Anfitrione 38

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ANFITRIONE 38

Commedia in tre atti

di JEAN GIRAUDOUX

Versione di Adolfo Franci

PERSONAGGI

GIOVE

MERCURIO

SOSIA

IL TROMBETTA

IL GUERRIERO

ALCMENA

ANFITRIONE

ECLISSA

LEDA

L'ECO

ATTO PRIMO

 (Una terrazza vicino a un palazzo. Una delle finestre è illuminata. Sono in scena Oiove e Mercurio).

Giove                            - È là, caro Mercurio.

Mercurio                       - Dove, Giove?

Giove                            - Vedi la finestra illuminata, con la tenda mossa dal vento? Alcmena è là. Non muoverti. Fra qualche minuto potrai veder passare la sua ombra.

Mercurio                       - A me quell'ombra basterebbe. Ma quando amate una mortale ammiro, Giove, e la vostra rinunzia ai privilegi divini e la perdita di una notte fra i pruni per scorgere l'ombra di Alcmena, allor che con i vostri occhi abituati potreste facil­mente traforare i muri della camera, per tacere della biancheria.

Giove                            - E toccare il suo corpo con mani a lei invisibili e cingerlo con una stretta che lei non sentirebbe.

Mercurio                       - Il vento ama così, e tuttavia è, al pari di voi, uno dei princìpi della fecondità.

Giove                            - Non capisci niente dell'amore terrestre, Mercurio.

Mercurio                       - Mi costringete troppo spesso a pren­dere figura d'uomo, per ignorarlo. A imitazione vostra qualche volta amo una donna. Ma per avvi­cinarla bisogna piacerle, poi spogliarla, rivestirla. E, per ottenere di lasciarla, spiacerle... Una fatica.

Giove                            - Temo che tu ignori i riti dell'amore umano. Sono rigorosi e il piacere nasce solo dalla loro osservazione.

Mercurio                       - Conosco quei riti.

Giove                            - Segui da prima la mortale con un passo felpato ed uguale al suo in modo che le tue gambe vadano all'unisono con le sue?

Mercurio                       - Per forza, è la prima regola.

Giove                            - Poi, d'un balzo, le premi con la mano sinistra il petto ove risiede la virtù e la debolezza e le nascondi gli occhi con la mano destra?

Mercurio                       - Seconda regola; la so a memoria.

Giove                            - Infine, avendola così conquistata, le slacci la cintura, la sdrai, con o senza cuscino sotto la testa, seguendo il flusso più o meno ricco del suo sangue?

Mercurio                       - Non ho scelta; è la prima e l'ultima regola.

Giove                            - E poi che fai? Cosa provi?

Mercurio                       - Poi? Cosa provo? In verità niente di particolare, proprio come con Venere.

Giove                            - Allora perché vieni sulla terra?

Mercurio                       - Come un vero uomo, per lasciar correre. Con la sua densa atmosfera e la sua erbetta, la terra è il pianeta dove è più dolce atterrare e sog­giornare, benché i suoi satelliti, i suoi odori, i suoi esseri puzzino e sia il solo astro che senta di belva.

Giove                            - Guarda la tenda. Presto, guarda.

Mercurio                       - Vedo. È la sua ombra.

Giove                            - No. Non ancora. Ma ciò che di lei quel tessuto può riflettere di più irreale, di più impalpa­bile; l'ombra della sua ombra.

Mercurio                       - Toh, il profilo si divide in due. Erano due persone abbracciate. Non del figlio di Giove l'ombra di lei era pregna ma semplicemente di suo marito. Perché voglio sperare sia il marito quel gigante che le si avvicina e torna ad abbracciarla.

Giove                            - Sì, è Anfitrione. Il suo solo amore.

Mercurio                       - Capisco perche avete rinunziato alla vista divina, Giove. Vedere l'ombra del marito ab­bracciare l'ombra della moglie è molto meno dolo­roso che seguire il loro gioco in carne ed ossa.

Giove                            - È là, caro Mercurio, innamorata...

Mercurio                       - E docile a quanto pare.

Giove                            - E ardente.

Mercurio                       - Soddisfatta, scommetterei.

Giove                            - E fedele.

Mercurio                       - Fedele al marito o fedele a se stessa? Questo è il problema.

Giove                            - L'ombra è scomparsa. Alcmena, senza dubbio, si corica nel suo languore per abbandonarsi al canto di questi troppo felici usignoli.

Mercurio                       - Non sprecate la gelosia per quegli uccelli, Giove. Sapete benissimo la parte disinteressata che essi hanno nell'amore delle donne. Per piacere alle quali vi siete qualche volta trasformato in toro, mai in usignolo. No, no il pericolo sta nella presenza del marito di quella bella bionda.

Giove                            - Come sai che è bionda

Mercurio                       - È bionda e rosa, illuminata in viso dal sole, al petto dall'aurora, è là dove occorre dalla notte.

Giove                            - Inventi o l'hai spiata?

Mercurio                       - Poco fa mentre faceva il bagno ho semplicemente ripreso per un minuto le mie pupille divine... Non vi arrabbiate. Eccomi di nuovo miope.

Giove                            - Mentisci, te lo leggo in faccia. Tu la vedi. Anche nel viso di un dio c'è un riflesso che sol­tanto può dare la fosforescenza di una donna. Ti scongiuro, che fa?

Mercurio                       - Infatti la vedo.

Giove                            - È sola?

Mercurio                       - È china su Anfitrione sdraiato. Ridendo, gli soppesa la testa. La bacia, poi la lascia ricadere, tanto quel bacio l'ha appesantita. Eccola di faccia. Guarda, mi ero ingannato. È tutta, tutta bionda.

Giove                            - E il marito?

Mercurio                       - Bruno, tutto bruno e i capezzoli color della susina.

Giove                            - Ti domando che cosa fa.

Mercurio                       - L'accarezza con una mano, come si accarezza un cavallo giovane. Del resto, egli è un celebre cavaliere.

Giove                            - E Alcmena?

Mercurio                       - È fuggita a gran passi. Ha preso un vaso d'oro e, ritornando furtiva, si appresta a versare sulla testa del marito acqua fresca. Se volete possiamo farla diventare ghiacciata.

Giove                            - Perché si arrabbi? Mai e poi mai.

Mercurio                       - O bollente.

Giove                            - Mi sembrerebbe di scottare Alcmena, tanto l'amore della sposa fa dello sposo una parte di se stessa.

Mercurio                       - Ma insomma che cosa contate di fare con la parte di Alcmena che non è Anfitrione?

Giove                            - Possederla, fecondarla.

Mercurio                       - Ma in che modo? La principale difficoltà con le donne oneste non è sedurle, ma con­durle in luoghi chiusi. La loro virtù è fatta di porte socchiuse.

Giove                            - Qual è il tuo piano?

Mercurio                       - Piano umano o piano divino?

Giove                            - La differenza sarebbe?

Mercurio                       - Piano divino: innalzarla fino a noi, sdraiarla sulle nubi, lasciarla riprendere dopo qualche istante, gravida di un eroe, il suo peso.

Giove                            - Così mi verrebbe a mancare il più bel momento dell'amore di una donna.

Mercurio                       - Ce ne sono parecchi. Quale?

Giove                            - Il consenso.

Mercurio                       - Allora prendete il mezzo umano: entrate dalla porta, passate dal letto, uscite dalla finestra.

Giove                            - Non ama che suo marito.

Mercurio                       - Assumete la forma di suo marito.

Giove                            - È sempre fra i piedi. Non si muove dal palazzo. Tranne le tigri, non c'è essere più casalingo di un generale in riposo.

Mercurio                       - Allontanatelo. C'è un modo di al­lontanare i generali da casa.

Giove                            - La guerra?

Mercurio                       - Fate dichiarare la guerra a Tebe.

Giove                            - Tebe è in pace con tutti i suoi nemici.

Mercurio                       - Fategliela dichiarare da un paese amico. Sono servizi che si fanno tra vicini. Fate sorgere un guerriero che annunzi la guerra. Subito dopo lanciate Anfitrione alla testa degli eserciti, prendete la sua forma e al momento della sua par­tenza datemi il sembiante di Sosia perché annunci discretamente ad Alcmena che Anfitrione ha finto di partire ma tornerà a passare la notte al palazzo... Vedete, già ci disturbano. Nascondiamoci. No, non fate nuvole speciali, Giove. Quaggiù, per renderci invisibili ai creditori, ai gelosi e anche ai fastidi, abbiamo quella grande azienda democratica, la sola riuscita, che si chiama la notte. (Entrano Sosia, il trombetta e il guerriero).

Sosia                             - Sei il trombetta di servizio?

Trombetta                     - Oso dire di sì. E tu, chi sei? Rasso­migli a qualcuno che conosco.

Sosia                             - Mi stupisce, io sono Sosia. Che aspetti? Suona.

Trombetta                     - Cosa dice il bando?

Sosia                             - Sentirai.

Trombetta                     - È per un oggetto perduto?

Sosia                             - Per un oggetto ritrovato. Suona, ti dico.

Trombetta                     - Non penserai che suoni senza sapere di che si tratta.

Sosia                             - Non puoi scegliere. Non hai che una nota alla tromba.

Trombetta                     - Non ho che una nota alla tromba, ma sono compositore di inni.

Sosia                             - Inni a una sola nota? Sbrigati. Orione appare.

Trombetta                     - Orione appare, ma io sono celebre fra i trombettieri a una sola nota perché, prima di suonare, posta la tromba alla bocca, immagino tutto uno sviluppo musicale silenzioso di cui la mia nota diventa la conclusione. Questo gli dà un valore inatteso.

Sosia                             - Affrettati. La città si addormenta.

Trombetta                     - La città si addormenta, ma i miei colleghi, ripeto, crepano di gelosia. Mi dicono che alle scuole di tromba ormai non si allenano che a perfezionare la qualità del loro silenzio. Dimmi dunque di che oggetto perduto si tratta, perché io componga la mia aria muta conseguentemente.

Sosia                             - Si tratta della pace.

Trombetta                     - Di quale pace?

Sosia                             - Di ciò che si chiama la pace. Dell'inter­vallo fra due guerre. Tutte le sere Anfitrione ordina che io legga un proclama ai Tebani. È un avanzo degli usi di guerra. Egli ha sostituito l'ordine del giorno con l'ordine della notte. Sui diversi modi di proteggersi dagli insetti, dagli uragani, dal sin­ghiozzo. Su l'urbanesimo, sugli dèi. Ogni sorta di consigli urgenti. Stasera egli parla loro della pace.

Trombetta                     - Vedo. Qualche cosa di patetico, di sublime? Ascolta.

Sosia                             - No, di discreto.

Trombetta                     - (porta la tromba alla bocca, batte con la mano una misura leggera e, infine, suona).

Sosia                             - A me, ora. Come dormono laggiù. Non un solo lume, La tua tromba non è giunta fin là.

Trombetta                     - Se hanno udito il mio inno muto, a me basta.

Sosia                             - (declamando) 0 Tebani! Ecco il solo proclama che potete udire nel vostro letto e senza scuotervi dal sonno. Il mio padrone, il generale Anfitrione, vi vuole parlare della pace. Che cosa di più bello della pace? Che cosa di più bello di un gene­rale che vi parla della pace delle armi? nella pace della notte?

Trombetta                     - Di un generale?

Sosia                             - Taci.

Trombetta                     - Due generali. (Dietro Sosia sorge e ingrandisce un gigantesco guerriero che sale gradino per gradino la scalinata, conducente alla terrazza).

Sosia                             - Dormite, o Tebani. Dolce è dormire su una patria non solcata dalle trincee della guerra, su leggi non minacciate, in mezzo ad uccelli, cani e gatti che non conoscono il sapore della carne umana. È bello portare il proprio volto nazionale non come una maschera per spaventare chi non ha lo stesso colore e lo stesso pelo, ma come l'ovale più atto a esporre il riso e il sorriso. È bello, invece di riprendere la scala degli assalti, salire verso il sonno con la sedia delle colazioni, dei pranzi, delle cene, poter coltivare dentro di sé, senza scrupoli, la tenera guerra civile dei risentimenti, degli affetti, dei sogni... Dormire. Dov'è mai una panoplia più bella dei vostri corpi disarmati e nudi, sdraiati a braccia aperte, unicamente carichi del loro ombelico?... Mai notte fu più chiara, più profumata, più sicura... Dormite.

Trombetta                     - Dormiamo. (Il guerriero sale gli ultimi gradini e si avvicina).

Sosia                             - (cavando un rotolo e leggendo) Tra l'Ilisso e il suo affluente abbiamo fatto un prigioniero, un capriolo venuto dalla Tracia... Tra il monte Olimpo e il Talgete, con abile operazione, abbiamo fatto nascere dai solchi una bella erbetta che diventerà grano e lanciato con le siringhe due intere ondate di api. In riva al mare Egeo la vista dei flutti e delle stelle più non opprime il cuore, e nell'Arcipelago abbiamo captato mille segnali di templi agli astri, di alberi alle case, di animali agli uomini che i nostri sapienti metteranno secoli a decifrare... Secoli di pace ci minacciano... Maledetta sia la guerra... (Il guerriero è dietro a Sosia).

Guerriero                       - Che dici?

Sosia                             - Dico quel che mi va di dire: maledetta sia la guerra.

Guerriero                       - Sai a chi lo dici?

Sosia                             - No.

Guerriero                       - A un guerriero.

Sosia                             - Ci sono molte specie di guerra.

Guerriero                       - Ma non di guerrieri... Dov'è il tuo padrone?

Sosia                             - In quella stanza. La sola illuminata.

Guerriero                       - Bravo generale. Studia i piani di battaglia?

Sosia                             - Certamente. Li liscia, li accarezza.

 Guerriero                      - Che grande stratega.

Sosia                             - Li stende vicino a sé, vi incolla sopra le labbra.

Guerriero                       - È la nuova teoria. Portagli subito questo messaggio. Che si vesta. Che si sbrighi. Le sue armi sono pronte?

Sosia                             - Un po' arrugginite ma appese a chiodi nuovi.

Guerriero                       - Che esiti?

Sosia                             - Non puoi aspettare domani? Anche i suoi cavalli si sono sdraiati stasera. Stanno distesi sul fianco, come gli uomini, tanto grande è la pace. I cani da guardia russano in fondo alla cuccia, sulla quale è posato un barbagianni.

Guerriero                       - Non hanno torto gli animali di affidarsi alla pace umana.

Sosia                             - Ascolta. Dalla campagna, dal mare, per tutto risuona quel murmurare che i vecchi chiamano l'eco della pace.

Guerriero                       - È proprio in questi momenti che scoppia la guerra.

Sosia                             - La guerra?

Guerriero                       - Gli ateniesi hanno ammassato le loro truppe e varcano la frontiera.

Sosia                             - Tu menti, sono nostri alleati.

Guerriero                       - Come credi. I nostri alleati, dunque, ci invadono. Prendono ostaggi. Li suppliziano. Sveglia Anfitrione.

Sosia                             - Mi sarebbe facile se dovessi risvegliarlo dal sonno e non dalla felicità. Proprio non c'è fortuna: il giorno del proclama sulla pace.

Guerriero                       - Nessuno l'ha udito. Va, e tu resta. Suona la tromba. (Sosia esce).

Trombetta                     - Di che si tratta?

Guerriero                       - Della guerra.

Trombetta                     - Vedo. Qualcosa di patetico e di sublime.

Guerriero                       - No, di giovane. (Il trombetta suona. II guerriero, chino sulla balaustra, grida) Svegliatevi, Tebani. Ecco il solo proclama che non potete ascol­tare dormendo. Alla mia voce, i robusti di corpo e senza difetti si separino dalla massa che ronfa e suda, confusa nella notte. Alzatevi. Prendete le armi. Al peso del vostro corpo aggiungete quel tanto di metallo puro che, solo, produce la vera lega del coraggio umano. Cos'è? La guerra.

Trombetta                     - Come gridano!

Guerriero                       - L'uguaglianza, la libertà, la fra­ternità: la guerra. Voi tutti, poveri che la fortuna ha bistrattato, venite a vendicarvi sui nemici. Voi tutti, ricchi, venite a conoscere l'estremo piacere: far dipendere là sorte dei vostri tesori, delle vostre gioie, delle vostre favorite, dalla sorte della patria: vedo laggiù' in quella capanna la prima lampada che il grido di guerra ha illuminato. Ecco la seconda, la terza, tutte s'illuminano. Il primo incendio della guerra, il più bello, incendia la linea delle famiglie. Alzatevi. Radunatevi. Chi oserebbe anteporre alla gloria di soffrire per la patria la sete, la fame, alla gloria di sprofondare nel fango e di morire, la pro­spettiva di rimanere lontano dalla battaglia, ben pasciuto e tranquillo?

Trombetta                     - Io.

Guerriero                       - Del resto non temete nulla. Il borghese esagera i pericoli della guerra. Mi affer­mano che questa volta finalmente sarà realizzata la persuasione di ogni soldato che parte in guerra per un divino concorso di circostanze, non vi sarà un morto e tutti saranno feriti al braccio sinistro, tranne i mancini. Formate le compagnie. La pace si vergogni, essa che per la morte accetta i vecchi, gli infermi, i malati, nel vedere che la guerra non intende abbandonare all'estremo trapasso se non gli uomini vigorosi giunti alla pienezza di salute cui possono giungere gli uomini... Mangiate, bevete un po', prima della partenza. Gradevole è al palato l'avanzo del pasticcio di lepre, innaffiato di vino bianco; tra la moglie in lacrime e i figlioli che escono dal letto a uno a uno, in ordine di età, come uscirono dal nulla. Guerra: salute! (Entra Sosia).

Trombetta                     - Ecco Sosia.

Guerriero                       - Il tuo padrone è pronto?

Sosia                             - Lui sì. Ma la mia padrona no. È più facile rivestire l'uniforme della guerra che non quella dell'assenza.

Guerriero                       - È di quelle che piangono?

Sosia                             - Di quelle che sorridono. Ma le spose guariscono più facilmente delle lacrime che da un tale sorriso. Eccoli...

Guerriero                       - In marcia. (Escono. Appaiano sulla terrazza Alcmena e Anfitrione).

Alcmena                        - Ti amo, Anfitrione.

Anfitrione                     - Ti amo, Alcmena.

Alcmena                        - Questo è il guaio. Se avessimo l'uno per l'altro un pochino d'astio, il distacco sarebbe meno triste.

Anfitrione                     - Non c'è più da nasconderlo, moglie adorata; noi non ci odiamo affatto.

Alcmena                        - Tu che vivi vicino a me sempre distratto, non immaginando di avere una moglie perfetta, quando sarai lontano penserai finalmente a me, lo prometti?

Anfitrione                     - Ci penso di già, cara.

Alcmena                        - Non voltarti così verso la luna. Sono gelosa di lei. Del resto quali idee potrebbe sugge­rirti quella palla vuota?

Anfitrione                     - Da questa testa bionda che cosa posso prendere?

Alcmena                        - Due fratelli: il profumo e il ricordo... Come, ti sei fatto la barba? Ci si fa la barba ora per andare alla guerra? Conti di essere più pericoloso con la pelle liscia?

Anfitrione                     - Abbasserò il casco. Vi è scolpita la Medusa.

Alcmena                        - Il solo ritratto di donna che ti per­metto. Ti sei tagliato, sanguini. Lasciami bere il primo sangue di questa guerra. Fra avversari vi bevete ancora il sangue?

Anfitrione                     - Sì, alla reciproca salute.

Alcmena                        - Non scherzare. Abbassa piuttosto il casco che ti guardi con l'occhio di un nemico.

Anfitrione                     - Preparati a tremare.

Alcmena                        - Quando guarda con i tuoi occhi, la Medusa non fa paura. Ti sembra interessante quel suo modo di attorcigliarsi i capelli?

Anfitrione                     - Sono serpenti, incisi nell'oro.

 Alcmena                       - Oro vero?

Anfitrione                     - Oro vergine e le pietre sono smeraldi.

Alcmena                        - Cattivo marito, come sei vanesio con la guerra. Per lei i gioielli, le gote lisce; per me la barba ispida, l'oro non vergine. E le gambiere di che sono?

Anfitrione                     - D'argento, e gli sbalzi di platino.

Alcmena                        - Non ti stringono? Le gambiere di acciaio sono più elastiche per la corsa.

Anfitrione                     - Hai visto mai correre i genera­lissimi?

Alcmena                        - Insomma, tu non hai addosso niente di tua moglie. Non ti saresti vestito diversamente per un appuntamento. Confessalo, vai a combattere le Amazzoni. Se tu morissi fra quelle invasate, marito caro, non ti troverebbero addosso nulla di tua moglie, nessun ricordo, nessun segno... Che tormento per me. Ti morderò a un braccio, prima della partenza... Sotto la corazza che tunica hai?

Anfitrione                     - Quella rosa con i galloni neri.

Alcmena                        - Ecco dunque che cosa scorgo attra­verso le maglie, quando respiri e s'aprono e che ti fa la pelle color d'aurora. Respira, respira ancora e lascia che intraveda quel corpo raggiante in fondo a questa buia notte... Rimani ancora un poco. Mi ami?

Anfitrione                     - Sì, aspetto i cavalli.

Alcmena                        - Rialza un po' la Medusa. Provala sul riflesso delle stelle. Guarda, scintillano di più. Hanno fortuna. Si apprestano a guidarti.

Anfitrione                     - I generali non leggono il loro cam­mino sulle stelle.

Alcmena                        - Lo so, ma gli ammiragli... Quale scegli per poter fissare insieme, domani e ogni notte a quest'ora? Amo i tuoi sguardi anche se mi arri­vano attraverso una così lontana e banale mediazione.

Anfitrione                     - Scegliamo. Ecco Venere, la nostra comune amica.

Alcmena                        - Non ho fiducia in Venere. Avrò io stessa cura di tutto ciò che riguarda il mio amore.

Anfitrione                     - Ecco Giove, è un bel nome.

Alcmena                        - Non ce n'è una senza nome?

Anfitrione                     - Quella piccola laggiù, chiamata da tutti gli astronomi la stella anonima.

Alcmena                        - Anche questo è un nome... Quale brillò sulle tue vittorie? Parlami delle tue vittorie, caro. Come le conquisti? Di' alla sposa il tuo segreto. Le conquisti caricando, gridando il mio nome, for­zando le linee nemiche al di là delle quali si ritrova tutto ciò che si è lasciato dietro di se, la casa, i fi­glioli, la moglie?

Anfitrione                     - No, cara.

Alcmena                        - Spiegati.

Anfitrione                     - Le ottengo accerchiando l'ala destra con la mia ala sinistra, poi sezionando la loro intera ala sinistra con i tre quarti della mia ala destra. Le ripetute infiltrazioni dell'ultimo quarto di questa ala mi danno poi la vittoria.

Alcmena                        - Che bel combattimento di uccelli. Quante ne hai riportate, cara aquila?

Anfitrione                     - Una, una sola.

Alcmena                        - Caro sposo al quale un solo trionfo procurò più gloria che ad altri una vita intera di vittorie. Domani saranno due. Perché tu ritornerai, non sarai ucciso.

Anfitrione                     - Chiedilo al destino.

Alcmena                        - Non sarai ucciso. Sarebbe ingiusto. I capi non dovrebbero mai essere uccisi.

Anfitrione                     - Perché?

Alcmena                        - Come, perché. Essi hanno le donne più belle, i palazzi meglio tenuti, la gloria. Tu hai il più pesante vasellame d'oro di tutta la Grecia, caro. Una vita umana non può involarsi con quel peso... Hai Alcmena.

Anfitrione                     - Così penserò ad Alcmena per uc­cidere meglio i miei nemici.

Alcmena                        - Come li uccidi?

Anfitrione                     - Li colpisco col giavellotto, li abbatto con la lancia, li sgozzo con la spada che lascio nella ferita.

Alcmena                        - Ma dopo ogni nemico ucciso tu sei disarmato come l'ape dopo la pinzatura. Non potrò più dormire. Il tuo metodo è troppo pericoloso! Ne hai uccisi molti?

Anfitrione                     - Uno, uno solo.

Alcmena                        - Sei buono, caro. Era un re, un generale?

Anfitrione                     - No, un semplice soldato.

Alcmena                        - Sei modesto. Non hai i pregiudizi che anche nella morte dividono la gente in caste... Tra la lancia e la spada gli hai lasciato un minuto di tempo affinché ti riconoscesse e comprendesse l'onore che ti degnavi fargli?

Anfitrione                     - Sì, guardava la mia Medusa con un povero sorriso pieno di rispetto e di sangue.

Alcmena                        - Prima di morire, ti ha detto il suo nome?

Anfitrione                     - Era un soldato anonimo. Ce ne sono molti. Al contrario delle stelle.

Alcmena                        - Perché non ti ha detto il suo nome? Gli avrei innalzato un monumento nel palazzo. Il suo altare sarebbe stato sempre provvisto di offerte e di fiori. Nessuna ombra all'inferno avrebbe avuto più cure dell'ucciso del mio sposo... Marito caro, mi rallegra che tu sia l'uomo di una sola vittoria, di una sola vittima. Perché forse sei ancora l'uomo di una sola donna... Sono i tuoi cavalli... Abbracciami.

Anfitrione                     - No, i miei camminano d'ambio. Ma posso abbracciarti lo stesso. Piano, cara, non stringermi troppo forte. Ti farai male. Io sono un marito di ferro.

Alcmena                        - Mi senti attraverso la corazza?

Anfitrione                     - Sento il calore del tuo sangue. Da tutte le giunture ove possono raggiungermi le frecce tu mi raggiungi. E tu?

Alcmena                        - Anche un corpo è una corazza. Spesso, anche distesa nelle tue braccia, ti ho sentito più lontano e più freddo di oggi.

Anfitrione                     - Anch'io, Alcmena, ti ho spesso stretta a me più triste e sconfortata. E tuttavia partivo per la caccia e non per la guerra... Sorridi!... Si direbbe che questo improvviso annunzio di guerra ti ha sollevata da qualche angoscia.

Alcmena                        - L'altra mattina sentisti piangere sotto la nostra finestra un bambino? Non hai scorto un sinistro presagio?

 Anfitrione                    - Il presagio comincia con un tuono nel cielo sereno seguito da un triplice lampo.

Alcmena                        - Il cielo era sereno e quel bambino piangeva... Per me è il peggior presagio.

Anfitrione                     - Non essere superstiziosa, Alcmena. Tienti ai prodigi ufficiali. La tua cameriera ha par­torito un bambino deforme e palmipede?

Alcmena                        - No, ma mi si stringeva il cuore; lacrime mi colavano dagli occhi al momento in cui credevo di ridere... Avevo la certezza che una terribile minac­cia fosse sospesa sulla nostra felicità... Grazie a Dio non era che la guerra e ne sono quasi rincorata, perché la guerra almeno è un pericolo leale e mi piacciono di più i nemici con le spade e le lance. Non era che la guerra.

Anfitrione                     - Tranne la guerra, che potevi te­mere? Abbiamo la fortuna di vivere giovani su un pianeta ancora giovane dove i cattivi non sono che alle cattiverie elementari, agli stupri, ai parricidi, agli incesti... Qui ci vogliono bene... La morte ci troverà entrambi uniti contro di lei... Che cosa può minacciarci?

Alcmena                        - Il nostro amore. Temevo che tu mi ingannassi. Ti vedevo nelle braccia delle altre donne.

Anfitrione                     - Di tutte?

Alcmena                        - Una o mille, poco importa. Eri per­duto per Alcmena. L'offesa era la stessa.

Anfitrione                     - Tu sei la più bella fra le Greche.

Alcmena                        - Appunto per ciò non temevo le Greche. Temevo le dee e le straniere.

Anfitrione                     - Che dici?

Alcmena                        - Prima temevo le dee. Quando nasco­no improvvisamente dal cielo o dalle acque, rosse senza belletto, ambrate senza cipria, con il giovane seno e gli sguardi celesti, e vi allacciano all'improv­viso alle caviglie, con braccia più bianche della neve e più potenti di una leva, dev'essere assai difficile resister loro, non è vero?

Anfitrione                     - Per gli altri certo, ma non per me.

Alcmena                        - Ma, come tutti gli dèi, esse si tor­mentano per niente e vogliono essere amate. Tu non le amavi.

Anfitrione                     - Nemmeno le straniere, amavo.

Alcmena                        - Loro ti amavano. Esse amano tutti gli uomini sposati, tutti gli uomini che appartengono a un'altra, foss'anche alla scienza o alla gloria. Quando arrivano nelle nostre città con gli splendidi bagagli, le belle quasi nude sotto le sete e le pellicce, le brutte portando arrogantemente la bruttezza come una bellezza, perché è una bruttezza forestiera, è finita la pace nelle famiglie dei soldati e degli artisti. L'amore per il forestiero è, in un uomo, più forte che non l'amore del focolare domestico. Come un amante, le straniere attirano le pietre preziose, i manoscritti rari, i fiori più belli e le mani dei mariti... E si adorano da sé stesse perché restano estranee a se stesse... Ecco ciò che temevo per te, caro sposo, quando ero tormentata da tutti questi presagi. Temevo i nomi delle stagioni, dei frutti, dei piaceri, pro­nunciati con accento nuovo, temevo gli atti dell'amore sfiorati da un profumo e da un ardimento sconosciuto: temevo una straniera. Ora è la guerra che arriva, quasi un'amica. Ho il dovere di non pian­gere davanti a lei.

Anfitrione                     - O Alcmena, cara moglie, sii sod­disfatta. Quando sono vicino a te tu sei la mia stra­niera, e fra poco, in mezzo alla battaglia, ti sentirò mia sposa. Tornerò presto e per sempre. Una guerra è sempre l'ultima delle guerre. Questa è una guerra tra vicini: sarà breve. Vivremo felici nel nostro palazzo e quando verrà l'estrema vecchiaia, per prolungarla, otterrò da un dio che ci trasformi in alberi, come Filemone e Bauci.

Alcmena                        - Ti divertirà cambiar le foglie ogni anno?

Anfitrione                     - Sceglieremo foglie sempre verdi. Il lauro mi va bene.

Alcmena                        - E invecchieremo e ci poteranno e ci bruceranno.

Anfitrione                     - E la cenere dei nostri rami e delle nostre scorze si confonderà.

Alcmena                        - Allora tanto vale unire la cenere della nostra carne e delle nostre ossa, alla fine della vita umana. (Si ode il passo dei cavalli).

Anfitrione                     - Questa volta sono loro... Biso­gna partire.

Alcmena                        - Chi loro? La tua ambizione, il tuo orgoglio di capo, il piacere della strage e dell'av­ventura?

Anfitrione                     - No, semplicemente Elafocefalo e Ipsipilla, i miei cavalli.

Alcmena                        - Allora parti. Sono più contenta di vederti partire su quelle mansuete groppe.

Anfitrione                     - Non mi dici niente altro?

Alcmena                        - Non ho detto tutto? Cosa fanno le altre mogli?

Anfitrione                     - Fingono di scherzare. Vi porgono 10 scudo dicendo: ritorna sotto o sopra. Vi gridano: non aver paura che di vederti cadere il cielo sulla testa. Mia moglie sarebbe forse inetta per le parole sublimi?

Alcmena                        - Credo di sì. Sono incapace di trovare una frase diretta più alla posterità che non a te. Posso dirti solo le parole che muoiono dolcemente al momento in cui ti raggiungono: Anfitrione, ti amo; Anfitrione, torna presto... Del resto non c'è più molto posto nelle frasi, quando s'incomincia col tuo nome. È così lungo.

Anfitrione                     - Mettilo alla fine. Addio, Alcmena. (Esce).

Alcmena                        - Anfitrione! (Ella resta un momento affacciata, mentre il rumore dei cavalli si allontana: poi si volta e fa per andare verso l'interno della casa. Mercurio, trasformato in Sosia, l'affronta).

Mercurio                       - (vestito da Sosia) Alcmena, padrona mia.

Alcmena                        - Che vuoi. Sosia?

Mercurio                       - Ho un messaggio per lei, da parte del padrone.

Alcmena                        - Che dici? È ancora a portata di voce?

Mercurio                       - Precisamente. Nessuno deve udire... il padrone mi incarica di dirle, primo che finge di partire con l'esercito, secondo che tornerà stanotte appena dati gli ordini. Lo stato maggiore è accam­pato a qualche lega da qui, sembra che la guerra sarà benigna, e tutte le sere Anfitrione farà questa gita, che bisogna tener segreta...

Alcmena                        - Non ti capisco, Sosia.

Mercurio                       - Il padrone mi incarica di dirle, principessa, che finge di partire con l'esercito...

Alcmena                        - Quanto sei stupido, Sosia. Non sai tenere un segreto. Bisogna mostrare di ignorarlo e di non udirlo, dal momento che lo si conosce.

Mercurio                       - Benissimo, padrona.

Alcmena                        - Del resto non ho capito veramente una parola di quanto mi hai detto.

Mercurio                       - Bisogna vegliare, principessa, e atten­dere il padrone, perché m'incarica di dirle...

Alcmena                        - Fammi il piacere di star zitto, Sosia. Vado a dormire. (Ella esce. Mercurio fa cenno a Giove e lo conduce sulla scena).

Mercurio                       - (ancora trasformato in Sosia) Li avete uditi, Giove?

Giove                            - (trasformato in Anfitrione) Come Giove? Io sono Anfitrione.

Mercurio                       - Non crediate di ingannarmi. Gli dèi si scorgono a venti passi.

Giove                            - È l'esatta copia dei suoi abiti.

Mercurio                       - Ma non si tratta degli abiti. Del resto anche sul capitolo abiti vi ingannate. Guar­datevi. Uscite da un prunaio e non avete la più piccola sgraffiatura. Cerco invano sui vostri abiti l'aspirazione all'usura e alla deformità, che hanno anche i tessuti di migliore marca, il giorno in cui si rinnovano. Voi avete vestiti eterni. Scommetto che sono impermeabili, che non stringono, che se vi cade una goccia d'olio non lascia macchia. Veri miracoli per una buona donna di casa come Alcmena che non sarà indotta in errore. Voltatevi.

Giove                            - Devo voltarmi?

Mercurio                       - Gli uomini, come gli dèi, s'imma­ginano che le donne non li guardino che in faccia. E s'adornano di baffi, di petti lucidi e decorazioni. Ignorano che le donne fingono di essere abbacinate da quella faccia splendente, ma, sornione, spiano alle spalle. Dalle spalle dei loro amanti, quando essi si alzano o se ne vanno, dalle spalle che non sanno mentire, stanche, curve, le donne indovinano la mancanza di energia o la stanchezza, Voi avete le spalle più forti del petto. Bisogna cambiare.

Giove                            - Gli dèi non si voltano mai. Del resto, farà notte Mercurio.

Mercurio                       - E da vedersi. Non farà notte se conserverete la luce della vostra divinità. Alcmena non riconoscerà mai suo marito in codesto lucente verme umano.

Giove                            - Tutte le mie amanti si sono ingannate.

Mercurio                       - Nessuna, credetemi. Confessate che voi stesso eravate felice di rivelarvi a loro con qualche azione eccezionale o con una di quelle luci eccessive che rendono il vostro corpo luminoso e risparmiano le lampade ad olio e i loro inconvenienti.

Giove                            - Anche un dio può compiacersi d'essere amato per se stesso.

Mercurio                       - Temo che Alcmena vi neghi cotesto piacere. Tenetevi alla forma di suo marito.

Giove                            - Mi ci atterrò in un primo momento, poi vedremo. Perché tu non saprai mai, caro Mercurio,mche sorpresa riserva una moglie fedele. Sai che amo solo le mogli fedeli. Sono anche il dio della giustizia e stimo che esse abbiano diritto a questo compenso. Devo dirti anzi che si contano. Le mogli fedeli sono quelle che dalla primavera, dalle letture, dai pro­fumi, dai terremoti, aspettano le rivelazioni che le altre chiedono agli amanti. Insomma, esse sono infedeli ai loro mariti con il mondo intero, salvo che con gli uomini. Alcmena non deve fare eccezione alla regola. Da prima farò, come meglio mi sarà possibile, le veci di Anfitrione, ma poi, con abili domande sui fiori, sugli animali, sugli elementi, arriverò a sapere quello che più colpisce la sua imma­ginazione e ne prenderò la forma... e così sarò amato per me stesso... I miei vestiti vanno bene, ora?

Mercurio                       - L'intero vostro corpo deve essere senza difetto... Venite qui, alla luce, che vi aggiusti la vostra uniforme d'uomo. Più vicino, vi vedo male.

Giove                            - Gli occhi vanno bene?...

Mercurio                       - Vediamoli... Troppo brillanti... Non sono che un'iride, senza cornea, senza nemmeno un briciolo di glandola lacrimale. Forse dovete pian­gere, e gli sguardi invece d'irradiare dai nervi ottici vi giungono da un focolare esterno, attraverso il cranio... Non chiedete al sole i vostri sguardi umani. La luce degli occhi terrestri corrisponde esattamente alla completa oscurità del nostro cielo... Anche gli assassini non hanno che due lumini da notte... Nelle vostre precedenti avventure non aveste mai pupille?

Giove                            - Mai, ho dimenticato... le pupille, così?

Mercurio                       - No, no, niente fosforo... Cambiate quegli occhi di gatto. Quando socchiudete gli occhi si vedono ancora le pupille attraverso le palpebre. Non ci si può specchiare in codesti occhi. Date loro un fondo.

Giove                            - Il diaspro andrebbe bene, con i suoi riflessi d'oro.

Mercurio                       - Alla pelle, ora.

Giove                            - Alla mia pelle?

Mercurio                       - Troppo liscia, troppo tenera la vostra pelle... Sembra pelle di bambino. Occorre una pelle su cui per trent'anni sia passato il vento, che per trent'anni sia stata immersa nell'aria e nel mare. Insomma che abbia un sapore, perché sarà assapo­rata. Le altre donne non dicevano niente consta­tando che la pelle di Giove aveva sapor di bambino?

Giove                            - Le loro carezze non diventavano, per questo, più materne.

Mercurio                       - Cotesta pelle non sopporterebbe due viaggi... L stringete un po' il vostro sacco umano, ci sguazzate.

Giove                            - E mi dà fastidio... Sento il cuore battere, le arterie gonfiarsi, le vene appesantirsi... Mi sento diventare un filtro, una clessidra di sangue... L'ora umana batte dentro di me e mi riempie di lividure. Spero che i miei poveri uomini non soffrano così...

Mercurio                       - Il giorno della nascita e il giorno della morte.

Giove                            - Molto sgradevole sentirsi nascere e morire al tempo stesso.

Mercurio                       - Non meno sgradevole quando la operazione avviene separatamente.

Giove                            - Adesso, hai l'impressione di essere di fronte a un uomo?

Mercurio                       - Non ancora. Davanti a un uomo, davanti a un corpo vivo d'uomo, constato sopra­tutto che cambia ogni momento, che invecchia con­tinuamente. Anche nei suoi occhi vedo invecchiare la luce.

Giove                            - Tentiamo. E per abituarmi, mi ripeto: dovrò morire, dovrò morire.

Mercurio                       - Troppo veloce. Vedo crescere i capelli, allungare le unghie, incavarsi le rughe. Coraggio, più lentamente, non affaticate i ventricoli. In questo momento state vivendo la vita di un cane o di un gatto.

Giove                            - Così?

Mercurio                       - I battiti troppo spaziati, ora. È il ritmo dei pesci... Coraggio... Ecco, quel galoppo medio, quell'ambio, dal quale Anfitrione riconosce i suoi cavalli e Alcmena il cuore di suo marito...

Giove                            - Le tue ultime raccomandazioni?

Mercurio                       - E il vostro cervello?

Giove                            - Il mio cervello?

Mercurio                       - Sì, il vostro cervello... Occorre rimpiazzare urgentemente le nozioni divine con le umane... Che pensate? Che credete? Quali sono le vostre vedute sull'universo, ora che siete uomo?

Giove                            - Le mie vedute sull'universo? Credo che questa terra piatta sia tutta piatta, che l'acqua sia semplicemente acqua, che l'aria sia semplicemente aria, la natura la natura, e lo spirito lo spirito... Ecco tutto.

Mercurio                       - Avete il desiderio di dividere i vostri capelli con una riga e di tenerli a posto con un fissativo?

Giove                            - Sì, infatti.

Mercurio                       - Avete l'idea che voi solo esistete, che non siete certo se non della vostra esistenza?

Giove                            - Sì. Anzi è molto curioso essere impri­gionato così in se stesso.

Mercurio                       - Avete l'idea che un giorno morirete?

Giove                            - No. Che morranno i miei amici, poveri amici, ahimè, sì. Ma non io.

Mercurio                       - Avete dimenticato tutte quelle che già amaste?

Giove                            - Io? Amare? Non ho mai amato nessuna. Non ho mai amato che Alcmena.

Mercurio                       - Benissimo. E di questo cielo che ne

pensate?

Giove                            - Di questo cielo che è mio e molto più mio ora che sono mortale di quando ero Giove. E di questo sistema solare penso che è ben piccolo, e la terra immensa. E all'improvviso mi sento più bello di Apollo, più coraggioso e capace d'imprese amorose che Marte. E per la prima volta mi credo, mi vedo, mi sento veramente dio degli dèi.

Mercurio                       - Allora siete davvero un uomo... Fatevi sotto! (Mercurio scompare).

Giove                            - (sempre trasformato in Anfitrione bussa alla porta di strada).

Alcmena                        - (bene sveglia, al balcone) Chi bussa? Chi disturba il mio sonno?

Giove                            - Uno sconosciuto che vedrete con piacere.

Alcmena                        - Non conosco sconosciuti.

Giove                            - Un generale.

Alcmena                        - Che cosa fanno i generali a questa ora per le strade? Sono disertori? Sono vinti?

Giove                            - Sono vinti dall'amore.

Alcmena                        - Ecco quello che rischiano non lot­tando con altri generali. Chi siete?

Giove                            - Sono il tuo amante.

Alcmena                        - Parlate ad Alcmena e non alla sua cameriera. Io non ho amanti... Perché ridete?

Giove                            - Poco fa hai aperto angosciata la tua fine­stra e guardato nella notte.

Alcmena                        - Sì, ho guardato la notte. Posso dirti com'è: dolce e bella.

Giove                            - Non hai gettato da un vaso d'oro acqua ghiacciata su un guerriero sdraiato?

Alcmena                        - Ah, era ghiacciata? Tanto meglio...

Giove                            - Non hai mormorato davanti a un ri­tratto di un uomo: potessi perdere la memoria finché egli sarà assente?

Alcmena                        - Non me ne ricordo. Può darsi.

Giove                            - Non senti, sotto queste giovani stelle, sbocciare il tuo corpo e stringere il cuore pensando a un uomo che, forse, è stupido e brutto?

Alcmena                        - È bellissimo e fin troppo amabile. Infatti ho il miele in bocca quando parlo di lui e mi ricordo del vaso d'oro. E lui vedevo nelle tenebre. Ma questo che cosa prova?

Giove                            - Che hai un amante. Ed è qui.

Alcmena                        - Ho uno sposo, ed è assente. E nes­sun altro fuor del mio sposo entrerà in camera mia. Lui stesso, se cambia nome, non lo ricevo.

Giove                            - Anche il cielo cambia a quest'ora.

Alcmena                        - Uomo poco perspicace, se credi che la notte sia il giorno mascherato, la luna un sole falso, se credi che l'amore di una sposa possa tra­sformarsi in amore del piacere.

Giove                            - L'amore di una sposa assomiglia al dovere. Il dovere alla coscrizione. La coscrizione uccide il desiderio.

Alcmena                        - Che dici? Che nome hai detto?

Giove                            - Quello di un semidio, quello del desiderio.

Alcmena                        - Noi qui non amiamo che gli dèi interi. I mezzi dèi si lasciano alle mezze ragazze e alle mezze spose.

Giove                            - Pai l'empia, ora?

Alcmena                        - Qualche volta lo sono anche più, perché mi rallegro che nell'Olimpo vi sia un dio dell'amore coniugale. Mi rallegro di essere una crea­tura che gli dèi non hanno previsto... Al disopra di questa gioia non sento librarsi un dio ma un cielo libero. Se dunque sei un amante, desolata, ma vattene... Sembri bello tuttavia e ben fatto. Dolce è la tua voce, se fosse un richiamo alla felicità e non al desiderio. Mi piacerebbe distendermi su codeste braccia se non fossero una trappola che brutalmente si chiuderà sulla preda. Anche la tua bocca mi sembra bella e ardente. Ma non mi con­vincerà. Non aprirò la porta a un'amante. Chi sei?

Giove                            - Perché non vuoi un amante?

Alcmena                        - Perché l'amante è sempre più vicino all'amore che all'amata. Perché non sopporto che la gioia senza limiti, il piacere senza reticenza, l'ab­bandono senza frontiere. Perché non voglio né schiavi né padroni. Perché non sta bene tradire il proprio marito, anche con lui stesso. Perché amo le finestre aperte e le lenzuola fresche.

Giove                            - Per essere una donna conosci bene le ragioni dei tuoi gusti. Me ne rallegro. Aprimi.

Alcmena                        - Se non sei colui vicino al quale mi sveglio il mattino e che lascio dormire ancora dieci minuti di un sonno tolto alla gala della mia giornata; colui che ha il viso purificato dal mio sguardo prima che dal sole e dall'acqua pura... Se non sei colui che al passo riconosco se si rade o si veste se pensa o se ha la testa vuota; colui col quale fo' colazione pranzo o cena, e il cui respiro, qualsiasi cosa io faccia, precede sempre il mio di un malinteso di secondo... Se non sei colui che ogni sera lascio addormentare dieci minuti prima di me, di un sonno rubato al più vivo della mia vita, affinché nel momento stesso che egli pe­netra nei sogni, io senta il suo corpo ben caldo e vivo... chiunque tu sia non ti aprirò. Chi sei?

Giove                            - Dovrò rassegnarmi a dirtelo. Sono tuo marito.

Alcmena                        - Come? Sei tu Anfitrione? E ritornando all'improvviso non hai riflettuto quanto fosse im­prudente la tua condotta?

Giove                            - Nessuno al campo sospetta.

Alcmena                        - Ma non si tratta del campo. Non sai a cosa si espone un marito ricomparendo improv­visamente, dopo aver detto di partire!

Giove                            - Non scherzare.

Alcmena                        - Non sai che questa è l'ora in cui le buone mogli ricevono nelle braccia sudaticce l'ami­chetto, affamato di gloria e di paura?

Giove                            - Le tue braccia son vuote e più fresche della luna.

Alcmena                        - Con queste chiacchiere gli ho dato il tempo di fuggire. Ora egli è sulla strada di Tebe e bofonchia e bestemmia perché con le gambe nude ha inciampato sulla tunica sciolta.

Giove                            - Apri al tuo sposo.

Alcmena                        - Ma pensi proprio di entrare così perché sei il mio sposo? Hai teco regali? Hai gioielli?

Giove                            - Ti venderesti per gioielli?

Alcmena                        - A mio marito! Con piacere. Ma tu non ne hai.

Giove                            - Vedo che è meglio che io riparta.

Alcmena                        - Pesta, resta... Ma a una condizione, Anfitrione, una condizione.

Giove                            - Che vuoi?

Alcmena                        - Che noi pronunciamo, davanti alla notte, i giuramenti che abbiamo fatto soltanto di giorno. Da tempo aspettavo questa occasione. Non voglio che questo bell'arredamento di tenebre, astri, brezza e nottole, s'immagini che io riceva stanotte un amante. Celebriamo il nostro matrimonio notturno, nell'ora in cui si consumano tante false nozze... Comincia...

Giove                            - A che prò pronunciare giuramenti senza preti, senza altari, sul vuoto della notte?

Alcmena                        - Le parole incancellabili si incidono sui vetri. Alza il braccio.

Giove                            - Se tu sapessi, Alcmena, come gli uomini paiono meschini agli dei, mentre declamano i loro giuramenti e brandiscono le loro folgori senza tuono.

Alcmena                        - Se fanno dei lampi di caldo, non chiedono di più. Alza la mano con l'indice piegato.

Giove                            - Con l'indice piegato1? Ma se è il giuramento più terribile; con esso Giove chiama la calamità sulla terra.

Alcmena                        - Piega l'indice o vattene.

Giove                            - Mi è giocoforza obbedirti. (Alza il braccio).

Alcmena                        - Ti ascolto.

Giove                            - Io, Anfitrione, figlio e nipote di antichi generali, padre e avo di generali futuri, fermaglio indispensabile alla cintura della guerra e della gloria!

Alcmena                        - Io, Alcmena, i cui genitori sono scomparsi, i cui figli non sono nati, povera moglie, presentemente isolata dall'umana catena.

Giove                            - Giuro di fare in modo che la dolcezza del nome di Alcmena sopravviva al rumore del mio.

Alcmena                        - Giuro di essere fedele a mio marito o di morire.

Giove                            - Di?

Alcmena                        - Di morire.

Giove                            - Perché chiamare la morte dove non ha che fare? Ti supplico. Non dire quella parola. Ha tanti sinonimi, anche lieti. Non dir morire.

Alcmena                        - È detto. E ora, marito caro, tregua alle parole. La cerimonia è finita e ti autorizzo a salire... Come sei stato poco semplice stasera. Ti aspettavo, la porta era aperta. Non avevi che da spingerla... Che hai... esiti? Vuoi forse che ti chiami amante? Mai, ti dico.

Giove                            - Devo veramente entrare, Alcmena? Lo desideri veramente?

Alcmena                        - Te l'ordino, amore!

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

PRIMO QUADRO

Stessa scena del primo atto. Completa oscurità.

(Mercurio, solo, risplendente, a metà disteso sul davanti della scena).

Mercurio                       - Cosi appostato davanti alla camera di Alcmena ho percepito un dolce silenzio, una dolce resistenza, una dolce lotta. Ora Alcmena è incinta del giovane semidio. Ma Giove non s'è mai tanto attardato con le altre amanti... Non so se questa ombra vi sia molesta. Quanto a me la missione di prolungare la notte in questo luogo comincia a pe­sarmi, specialmente se penso che il mondo intero è, a quest'ora, bagnato di luce... Siamo nel cuore dell'estate, e sono le sette del mattino. La grande inon­dazione del giorno si spande, profonde migliaia e migliaia di leghe, fino al mare e, solo tra i cubi som­mersi nel rosa, il palazzo rimane un cono d'ombra... È ora di svegliare il mio padrone, perché egli detesta le partenze affrettate e sicuramente, come con tutte le sue amiche, terrà a rivelare ad Alcmena, nelle chiacchiere che si fanno scendendo il letto, che è Giove, per godere dello stupore e dell'orgoglio di lei. D'altra parte ho suggerito ad Anfitrione di venire a sorprendere sua moglie all'aurora, in modo di essere il primo testimonio e il garante dell'avventura. Gli dobbiamo questa garbatezza ed eviterò così ogni equivoco. A quest'ora il nostro generale si mette segretamente in strada, spingendo il cavallo al galoppo, e prima di un'ora sarà al palazzo. Mostrami dunque i tuoi raggi, o sole, che scelga quello che incenerirà queste tenebre. (Il sole manda uno dei suoi raggi) Non quello. Non c'è niente di più sinistro che la luce verde sugli amanti che si svegliano. Ognuno crede di tener fra le braccia un annegato. Neanche quello. Il violetto e il porpora sono colori che eccitano i sensi. Serbiamoli per stasera. Ecco, ecco quello buono, lo zafferano. Nessun'altro colore mette in risalto, come lo zafferano, l'insipidezza della pelle umana... Avanti, sole!

SECONDO QUADRO

La camera di Alcmena appare in pieno sole. In fondo una finestra. A sinistra una porta. A destra la terrazza.

(Alcmena è di già in piedi. Giove è disteso sul letto che dorme).

Alcmena                        - Alzati, caro. Il sole è alto.

Giove                            - Dove sono?

Alcmena                        - Dove i mariti non credono mai di essere quando si svegliano: semplicemente in casa tua, nel tuo letto e vicino a tua moglie.

Giove                            - Il nome di questa moglie?

Alcmena                        - Il suo nome di giorno è il medesimo che il suo nome di notte, sempre Alcmena.

Giove                            - Alcmena, la grande donna bionda, grassa al punto giusto, che durante l'amore tace?

Alcmena                        - Sì, e che chiacchiera dall'alba e ora ti mette alla porta.

Giove                            - Che taccia e torni nelle mie braccia.

Alcmena                        - Non contarci. Le donne misurata­mente grasse rassomigliano ai sogni, non si abbrac­ciano che la notte.

Giove                            - Chiudi gli occhi e approfittiamo di queste tenebre.

Alcmena                        - No, no, la mia notte non è la tenebra. Alzati o chiamo. (Giove si alza, contempla il paesaggio che splende davanti alla finestra).

Giove                            - Che notte divina!

Alcmena                        - Stamani sei deboluccio negli epiteti, caro!

Giove                            - Dico divina.

Alcmena                        - Che tu dica un pasto divino, un pezzo di manzo divino, passi; non sei obbligato ad avere continuamente inventiva. Ma per la notte scorsa avresti potuto trovare di meglio.

Giove                            - Che cosa avrei potuto dire?

Alcmena                        - Press'a poco tutti gli aggettivi, salvo divino, veramente fuori uso. La parola perfetto, la parola bello. La parola delizioso sopratutto, che esprime bene le cose di quest'ordine: che deliziosa notte.

Giove                            - Allora la più deliziosa, e di molto, di tutte le nostre notti, non è vero?

Alcmena                        - È da vedere.

Giove                            - Come è da vedere?

Alcmena                        - Hai forse dimenticato, caro marito, la nostra notte di nozze, il lieve fardello che ero nelle tue braccia, e quella scoperta che facemmo dei nostri due cuori in mezzo alle tenebre che ci avvol­gevano per la prima volta insieme, nella loro ombra? Ecco la nostra più bella notte.

Giove                            - La nostra più bella notte, e sia. Ma la più deliziosa è stata questa.

Alcmena                        - Credi? E la notte che un grande incendio divampò in Tebe e tu tornasti all'aurora, indorato e caldo come un pane di forno? Quella, e non un'altra, la nostra notte più deliziosa.

Giove                            - Allora la più meravigliosa.

Alcmena                        - Perché meravigliosa? Sì, quella di ieri l'altro, quando salvasti dal mare quel fanciullo trascinato dalla corrente e ritornasti, lucido di alghe e di luna, salato dagli dèi e tutta la notte, nel sonno, mi salvavi a forza di braccia... Ecco una cosa mera­vigliosa! No, se dovessi dare un aggettivo alla notte scorsa, mio caro, direi che fu coniugale. C'era in essa una sicurezza che mi sbalordiva. Non ero stata mai così certa di ritrovarti al mattino roseo, vivo, affamato. E non avevo la divina apprensione, che sempre provo, di vederti tutti i momenti morire nelle mie braccia.

Giove                            - Vedo che anche le donne usano la parola divino...

Alcmena                        - Dopo la parola apprensione, sempre. (Un silenzio).

Giove                            - Che bella camera!

Alcmena                        - L'apprezzi proprio la mattina che ci stai di frodo.

Giove                            - Come sono abili gli uomini. Su un pianeta relativamente poco illuminato, con questo sistema di pietre trasparenti e di finestre riescono a veder meglio nelle loro case di qualsiasi altro essere al mondo.

Alcmena                        - Non sei modesto caro. L'hai inven­tato tu.

Giove                            - E che bel paesaggio!

Alcmena                        - Quello puoi lodarlo, non è tuo.

Giove                            - E di chi è?

Alcmena                        - Del padrone degli dèi.

Giove                            - Si può sapere il suo nome?

Alcmena                        - Giove.

Giove                            - Come pronunci bene il nome degli dèi. Chi ti ha insegnato ad assaporarli così tra le labbra come un nutrimento divino? Ti si direbbe una pecora che ha colto un ramettolo di menta, e, a testa alta, lo bruca. Ma è la tua bocca a dar profumo alla menta. Ripeti. Dicono che gli dèi chiamati così, qualche volta rispondano con la loro stessa presenza.

Alcmena                        - Nettuno! Apollo!

Giove                            - No, ripeti il primo.

Alcmena                        - Lasciami brucare tutto l'Olimpo... Del resto mi piace pronunciare a coppie i nomi degli dèi: Marte e Venere, Giove e Giunone. Li vedi allora sfilare sulla cresta delle nuvole, tenendosi eterna­mente per mano... Deve essere stupendo.

Giove                            - E allegro... Dunque trovi bella questa opera di Giove, quelle scogliere, quelle rocce?

Alcmena                        - Bellissima. Soltanto, l'ha fatto a posta?

Giove                            - Che dici?

Alcmena                        - Caro, tu fai tutto a posta: sia che innesti le ciliege sulle susine, sia che immagini una sciabola a due tagli. Ma credi che Giove abbia vera­mente saputo, il giorno della creazione, che cosa stava per fare?

Giove                            - Assicurano di sì.

Alcmena                        - Egli ha creato la terra. Ma la bellezza della terra si ricrea essa stessa, a ogni minuto. Il prodigioso è che la terra sia effimera. Giove è troppo serio per aver voluto creare l'effìmero.

Giove                            - Porse ti raffiguri male la creazione.

Alcmena                        - Tanto male, indubbiamente, quanto la fine del mondo. Sono a uguale distanza dall'una e dall'altra e la mia memoria non è più forte della mia preveggenza. Te la raffiguri, tu, caro?

Giove                            - La vedo... Da prima, regnava il caos... L'idea veramente geniale di Giove è stata d'aver pensato a dividerlo in quattro elementi.

Alcmena                        - Non abbiamo che quattro elementi!

Giove                            - Quattro; e il primo è l'acqua e non fu così semplice da creare, ti prego di crederlo. L'acqua, a prima vista, sembra cosa naturalissima. Ma imma­ginare di crear l'acqua, avere l'idea dell'acqua è un altra faccenda.

Alcmena                        - Le dee a quell'epoca piangevano lacrime di bronzo?

Giove                            - Non interrompermi. Tengo a mostrarti con esattezza quello che fu Giove. Egli può appa­rirti improvvisamente. Non ti piacerebbe che te lo spiegasse lui stesso, con la sua autorità?

Alcmena                        - Deve averlo spiegato troppo spesso. Tu ci metterai più fantasia.

Giove                            - Dove ero rimasto?

Alcmena                        - Avevamo quasi finito, al caos originale...

Giove                            - Ah, sì. Giove all'improvviso ebbe l'idea di una forza elastica e incomprimibile, che colmasse i vuoti o ammortizzasse tutti gli urti di un'atmosfera ancora mal regolata.

Alcmena                        - L'idea della schiuma è sua?

Giove                            - No, una volta nata l'acqua gli venne alla mente di circondarla di rive irregolari per rom­pere le tempeste e di seminare su essa, affinché l'occhio degli dèi non fosse sempre disturbato da un orizzonte abbacinante, continenti, solubili o rocciosi. La terra e le sue meraviglie erano create.

Alcmena                        - E i pini?

Giove                            - I pini?

Alcmena                        - I pini ombrelliferi, i pini cedri, i pini cipressi tutte quelle masse verdi o azzurre senza le quali un paesaggio non esiste... e l'eco?

Giove                            - L'eco?

Alcmena                        - Tu rispondi come esso. E i colori! Li ha creati lui i colori?

Giove                            - I sette colori dell'arcobaleno, sì.

Alcmena                        - Parlo del rosso scuro, del porpora, del verde lucertola, i miei preferiti.

Giove                            - Ne lasciò la cura ai tintori. Ma, ricor­rendo alle diverse vibrazioni dell'etere, ha fatto in modo che attraverso l'urto del doppio urto mole­colare, come attraverso le controrifrazioni delle rifrazioni originali, fossero tesi sull'universo mille fili di colore o di suono differente, percepibili o no - dopo tutto se ne infischia - agli organi umani.

Alcmena                        - Precisamente quello che ho detto io.

Giove                            - Che cosa hai detto?

Alcmena                        - Che non ha fatto niente. Non ha fatto che immergerci in un terribile agglomeramento di stupori e di illusioni nel quale ci tocca sbrigarci da soli, io e il mio caro marito.

Giove                            - Sei empia, Alcmena, sappi che gli dèi ti odono.

Alcmena                        - L'acustica non è la stessa per gli dèi e per noi. Il suono del mio cuore copre certamente per gli esseri supremi quello delle mie chiacchiere, perché è il suono di un cuore semplice e diritto. Del resto perché essi dovrebbero avercela con me? Io non devo una speciale riconoscenza a Giove per il fatto che ha creato quattro elementi invece dei venti che ci vorrebbero, poiché questo era il suo compito. Mentre il mio cuore può traboccare di gratitudine per Anfitrione, il mio caro marito, che ha trovato il modo, fra le sue battaglie, di creare una carrucola per le finestre e d'inventare un nuovo innesto per il frutteto. Tu hai modificato per me il gusto di una ciliegia, il diametro di un raggio: sei il mio creatore tu. Cos'hai da guardarmi con quell'occhio? I complimenti ti mettono sempre in imba­razzo. Non sei orgoglioso che per me. Mi trovi troppo terrestre?

Giove                            - (molto solenne) Non ti piacerebbe di esserlo un po' meno?

Alcmena                        - Mi allontanerebbe da te.

Giove                            - Non hai mai desiderato d'essere dea o quasi dea?

Alcmena                        - No, di certo. Perché fare?

Giove                            - Per essere onorata e riverita da tutti.

Alcmena                        - Lo sono come semplice donna. È più meritorio.

Giove                            - Per essere di un impasto più leggero, per camminare sull'aria, sulle acque.

Alcmena                        - Quello che fanno tutte le spose, appesantite da un buon marito.

Giove                            - Per comprendere la ragione delle cose, degli altri mondi.

Alcmena                        - I vicini non mi hanno mai interessato.

Giove                            - Allora, per essere immortale.

Alcmena                        - Immortale? A che scopo? A che serve?

Giove                            - Come? Ma a non morire.

Alcmena                        - E che farei se non morissi?

Giove                            - Vivresti eternamente, cara Alcmena; trasformata in astro, scintilleresti nella notte sino alla fine del mondo.

Alcmena                        - Che sarà?

Giove                            - Mai.

Alcmena                        - Bella nottata! E tu, che faresti, tu?

Giove                            - Ombra senza voce, confusa nelle nebbie dell'inferno, mi rallegrerei al pensiero che la mia sposa brilla lassù, nell'aria cristallina.

Alcmena                        - Di solito preferisci piaceri meglio spartiti... No, mio caro, che gli dèi non contino su me per questo ufficio... Del resto, l'aria della notte, non giova alla mia pelle di bionda...

Giove                            - Ma come sarai fredda e vana in fondo alla morte.

Alcmena                        - Non temo la morte. È il rischio della vita. Poiché, a torto ò a ragione, il tuo Giove ha creato sulla terra la morte, io sono solidale col mio astro. Sento troppo le mie fibre continuare quelle degli altri uomini, degli animali, perfino delle piante, per non seguire la loro sorte. Non parlarmi di non morire finché non ci sarà un legame immortale. Per un uomo, diventare immortale è lo stesso che tradire. Del resto quando penso al gran riposo che la morte darà a tutte le nostre piccole fatiche, alle nostre noie secondarie, le sono riconoscente della sua totalità e anche della sua abbondanza. Aver perduto la pazienza durante sessant'anni per i vestiti tinti male, i pranzi mal riusciti ed avere infine la morte, la costante morte, è una ricompensa straor­dinaria... Perché mi guardi all'improvviso con quello sguardo rispettoso?

Giove                            - Perché tu sei il primo essere veramente umano che incontro...

Alcmena                        - È la mia specialità, fra gli uomini. Non immagini nemmeno quanto sia giusto il tuo detto! Di tutti coloro che conosci, io sono infatti quella che meglio approva ed ama il proprio destino. Non c'è peripezia della vita umana, dalla nascita alla morte, che non ammetta, e vi includo anche i pranzi di famiglia. Ho sensi misurati e che non si sbagliano. Sono sicura di essere la sola creatura che veda i frutti, i ragni come sono e che pregusti le gioie nel loro vero gusto. Lo stesso avviene per la mia intelligenza. Non sento in essa quella parte di gioco o d'errore che provoca, sotto l'effetto del vino, o dell'amore o di un bel viaggio, il desiderio dell'eternità.

Giove                            - Ma non ti piacerebbe avere un figlio meno perituro di te, un figlio immortale?

Alcmena                        - Desiderare un figlio immortale è umano.

Giove                            - Un figlio che diventasse il più grande degli eroi, che fin dalla tenera infanzia lottasse con leoni e mostri?

Alcmena                        - Dalla tenera infanzia? Nella sua tenera infanzia egli avrà una tartaruga e un can barbone.

Giove                            - Che uccidesse enormi serpenti, saliti a strangolarlo nella sua culla?

Alcmena                        - Non sarà mai solo. Cotesto avventure non capitano che ai figli delle donne di servizio... No, lo desidero debole, che gema dolcemente ed abbia paura delle mosche... Cos'hai da agitarti in quel modo?

Giove                            - Parliamo seriamente Alcmena. È vero che preferiresti ucciderti piuttosto che essere infedele a tuo marito?

Alcmena                        - Non è gentile da parte tua il dubitarne.

Giove                            - Uccidersi è molto pericoloso.

Alcmena                        - Non per me. E ti assicuro, caro marito, che non ci sarebbe niente di tragico nella mia morte. Chi sa? Potrei morire stasera, qui stesso, se il dio della guerra ti raggiungesse o per tutt'altra ragione. Ma starò attenta che gli spettatori ritraggano da questo spettacolo, invece di un incubo, una sere­nità. Per i cadaveri, c'è certamente un modo di sorridere o di incrociare le mani che aggiusta tutto.

Giove                            - Ma potresti trascinare nella morte un figlio concepito il giorno primo, mezzo vivo.

Alcmena                        - Non sarà che una mezza morte per lui.

Giove                            - E parli di tutto questo così sempli­cemente, posatamente, senza averci riflettuto?

Alcmena                        - Senza averci riflettuto? Qualche volta ci si domanda a cosa pensano quelle giovani donne sempre sorridenti, gaie e grasse al punto giusto, come dici tu. Al modo di morire senza storia e senza dramma, se il loro amore è umiliato o deluso...

Giove                            - (maestosamente) Ascoltate, cara Alcmena. Voi siete pia e credo che potete capire i misteri del mondo. Bisogna che vi parli...

Alcmena                        - No, no, Anfitrione caro. Ecco che mi parli col voi. So bene a che rima quel voi solenne. È il tuo solo modo d'essere affettuoso. E mi inti­midisce. Cerca piuttosto, la prossima volta, di tro­vare un tu nell'intimo del tu stesso.

Giove                            - Non scherzate. Devo parlarvi degli dèi.

Alcmena                        - Degli dèi!

Giove                            - È il momento che vi spieghi il loro rap­porto con gli uomini, le ipoteche imprescrittibili che essi hanno sugli abitanti della terra e le loro spose.

Alcmena                        - Diventi pazzo. Stai parlando degli dèi nel solo momento del giorno in cui gli uomini, ebbri di sole, avviati verso il lavoro o la pesca, non appartengono più che all'umanità. Del resto l'eser­cito attende. Non ti resta più che qualche ora se vuoi uccidere i nemici a digiuno. Parti, caro, per ritrovarmi più presto. E poi la casa mi chiama, marito mio. Ho da fare il mio giro d'ispezione... Se rimanete, caro signore, dovrei parlarvi in modo altrettanto solenne non degli dèi, ma delle mie ca­meriere. Credo che bisognerà licenziare Nenezza. Oltre alla sua mania di non pulire che le piastrelle nere dei mosaici, ella ha ceduto, come voi dite, agli dèi, ed è incinta.

Giove                            - Alcmena, cara Alcmena. Gli dèi appa­riscono quando meno li aspettiamo.

Alcmena                        - Anfitrione, caro marito! Le donne spariscono nel momento in cui si crede di tenerle.

Giove                            - La loro collera è terribile. Essi non ac­cettano né gli ordini né gli scherzi.

Alcmena                        - Ma tu accetti tutto, caro, e perciò ti amo... Anche un bacio da lontano, sulla punta delle dita!... A stasera... Addio... (Esce. Entra Mercurio).

Mercurio                       - (entrando) Che accade, Giove? Mi aspettavo di vedervi uscire gloriosamente da quella camera, come dalle altre camere, ed è invece Alcmena che fugge sermonandovi e per niente turbata.

Giove                            - Non si potrebbe pretendere che lo sia.

Mercurio                       - Che vuol dire quella piega verti­cale fra i vostri occhi? È un segno di tempesta? È l'annunzio di una minaccia che covate contro la umanità?

Giove                            - Questa piega?... È una ruga.

Mercurio                       - Giove non può avere rughe; quella vi è rimasta dal corpo di Anfitrione.

Giove                            - No, no. Questa ruga mi appartiene e ora so donde gli uomini le traggono quelle rughe che ci incuriosiscono tanto: dall'innocenza e dal piacere.

Mercurio                       - Mi sembrate stanco, Giove, siete incurvato.

Giove                            - È pesante da portare una ruga.

Mercurio                       - State forse provando quel celebre 1 scoramento che l'amore dà agli uomini?

Giove                            - Credo di provare l'amore.

Mercurio                       - Siete nato per provarlo spesso.

Giove                            - Per la prima volta ho tenuto nelle braccia una creatura umana senza vederla né udirla... E così I l'ho capita.

Mercurio                       - Che pensavate?

Giove                            - Che ero Anfitrione. Almeno aveva preso il sopravvento su di me. Dal tramonto all'alba, con I lei non ho potuto essere nessun'altro che suo marito. E Poco fa mi è capitato il destro di spiegarle la crea­zione. Non sono stato capace di trovare che un linguaggio da pedagogo, mentre di fronte a te copiosa affluisce la mia lingua divina. Vuoi che ti spieghi la creazione?

Mercurio                       - Che la rifacciate accetto. Ma lì mi fermo.

Giove                            - Mercurio, l'umanità non è come se laimmaginano gli dèi. Noi crediamo che gli uomini siano una derisione della nostra natura. Lo spettacolo del loro orgoglio è così corroborante che abbiamo fatto credere a un conflitto fra gli dèi e loro ; stessi. Ci siamo dati un gran daffare per imporre  loro l'uso del fuoco, perché credano di avercelo rubato; per disegnare sulla loro ingrata materia I cerebrale complicate volute, perché inventino il tessuto, la ruota dentata, l'olio d'oliva e s'immaginino di averci presi in ostaggio... Ma quel conflitto esiste veramente e io ne sono oggi la vittima.

Mercurio                       - Esagerate il potere Alcmena.

Giove                            - Non esagero. Alcmena, la tenera Alcmena, possiede un carattere più irriducibile alle nostre leggi che la roccia. Il vero Prometeo è lei.

Mercurio                       - Ella manca semplicemente d'imma­ginazione. È l'immaginazione che illumina il cervello degli uomini per i nostri corpi.

Giove                            - Alcmena non illumina. Ella non è sensibile ne allo splendore né all'apparenza. Non ha f immaginazione e forse nemmeno intelligenza. Ma in E lei c'è qualcosa di inattaccabile e di limitato che deve essere l'infinito umano. La sua vita è un prisma in cui il patrimonio comune agli dèi e agli uomini, coraggio, amore, passione, si muta in qualità propriamente umane, costanza, dolcezza, devozione, sulle quali il nostro potere non ha presa. È la sola donna che tollererei vestita, velata; la cui assenza è uguale esattamente alla presenza e le cui occupa­zioni mi sembrano tanto attraenti quanto i diporti. Far colazione di fronte a lei, tenderle il sale, il miele, le spezie delle quali si alimenta il suo sangue, urtare la sua mano. Sia pure col suo cucchiaio o col suo piatto... Ecco a ciò che penso ora. In una parola, l'amo, e posso ben dirtelo Mercurio, suo figlio sarà il mio preferito.

Mercurio                       - L'universo già lo sa.

Giove                            - L'universo! Credo che nessuno sappia ancora niente di questa avventura.

Mercurio                       - Chiunque in questo mondo è dotato d'orecchi sa che oggi Giove onora Alcmena della sua visita, chiunque possiede una lingua è occupato a ripeterlo. Ho annunziato tutto al levar del sole.

Giove                            - Mi hai tradito! Povera Alcmena!

Mercurio                       - Ho agito come per le vostre altre amanti e questo sarebbe il primo dei vostri amori a restar segreto. Voi non avete il diritto di nascondere nessuna delle vostre umane generosità.

Giove                            - Che hai annunziato? Che ieri sera ho preso la forma di Anfitrione?

Mercurio                       - Questo no. Questo stratagemma poco divino potrebbe essere interpretato male. Ma siccome il vostro desiderio di passare una seconda notte fra le braccia di Alcmena trapassa perfino i muri, ho annunziato che stasera ella avrebbe rice­vuto la visita di Giove.

Giove                            - E a chi l'hai annunziato?

Mercurio                       - All'aria, da prima, all'acqua, come è mio dovere. Ascoltate: le onde secche o umide non parlano che di questo, nel loro linguaggio.

Giove                            - È tutto?

Mercurio                       - E a una vecchia che passava sotto il palazzo.

Giove                            - La portinaia sorda? Siamo perduti.

Mercurio                       - Perché cotesto parole umane, Giove? Parlate come un amante. Alcmena esige forse il silenzio fino al momento in cui la rapirete alla terra?

Giove                            - È la mia disgrazia. Alcmena non sa niente. Cento volte durante la notte ho cercato di farle capire chi ero. Cento volte, con una frase umile o gentile, ella ha trasformato la verità divina in verità umana.

Mercurio                       - Non ha avuto sospetti?

Giove                            - Mai e non sopporto l'idea che possa averne... Che sono questi rumori?

Mercurio                       - La sorda ha eseguito il suo mandato. È Tebe che si prepara a festeggiare la vostra unione con Alcmena. Si sta organizzando una processione e sembra che salga al palazzo...

Giove                            - Che non vi giunga! Falla deviare verso il mare, che l'inghiottirà.

Mercurio                       - Impossibile, sono i vostri preti.

Giove                            - Non avranno mai migliore occasione di credere in me.

Mercurio                       - Nulla potete contro le leggi che voi stesso avete prescritte. Tutto l'universo sa che Giove darà un figlio ad Alcmena. Non è male che anche Alcmena ne sia informata.

Giove                            - Alcmena non lo sopporterà.

Mercurio                       - Che Alcmena ne soffra, dunque. La causa lo merita.

Giove                            - Ella non soffrirà. Su questo non ho dubbi: si ucciderà. E mio figlio Ercole morrà nel medesimo colpo... Ed io sarò costretto, come per te, ad aprirmi la coscia o il grasso del polpaccio e darvi asilo per qualche mese a un feto. Grazie tante. La processione sale?

Mercurio                       - Lentamente, ma sicuramente.

Giove                            - Mercurio, per la prima volta ho l'impres­sione che un dio onesto può essere un uomo diso­nesto... Che sono questi canti?

Mercurio                       - Sono le vergini esaltate dalla no­tizia, che vengono in corteo a felicitare Alcmena.

Giove                            - Perché non credi necessario affogare quei preti e colpire quelle vergini d'insolazione mattutina?

Mercurio                       - Ma infine cosa desiderate?

Giove                            - Ahimè! Ciò che desidera un uomo. Mille desideri contrari. Che Alcmena resti fedele al marito e che si dia a me con trasporto. Che sia casta alle mie carezze e che desideri proibiti l'ardano al solo vedermi... Che ignori tutto e che l'approvi pienamente.

Mercurio                       - Mi ci perdo... Io ho fatto il mio dovere. L'universo sa, com'è prescritto, che vi cori­cherete stasera nel letto di Alcmena... Posso fare qualche altra cosa per voi?

Giove                            - Sì. Che io mi ci corichi davvero.

Mercurio                       - E con quel noto consenso di cui parlavate ieri?

Giove                            - Sì, Mercurio. Non si tratta più di Ercole. La faccenda è felicemente chiusa. Si tratta di me. Bisogna che tu veda Alcmena, che la prepari alla mia visita, che le dipinga il mio amore... Apparile... Col tuo solo fluido di dio secondario, riscalda a mio profitto la sua umanità. Ti permetto di avvicinarla, di toccarla. Turba dapprima i suoi nervi, poi il suo sangue, poi il suo orgoglio. Ti avverto: non lascio questa città prima che ella non si sia giaciuta di buon grado in onor mio. E sono stanco di questa umiliante livrea. Verrò con la mia faccia.

Mercurio                       - Finalmente, Giove. Se rinunziato all'incognito vi prometto che, fra qualche minuto, l'avrò convinta ad attendevi al tramonto. A pro­posito, eccola. Lasciatemi.

Alcmena                        - (di dentro) Oh, oh, caro!

L'Eco                            - Caro.

Giove                            - Chiama?

Mercurio                       - Parla di Anfitrione alla sua eco. E voi dite che non è civetta. Ella parla continuamente all'eco: ha uno specchio anche per le parole. Venite, Giove, ella si avvicina.

Giove                            - Salute, dimora casta e pura, così casta e così pura!... Che hai da sorridere? Hai già udito questa frase?

Mercurio                       - In anticipo, sì. L'ho udita in anti­cipo. Me la gridano i secoli futuri. Andiamo, eccola. (Alcmena ed Eclissa, la nutrice, entrano dai lati opposti della camera. Giove e Mercurio escono dalla terrazza).

Alcmena                        - Sembri molto agitata, Eclissa.

Eclissa                           - Porto la verbena, padrona, il suo fiore preferito.

Alcmena                        - Preferito da chi? Io preferisco le rose.

Eclisse                           - Osereste oggi adornare di rose questa camera?

Alcmena                        - E perché no?

Eclissa                           - Mi hanno sempre detto che Giove detesta le rose. Ma forse dopo tutto avete ragione di trattare gli dèi come semplici uomini. Così si allenano. Preparo il gran velo rosso?

Alcmena                        - Il gran velo? No di certo. Il velo di lino.

Eclissa                           - Come siete abile, padrona. Come avete ragione di dare al palazzo l'aspetto dell'intimità anziché lo splendore della festa. Ho preparato i dolci e versato l'ambra nel bagno.

Alcmena                        - Hai fatto bene. È il profumo preferito da mio marito.

Eclissa                           - Infatti anche vostro marito sarà molto orgoglioso e felice.

Alcmena                        - Che intendi dire, Eclissa?

Eclissa                           - 0 padrona cara, ecco il vostro nome celebre nei secoli e forse anche il mio, poiché sono stata la tua balia. Latte mio è il colore della tua pelle.

Alcmena                        - Sono accadute cose buone ad Anfitrione?

Eclissa                           - Gli accadrà ciò che un principe può sognare di più lieto per la sua gloria e il suo amore.

Alcmena                        - La vittoria?

Eclissa                           - Vittoria, certo. E sul più grande degli dèi. Udite?

Alcmena                        - Che significano quella musica e quelle grida?

Eclissa                           - Significano, cara padrona, che tutta Tebe sa la notizia. Tutti si rallegrano, tutti si feli­citano di sapere che, grazie a voi, la nostra città è fra tutte la favorita.

Alcmena                        - Grazie al tuo padrone.

Eclissa                           - Anche a lui, certamente.

Alcmena                        - A lui solo.

Eclissa                           - No, padrona, a voi. Tutta la Grecia già risuona della vostra gloria. Da stamane la voce dei galli s'è alzata di tono, dicono i preti. Leda, la regina di Sparta, che Giove amò sotto la forma di un cigno, di passaggio da Tebe, chiede di farvi visita. I suoi consigli possono esservi utili. Devo dirle di salire?

Alcmena                        - Certo...

Eclissa                           - Ah, padrona, bastava vederti tutti i giorni in bagno, come t'ho vista io, per pensare che gli dei avrebbero reclamato un giorno il loro credito.

Alcmena                        - Non ti capisco. Anfitrione è dio?

Eclissa                           - No, ma suo figlio sarà semidio. (Acclamazioni, musica) Sono le vergini. Hanno lasciato indietro i preti nella salita, salvo quella ciabatta d'Alessia, naturalmente, che essi trattengono. Non mostratevi, padrona, è più degno... Gli parlo? Se la principessa è qui, ragazze mie? Sì, sì, è qui. (Alcmena passeggia un po' nervosa) È languidamente distesa sul letto. I suoi sguardi distratti accarezzano una enorme sfera d'oro che all'improvviso pende dal soffitto. Con la mano destra porta al volto un mazzetto di verbena. Con la sinistra porge da beccare dei diamanti a un'aquila gigantesca che è entrata dalla finestra.

Alcmena                        - Basta con questi scherzi, Eclissa. Si può festeggiare una vittoria senza mascherate.

Eclissa                           - Il suo abito, volete sapere com'è il suo abito? No, non è nuda. Ha una tunica di stoffa sconosciuta che si chiama seta, ricamata di rosso. La cintura? Perché non dovrebbe avere la cintura? Che sono quelle risate, laggiù; sì tu, Alessia, che ti ci ricolga. La cintura è di platino e di marcassiti verdi. Se gli prepara un pranzo?... Il suo profumo?

Alcmena                        - Hai finito, Eclissa?

Eclissa                           - Vorrebbero sapere che profumo porti. (Gesto minaccioso di Alcmena).È un segreto, ragazze, ma stasera Tebe ne sarà inondata. Che non diventi una stella che splende ogni sei mesi? Sì, la metterò in guardia. E come avverrà la cosa? Sì, ve lo prometto, vergini, non vi nasconderò nulla. Addio... Se ne vanno, Alcmena. Mostrano le loro splendide spalle e si voltano per sorridere. Come è illuminata, una spalla, da un sorriso! Graziose fanciulle.

Alcmena                        - Non ti ho mai visto così folle.

Eclissa                           - Sì, sì, padrona, folle e folleggiante. Sotto che forma verrà? Dal cielo, dalla terra, dall'acqua? In forma di dio, di animale, di uomo? Non oso più scacciare gli uccelli. Forse in questo momento egli è uno di loro. Non oso resistere al docile capriolo che mi ha inseguito a cornate. La graziosa bestiolina è nell'anticamera che mugola e scalpita. Dovrò aprirle? Ma chi sa. Porse egli è il vento che agita le tende. Avrei dovuto mettere la tenda rossa. Porse è quello che sfiora, in questo momento, le spalle della tua vecchia balia. Tremo, una corrente mi agita. Sono nella scia di un immortale. Padrona, è in questo che Giove oggi è stato più abile: ciascuno dei suoi esseri, dei suoi movimenti può essere preso per un dio. Oh, guarda che entra dalla finestra.

Alcmena                        - Non vedi che è un'ape? Scacciala.

Eclissa                           - No, davvero. È lei. È lui, voglio dire, lui in lei, in una parola. Non rimovetevi, padrona, ve ne supplico. Salute ape divina! Indoviniamo chi sei.

Alcmena                        - Si avvicina a me, aiuto!

Eclissa                           - Come sei bella ora. Giove ha ragione di farti danzare con quel passo tra timoroso e scher­zoso. Niente mette più in risalto il tuo candore e le tue grazie. Certo ti pungerà.

Alcmena                        - Ma io non voglio essere punta.

Eclissa                           - 0 amatissima pinzatura. Lasciati pun­gere, padrona. Lascia che ti si posi sulla gota. Oh, è lui certamente: cerca il tuo seno! (Alcmena colpisce e schiaccia l'ape. La spinge col piede) Cielo! Che hai tu fatto? Come, nessuna folgore, nessun lampo? Infame insetto, che ci fai di queste paure.

Alcmena                        - Mi vuoi spiegare il tuo contegno, Eclissa?

Eclissa                           - Prima, padrona, volete ricevere le depu­tazioni che salgono a rallegrarsi?

Alcmena                        - Anfitrione le riceverà domani insieme a me.

Eclissa                           - Evidentemente, è più naturale... Ritorno padrona. Vado a cercare Leda. (Esce. Entra Mercurio).

Alcmena                        - (fa qualche passo per la camera, un po' inquieta. Quando si volge si trova di faccia a Mercurio).

Mercurio                       - Salute, principessa.

Alcmena                        - Siete forse un dio per essere giunto così, con audacia insieme a discrezione?

Mercurio                       - Un dio malfamato, ma un dio.

Alcmena                        - Mercurio, a giudicare dalla vostra faccia.

Meecueio                      - Grazie. Gli altri uomini mi ricono­scono dai piedi, dalle ali dei piedi. Voi siete più abile o più atta alla lode.

Alcmena                        - Sono felicissima di vedere un dio.

Meecueio                      - Se volete toccarlo, vi autorizzo. Dalle vostre mani,io,riconosco che ne avete il diritto..(Alcmena accarezza dolcemente le braccia nude di Mercurio, tocca il suo viso) Vedo che gli dèi vi in­teressano.

Alcmena                        - Tutta la mia giovinezza è trascorsa ad immaginarli, a far loro segno. Finalmente ne è venuto uno! Accarezzo il cielo!... Amo gli dèi.

Mercurio                       - Tutti? Sono compreso anch'io in cotesto affetto?

Alcmena                        - La terra si ama partitamente, il cielo in blocco... Voi del resto, Mercurio, avete un così bel nome. Dicono anche che siete il solo dio dell'eloquenza... L'ho capito subito, fin dalla vostra apparizione.

Mercurio                       - Dal mio silenzio? Anche il vostro viso è una bella parola. E fra gli dèi non avete un preferito?

Alcmena                        - Naturalmente, già che ho un prefe­rito tra gli uomini.

Mercurio                       - Quale?

Alcmena                        - Devo dire il suo nome?

Mercurio                       - Volete che enumeri gli dèi secondo la lista ufficiale e voi mi fermerete?

Alcmena                        - Vi fermo, è il primo.

Mercurio                       - Giove?

Alcmena                        - Giove.

Mercurio                       - Mi stupite. Il suo titolo di dio degli dèi vi influenza fino a questo punto? Quella specie di supremo ozio, quella funzione di direttore senza specialità del cantiere divino non vi allontana invece da lui?

Alcmena                        - Egli ha la specialità della divinità. È qualche cosa.

Mercurio                       - Non capisce nulla di eloquenza, di orificeria, di musica da cielo e da camera. Non ha alcun talento.

Alcmena                        - È bello, malinconico e sugli augusti suoi lineamenti non ha nessuna di quelle smorfie che deturpano i lineamenti degli dèi, fabbri o poeti.

Mercurio                       - È bello, infatti, e donnaiolo.

Alcmena                        - Non siete leale parlando così di lui. Credete che non comprenda il senso di quelle passioni improvvise che precipitano Giove nelle braccia di una mortale? Sono pratica di innesti, con mio marito che, come forse saprete lassù, ha trovato l'innesto delle ciliegie. A scuola per giunta ci fanno dire che l'incrocio con la bellezza, e anche con la purezza, non può avvenire se non attraverso quelle visite e su donne onoratissime di sì alta missione. Vi dispiac­cio, dicendo questo?

Mercurio                       - Mi incantate. Allora la sorte di Leda, di Danae, di tutte quelle che Giove ha amato o amerà, vi sembra una sorte felice?

Alcmena                        - Infinitamente felice.

Mercurio                       - Invidiabile?

Alcmena                        - Invidiabilissima.

Mercurio                       - In breve voi le invidiate.

Alcmena                        - Se le invidio? Perché questa domanda?

Mercurio                       - Non lo indovinate? Non indovinate perché vengo qui e ciò che devo annunziarvi come messaggero del mio padrone?

Alcmena                        - Continuate.

Mercurio                       - Che vi ama... Che Giove vi ama.

Alcmena                        - Giove mi conosce? Giove si degna di sapere della mia esistenza? Son fortunata fra tutte.

Mercurio                       - Da parecchi giorni vi vede, non perde nessuno dei vostri gesti; voi siete iscritta nel suo raggiante sguardo

Alcmena                        - Da parecchi giorni?

Mercurio                       - E da parecchie notti. Impallidite.

Alcmena                        - È vero, dovrei arrossire... Scusatemi, Mercurio. Ma sono disperata pensando che non sempre fui degna di quello sguardo. Perché non mi avete avvertita?

Mercurio                       - E che devo dirgli?

Alcmena                        - Ditegli che d'ora innanzi sarò degna di questo favore. Un altare d'argento fu già innal­zato per lui nel palazzo. Quando Anfitrione ritor­nerà, innalzeremo un altare d'oro.

Mercurio                       - Ma lui non chiede un altare.

Alcmena                        - Tutto qui gli appartiene. Che si degni di scegliere un oggetto fra i miei preferiti.

Mercurio                       - L'ha scelto e stasera, al tramonto, verrà lui stesso a chiederlo.

Alcmena                        - Quale?

Mercurio                       - Il vostro letto. (Alcmena non mostra una smisurata meraviglia) Preparatevi. Ho già dato i miei ordini alla notte. Le basterà appena tutta la giornata per raccogliere le luci e i suoni di una notte di nozze celesti. Più che una notte sarà un anticipo sulla vostra futura immortalità. Sono felice di inter­calare un frammento d'eternità tra i vostri perituri momenti. È il mio regalo di fidanzamento. Sorridete?

Alcmena                        - Si sorriderebbe per molto meno.

Mercurio                       - E perché quel sorriso?

Alcmena                        - Semplicemente perché c'è un errore di persona, Mercurio. Io sono Alcmena e Anfitrione è mio marito.

Mercurio                       - I mariti son al di fuori delle fatali leggi del mondo.

Alcmena                        - Sono la più semplice delle Tebane. Riuscivo male a scuola e del resto ho tutto dimenticato. Mi dicono poco intelligente.

Mercurio                       - Non sono di queste parere.

Alcmena                        - Vi faccio osservare che in questo momento non si tratta di voi ma di Giove. Ora, di ricevere Giove io non son degna. Egli non mi ha vista che illuminata dal suo raggio. La mia luce è infinitamente più debole.

Mercurio                       - Dal cielo si vede il vostro corpo rischiarare la notte greca.

Alcmena                        - Sì, ho delle polveri, degli unguenti. Con i depilatori e le lime, fanno ancora il loro effetto. Ma non so né scrivere né pensare.

Mercurio                       - Sento che parlate abbastanza bene. Del resto i poeti della posterità si incaricheranno della vostra conversazione di questa notte.

Alcmena                        - Possono anche incaricarsi del resto.

Mercurio                       - Perché questo linguaggio che rim­piccolisce tutto quanto tocca? Credete di sfuggire agli dèi sopprimendo ciò che in voi è di nobile e bello? Non vi rendete conto dell'importanza della vostra parte?

Alcmena                        - Mi sgolo a dirvelo. Quella parte non mi conviene. Vivo in tutto ciò che c'è di più terrestre come atmosfera e nessuna divinità potrebbe sop­portarla a lungo.

Mercurio                       - Non pensate che si tratti di un legame, si tratta di qualche ora.

Alcmena                        - Di questo non ne sapete nulla, voi. La costanza di Giove, come l'immagino io, mi mera-viglierebbe poco. Mi stupisce il suo interesse.

Mercurio                       - Il vostro corpo la vince sugli altri.

Alcmena                        - Il mio corpo, ammettiamolo. Sa che l'estate divento spaventosamente nera?

Mercurio                       - Le vostre mani adornano i fiori, nei vostri giardini.

Alcmena                        - Le mie mani sono belle, sì. Ma non si hanno che due mani. E io ho un dente di più.

Mercurio                       - La vostra andatura è piena di promesse.

Alcmena                        - Questo, al contrario, non vuol dire niente. In amore sono poco sviluppata.

Mercurio                       - Inutile mentire. Giove vi ha osser­vato anche in quella parte.

Alcmena                        - Si può fingere...

Mercurio                       - Bando alle parole e alla civetteria... Che vedo, Alcmena, delle lacrime nei vostri occhi1! "Voi piangete nell'ora in cui una pioggia di gioia sta per cadere, in onor vostro, sull'umanità? Giove ha deciso. Sa che siete buona e che preferite quella pioggia a una pioggia d'oro. Un'annata di gioia comincia da stasera per Tebe. Niente più epidemie, carestie, guerre.

Alcmena                        - Ci mancherebbe altro!

Mercurio                       - E i bambini della vostra città che la morte deve portare via questa settimana, sono otto, se volete saperlo, quattro maschi e quattro femmine, fra cui la piccola Carissa. Saranno salvati dalla vostra nottata.

Alcmena                        - Carissa. Questo si chiama ricatto.

Mercurio                       - La salute e la felicità sono il solo ricatto degli dèi... Udite? Quei canti, quelle musiche, quell'entusiasmo sono indirizzati a voi. Tutta Tebe sa che riceverete Giove stasera e s'adorna e s'allieta per voi. I malati, i poveri, tutti coloro che vi dovranno la vita e la felicità. Giove li guarirà e li beneficherà al suo passaggio, al calar del sole. Siete avvisata. Addio, Alcmena.

Alcmena                        - Ah, era questa la vittoria. Ve ne andate, Mercurio?

Mercurio                       - Me ne vado ad avvertire Giove che l'attendete.

Alcmena                        - Mentirete. Non posso attenderlo.

Mercurio                       - Che dite?

Alcmena                        - Non l'attenderò. Ve ne supplico, Mercurio; distraete da me il favore di Giove.

Mercurio                       -  Non vi capisco.

Alcmena                        - Non posso essere l'amante di Giove.

Mercurio                       - Perché?

Alcmena                        - Mi disprezzerebbe, dopo.

Mercurio                       - Non fate l'ingenua.

Alcmena                        - Sono empia. Bestemmio durante l'amore.

Mercurio                       - Mentite... È tutto?

Alcmena                        - Sono stanca, malata.

Mercurio                       - Non è vero. Non crediate di difen­dervi contro un dio con le armi che tengono lontani gli uomini.

Alcmena                        - Amo un uomo.

Mercurio                       - Quale?

Alcmena                        - Mio marito. (Mercurio che era chino lei si raddrizza).

Mercurio                       - Ah, amate vostro marito?!

Alcmena                        - L'amo.

Mercurio                       - Ma noi ci contiamo. Lui, Giove, non è un uomo; non sceglie le proprie amanti fra le donne infedeli. Del resto non mostratevi più inge­nua di quanto siete. Conosciamo i vostri sogni.

Alcmena                        - I miei sogni?

Mercurio                       - Sappiamo che sognate. Le donne fedeli qualche volta sognano di non essere fra le braccia dei loro mariti.

Alcmena                        - Esse non sono fra le braccia di nessuno.

Mercurio                       - Accade a quelle spose oneste di chiamare il loro marito Giove. Vi abbiamo udito.

Alcmena                        - Mio marito può essere per me Giove. Giove non può essere mio marito.

Mercurio                       - Siete veramente quel che si dice uno spirito ostinato. Non obbligatemi a parlarvi cru­damente e a mostrarvi il fondo di ciò che reputate il vostro candore. Vi trovo semplicemente cinica.

Alcmena                        - Se fossi sorpresa nuda, dovrei di­battermi col mio corpo e le mie gambe nude. Non mi lasciate la scelta delle parole.

Mercurio                       - Allora parlerò senza reticenze: Giove non chiede di entrare nel vostro letto come uomo.

Alcmena                        - Avrete potuto vedere che non vi accolgo nemmeno le donne.

Mercurio                       - Abbiamo potuto vedere che certi spettacoli della natura, che certi profumi, che certe forme vi eccitano delicatamente nell'anima e nel corpo e che spesso, anche al braccio di Anfitrione, nasce in voi, di fronte alle cose e agli esseri, una tumultuosa apprensione. A voi piace nuotare. Giove può diventare l'acqua che vi investe. 0 se credete di accentuare meno la vostra, infedeltà, ricevendo da una pianta, da un animale i favori del padrone degli dèi, ditelo ed egli vi esaudirà... Qual'è il felino che preferite?

Alcmena                        - Mercurio, lasciatemi.

Mercurio                       - Ancora una parola e me ne vado. Un bambino deve nascere dall'incontro di stasera, Alcmena.

Alcmena                        - Avrà anche un nome, indubbiamente.

Mercurio                       - Ha un nome, Ercole.

Alcmena                        - Povera bambina, non nascerà.

Mercurio                       - È un bambino e nascerà. Ercole dovrà distruggere e dissolvere tutti quei mostri che desolano la terra, tutti quei frammenti di « caos » che ingombrano il lavoro della creazione.

Alcmena                        - E che avverrà, se mi rifiuto?

Mercurio                       - Ercole deve nascere.

Alcmena                        - Se mi uccido?

Mercurio                       - Giove vi ridarà la vita, quel figlio deve nascere.

Alcmena                        - Un figlio adulterino, mai. Quel figlio morrà.

Mercurio                       - La pazienza degli dèi ha un limite, Alcmena. Voi disprezzate la cortesia. Tanto peggio per voi. Dopotutto, non sappiamo che farcene del vostro consenso. Sappiate dunque che ieri... (Eclissa entra bruscamente).

Eclissa                           - Padrona...

Alcmena                        - Che c'è?

Mercurio                       - Anfitrione, senza dubbio.

Eclissa                           - No, signore. La regina Leda è arrivata al palazzo. Devo rimandarla via?

Alcmena                        - Leda?... No! Che resti.

Mercurio                       - Ricevetela, Alcmena, ella potrà darvi utili consigli. Quanto a me, vado a render conto del nostro colloquio a Giove.

Alcmena                        - Gli direte la mia risposta.

Mercurio                       - Ci tenete a vedere la vostra città assalita dalla peste, dall'incendio? A vedere vostro marito vinto e sconfortato? Gli dirò che l'attendete.

Alcmena                        - Direte una menzogna.

Mercurio                       - Con le menzogne del mattino le donne fanno la verità della sera. A stasera, Alcmena. (Sparisce).

Alcmena                        - Eclissa, com'è?

Eclissa                           - Il suo abito? D'argento con guarnizioni di cigno, ma discretissimo.

Alcmena                        - Parlo del suo viso... Duro, orgoglioso?

Eclissa                           - Nobile e sereno.

Alcmena                        - Allora, vai, corri, che venga qui subito. Mi è venuta un'idea, un'idea meravigliosa. Leda può salvarmi. (Eclissa esce).

Leda                              - (entrando) Una visita indiscreta, Alcmena?

Alcmena                        - Desideratissima, al contrario, Leda.

Leda                              - Questa è la futura camera storica?

Alcmena                        - È la mia camera.

Leda                              - Il mare e la montagna, fate le cose per benino voi.

Alcmena                        - E il cielo, sopratutto...

Leda                              - Il cielo è forse più indifferente... È per stasera?

Alcmena                        - Dicono che sia per questa sera.

Leda                              - Come è avvenuto? Facevate grandi pre­ghiere tutti i giorni per manifestare il vostro colore, la vostra nostalgia?

Alcmena                        - No, le facevo per dire la mia soddi­sfazione, la mia felicità.

Leda                              - È sempre il miglior modo di chiamare aiuto... l'avete visto?

Alcmena                        - No... Vi manda lui?

Leda                              - Passavo per Tebe, ho saputo la notizia, sono venuta da voi.

Alcmena                        - Non vi ha forse spinto il desiderio di rivederlo?

Leda                              - Non l'ho mai visto!... Sapete i parti­colari dell'avventura?

Alcmena                        - Leda, è vero quel che la leggenda racconta: era un cigno, vero?

Leda                              - Ah, vi interessa? Fino a un certo punto; una specie di nuvola uccello, di raffica di cigno.

Alcmena                        - Vera piuma.

Leda                              - Francamente, Alcmena, avrei caro che non riprendesse quella forma con voi. Non ho da essere gelosa, ma lasciatemi questa particolarità Ci sono tanti altri uccelli e anche molto più rari.

Alcmena                        - Ben pochi altrettanto nobili dei cigni e contegnosi.

Leda                              - Evidentemente.

Alcmena                        - A me non pare che siano più stupidi dell'oca o dell'aquila. Almeno cantano, loro.

Leda                              - Infatti, cantano.

Alcmena                        - Nessuno li ode, ma cantano. Lui cantava? Parlava?

Leda                              - Un cinguettìo articolato, il cui senso sfuggiva ma la cui sintassi era così pura che si indo­vinava i verbi e i relativi degli uccelli.

Alcmena                        - È esatto che le articolazioni delle sue ali crepitavano armoniosamente?

Leda                              - Esattissimo, come nelle cicale, ma con un suono metallico. Ho toccato con le dita quel germoglio d'ali: un'arpa di piume!

Alcmena                        - Foste avvertita della sua scelta?

Leda                              - Era estate. Fin dal solstizio, grandi cigni navigavano altissimi fra gli astri. Ero sotto il segno del cigno, come dice scherzosamente mio marito.

Alcmena                        - Vostro marito scherza su queste cose?

Leda                              - Mio marito non crede agli dèi. Nella mia avventura non può dunque vedere che una fantasia o il pretesto per un gioco di parole. È un vantaggio.

Alcmena                        - Foste presa alla sprovvista?

Leda                              - Assalita, dolcemente assalita. Carezzata all'improvviso da una altra cosa che non quei ser­penti prigionieri che sono le dita, quelle ali mutilate che sono le braccia. Presa in un moto che non era quello della terra, ma quello degli astri: in un don­dolio eterno. Breve: un bel viaggio. Del resto fra poco sarete informata meglio di me.

Alcmena                        - E come vi ha lasciata?

Leda                              - Ero distesa. È salito dritto al mio zenith. Per qualche secondo m'aveva dato una presbiteria sovrumana che mi permise di seguirlo, fino allo zenith dello zenith. Poi lo persi di vista.

Alcmena                        - E dopo, più niente di lui?

Leda                              - Vi dico, i suoi favori, la cortesia dei suoi sacerdoti. Qualche volta l'ombra di un cigno che si posa su di me nel bagno e che nessun sapone riesce a mandar via... I rami di un pero che s'inchinano al mio passaggio. Del resto non avrei tollerato un legame, con un dio. Una seconda visita sì, forse. Ma su questo punto egli ha trascurato l'etichetta.

Alcmena                        - Ci si potrebbe riporre rimedio. E da allora siete felice?

Leda                              - Felice, purtroppo no. Ma almeno basta. Vedrete che questa sorpresa darà a tutto il vostro essere, e per sempre, una distensione di cui appro­fitterà l'intera vostra vita.

Alcmena                        - La mia vita non è tesa. Del resto io non lo vedrò.

Leda                              - Lo sentirete. Sentirete gli abbracci con vostro marito sciolti da quella dolorosa incoscienza, da quella fatalità, che leva loro il fascino di un gioco familiare...

Alcmetsta                      - Leda, voi che lo conoscete, credete si possa piegare Giove?

Leda                              - Lo conosco? Non l'ho visto che sotto forma di uccello.

Alcmena                        - Ma dai suoi atti di uccello qual'è secondo voi il suo carattere di dio?

Leda                              - Molta logica nelle idee e poca conoscenza delle donne. Ma è docile al più piccolo consiglio e riconoscente per ogni aiuto... Perché me lo chiedete?

Alcmena                        - Ho deciso di rifiutare i favori di Giove. Vi supplico, volete salvarmi?

Leda                              - Salvarvi dalla gloria?

Alcmena                        - Prima di tutto io sono indegna di cotesta gloria. Voi siete la più bella delle regine ma anche la più intelligente. Chi altri che voi avrebbe capito la sintassi del canto degli uccelli? Non avete inventato anche la scrittura?

Leda                              - Cosa inutile con gli dèi. Essi non inven­teranno mai la lettura.

Alcmena                        - Voi conoscete l'astronomia. Sapete dov'è il vostro zenith, il vostro nadir. Io li confondo. Voi siete già situata nell'universo come un astro. La scienza dà al corpo femminile una leggerezza e una densità che sbalestra uomini e dèi. Basta ve­dervi comprendere che siete non tanto una donna quanto una di quelle statue viventi la cui progenitura di marmo un giorno ornerà tutti i più bei luoghi del mondo.

Leda                              - Voi non siete com'essa dicono, che beltà e giovinezza. A che rima il vostro discorso, piccola cara?

Alcmena                        - Mi ucciderò piuttosto che subire l'amore di Giove. Amo mio marito.

Leda                              - Appunto, non potrete più amare che lui, uscendo dal letto di Giove. Nessun uomo, nessun dio oserà toccarvi.

Alcmena                        - Sarò condannata ad amare mio marito. Il mio amore non sarà più frutto di una libera scelta. Non me lo perdonerà mai.

Leda                              - Porse incomincerete a tradirlo più tardi: tanto vale cominciare con un dio.

Alcmena                        - Salvatemi, Leda. Vendicatevi di Giove, che vi ha abbracciata una volta sola e ha creduto di consolarvi con le riverenze di un pero.

Leda                              - Come vendicarsi di un povero cigno bianco?

Alcmena                        - Con un cigno nero. Vi spiegherò: prendete il mio posto.

Leda                              - Il vostro posto?

Alcmena                        - (indica a sinistra) Quella porta dà su una camera buia ove tutto è pronto per il riposo. Mettetevi i miei veli, datevi il mio profumo. Giove si sbaglierà a suo vantaggio. Fra amiche non si rendono di questi servigi?

Leda                              - Senza dirlo, sì, spesso... Simpatica donna.

Alcmena                        - Perché sorridete?

Leda                              - Dopo tutto, Alcmena, forse devo ascol­tarvi. Più vi sento, più vi vedo, e più penso che a tante umane venustà la visita del destino potrebbe essere fatale. E più ho scrupolo a trascinarvi di forza in quell'assemblea che riunisce laggiù, su quell'altro promontorio, nelle feste dell'anno solare, le donne che Giove amò.

Alcmena                        - La famosa assemblea ove avvengono orge divine?

Leda                              - Orge divine? È una calunnia. Tutt'al più orge di idee generali, cara piccola. Lassù siamo assolutamente tra noi.

Alcmena                        - Ma allora che ci fate? Non posso saperlo ?

Leda                              - Porse mi capirete difficilmente, cara amica. Il linguaggio astratto, per fortuna, non deve essere il vostro forte. Siete capace di capire la parola archetipo, la parola idea forza, la parola ombelico.

Alcmena                        - Capisco ombelico. Credo significhi bellico.

Leda                              - Mi capireste se vi raccontassi che distese sulla roccia o sulla magra erbetta punteggiata di narcisi, illuminate dal fascio dei concetti primari, noi rappresentiamo tutta la giornata una specie di divina mostra delle super bellezze e che, invece di concepire, quella volta sentiamo gli slanci del cosmo modellarsi su di noi e i possibili del mondo prenderci per nocciolo o per matrice? Capireste?

 Alcmena                       - Capisco che è un'assemblea estremamente seria.

Leda                              - Specialissima in ogni caso. E dove la metà delle vostre attrattive, splendida Alcmena, non avrebbe scopo. Voi così viva, così allegra, così I volontariamente effimera, credo che abbiate ragione. Voi siete nata per essere non una delle idee madri ma la più graziosa idea figlia dell'umanità.

Alcmena                        - Oh, grazie. Leda. Mi salverete? Piace s salvare l'effimero.

Leda                              - Vi salverò, cara Alcmena. È inteso. Ma vorrei sapere a che prezzo.

Alcmena                        - A che prezzo?

Leda                              - Sotto quale forma Giove deve venire?  Bisognerebbe almeno che venisse sotto un aspetto i a me gradito.

Alcmena                        - Ah, questo lo ignoro.

Leda                              - Potreste saperlo. Egli rivestirà la forma che turba i vostri desideri e i vostri sogni.

Alcmena                        - Non la vedo.

Leda                              - Spero che non vi piacciano i serpenti. A me fanno terrore. In questo caso non potreste  contare su me... Tranne che fosse un bel serpente,  coperto di anelli...

Alcmena                        - Nessun animale, nessun vegetale, mi turba.

Leda                              - Escludo anche i minerali. Infine, Alcmena,  non avete un punto debole?

Alcmena                        - Non ho punti deboli. Amo mio marito.

Leda                              - Ma ecco il punto debole. Non c'è da dubitarne. Sarete vinta con questo mezzo. Non avete  amato mai altri che vostro marito?

Alcmena                        - Sono a questo punto.

Leda                              - Ma come non ci abbiamo pensato! Il sotterfugio di Giove sarà il più semplice dei sotterfugi. Egli ama in voi, lo sento da che vi conosco, sopratutto la vostra umanità; con voi è interessante conoscervi come donna, nelle nostre abitudini intime   e nelle nostre gioie, Ora per arrivare a questo non I c'è che un artificio: prendere la forma di vostro marito, Non abbiate più dubbi: il vostro cigno sarà un Anfitrione. Giove aspetterà la prima assenza di vostro marito per penetrare in casa vostra e ingannarvi.

Alcmena                        - Mi spaventate. Anfitrione è assente.

Leda                              - Assente da Tebe?

Alcmena                        - È partito ieri sera per la guerra.

Leda                              - Quando tornerà? Un esercito non può decentemente fare una guerra che duri meno di due giorni.

Alcmena                        - Lo temo.

Leda                              - Da qui a stasera, Alcmena, Giove forzerà queste porte sotto il sembiante di vostro marito e voi vi darete a lui senza sospetto.

Alcmena                        - Lo riconoscerei.

Leda                              - Per una volta tanto un uomo sarà una opera divina.

Alcmena                        - Precisamente. Sarà un Anfitrione più perfetto, più intelligente, più nobile. Lo odierò a prima vista.

Leda                              - Era un cigno immenso, e non l'ho distinto dal piccolo cigno del fiume. (Entra Eclissa).

Eclissa                           - Una nuova, padrona. Una nuova imprevista.

Leda                              - Anfitrione è qui.

Eclissa                           - Come lo sapete! Sì, il principe sarà tra un minuto a palazzo. Dalla terrazza l'ho visto saltare i fossati col suo cavallo.

Alcmena                        - Nessun cavaliere mai è riuscito a saltarli.

Eclissa                           - Gli è bastato un salto.

Leda                              - È solo?

Eclissa                           - Solo, ma si indovina intorno a lui uno squadrone invisibile. È raggiante. Non ha quello aspetto affaticato col quale di solito torna dalla guerra. Il giovane sole ne è impallidito. È un blocco di luce come un'ombra d'uomo. Che devo fare, padrona? Giove è intorno a noi e il mio signore si espone alla collera degli dèi. Mi pare di aver sentito un rumore di tuono al momento che entrava nel cammina­mento di ronda...

Alcmena                        - Vai, Eclissa. (Eclissa esce).

Leda                              - Siete convinta, ora? Ecco Giove. Ecco il falso Anfitrione.

Alcmena                        - Ebbene, troverà qui la falsa Alcmena. Di tutta questa futura tragedia di dèi, cara Leda, facciamo, ve ne scongiuro un piccolo divertimento per donne. Vendichiamoci.

Leda                              - Com'è vostro marito? Avete il suo ri­tratto?

Alcmena                        - Eccolo.

Leda                              - Bell'uomo. Ha gli occhi che piacciono a me, nei quali la pupilla è appena accennata, come nelle statue. Avrei adorato le statue se sapessero parlare ed essere sensibili. È bruno? Spero che non si onduli i capelli.

Alcmena                        - Capelli lisci, Leda, ali di corvo.

Leda                              - Statura militare? Pelle rugosa?

Alcmena                        - Ma no! Molti muscoli, ma soffici!

Leda                              - Non ce l'avrete con me perché vi ho preso l'immagine del corpo amato?

Alcmena                        - Ve lo giuro.

Leda                              - Non mi serbate rancore perché vi prendo un dio che non amate?

Alcmena                        - Eccolo. Salvatemi.

Leda                              - La camera è là?

Alcmena                        - È là.

Leda                              - Non vi sono gradini da scendere in quel buio? Ho terrore dei passi falsi.

Alcmena                        - Un suolo liscio e piano.

Leda                              - Il muro del divano è rivestito di marmo?

Alcmena                        - Di spessi tappeti di lana. Non esi­terete all'ultimo momento...

Leda                              - Ve l'ho promesso. Sono coscienziosissima nell'amicizia. Eccolo. Divertitevi un po' con lui, prima di mandarmelo. Vendicatevi sul falso Anfi­trione dei dolori che un giorno vi darà il vero... (Esce dalla porta a sinistra).

La voce di uno Schiavo          - E i cavalli, signore, che devo farne? Sono sfiniti.

La voce di Anfitrione   - Me ne infischio dei cavalli. Bipartirò subito.

Alcmena                        - Si infischia dei suoi cavalli, non è Anfitrione. (Anfitrione si avanza verso di lei dalla terrazza).

Anfitrione                     - (entrando) Sono io.

Alcmena                        - E non un altro. Lo vedo.

 Anfitrione                    - Non mi abbracci, cara?

Alcmena                        - Un momento. Fa troppo chiaro qui. Fra poco, in quella camera.

Anfitrione                     - Subito. Il solo pensiero di questo momento mi ha lanciato verso di te come una freccia.

Alcmena                        - E fatto scalare le rocce e passare i fiumi e scavalcare il cielo. No, no, vieni piuttosto al sole, che ti guardi. Non hai paura di mostrare il viso a tua moglie? Sai che ella ne conosce le minime bellezze, i minimi difetti.

Anfitrione                     - Eccolo, cara, e bene imitato.

Alcmena                        - Bene imitato. Una donna abitudi­naria s'ingannerebbe, infatti. C'è tutto. Le rughe tristi che servono al sorriso, quel buffo incavo che serve alle lacrime per segnare l'età, quel posticcio, all'angolo delle tempie, di non so che uccello. Dell'aquila di Giove, forse?

Anfitrione                     - Di un'oca, cara, una zampa di oca. Abitualmente tu la baci.

Alcmena                        - Tutto questo è proprio mio marito. Gli manca soltanto la sgraffiatura che si fece ieri. Curioso marito, che torna dalla guerra con una ferita di meno.

Anfitrione                     - L'aria è ottima per le ferite.

Alcmena                        - L'aria delle battaglie. È noto. Vediamo gli occhi. Eh, caro Anfitrione, alla partenza avevi due grandi occhi gai e franchi. Donde ti viene quella gravità dell'occhio destro, donde ti viene nell'occhio sinistro quella luce ipocrita?

Anfitrione                     - Fra due sposi non bisogna guar­darsi troppo in faccia, se si vogliono evitare brutte scoperte... Vieni...

Alcmena                        - Un momento... Trascorrono nubi, in quello sguardo, che non avevo mai visto... Non so che cosa tu abbia stasera, amico mio, ma nel vederti provo le vertigini, sento invadermi da una specie di scienza del passato, di prescienza dell'avvenire. Immagino i mondi lontani, le scienze occulte.

Anfitrione                     - Accade sempre, prima dell'amore. Anche a me. Passerà.

Alcmena                        - A che pensa quella larga fronte, più larga del vero?

Anfitrione                     - Alla bella Alcmena, sempre uguale a se stessa.

Alcmena                        - A che pensa quel viso che ingrandisce sotto i miei occhi?

Anfitrione                     - A baciare le tue labbra.

Alcmena                        - Perché le labbra? Nel passato non mi parlasti mai delle mie labbra.

Anfitrione                     - A morderti la nuca.

Alcmena                        - Diventi pazzo? Mai, fino ad oggi, avesti l'audacia di chiamare col loro nome uno solo dei miei tratti.

Anfitrione                     - Me lo sono rimproverato stanotte e ora te li nominerò tutti. Ho avuto improvvisamente questa idea, facendo l'appello alle mie truppe. E tutti dovranno oggi rispondere alla chiamata: pupille, seno, nuca e denti. Le tue labbra!

Alcmena                        - Ecco la mia mano.

Anfitrione                     - Che hai? Ti ho punta? Una sen­sazione sgradevole?

Alcmena                        - Dove hai dormito stanotte?

Anfitrione                     - Fra le rocce, per guanciale una catasta di sarmenti che ho bruciato al risveglio. Bisogna che riparta subito, cara, perché stamani daremo battaglia... Vieni!... Che fai!

Alcmena                        - Ho ben diritto di carezzarti i capelli. Non sono mai stati così lucidi, così secchi!

Anfitrione                     - Il vento!

Alcmena                        - Il vento tuo schiavo. E che cranio hai fatto all'improvviso. Non l'avevo mai visto così grosso.

Anfitrione                     - L'intelligenza, Alcmena.

Alcmena                        - Tua figlia, l'intelligenza.

Anfitrione                     - E questi sono i miei sopraccigli, se tieni a saperlo, questo il mio occipite, questa la mia vena giugolare... Cara Alcmena, perché tremi così nel toccarmi? Sembri una fidanzata e non una moglie. Chi ti ha dato, di fronte al tuo sposo, questo verginale ritegno? Ecco che anche a me tu diventi una sconosciuta. E tutto ciò che oggi scoprirò mi sarà nuovo.

Alcmena                        - Ne sono certa...

Anfitrione                     - Non desideri un regalo, non hai da fare alcun voto?

Alcmena                        - Prima di entrare in quella camera, vorrei che tu sfiorassi con le labbra i miei capelli.

Anfitrione                     - (abbracciandola e baciandola sul collo) Ecco.

Alcmena                        - Che fai? Baciami di lontano, sui capelli.

Anfitrione                     - (baciandola sulla gota) Ecco.

Alcmena                        - Manchi di parola. Sono forse calva, per te?

Anfitrione                     - (baciandola sulle labbra) Ecco, ed ora ti porto via.

Alcmena                        - Un minuto! Raggiungimi fra un mi­nuto. Quando ti chiamerò amante mio. (Ella entra a sinistra. Anfitrione rimane solo).

Anfitrione                    - Che moglie deliziosa. E come è dolce la vita che trascorre così senza gelosia e senza rischio. È dolce questa felicità borghese, non sfio­rata né dall'intrigo né dalla concupiscenza. Che io torni all'aurora o al tramonto non vi scopro se non ciò che vi nascondo e non vi sorprendo che la calma... Posso venire Alcmena? Non risponde: la conosco, vuol dire che è pronta... Che delicatezza! Mi fa cenno col silenzio. E che silenzio! Come risuona. Come ella mi chiama. Sì, sì, vengo, cara... (Quando è entrato nella camera a sinistra Alcmena ne esce di soppiatto, lo segue con un sorriso e ritorna in mezzo alla scena).

Alcmena                        - Il gioco è fatto. Egli è fra le sue braccia. Che non mi si parli più della cattiveria del mondo. Un semplice gioco da bambino. Che non mi parlino più della fatalità. Essa non esiste che per i pigri. Gli stratagemmi degli uomini, i desideri degli dèi, nulla possono contro la volontà e l'amore di una moglie fedele... Non è anche il tuo parere, eco, tu che mi hai dato sempre i migliori consigli? Cos'ho da temere dagli dèi e dagli uomini, io che sono leale e retta, niente, non è vero, niente?!

L'Eco                            - Tutto! Tutto!

Alcmena                        - Che dici?

L'Eco                            - Niente, niente.

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Terrazza vicino al palazzo, come nel primo atto. (Sono in scena il Sosia, il trombetta, Eclissa e poi le danzatrici).

Trombetta - Di che tratta, stasera,il tuo proclama!

Sosia                             - Delle donne.

Trombetta                     - Bravo! Del pericolo delle donne!?

Sosia                             - Del naturale stato di fedeltà in cui sono le mogli in tempo di guerra... Questa volta eccezio­nalmente il proclama rischia di essere vero. La guerra non è durata che un giorno.

Trombetta                     - Leggilo, presto. (Suona).

Sosia                             - O Tebani la guerra, fra tanti vantaggi...

Eclissa                           - Silenzio.

Sosia                             - Come, silenzio! Ma la guerra è finita, Eclissa. Hai davanti a te due vincitori. Precediamo l'esercito di un quarto d'ora...

Eclissa                           - Silenzio, ti dico, ascolta.

Sosia                             - Ascoltare il tuo silenzio, è cosa nuova.

Eclissa                           - Oggi non sono io che parlo, ma il cielo. Una voce celeste annunzia ai Tebani le imprese di un eroe sconosciuto.

Sosia                             - Sconosciuto? Del piccolo Ercole, vuoi dire? Del figlio che Alcmena avrà stanotte da Giove?

Eclissa                           - Lo sai?

Sosia                             - Come tutto l'esercito. Domandalo al trombetta.

Trombetta                     - E la prego di credere che tutti se ne rallegrano; soldati e ufficiali non possono attribuire la nostra rapida vittoria che al felice avveni­mento. Non un ferito, signora, i cavalli stessi non sono stati feriti che alla gamba sinistra. Solo Anfi­trione non sapeva ancora niente ma, grazie a queste voci celesti, ora avrà saputo.

E cliss a                         - Anfitrione avrà udito le voci della pianura.

Trombetta                     - Non si perde una parola. La folla è ammassata sotto il palazzo e noi abbiamo ascoltato con essa. È molto impressionante. Sopratutto o e stata una piccola lotta fra il di lei futuro giovine padrone e un mostro dalla testa di toro che ci ha tenuti col cuore sospeso. Ercole se l'è cavata, ma di misura... Attenzione ecco il seguito!

La Voce celeste            - 0 Tebani, appena ucciso il minotauro, un drago apparirà alle porte della vostra i città, un drago con trenta testa che si nutrono di carne umana, della vostra carne, salvo una sola testa che è erbivora.

La Folla                         - Oh! Oh! Oh!

La Voce celeste            - Ercole, il figlio che Alcmena avrà questa notte da Giove, con un arco di trenta corde trapassa le trenta teste.

La Folla                         - Eh! Eh! Eh!

Trombetta                     - Mi chiedo perché ha ucciso la testa erbivora.

Sosia                             - Guarda Alcmena al balcone. Non perde ' una parola. Giove è abile. Sa quanto la nostra regina desideri un bambino e le dipinge Ercole perché ella cominci ad amarlo e si lasci convincere.

Eclissa                           - Povera padrona. Ne è oppressa. Sente intorno a sé quel figlio gigantesco. È lui che la contiene i come un bambino.

Trombetta                     - Al posto di Giove io farei parlare Ercole stesso. L'emozione di Alcmena ne sarebbe accresciuta.

Sosia                             - Taci. La voce parla.

La Voce celeste            - Di mio padre Giove avrò il ventre Uscio, il pelo ondulato.

La Polla                         - Oh! Oh! Oh!

Eclissa                           - Gli dèi hanno avuto la sua idea, Eclissa.

Trombetta                     - Sì, ma meno rapidamente.

La Voce celeste            - Di mia madre Alcmena lo sguardo dolce e leale.

Eclissa                           - Tua madre è lì, Ercolino, la vedi….

La Voce celeste            - La vedo, l'ammiro.

La Polla                         - Ah! Ah! Ah!

Sosia                             - Che cos'ha la tua padrona da chiudere bruscamente la finestra? Esagera a troncare la parola a una voce celeste. E che significa, Eclissa, quella faccia da funerale. E perché il palazzo ha un aspetto tetro allora che tutti ì colori della festa dovrebbero sventolare al vento? Corre voce nell'eser­cito che la tua padrona abbia fatto chiamare Leda per domandarle gli ultimi consigli e che esse hanno trascorso la giornata a giocare e a ridere. È falso?

Eclissa                           - È vero. Ma Leda se n'è andata da appena un'ora E subito dopo la sua partenza le voci hanno annunziato la visita di Giove, al tramonto del sole.

Sosia                             - I preti hanno confermato la notizia?

Eclissa                           - Sono usciti di qui un momento fa.

Sosia                             - Allora, Alcmena si prepara?

Eclissa                           - Non so.

Trombetta                     - Signora, voci assai spiacevoli cir­colano in Tebe sulla sua padrona e su lei. Si dice che per fanciullaggine o per civetteria, Alcmena mostri di non apprezzare il favore di Giove e che non pensa ad altro che a impedire al liberatore di nascere.

Sosia                             - Sì, e che tu l'aiuti in questo infanticidio.

Eclissa                           - Come è possibile che mi accusino di questo? Con che impazienza lo aspetto, quel bambino. Penso che egli comincerà con me le lotte che salve­ranno il mondo. Sono io che per dieci anni fingerò di essere l'idra, il minotauro. Vorrei conoscere l'urlo di quelle bestie per abituarcelo.

Sosia                             - Calmati. Parlaci di Alcmena. Non è decoroso per Tebe offrire agli dèi un'amante ina­dempiente e restia. È vero ch'ella cerca un mezzo perché Giove desista dal suo disegno?

Eclissa                           - Lo temo.

Sosia                             - Non riflette che se lo trova, Tebe è per­duta, la peste e la rivolta scoppieranno entro le nostre mura, Anfitrione sarà lapidato dalla folla? Le mogli fedeli sono tutte uguali: non pensano che alla loro fedeltà e mai ai loro mariti.

Trombetta                     - Rassicuratevi, Sosia, il mezzo non lo troverà. Giove non desisterà dal suo disegno perché la testardaggine è propria della divinità. Se l'uomo sapesse spingere l'ostinazione fino all'estremo, sarebbe lui stesso un dio. Vedete gli scien­ziati; e i segreti divini che strappano all'aria e al metallo, solo perché s'intestano. Giove è testardo. E abbatterà Alcmena. Del resto tutto è pronto per la sua avventura. Essa è fissata come un eclisse. Tutti i ragazzi Tebani si bruciano le dita per affu­micare dei pezzetti di vetro per seguire senza oftalmia il bolide del dio.

Sosia                             - Hai avvertito i musicisti, i cuochi?

Eclissa                           - Ho preparato vino di Samos e pasticcini.

Sosia                             - Le balia hanno il senso dell'adulterio ma non quello del matrimonio. Sembra che nemmeno tu supponga che non si tratta di un appuntamento clandestino, ma di nozze, di vere nozze. E l'assem­blea, la folla, dove sono? Giove esige la folla intorno a ognuna delle sue imprese amorose. Chi fai conto di convocare a quest'ora tarda?

Eclissa                           - Stavo appunto per recarmi in città a riunire tutti i poveri, i malati, gli infermi, gli infelici di natura. La mia padrona vuole che si affollino al passaggio di Giove, per muoverlo a compassione.

Trombetta                     - Riunire i gobbi e gli zoppi, per festeggiare Giove? Mostrargli, in una parola, le imperfezioni umane che egli ignora? Ma sarebbe come esasperarlo. Lei non lo farà...

Eclissa                           - Ne ho l'obbligo. Ordine della mia padrona.

Sosia                             - Ella ha torto e il trombetta ha ragione.

Trombetta                     - Provare al nostro creatore che ha fallito il creato è un sacrilegio. Le amabilità che ha per esso le dobbiamo al fatto che egli lo crede perfetto. Se ci vede storpi e gobbi, se apprende che soffriamo d'itterizia e di calcoli, s'infurierà contro di noi. Tanto più che pretende di averci creato a sua imma­gine. Si detestano i cattivi specchi.

Eclissa                           - Lui stesso, per mezzo della voce celeste, ha chiesto i Tebani infelici.

Trombetta                     - E li avrà. Ho inteso la voce e mi sono incaricato di questo. È necessario solo che quegli infelici gli ispirino un'alta idea dell'infelicità umana. Non temete, Sosia, tutto sarà pronto. Ho appunto condotto con me una speciale compagnia di paralitiche.

Eclissa                           - Le paralitiche non potranno arrivare fino al palazzo.

Trombetta                     - Sono arrivate benissimo e lei lo vedrà. Entrate ragazze mie, entrate! Venite a mostrare le vostre povere membra al padrone degli dèi. (Entrano le ballerine).

Eclissa                           - Ma sono ballerine.

Trombetta                     - Sono paralitiche. Come tali saranno presentate a Giove. Esse rappresentano il gradino più basso di quella ch'egli crede l'impotenza degli uomini. Ed ho anche, dietro i boschetti, una dozzina di sciantose che intoneranno canti per fare le mute. Con un supplemento di qualche gigante in veste di nano, avremo un pubblico di tali infelici, che Giove non arrossirà d'aver creato il mondo ed esaudirà i più piccoli desideri della tua padrona e dei Tebani. Da che parte viene?

Eclissa                           - Con le spalle volte al sole, hanno detto i preti. Oggi al tramonto ci saranno due cortine di fuoco.

Trombetta                     - Bisogna che egli veda in piena luce il viso delle fornaie. Le metterò là. Faranno le lebbrose.

Una Ballerina                - Ma noi, signor filosofo, che dobbiamo fare?

Sosia                             - Ballare. Spero che non saprete fare altro.

La Ballerina                  - Quale danza? La simbolica con le spaccate maggiori?

Sosia                             - Niente zelo. Non dimenticate che per Giove voi siete zoppe.

La Ballerina                  - Ah! È per Giove. Allora abbiamo il passo della trota, con zompi che imitano la folgore. Questo lo lusingherà.

Trombetta                     - Non fatevi illusioni. Gli dèi vedono le ballerine dall'alto e non dal basso. Ed è sufficiente a spiegare il perché essi sono meno sensibili alla danza che gli uomini. Giove preferisce le bagnanti.

La Ballerina                  - Abbiamo appunto la danza delle onde, sul piano dorsale con le cosce in aria.

Trombetta                     - Sì. Sosia, chi è quel guerriero che sale la collina? Non è Anfitrione?

Eclissa                           - Infatti è Anfitrione. Cielo, tremo!

Sosia                             - Io non ne sono affatto contrariato. E un uomo di giudizio e devoto. Aiuterà sua moglie a decidersi.

La Ballerina                  - Come corre!

Trombetta                     - Capisco la sua fretta. Molti mariti tengono a stancare le proprie mogli perché non siano che un corpo senz'anima nelle braccia del dio. Andate ragazze. Vi seguiamo per preparare la musica. Infine, grazie a noi, la cerimonia sarà degna dell’ospite. Siamo arrivati a tempo giusto... Sosia il tuo proclama... (Suona).

Sosia                             - O Tebani, la guerra, fra tanti vantaggi, ricopre il corpo della donna di una corazza d'acciaio senza giunture, in cui non possono scivolare né il desiderio né la mano...

Anfitrione                     - (entrando congeda con un gesto Sosia e il trombetta) La tua padrona è qui, Eclissa?

Eclissa                           - L'aspetto... (La voce celeste rintrona nel silenzio. Escono tutti, meno Anfitrione).

La Voce celeste            - Le donne. Il figlio che Alcmena concepisce stasera con Giove, le sa tutte infedeli, desiderose di onori, vellicate dalla gloria.

La Folla                         - Ah! Ah! Ah!

La Voce celeste            - Egli le seduce, le stanca, le abbandona, insulta i mariti oltraggiati, muore per loro...

La Folla                         - Oh! Oh! Oh!

Alcmena                        - (entrando) Che si fa, Anfitrione?

Anfitrione                     - Che si fa, Alcmena?

Alcmena                        - Tutto non  è perduto se egli ti ha permesso di precederlo.

Anfitrione                     - A che ora deve venire?

Alcmena                        - Fra poco, ahimè, al calar del sole. Non oso guardare lassù. Tu che vedi le aquile prima che esse ti vedano, non scorgi niente nel cielo?

Anfitrione                     - Un astro, appeso male, che dondola.

Alcmena                        - Vuol dire che passa. Hai un progetto?

Anfitrione                     - Ho la voce, la parola, Alcmena. Persuaderò Giove. Lo convincerò.

Alcmena                        - Povero amico. Non hai mai convinto altri che me, al mondo, e non con i discorsi. Un colloquio fra te e Giove è quanto di più temo. Ne uscirai disperato, ma pronto a darmi anche a Mercurio.

Anfitrione                     - Allora, Alcmena, siamo perduti.

Alcmena                        - Cerchiamo di aver fiducia nella sua bontà... Attendiamolo qui dove riceviamo gli ospiti di riguardo, nelle nostre feste. Ho l'impressione che ignori il nostro amore. Dal più profondo dell'Olimpo bisogna che ci scorga così, l'uno vicino all'altro, sulla soglia della nostra casa, e che la visione della coppia cominci a distruggere in lui l'immagine della donna sola... Prendimi fra le braccia. Stringimi. Abbracciami in piena luce affinché egli veda che unico essere formano due sposi. Sempre nulla, nel cielo?

Anfitrione                     - Lo zodiaco si agita. Ne ha urtato il filo. Ti dò il braccio?

Alcmena                        - No. Niente legami Attizzi e banali. Lascia fra noi quel dolce intervallo, quella porta di tenerezza che i bambini, i gatti, gli uccelli amano trovare fra due veri sposi. (Rumore di folla e di musica).

Anfitrione                     - I preti danno il segnale. Non deve essere molto lontano... Ci diciamo addio davanti a lui o adesso? Alcmena. Bisogna prevedere tutto.

La Voce celeste            - (ripetendo) Addio di Alcmena e Anfitrione.

Anfitrione                     - Ho udito.

La Voce celeste            - (ripetendo) Addio di Alcmena e Anfitrione.

Anfitrione                     - Non hai paura?

Alcmena                        - Caro, qualche volta, nelle ore in cui la vita si espande, non hai sentito dentro di te una voce sconosciuta dare come un titolo a quei momenti? Il giorno del nostro primo incontro, del nostro primo bagno, non hai sentito nel tuo intimo gridare: fidan­zamento di Anfitrione? Primo bagno di Alcmena? Oggi l'avvicinarsi degli dèi ha senza dubbio reso l'atmosfera così sonora che il muto titolo di questo istituto vi risuona. Diciamoci addio.

Anfitrione                     - A dirtela franca non ne sono contrariato, Alcmena. Dal momento che t'ho conosciuta, porto quest'addio in me, non come un ultimo appello, ma come se fosse la dichiarazione di una particolare tenerezza, come una confessione nuova. Eccomi obbligato, per caso, a dirlo oggi al termine forse della nostra vita e nell'istante in cui teoricamente conviene. Ma fu quasi sempre nel mezzo delle nostre gioie più grandi e quando nulla minacciava la nostra unione, che il bisogno di dirti addio mi strinse e mi gonfiò il cuore di mille scono­sciute carezze.

Alcmena                        - Mille carezze sconosciute? Si può sapere?

Anfitrione                     - Sentivo bene d'aver un nuovo segreto da dire a questo viso in cui non avrò visto una ruga, a questi occhi in cui non avrò visto una lacrima, a queste ciglia di cui non una sola sarà caduta, anche soltanto per permettersi di esprimere un desiderio. Era un addio.

Alcmena                        - Non scendere in particolari, caro. Tutte le parti del mio corpo che non nominerai soffriranno di avvicinarsi, trascurate, verso la morte.

Anfitrione                     - Credi che per noi si appressi la morte?

Alcmena                        - No. Giove non ci ucciderà. Per ven­dicarsi del nostro rifiuto, ci cambierà piuttosto specie. Ci toglierà ogni gusto e gioia comune, farà di noi esseri differenti, una di quelle coppie celebri per il loro amore ma separate dalla loro razza più che dall'odio: un usignolo e un rospo, un salice e un pesce... Mi fermo per non suggerirgli altre idee. Che piacere troverò nella vita, io che mangio con meno gusto se ti servi di un cucchiaio quando io adopero una forchetta, allora che tu respirerai con le branchie e io con le foglie, tu parlerai gracchiando e io roteando?

Anfitrione                     - Ti raggiungerò, resterò vicino a te: la presenza è la sola razza degli amanti.

Alcmena                        - La mia presenza? Forse la mia pre­senza fra poco sarà per te il peggior dolore. Porse all'alba ci ritroveremo di fronte, in questi stessi nostri corpi, il tuo intatto, il mio privo di quella segreta verginità che una donna deve conservare anche sotto i baci del marito. T'immagini la vita con questa moglie che non avrà più il rispetto di se stessa, disonorata, ancorché per troppo onore, e appassita, deflorata dall'immortalità? T'immagini un terzo nome sempre sulle nostre labbra, indicibile, che dia un sapore di fiele ai nostri pranzi, ai nostri baci? Io no. Che sguardo avrai tu per me quando brontolerà il tuono, quando il mondo si empirà di lampi allusivi a colui che mi ha insozzata? Perfino la bellezza delle cose create, create da lui, sarà per noi un richiamo al disonore. Ah, piuttosto una tra­sformazione in esseri primitivi ma puri. C'è in te tanta lealtà, tanta buona volontà a recitare la tua parte d'uomo, che ti riconoscerò sicuramente, fra i pesci e gli alberi, dal modo coscienzioso di ricevere il vento, di mangiare la tua preda, di nuotare.

Anfitrione                     - Il capricorno si è alzato, Alcmena. Egli si avvicina.

Alcmena                        - Addio, Anfitrione. Mi sarebbe tut­tavia piaciuto veder con te l'età a venire, vederti diventar curvo, poter verificare se è vero che i vecchi sposi prendono la stessa fìsionomia; conoscere con te il piacere del ricordo, morire quasi simile a te. Se vuoi, Anfitrione assaporiamo insieme un minuto di quella vecchiaia. Immaginati che dietro a noi ci siano non dieci mesi di matrimonio, ma lunghis­simi anni. Mi hai amato, vecchio sposo mio?

Anfitrione                     - Tutta la vita.

Alcmena                        - Verso le nostre nozze d'argento, non ti parve più giovane di me una vergine di sedici anni, timida insieme e ardita, affascinata dalla tua vista e dalle tue imprese, presta e incantevole? Un mostro insomma?

Anfitrione                     - Sempre tu fosti più giovane della giovinezza.

Alcmena                        - Quando giunse la cinquantina e io diventai nervosa, con risa e pianti irragionevoli, allorché ti spinsi, sa il cielo perché, a vedere certe male femmine, col pretesto che il nostro amore ne sarebbe ravvivato, tu non dicesti niente, non facesti niente, non mi obbedisti, non è vero?

Anfitrione                     - No, volevo che tu fossi orgogliosa di noi due quando fosse giunta la vecchiaia.

Alcmena                        - Così, che splendida vecchiaia. La morte può venire.

Anfitrione                     - Che sicura memoria abbiamo di quei tempi lontani. E quel mattino, Alcmena, quando tornai all'alba dalla guerra per possederti nell'ombra, te lo ricordi?

Alcmena                        - All'alba? Al crepuscolo, vuoi dire.

Anfitrione                     - Alba o crepuscolo, che importanza ha in questo momento? A mezzogiorno, forse. Mi ricordo soltanto che quel giorno il mio cavallo saltò i più larghi fossati e che nella mattinata io fui vin­citore. Ma cos'hai cara, sei pallida?

Alcmena                        - Ti scongiuro, Anfitrione. Dimmi, sei venuto al crepuscolo o all'alba?

Anfitrione                     - Ti dirò tutto ciò che vorrai, cara... Non voglio addolorarti.

Alcmena                        - Era notte, non è vero?

Anfitrione                     - Nella nostra camera buia, notte completa... Hai ragione. La morte può venire.

La Voce celeste            - La morte può venire. (Fra­stuono. Appare Giove scortato da Mercurio).

Giove                            - (entrando) La morte può venire, dite? Non è che Giove.

Mercurio                       - Vi presento Alcmena. Signore, la recalcitrante Alcmena.

Giove                            - E perché quell'uomo vicino a lei?

Mercurio                       - È suo marito, Anfitrione.

Giove                            - Anfitrione, il vincitore della grande battaglia di Corinto?

Mercurio                       - Anticipate. Non vincerà a Corinto che fra cinque anni. Ma è lui.

Giove                            - Chi l'ha chiamato qui? Che viene a fare?

Anfitrione                     - Signore!...

Mercurio                       - Senza dubbio a offrirvi lui stesso sua moglie. Dall'alto del cielo non l'avete visto pre­pararla, abbracciandola, accarezzarla, darle insomma, rivolto a voi, quell'eccitazione che perfezionerà la vostra nottata? Grazie, principe.

Anfitrione                     - Mercurio s'inganna, signore.

Giove                            - Ah, Mercurio s'inganna? Infatti non mi sembri convinto della necessità che stanotte io mi corichi vicino a tua moglie e ricopra la tua missione. Io lo sono.

Anfitrione                     - Io, signore, no.

Mercurio                       - Non è più ora di chiacchiere. Giove, il sole va a letto.

Giove -                          - Questo non riguarda che lui solo.

Mercurio                       - Se gli dèi si mettono a scambiare con gli uomini conversazioni e dispute individuali, i bei tempi sono finiti.

Anfitrione                     - Vengo a difendere Alcmena contro di voi, signore, o a morire.

Giove                            - Ascolta Anfitrione. Siamo fra uomini. Tu conosci il mio potere. Non ti nascondo che io posso entrare nel tuo letto anche in tua presenza, rendendomi invisibile. Solo con le erbe di questo parco posso comporre filtri che innamorino di me tua moglie e ti diano il desiderio di avermi per for­tunato rivale. Questo conflitto è dunque non un con­flitto di sostanza ma, ahimè, un conflitto di forma, come tutti quelli che provocano gli scismi e le nuove religioni. Non si tratta di sapere se avrò Alcmena, ma come. Per questa corta notte, per questa piccola formalità, vuoi entrare in conflitto con gli dèi?

Anfitrione                     - Non posso darvi Alcmena. Pre­ferisco l'altra formalità: la morte.

Giove                            - Cerca di comprendere la mia remis­sività. Non amo Alcmena, soltanto perché allora avrei fatto in modo di essere il suo amante senza consultarti. Amo la vostra coppia. Amo, al principio dell'era umana, codesti due corpi grandi e belli, scolpiti in fronte all'umanità come prue. Mi pongo fra voi da amico.

Anfitrione                     - Vi siete già e venerato. Rifiuto.

Giove                            - Tanto peggio per te. Non tardare più la festa, Mercurio. Convoca l'intera città. Poiché ci costringe, mostra la verità, quella di ier notte e quella di oggi. Abbiamo messi divini per convin­cere questa coppia.

Anfitrione                     - I prodigi non convincono un generale.

Giove                            - È la tua ultima parola? Tieni a darmi battaglia?

Anfitrione                     - Se occorre sì.

Giove                            - Penso che tu sia un generale abbastanza intelligente per non cimentarti che con armi uguali alle mie. È l'a.b.c. della tattica.

Anfitrione                     - Ho quelle armi.

Giove                            - Quali armi?

Anfitrione                     - Ho Alcmena.

Giove                            - Ebbene, non perdiamo un minuto. Le attendo a pie fermo, le tue armi. Ti prego anzi di lasciarmi solo con essa. Vieni qui, Alcmena. E voi due, sparite. (Escono Anfitrione e Mercurio).

Alcmena                        - Finalmente soli.

Giove                            - Forse non supponi quanto sia ben detto. Siamo giunti all'ora in cui tu sarai mia.

Alcmena                        - La mia ultima ora, dunque.

Giove                            - Smetti cotesto ricatto... È indegno di noi due... Sì, eccoci infatti per la prima volta di fronte, io non ignaro della tua virtù, tu non ignara del mio desiderio. Finalmente soli.

Alcmena                        - A quanto dice la leggenda, siete spesso solo così.

Giove                            - Ma raramente altrettanto innamorato, Alcmena. Mai così debole. Da nessuna donna avrei tollerato questo disprezzo.

Alcmena                        - La parola innamorato esiste nella lingua degli dèi? Credevo fosse il supremo regola­mento del mondo a spingerli, in certe epoche, a mordicchiare la faccia delle belle mortali.

Giove                            - Regolamento è una parola grossa. Diciamo fatalità.

Alcmena                        - E la fatalità su una donna tanto poco fatale come Alcmena non vi urta? Tutto quel nero su questo biondo.

Giove                            - Per la prima volta le dai un colore che m'incanta. Sei un'anguilla nelle sue mani.

Alcmena                        - Un giocattolo nelle vostre. Giove vi piaccio veramente?

Giove                            - Se la parola piaccio non viene soltanto dalla parola piacere ma dalla parola biscia in amore, dalla parola mandorla in fiore, mi piaci, Alcmena.

Alcmena                        - È la mia sola speranza. Se vi spia­cessi anche solo un po', non esistereste a possedermi di forza, per vendicarvi.

Giove                            - E io ti piaccio?

Alcmena                        - Potete dubitarne? Con un dio che m'ispirasse avversione potrei avere fino a questo punto il senso di ingannare mio marito? Per il mio corpo sarebbe una catastrofe, ma mi sentirei fedele al mio onore.

Giove                            - Ti sacrifichi a me perché mi ami? Mi resisti perché sei mia?

Alcmena                        - L'amore è tutto qui.

Giove                            - Stasera tu obblighi l'Olimpo a parlare  una lingua ben preziosa.

Alcmena                        - Non gli farà male. Sembra che una parola della vostra lingua più semplice, una sola E parola, distruggerebbe il mondo, talmente è brutale.

Giove                            - Tebe non rischia davvero nulla, oggi,

Alcmena                        - Perché è necessario che Alcmena  rischi di più? Che io sia torturata da voi, che voi distruggiate una coppia perfetta, che, per cogliere  il piacere di un momento, lasciate delle rovine?

Giove                            - L'amore è tutto qui.

Alcmena                        - E se vi offrissi qualcosa di meglio che l'amore? Voi potete gustare l'amore con altre.Ma io vorrei creare fra noi un legame ancor più dolce e potente: sola fra tutte le donne posso offrirvelo. Ve lo offro.

Giove                            - E sarebbe.

Alcmena                        - L'amicizia.

Giove                            - Amicizia? Che significa questa parola, E spiegati. La sento per la prima volta.

Alcmena                        - Davvero? Oh, allora sono felice. Non esito più. Vi offro la mia amicizia. L'avrete vergine.

Giove                            - Che intendi dire? È una parola usuale sulla terra?

Alcmena                        - La parola è usuale.

Giove                            - Amicizia... È proprio vero che dall'alto certe pratiche degli uomini ci sfuggono ancora... Ti ascolto... Allorché due esseri si nascondono come noi, in un angolo, ma per cavar fuori, dei vestiti a brandelli, monete d'oro, contarle, baciarle... È questa l'amicizia?

Alcmena                        - No, è l'avarizia.

Giove                            - Coloro che quando la luna è piena, si! denudano, e, con lo sguardo fisso ad essa, si passano le mani sul corpo e s'insaponano con il suo fulgore, sono amici?

Alcmena                        - No, sono lunatici.

Giove                            - Parla chiaramente. E quelli che invece di amare una donna si concentrano su uno dei suoi guanti, una delle sue scarpette, li nascondono e? consumano di baci quella pelle di bue o di capra,!ancora amici?

Alcmena                        - No, sadici.

Giove                            - Allora descrivimela la tua amicizia. una passione?

Alcmena                        - Folle.

Giove                            - Qual'è il suo senso?

Alcmena                        - Il suo senso? Tutto il corpo mero un senso.

Giove                            - Glielo ridaremo con un miracolo. Ili suo scopo?

Alcmena                        - Accoppia le creature più dissimili e le rende uguali.

Giove                            - Credo di capire, ora. Qualche volta, dalnostro osservatorio, vediamo gli esseri isolarsi in coppie delle quali non riusciamo a capire la ragione perché niente sembra le avvicini: un ministro che tutti i giorni fa visita a un giardiniere, un leone in gabbia che esige la compagnia di un cagnolino, un marinaio e un professore, un gattopardo e un cinghiale. Ed essi sembrano compiutamente uguali, e camminano di pari passo verso le noie quotidiane e verso la morte. Si finisce col pensare che cotesti esseri siano legati da qualche segreta composizione del loro corpo.

Alcmena                        - È possibile. Comunque, quella è l'amicizia.

Giove                            - Vedo ancora quel gattopardo. Salte­rellava intorno al suo cinghiale. Poi si nascondeva su un olivo e quando il cinghialotto passava grugnendo vicino al pedule dell'albero, gli si lasciava cadere dolcemente sulle setole.

Alcmena                        - Sì, i gattopardi sono eccellenti amici.

Giove                            - In un viale, il ministro faceva la sua passeggiatina col giardiniere. Parlava di insetti, di limacce; il giardiniere d'interpellanze, di imposte. Poi, detta ognuno la sua parola, si fermavano alla fine del viale, avendo tracciato il solco dell'amicizia sino in fondo, e si guardavano un momento in faccia strizzando affettuosamente l'occhio e lisciandosi la barba.

Alcmena                        - Sempre così gli amici.

Giove                            - E noi che faremo, se divento tuo amico?

Alcmena                        - Intanto penserò a voi, invece di credere in voi... E questo pensiero sarà volontario, dovuto al mio cuore, mentre la mia credenza era un'abitudine, dovuta ai miei avi... Le mie preghiere non saranno più preghiere, ma parole, segni, i miei gesti rituali.

Giove                            - Tutto ciò non ti darà troppo da fare?

Alcmena                        - Oh, no! L'amicizia del dio degli dèi, la compagnia di un essere che può tutto, tutto distrug­gere e tutto creare, è anche il minimo dell'amicizia per una donna. Infatti le donne non hanno amici.

Giove                            - E io che farò?

Alcmena                        - Il giorno in cui la compagnia degli uomini mi avrà stancata, vi vedrò apparire silen­zioso, calmissimo vi siederete sul mio divano, senza accarezzare nervosamente la coda della pelle di leopardo, perché altrimenti sarebbe amore, e, all'improvviso, sparireste... Sareste stato qui. Capite?

Giove                            - Credo di capire. Fammi delle domande. Dimmi i casi in cui mi domanderesti aiuto e cercherò di rispondere che cosa deve fare un buon amico.

Alcmena                        - Ottima idea. Siete pronto?

Giove                            - Sì.

Alcmena                        - Un marito assente?

Giove                            - Distacco una cometa per guidarlo. Ti dò una doppia vista che ti permetta di vederlo a distanza, e una doppia parola per raggiungerlo.

Alcmena                        - È tutto?

Giove                            - Oh, scusa! Lo rendo presente.

Alcmena                        - La visita di amici o di parenti noiosi?

Giove                            - Scarico sui visitatori una peste che faccia uscire gli occhi dall'orbita. Mando un male che roda il fegato e una colica nel loro cervello. Il soffitto precipita e il pavimento si apre... Non va bene?

Alcmena                        - Troppo e troppo poco.

Giove                            - Oh, scusa di nuovo, li rendo assenti.

Alcmena                        - Un bambino malato?

Giove                            - L'universo non è che tristezza. I fiori sono senza profumo. Gli animali camminano a testa

Alcmena                        - E non lo guarirete?

Giove                            - Ma sì! Che bestia!

Alcmena                        - Gli è che gli dèi dimenticano tutto. Hanno pietà dei malati, detestano i cattivi. Solo dimenticano di guarire, di punire. Ma, insomma, avete capito. L'esame è passabile.

Giove                            - Cara Alcmena.

Alcmena                        - Non sorridete così Giove, non siate crudele. Non avete mai ceduto di fronte a una delle vostre creature?

Giove                            - Non ne ho mai avuto l'occasione.

Alcmena                        - Ora l'avete. Ve la lascerete sfuggire?

Giove                            - Rialzati, Alcmena. È ora che tu riceva la tua ricompensa. Da stamani ammiro il tuo coraggio e la tua ostinazione e come ordisci le tue trame con lealtà e come sei sincera nella menzogna. Mi hai intenerito e se trovi il modo di giustificare il tuo rifiuto davanti ai Tebani, stanotte non t'imporrò la mia presenza.

Alcmena                        - Perché parlare ai Tebani? Accetto e Anfitrione accetterà che il mondo intero mi creda la vostra amante. Ci creeremo invidie, ma ci sarà dolce soffrire per voi.

Giove                            - Vieni nelle mie braccia, Alcmena, e dimmi addio.

Alcmena                        -  Nelle braccia di un amico? Oh, Giove, corro.

La Voce celeste            - Addio d'Alcmena e del suo amante.

Alcmena                        - Avete udito?

Giove                            - Ho udito.

Alcmena                        - Il mio amante Giove?

Giove                            - Amante vuol dire anche amico; una voce celeste può adoperare lo stile nobile.

Alcmena                        - Ho paura, Giove. Questa sola parola turba improvvisamente tante cose in me.

Giove                            - Rassicurati.

La Voce celeste            - Addio di Giove e della sua amante Alcmena.

Giove                            - È uno scherzo di Mercurio. Lo metterò a posto. Ma cos'hai Alcmena? Perché quel pallore? C'è bisogno che te lo ripeta? Accetto l'amicizia.

Alcmena                        - Senza riserve?

Giove                            - Senza riserve.

Alcmena                        - L'accettate troppo presto. Mostrate una viva soddisfazione nell'accettarla.

Giove                            - Perché sono soddisfatto.

Alcmena                        - Siete soddisfatto di non essere stato il mio amante?

Giove                            - Non voglio dir questo...

Alcmena                        - E io non lo penso. Giove, poiché ora siete mio amico, parlatemi francamente. Siete sicuro di non essere mai stato il mio amante?

Giove                            - Perché me lo domandi?

Alcmena                        - Poco fa vi siete divertito con Anfi­trione. Non c'è stata lotta fra il suo amore e il vostro desiderio... Voi giocavate... avete rinunziato prima di me... la conoscenza degli uomini mi spingerebbe a credere che eravate già stato soddisfatto.

Giove                            - Che intendi per già?

Alcmena                        - Siete sicuro di non essere mai entrato nei miei sogni, di non aver mai preso la forma di Anfitrione?

Giove                            - Sicurissimo.

Alcmena                        - Però vi è sfuggito. Con tante avventure, non è difficile.

Giove                            - Alcmena!

Alcmena                        - Allora tutto ciò non prova un grande amore da parte vostra. Certamente non mi ci sarei riprovata, ma dormire una volta vicino a Giove, sarebbe stato un bel ricordo per una borghesuccia. Tanto peggio.

Giove                            - Cara Alcmena, tu mi tendi una trappola.

Alcmena                        - Una trappola? Temete dunque di cadervi?

Giove                            - Leggo in te, Alcmena, vedo la tua pena, i tuoi disegni. Vedo che eri decisa a ucciderti, se fossi stato il tuo amante. Non lo sono stato.

Alcmena                        - Prendetemi nelle braccia.

Giove                            - Volentieri, piccola Alcmena. Ti ci trovi bene?

Alcmena                        - Sì.

Giove                            - Sì, e poi?

Alcmena                        - Sì, caro Giove... Vi sembra naturale che vi chiami caro Giove?

Giove                            - L'hai detto così naturalmente!

Alcmena                        - Giusto, perché l'ho detto da me stessa? Ciò mi confonde. E donde vengono il piacere, la fiducia che il mio corpo prova per voi? Mi sento in confidenza con voi come se questa confidenza venisse da voi.

Giove                            - Ma sì. Ci intendiamo molto bene.

Alcmena                        - No, ci intendiamo male. Su molti punti, a cominciare dalla vostra creazione e con­tinuando col vostro modo di vestire, non ho le vostre idee. I nostri due corpi sono ancora protesi l'uno verso l'altro come quelli dei ginnasti, dopo l'eser­cizio. Quando è avvenuto il nostro esercizio? Con­fessatemelo.

Giove                            - Mai, ti dico...

Alcmena                        - Allora donde viene il mio turbamento?

Giove                            - Dal fatto che, a mio malgrado, nelle tue braccia mi sento portato a prendere la forma di Anfi­trione. O può darsi che tu cominci ad amarmi.

Alcmena                        - No. È il contrario di un principio. Non foste voi ad entrare tutto bollente nel mio letto dopo il grande incendio di Tebe?

Giove                            - Né tutto bagnato la sera in cui tuo ma­rito ripescò un bambino.

Alcmena                        - Vedete che lo sapete.

Giove                            - E non so forse tutto quanto ti concerne? Ahimè no, era proprio tuo marito. Che bei capelli!

Alcmena                        - Mi sembra non sia la prima volta che ravviate quella ciocca o che vi chinate su di me, così... Fu all'alba o al crepuscolo che veniste e mi prendeste?

Giove                            - Lo sai bene, fu all'alba. Credi che il tuo stratagemma di Leda mi sia sfuggito? Ho accettato Leda per compiacerti.

Alcmena                        - O padrone degli dèi, potete dare l'oblio?

Giove                            - Posso dare l'oblio come l'oppio, far diven­tare sordo come la valeriana. Gli dèi interi, nel cielo, hanno press'a poco lo stesso potere degli dèi sparsi nella natura. Che vuoi dimenticare?

Alcmena                        - Questa giornata. Voglio credere che tutto vi si è svolto correttamente e lealmente e da parte di tutti, ma aleggia su essa qualcosa di losco che mi opprime. Non sono donna da sopportare un giorno torbido, sia pure uno solo, nella mia vita. Tutto il mio corpo si rallegra di quell'ora in cui vi ho conosciuto e tutta la mia amicizia ne prova un malessere. Non è il contrario di ciò che dovrei sen­tire? Date a mio marito e a me il potere di dimenticare questa giornata, salvo la vostra amicizia.

Giove                            - Sia come tu desideri. Ritorna nelle mie braccia, il più teneramente possibile questa volta.

Alcmena                        - Volentieri, tanto dimenticherò tutto.

Giove                            - Del resto è necessario, perché è con un bacio che posso dare l'oblio.

Alcmena                        - E bacerete anche Anfitrione sulle labbra?

Giove                            - Poiché dimenticherai tutto, Alcmena, vuoi che ti mostri il tuo avvenire?

Alcmena                        - Dio me ne guardi.

Giove                            - Sarà felice, credi a me.

Alcmena                        - So cos'è un avvenire felice. Il mio amato marito vivrà e morirà. Il mio caro figlio nascerà, vivrà e morrà. Io vivrò e morrò.

Giove                            - Perché non vuoi essere immortale?

Alcmena                        - Detesto le avventure; e l'immortalità è un'avventura.

Giove                            - Alcmena, cara amica, voglio che tu partecipi, per un secondo, alla nostra vita di dèi. Poiché dimenticherai tutto non vuoi, in un lampo vedere il mondo e capirlo?

Alcmena                        - No, Giove, non sono curiosa.

Giove                            - Vuoi vedere che vuoto, che successione di vuoto, che infinito di vuoti è l'infinito? Se temi di aver paura di quei limbi lattiginosi, farò apparire nel loro angolo il tuo fiore preferito, rosa o zinis, per imprimere un attimo il tuo stemma nell'infinito.

Alcmena                        - No.

Giove                            - Tu e tuo marito non lasciatemi oggi tutta la mia divinità sulle spalle, dalla nascita alla morte. Vuoi vedere gli undici grandi uomini che orneranno la sua storia, con la loro bella faccia di ebrei o i loro piccoli nasi di lorenesi?

Alcmena                        - No.

Giove                            - Per l'ultima volta ti interrogo, cara donna ostinata. Già che dimenticherai tutto, non vuoi sapere di quali apparenze è costruita la vostra felicità, di quali illusioni la vostra virtù?

Alcmena                        -  No.

Giove                            - Né che cosa sono io per te, Alcmena? Né cosa racchiude il tuo ventre, il tuo caro ventre?

Alcmena                        - Sbrigatevi.

Giove                            - Allora dimentica tutto. Salvo questo bacio. (La bacia).

Alcmena                        - (ritornando in se) Che bacio?

Giove                            - Oh, quanto al bacio non raccontarmi storie. Ho avuto cura di porlo al di qua dell'oblio.

Mercurio                       - (entrando) Tutta Tebe è sotto al palazzo, Giove, e attende che vi mostriate al braccio di Alcmena.

Alcmena                        - Venite, Giove, saremo veduti da tutti e tutti saranno contenti.

Mercurio                       - Chiedono qualche parola da voi, Giove. Non esitate a parlare fortissimo. Si sono messi di profilo affinché i loro timpani non subiscano alcuna offesa.

Giove                            - (fortissimo) Alla fine ti incontro, cara Alcmena.

Alcmena                        - (bassissimo) Sì, bisogna lasciarci, caro Giove.

Giove                            - La nostra notte comincia, fertile per il mondo.

Alcmena                        - Il nostro giorno finisce, quel giorno che principiavo ad amare.

Giove                            - Davanti a questi magnifici e superbi Tebani.

Alcmena                        - Questi tristi messeri che acclamano la mia supposta colpa e insulterebbero la mia virtù...

Giove                            - Ti abbraccio come benvenuta, per la prima volta.

Alcmena                        - Ed io per la terza come addio eterno. (Sfilano lungo la balaustra. Poi Alcmena conduce Giove fino alla porticina).

Giove                            - E ora?

Alcmena                        - E ora che la leggenda è in regola, come conviene agli dèi, al disopra di essa, regoliamo la storia con delle compromissioni, come conviene agli uomini... Nessuno vi vede più... Sottraiamoci alle leggi fatali... Sei tu Anfitrione? (Anfitrione apre la porticina e appare).

Anfitrione                     - Son qui, Alcmena.

Alcmena                        - Ringrazia Giove, caro. Tiene a con­segnarmi lui stesso intatta nelle tue mani.

Anfitrione                     - Soltanto gli dèi hanno di queste attenzioni.

Alcmena                        - Voleva metterci alla prova. Chiede soltanto che si abbia un figlio.

Anfitrione                     - L'avremo fra nove mesi, signore, ve lo giuro.

Alcmena                        - E vi promettiamo di chiamarlo Ercole, poiché il nome vi piace. Sarà un bambino dolce e saggio...

Giove                            - Sì, me lo immagino. Addio, Alcmena, sii felice. E tu, Mercurio, maestro di piaceri, prima che si lasci questi posti, dai la ricompensa che spetta a due sposi che si ritrovano, per dimostrare loro la nostra amicizia.

Mercurio                       - A due sposi che si ritrovano? Il mio compito è facile. Convoco, per assistere ai loro diver­timenti, tutti gli dèi e tu Leda, che hai ancora da imparare, e voi, brava gente, che in questo giorno siete stata insieme il personale subalterno dell'amore e della guerra, scudiere guerriero e trombetta. Spa­lancate gli occhi e che intorno al loro letto, per sof­focare i gemiti, risuonino canti, musica e folgori. (Tutte le persone evocate da Mercurio empiono la scena).

Alcmena                        - Oh, Giove. Degnatevi di fermarli. Si tratta di Alcmena.

Giove                            - Ancora Alcmena. Si tratterà dunque sempre di Alcmena, oggi. Evidentemente, allora, Mer­curio s'inganna. Allora è « la parte » degli « a parte », il silenzio dei silenzi. Allora, dèi e comparse, scom­pariamo verso i nostri zenit e verso le nostre caverne. E voi tutti spettatori, ritiratevi senza dir parola, fin­gendo la più assoluta indifferenza. Che un'ultima volta Alcmena e suo marito appaiano soli in un cerchio di luce, dove il mio braccio non figurerà più che come un braccio indicatore per indicare la direzione della felicità. E su questa coppia, che l'adulterio non sfiorò, né sfiorerà mai, alla quale rimarrà sconosciuto il sapore del bacio illegittimo, per circondare di vel­luto questa radura di fedeltà, voi lassù, sipari della notte che da un'ora siete in attesa, calate.

FINE