ho riflettuto sul progetto, che avevate combinato col babbo; ma mi pare che ci sia qualche cosa di meglio da fare, e credo ne converrete anche voi. Convinta ormai di essere entrata nel vostro ordine d'idee, mi sento ora così calma, che potremo ragionare fra noi, tranquillamente.

Il Conte                         - (cercando a fatica le parole) Volete forse che ci separiamo formalmente?

Livia                              - Voglio separarmi del tutto. Ma prima desi­dero ima spiegazione: me la dovete e la esigo! Avete detto con mio padre che avevate dei seri motivi per se­pararvi da me, ed avete affermato che io concedo a qual­cuno delle confidenze che mi compromettono. Guarda­temi negli occhi, Stefano. Voi avete mentito.

Il Conte                         - ... Ho mentito.

Livia                              - Lo confesserete a mio padre.

Il Conte                         - Sì.

Livia                              - Dunque, su questo riguardo non avete nulla da rimproverarmi.

Il Conte                         - Nulla.

Livia                              - Su altri?...

Il Conte                         - Ma...

Livia                              - Su altri?.„..

Il Conte                         - Nulla.

Livia                              - Come giustificate dunque la vostra condotta verso di me?...

Il Conte                         - Non la giustifico.

Livia                              - Spiegatemela almeno. Una ragione ci deve essere.

Il Conte                         - No!

Livia                              - La spiegherò io, e cercherò anche di giustifi­carvi; si, perché la prima colpa è stata mia. Non per avervi amato, perché voi non potete negare di aver fatto di tutto per rendermi innamorata. Io vi amo come al­lora, se non di più... Malgrado'tutto quello che io possa pensare di voi, il mio amore è ancora tale che può giun­gere fino al sacrificio. Lasciatemi dire fino in fondo. Mi costa già tanta fatica. La mia colpa fu un'altra. Della mia rovina, e forse anche della vostra, sono stata io la causa. E sapete perché? Per le mie stesse buone qua­lità. Entrando nel vostro mondo per impormi ai pre­giudizi della vostra società bisognava che io vi portassi dell'audacia invece che dell'umiltà. Occorreva che avessi una grande opinione di me, mentre io non ho saputo essere che modesta. Per difendermi dall'assalto di quella gente che mi squadrava dall'alto in basso, bisognava che io avessi uno spirito freddo, leggero, attraente. Il fatto è che mi sono creata una deplorevole riputazione di buona ragazza, bellina assai, ma insipida molto di più.

Il Conte                         - Stupide malignità.

Livia                              - Ma che fanno impressione! E così, subito scoraggiata, mi misi da parte e voi aveste maggior libertà fra le vostre signore. E un giorno ne avete trovata una... un'amica d'infanzia... giovane, bella, vedova. Lei sì, ha le maniere del vostro mondo!... Altro che questa povera ragazza. E mentre vi sentivate già stanco di me, vi in­namoravate pazzamente di Agnese... Lasciatemi dire! Io mi sono permesso di accorgermene e non dovevo! E poiché non ho voluto come avreste desiderato che ne facessi la mia migliore amica, siete andato in collera e vi siete creduto costretto per causa mia di ricorrere a bugie e finzioni che ripugnavano al vostro carattere leale. Ah! Questa è stata la mia colpa più imperdo­nabile! Oggi poi, che sono andata da quella signora a darle una lezione di onestà, e specialmente di spirito             - ch'è una cosa alla quale tiene molto di più    - oggi che le ho mandato, io, il vostro braccialetto per un servo, così come si manda a saldare un conto; adesso che per colpa mia quella... signora, forse vi scaccia, come posso più sperare grazia da voi? D'altra parte restare con voi non lo vorrei più per la mia dignità; separarmi non posso perché vi amo ancora perdutamente; non mi ri­mane che una sola cosa da fare!

Il Conte                         - (scosso la guarda con terrore).

Livia                              - Sì... (volgendosi improvvisamente a guardar­lo) Non è vero che sono entrata nelle vostre idee?

Il Conte                         - (atterrito) Nelle mie idee, come?!...

Livia                              - (guardando sconsolata a terra) Sì... Cosa volete che io faccia al mondo? Mi» padre... poveretto! Vivendo sarei lo spasimo continuo della sua vecchiaia; scomparendo gli dò un grande dolore, ma il tempo que­sti dolori li guarisce. Figli... (con supremo disperato accento di dolore) figli non ne ho!... Mio marito... so come mi ama!

Il Conte                         - (è turbatissimo, in lui si combatte una fiera lotta).

Livia                              - Che attrattive può avere ormai per me la vita? Che m'importa di chiudere gli occhi e andarmene? Sarà la pace finalmente! Tanto fa! (e prende il bicchiere de­cisamente per portarlo alle labbra).

Il Conte                         - No, non bere!! (e si alza d'impeto, si slan­cia per prendere il bicchiere passandole dietro la pol­trona).

Livia                              - (si alza tenendo in alto il bicchiere e ponendo fra il conte e lei il tavolino perché egli non possa impe­dirle il gesto supremo) Ah, tu lo sai, dunque, che la mia morte è qui dentro!

Il Conte                         - No, non so nulla... temevo che tu stessa...

Livia                              - Da me stessa non avrei mai avuto il coraggio... avrei sempre avuto un'ultima speranza! Bisognava che vedessi te... preparare la mia morte con le tue mani, e ti ho veduto!... Ero là!

Il Conte                         - (si copre il volto con le mani).

Livia                              - Adesso, tutto è finito!

Il Conte                         - No, Livia, no!.. Aspetta... Senti!... Se non troverò la parola che ti convinca... farai quello che vorrai. Aspetta! (Livia rimane in attesa, con sconsolata indifferenza) Ti giuro sul mio, onore. E' stata una follìa! Ora è finita... Ho ritrovato me stesso!... Aspetta... giuro sul mio onore... che non la rivedrò mai più!... Ti amo.» come prima, più di prima... (Disperato, risoluto) Se mi lasci, ti giuro che mi ammazzo! Livia, ti voglio bene!

Livia                              - (commossa, vinta, sicura, depone il bicchiere e con mesta gioia) L'hai trovata la parola... Stefano! (e gli apre le braccia).

Il Conte                         - Perdonami! (Si abbracciano strettamente).

Girolamo                       - (entrando, non credendo ai suoi occhi) Eh!...

Livia                              - (sorridendo felice) Babbo, non vedi?

Il Conte                         - (la bacia con tenerezza).

Girolamo                       - (al colmo della gioia, quasi non credendo) Che?... Come?... Tu lo baci... e lui ti bacia?... Ah, figliola mia!... Stefano carissimo! Riconciliati! Oh, che consolazione mi date!... Solamente non capisco!

Livia                              - Stefano, mi vuol bene.

Il Conte                         - Livia mi ha strappato la benda!

Livia                              - E adesso vengo a Napoli con te.

Girolamo                       - Come? (allarmato).

Il Conte                         - Ma con voi ci vengo anch'io.

Girolamo                       - Ah, così capisco benissimo! Padre e figlia, marito e moglie! Saremo in quattro!... No, in due!... Voglio dire in tre!... Insomma, perdo l'aritmetica. Saremo quelli che saremo... ma felici e beati per venti! (A Stefano) Ma... è sul serio, vero?...

Livia                              - Non aver paura, papà. Amori senza stima, una volta spenti, non si riaccendono più.

FINE