AQUILA
di
Marilena Monti
PERSONAGGI
“ P ” - LA DONNA CHE HA VINTO LA NOTTE
UN ATTORE CHE SARA’:
L’UOMO DELLA CAVERNA, UN VALLETTO.
UN ATTORE CHE SARA':
LO SPOSO, IL PADRE , L’ANGELO.
UN ATTORE CHE SARA' L'AQUILA
UNA ATTRICE CHE SARA’:
LA DONNA DELLA CAVERNA, UNA VALLETTA, LA MADRE.
La scena si svolge in una camera nera al centro della quale campeggerà, alta
fin quasi al cielo della stessa, una roccia che simboleggi quella del supplizio
eterno di Prometeo condannato da Giove, per aver rubato il fuoco agli Dei, da
regalare agli uomini. La roccia avrà una nicchia, allo interno della quale sarà
adagiato il corpo della protagonista in catene, come una sorta di piccolo
terrazzo, ampio abbastanza da consentirle di muoversi. Avrà anche dei gradini
approssimati dai quali possa salire e scendere. Ad apertura di sipario la
roccia sarà in totale penombra e, quasi in proscenio, gli attori, accovacciati,
parleranno. Essi indosseranno delle pelli così da evocare i primitivi abitanti
della terra
Il tempo di questo dramma si compone di tutti i tempi del mondo.
( una musica che sia più di sonorità notturne e inquietanti, piuttosto che
strettamente melodica. Resterà in sottofondo per la durata dell’intera scena.)
Lui- E’ questo muro che ricopre le cose, è questo che mi atterrisce, è questo
che toglie le parole…
Lei- E’ questo che toglie vita alle cose… no, non a me o a te che continuiamo a
esistere… ma le cose! Esse scompaiono come se morissero tutte…
Lui- E’ vero. Tornano, poi tornano tutte quante: le pietre, i cavalli, gli
alberi, i fili d’erba e le montagne, ma…
Lei- Tornano, e intanto, in quel lunghissimo tempo che è la notte, le cose
muoiono.
Lui- Oh! E’ atroce quel sentimento straziante di abbandono che ci lasciano
quando le copre il manto nero, quando le inghiotte la coltre oscura…
Lei – L’oscura coltre dell’assenza… Se stendo un braccio non tocco più… Cielo!
Non tocco più le canne del canneto, né lo sfioro con gli occhi il fiume, o il
capriolo che fugge…la quercia, la belva, i suoi cuccioli e le prede…Tutto,
perdiamo tutto.
Lui- Che pena ci infliggono gli Dei! La più crudele! E’ troppo breve il tempo
della realtà, troppo lungo quello del sogno!
Lei- Tutto ciò che gli occhi non possono cogliere, è solo sogno, dunque?
Lui- Non so. La notte e il buio sono essi menzogna, o è piuttosto il giorno con
la sua luce, portatore d’inganno?
Lei- Già, l’inganno ci coglie nei sogni delle tenebre o quando ai nostri occhi
le multiformi realtà si mostrano?
Lui- Realtà o apparenze!
VOCE FUORI CAMPO di “P”- Bisogna vincere la notte.
Lui- Bisogna vincerla…
LEI- Bisogna…
Lui- E’ questo manto pietrificato che ricopre le cose, è questo che mi
atterrisce; è questo che toglie il nome alle cose e le cose al loro nome…
Lei- Toglie le cose al loro nome…
Lui- E’ così difficile che si appartengano le cose e i nomi, come i corpi e le
ombre, come le anime e i corpi…
Lei- E’ cosi facile che si perdano gli uni agli altri fuggendo…
Lui- E’ così difficile tenere ancorati strettamente il contenuto e il
contenente…
LEI- Gli Dei hanno voluto divertirsi facendoci “disorientati”, frastornati di
eguali e contrari, di opposti che si negano e si affermano, generatori di
attrazioni e incertezze.
Lui- Molto difficile è comprendere tutto ciò. Impossibile è accettare e
sopportare ciò che non si comprende…
(VOCE FUORI CAMPO DI “P”)- Bisogna vincere la notte.
Lei- Bisogna vincerla…
Lui- Bisogna… per la chiarezza, nel tentativo di unificare il contenente e il
contenuto. Alla ricerca di una conciliazione.
(VOCE FUORI CAMPO DI “P”)-… Loro lo fanno, loro, gli Dei che hanno inventato il
fuoco…
Lei- Per se stessi e non per noi, né per la nostra brama di chiarezza…
Lui- Non per la nostra brama, né per la nostra paura…
Lei- Per se stessi e per la loro stessa potenza. Ad essi tutto è chiaro. A noi le
domande per le quali non esistono risposte…
Lui- A noi il rovello di doverci continuamente chiedere che cosa accade quando
la coltre nera ci ricopre…
(Voce FUORI CAMPO DI “P”)- Bisogna vincere la notte…
Lei- Si, ma come? Solo una volontà più forte di ogni paura potrebbe riuscire…
Lui- Solo una titanica determinazione…
I DUE ATTORI ESCONO LENTAMENTE DI SCENA. In piena luce la roccia.
( Una musica poderosa, maestosa e fortemente drammatica in cui siano molto
presenti percussioni, fiati e coro, accompagnerà la visione della roccia.
Questo tema sarà conduttore del dramma)
( “P” ancorata alla roccia, catene le circondano la vita e le costringono polsi
e caviglie. Evidenti ferite su tutta la superficie del suo corpo. La vedremo
così per lunghi istanti. Poi si sveglia dolorosamente strattonando le catene. )
“P”- Ho rubato la luce, il fuoco, per vincere la notte e la condanna è che ora
la consapevolezza di ciò che nella notte ho visto mi attanagli come il becco
feroce di un’aquila insaziabile. Al sangue del mio cuore essa attinge,
lasciandomi a morire, ogni volta... e ogni volta non muore la titanica brama di
verità.
Oh giorno che ritorni, di materno tepore coprendo le ferite, sanando lo strazio
di questo dilaniato corpo mio… Oh giorno tiepido d’amore, giorno tu non mi
basti! Saresti chiaro di certezze se nella notte non si perdesse il segno, il
filo del discorso… Ho attraversato l’argine, ho guardato lontano, oltre la
culla dei tuoi raggi, ho indagato le tenebre, profilo indistinto delle cose, ho
preteso chiarezza, ho domandato parole di fuoco, nomi per l’indicibile… Oh
giorno non mi basti!
( con furia) Sapido di certezze, disdicevole inganno, tu ordine apparente…
Volevo, ho dovuto saperne di più, oltre il profilo della ridente faccia, oltre
la tua pacificata concretezza, giorno, che si nasconde? Oh si, potrei amarti,
sarebbe così semplice, riposerei il tormento. Amarti come tutti semplicemente,
ti amano, perché tu plachi e dai certezze. Ma tu mi nutri di incompiutezza… Mi
rendi gabbiano senza un’ala…
(come piangendo) Bisognava sconfiggere la notte.
(tenta di raggomitolarsi su se stessa in un abbraccio e si culla) Oh quante
favole d’inganno, che promesse mancate, fiducia mal riposta.
Ho cavalcato l’avventura, si! Come un cavallo fiero, e avevo agli occhi lacrime
di vento ed annusavo l’aria, giunta al confine con la verità…
- (sciogliendosi dalle catene, svincolandosi dalla roccia. Molto lentamente,
affanno in ogni muscolo del suo corpo. Scende i pochi gradini e, venuta giù
dalla roccia, avanza)
Di giorno si ricrea la forza della menzogna, si ricompongono le cellule della
finzione, non sanguinano più le mie ferite, di spossatezza.
(La roccia alle sue spalle sarà in ombra; ella si muoverà in uno spazio
laterale che simboleggi, delimitato da agili pannelli, l’interno di una stanza,
in piena luce diurna. I due, a mò di valletti, cominceranno a porgerle una
serie di oggetti per la pantomima che ella si appresterà a rappresentare: una
sfarzosa veste da camera, parrucca, cappellini, gioielli, ecc.)
Di giorno rido, e metto in ordine la stanza, e dico grazie al pane; di giorno
vesto la vanità del mondo, concretizzo un disegno che non è mio, paziento,
mento, ascolto un cicaleccio, aspetto. Costruendo decoro indosso rinnovate
verginità, cappellini, sorbetti, gentilezza in punta di labbra, attraverso
tappeti, in punta di piedi, e raccatto parole cadute, come sciami perduti, come
sprechi… e mi guardo allo specchio e ritrovo la faccia ridente e amara della
mia finzione.
( I due saranno vanitosi e superficiali personaggi, passeggeranno blaterando e
ridacchiando su una musichetta ossessiva e un po’ isterica)
-
Di giorno vado fiera di me, cavalieri, sottane, collane e l’orgoglio di cose
usuali: tra i capelli un riflesso e tessuti a nascondermi il cuore…
Di giorno l’animale non geme. Egli tace pasciuto di nefandezze, cieco, nella
chiarezza spietata del mezzogiorno proclama la sua estasiata sazietà…
Di giorno l’animale è come non ci fosse, l’avida
belva della mia voglia intelligente…
Di giorno mi accontento dell’alfabeto, mi accontento dei punti cardinali,
rassetto le genealogie e le stagioni…
Mi scompongo in mille pezzi, e sembro intera e mi circondo di altri infiniti
interi: scomposti inconsapevoli…
Mondo, con il tuo zucchero filato, addizionato di veleni, mondo di brame vacue,
che di giorno riluci di zecchini, affanni e dare e avere, addizioni e
sottrazioni boriose… Mondo di giorno gioco i giochi tuoi e scommetto e rifletto
vanagloria.
( in sottofondo voci, fragori, parlottii, rumori, risate “del giorno”, sempre più
presenti e incalzanti)
( Su un silenzio improvviso e gelido)
Di giorno esclamo “viva il re”!… e chiamo reggia la mia prigione. ( ride
rabbiosamente sarcastica)
( “P” lentamente si spoglia e, mentre la stanza scompare, torna a incatenarsi
alla roccia)
Ma di notte ritorna la brama oscura della mia nudità. Si risveglia l’avido
animale. Di notte, la feroce solitaria aquila della consapevolezza mi strappa
le vesti, le corazze, la pelle. Sacrifica il mio corpo martirizzandolo,
semplicemente mettendo a nudo tutte le ferite della mia anima, affinché io
paghi il prezzo della mia temerarietà. Ho voluto guardare oltre la tela spessa
dell’apparenza, ho scarnificato il suono perché il silenzio mi parlasse, ho
accecato di lampi le pie tenebre per folgorare l’essenza umana di me stessa… La
verità, vacui e attoniti spettatori dell’infelice gogna che mi imprigiona, la
verità è il seme da cui germoglia il senso più profondo del nostro esistere
umani.
Bisognava, oh si! Bisognava vincere la notte e farsi carico delle ferite. Il
corpo. Le mie ferite, unica strada di una improbabile luce… non di parole
l’urlo, prima ancora la scrittura è filigrana di capillari gementi, fiotto di
sangue prosciugato dall’insipienza delle pupille spente che mi circondano, che
guardano e non vorrebbero vedere le vele spiegate della mia fronte…
( una musica dolcissima, struggente)
Andrei lontano, col mio peccato stretto al cuore come fosse il bambino che è
nato dalla mia notte, dal cratere segreto della mia scienza…
Andrei sopra i tappeti verdi della luna, lasciando impronte d’allegria, andrei
coi girasoli e i gigli di mare a portare, come verbo, la straordinaria
chiarezza del disagio… la sfrontatezza del mio essere vera!
(furente) Legatemi a mandate doppie e triple e io stessa raddoppierò catene,
mostrate la vergogna del mio essere me, a testa alta, sempre, ferocemente, con
orgoglio furente!
Ma non legate i miei occhi: sciolti rivelano la mia felicità d’essere me.
Ridono pupille bambine di abissale bisogno incastonate su un bianco di schiuma
di mare, scure come la voglia della sera, fresche come una nuvola d’estate,
dolci come gelsi vermigli… No, non li legate gli occhi miei, sciolti rivelano i
mille colori dell’amore, la mia felicità d’essere me…
( entra lo sposo in abito da sposo con in mano il bouquet da cerimonia nuziale)
Sposo- La tua felicità d’essere te mi rende inquieto, insensato, mi preoccupa e
mi destabilizza.
“P”- Tu sei il mio sposo, ti scelsi affinché tu mi scegliessi, perché fossimo
la parte mancante l’uno dell’altra.
Sposo- E’ vero, ci scegliemmo, e io ti volli e mi volesti…
“P”- E fummo complici di voli…
Sposo- E fummo complici di voli in pieno giorno… poi cominciasti l’oscuro
viaggio…
“P”- L’oscuro viaggio verso me stessa…Non volesti seguirmi…
Sposo- No, ma rimasi àncora ad aspettare il tuo ritorno, con la mia forza, con
la mia intelligenza. Rimasi solo a controllare che non si spegnesse il nostro
fuoco…
“P”- …e feci ritorno dal mio viaggio… e s’era spento il nostro fuoco, non
t’ebbi più al mio fianco…
Sposo- (insofferente) Non posso sopportare spalancate e indecenti le tue grida,
così mostrate al mondo…
“P”- (con ira) Le mie ferite, dici? Non sono che i morsi del dolore, dovresti
sopportarle, di più, amarle… compitarle, pietre miliari del mio furore e della
mia pena… linguaggio primordiale del mio bisogno! Dovresti amarle, invece che
morirne di paura…
Sposo- Io ne provo disagio…
“P”- Dovresti in esse trovare la mia storia, poggiarvi le tue labbra,
restituirmele sanate, persino! Queste mie allegorie dolenti…
Sposo- In esse leggo trasgressione e imperfezione…
“P”- Dovresti in esse coltivare germogli di primizie: nuovi, probabili
risvolti. In esse dovresti riconoscere il filo vermiglio che ci lega…Perché lo
sai che è quello il filo che ci lega!
Sposo- Lo so, non lo so… vorrei fuggire da oscure cognizioni…
“P”- Cosa amasti di me?
Sposo- La tua capacità d’essere libera…
“P”- Cosa da me ti fa fuggire?
Sposo- Non potere ingabbiare e possedere la tua libertà…
“P”- E te ne vai…
Sposo- E me ne vado, ad odiarti lontano da te. Avrei voluto invisibile quel
filo vermiglio che ci lega… Ma tu osi mostrarlo… Non c’è pietà! Il tuo eccesso
di temerarietà mi ha reso crudele…
“P”- Il muro che hai alzato tra te e la tua notte ti rende crudele.
Sposo- E’ spaventoso ciò che si mostra allo sguardo, troppo vertiginosa la
percezione del fondo di noi stessi!
“P”- Vertiginosa e cara, per quanto crudele, verità…
Sposo- Non c’è pietà per chi ha osato guardare…
(si allontana a capo chino)
“P”- Vorrai restare ignaro alla tua notte. La notte del tuo cuore ti resterà
segreta. Io ti salvai affinché tu mi salvassi dalle nostre profonde solitudini.
E adesso vai… sommi dolore al mio dolore. Ferita nuova e acuta tu mi infliggi,
semplicemente perché io sono io. Mi lasci gabbiano senza un’ala… Fuggi dalla
mia luce, triste eroe senza la spada…
(“P” si abbandona, forse dorme, avvinta dalle catene.)
CAMBIO DI LUCI: LA ROCCIA ANCORA IN PENOMBRA
( I due accovacciati a terra come nella scena d’apertura, questa volta gli
abiti saranno moderni e ci saranno i resti di un fuoco, davanti a loro. Il tema
musicale sarà quello dell’inizio.)
LUI- Avevamo incertezze e tutta l’infelicità delle tenebre avevamo paura della
notte, del sonno, del sogno in essa contenuti…
LEI- Giungesti tu a stanare il buio dalla sua tana, dandoci il fuoco della
conoscenza. Che rischio grave, quale indicibile pericolo ci hai fatto correre!
Invece che chiarezza, vuoi ingenerare confusione.
LUI- Meglio viveva la nostra vita senza che l’ombra e il corpo si vincolassero
l’uno all’altro e il contenuto al contenente e gli opposti tra di loro. E’
nella caverna tenebrosa della notte, nell’inconsapevolezza delle sue ombre che
si rintanano i segreti e lì, non visibili agli occhi della coscienza,
imbavagliati dal buio, essi non urlano, non fanno male…è come se non
esistessero, alla fine…
LEI- Perché ci hai tolti alla giocosa terraferma del non sapere, perché
vincesti la notte! Oh sciagurata per te stessa e per noi, destino di sicura
infermità…
LUI- Le tue ferite, coprile, noi andiamo “sani” per il mondo, avendo cura di
coprire i primi segni, i sintomi leggeri di un qualche male che dal di dentro
ci minacci.
LEI- La tua afflizione è spudorata così svelata, nascondi le ferite, non
sopportiamo l’orgoglio, che ostenti, della rivelazione.
LUI- Non sopportiamo di sapere quel che c’è da sapere. Ci piace di mostrare al
mondo la consuetudine di sterili ripetizioni, pianificato nulla, reiterata
stoltezza, incapacità assoluta d’essere noi stessi coi nostri sogni e bisogni.
Incapacità d’essere felici. Ci piacciono i nostri errori madornali!…
( ridono a crepapelle, uscendo)
( Molto lentamente, come svegliandosi, ancora trascinando in ogni gesto, il
peso delle catene)
“P”- Bisognava vincere la notte ed io l’ho vinta. Orrore ho, adesso, della
vostra terraferma, delle planimetrie dei vostri giorni, dei giochi vanitosi che
vi giocate addosso, delle menzogne ho orrore! Delle vostre e delle mie, quelle
di prima, quelle di quando soggiacevo alla penombra… E ancora, ancora,
ancora…ho un insensato bisogno d’amore…
( I due rientrano, vestono abiti da personaggi maturi con qualche elemento che
caratterizzi fortemente il loro essere rispettivamente, la madre e il padre)
Madre- Figlia ribelle, sventurata crudele, dilapidi il pudore delle nostre
palpebre abbassate!
Padre- Ma se la tua natura è umana come la nostra, perché, se fosti generata da
viscere mortali, nella luce del sole…perché esplorando nella notte porti alla
luce il terribile segreto: che forse fummo noi l’origine del male che ti
affligge!
Madre- Oh figlia sciagurata, che vai guardando e rimestando nel pentolone della
luna, nel suo recondito volto che non si mostra?…
Padre- (indignato) Hai la notte tra le rughe del giorno, nulla può scagionarti:
conosci i segreti del tuo cuore, perché hai vinto le tenebre…
Madre- Oh figlia sventurata… Non ci mostrare orrende le cicatrici. Non sono
parole per noi che non sentiamo, per noi, talpe del sole. Non ci raccontano la
storia del tuo dolore, il filo del tormento che ti tormenta, non le leggiamo,
non ci dicono nulla, non possono cucirci al pianto tuo…
Padre- Figlia che in qualche modo volemmo amare…
“P”- Padre che non avesti forza di tenere la fiaccola d’una stella che ti cercò
le pupille una volta soltanto. Da quello sfavillio di un istante avresti potuto
squarciare le tenebre della tua notte…
Padre- Figlia, ebbi paura dell’infinita notte del mio cuore, delle parole dei
miei antichi silenzi.
“P”- Così sommasti la tua notte alla mia notte.
Padre- Così sommai la mia notte a quella tua.
“P”- Madre che non avesti forza di tenere la fiaccola della cometa che una
volta soltanto ti attraversò il sorriso. Da quella scia, la strada per
schiudere il segreto della tua notte.
Madre- Figlia, spaventoso il segreto avrebbe potuto mostrarsi al mio disagio.
“P”- Così sommasti la tua notte alla mia notte…
Madre- Così sommai la mia notte a quella tua.
( con furore ) Voi che avreste potuto squarciare di luce le vostre tenebre,
abbiate almeno la fermezza di leggere sul mio corpo la vostra storia...
( si volgono coprendosi bruschi gli occhi)
“P”- ( urla) Guardate! Vi impongo di guardare!
Padre- Nascondi questo strazio alla benevolenza del mattino…
Madre- …alla purezza della luce restituisci il suo decoro!
Padre- Tu, eterno oltraggio per la mia mente e l’impassibilità della mia
faccia!
Madre- Tu, eterno oltraggio per le mie viscere e l’impassibilità della mia
faccia…
( escono ancora coprendosi gli occhi)
(Tema musicale dolce e struggente)
“P”- Aspettate! Vi prego, non andate via… E’ così grande la solitudine del
cuore, e voi come ombre lasciate che il supplizio resti senza sollievo, come se
non fosse stato vostro il soffio delle labbra che diede vita alla creta inerte
del mio non esistere! Voi che mi concepiste senza volere, belve del desiderio
di voi stessi e non di me!
Padre- Io non sopporto il peso della sua sofferenza, (rivolto alla madre) tu lo
sopporti?
Madre- Io non sopporto il peso.
Entrambi- Non sopportiamo il peso della tua sofferenza.
“P”- Non sopportate di guardarla! Non che essa esista: ciò non vi turberebbe,
non vi ha turbati mai! Ma che io ne abbia consapevolezza e la mostri alla luce
del giorno…Questo v’è insopportabile…
Padre- Questo è l’insulto…
Madre- Si, questo è l’insulto! Non vedere è un poco come non sapere… ma ciò è
saggezza e saggia tu, non fosti mai! Tu mostri al mondo la storia dell’illecito
viaggio! E anche se di giorno copri di veli di lieve pietà la tua ferita, ormai
si sa che un’aquila, di notte, ti mangia il cuore con morsi atroci di
consapevolezza.
“P”- Orgoglio e solitudine, così sacrificata al mio supplizio di dire a ognuno
che questo mondo ha dentro, nel nucleo delle sue tenebre, la ragione prima del
suo dolore. Ma la felicità di esserne cosciente è il premio…
Padre- Solitudine e pianto. Di quale orgoglio vai parlando, di quale premio,
incatenata al tuo supplizio, povera figlia di sventura…Non c’è pietà!
Madre- Di quale premio vai parlando…Le tue ferite parlano e sono nidi di
sconcezza… Non c’è pietà!
(volgono le schiene indifferenti e da ora mimeranno ad intervalli, le azioni
dell’ottuso quotidiano vivere in forma farsesca)
(La stessa musica e “P” che dolorosamente ne segue il ritmo muovendo le catene
che le legano i polsi. Da questo momento assumerà tutte le possibili posture
della sofferenza)
Madre, o scellerata madre tu, seme dell’odio, per quella culla che lasciasti di
ghiaccio ad abbracciarmi…Madre mia prima pena, orma di lupo il tuo silenzio
nella mia vita…
Madre tu che volesti che il tuo sorriso azzurro non mi centrasse mai con la sua
luce al centro del petto, madre sventura, goccia smarrita tra le infinite gocce
della pioggia, tu unica col segno del mio bisogno!
( i due in una specie di danza farsesca)
Padre, ghepardo agile alla fuga, gagliardo e rapido a sparire, fantasma
colorato della mia fantasia. Padre, mio scellerato padre, seme mancato del mio
giudizio, tu promessa disattesa, hai tolto le mie ali al primo volo. Giocoso
padre mio, nel buio della mia notte ho ritrovato il tuo abbandono. Mentre tu mi
tradivi, in pieno giorno, da esso, dal tuo abbandono, sgorgava il frutto più
amaro del mio dolore…
( i due come sopra)
Madre fiera e rocciosa, ignara di te stessa, di cosa nutrivi la mia attesa?
Splendida madre mia, nel buio della mia notte ho ritrovato la tua ingenerosità.
Mentre tu mi negavi e ti negavi, in pieno giorno, da essa, dalla tua
ingenerosità, sgorgava il fiotto più cocente del mio pianto….
(i due come sopra)
Padre, tu il canto mio smarrito, vela della mia nave lacerata, arioso con una
notte oscura, dietro la bella fronte. Se tu avessi ieri ascoltato le tue tenebrosità
io oggi canterei a gola spiegata la mia allegria…
( i due come sopra)
Padre, ragazzo taciturno di vaghezze e nebulosità infinite… Madre grande
fanciulla avara e grave…
Se aveste guardato il pozzo nero della vostra luna io oggi, sarei salva. Avrei
compagna la quiete ed un guanciale di glicini fioriti e i pianeti e le stagioni
in armonia. Andrete a capo chino come tutti coloro che non sanno e soggiacciono
al peso sfibrante e vano dell’inconsapevolezza.
( i due di colpo si arrestano e a capo chino escono)
Non c’è pietà! Del giorno, di tutti i giorni ormai, io so le pagine mendaci e
non le sfoglio più. Ma ancora ho un bisogno insensato d’amore… (urla
strattonando le catene) Ancora, ancora, ancora….ho un bisogno insensato
d’amore!…
( mentre si distende estenuata , entra l’angelo che sempre le volgerà il
profilo)
Angelo- T’avrei potuta amare…
P”- Oh mio angelo, ti amai! Chi fosti tu, l’amante di squisita eccezionalità,
il corpo del mio sogno, o il figlio della mia carne a cui impedii di nascere…
Angelo- Chi sono io, il tuo angelo…
“P”- Ma se fosti il mio amante, l’unico che elessi degno di questo nome, ti ho
visto troppe volte cambiare volto, ed ogni volta ripetevi l’illusione: fosti
soltanto sogno..
Angelo- Un angelo non è, non può essere materia del tuo corpo, un sogno non è
che materia del tuo desiderio..
“P”- Io guardai fino in fondo il mio desiderio. Tornai a ripetere l’affannata
ricerca. Tu mi somigli, angelo, chi sei? Sei tu l’amante cercato, intravisto e
mai trovato veramente…
Angelo- Un angelo è anche il tuo amante mai trovato…e ti somiglia…
“P”- Ma forse sei il figlio che sacrificai perché il mistero della mia notte a
me stessa svelato lo volle fare salvo…Sei tu, bambino mio?
Angelo- Salvo da cosa, dalla vita…
“P”- Dalla mia spaventosa avidità. Seppi, dal viaggio nelle tenebre che tu
saresti stato il mio risarcimento, l’innocente immolato, la vittima sacrale del
mio bisogno… Ti avrei soffocato d’amore senza remissione, t’avrei strappato le
ali con i denti, per tenerti ancorato alla mia vita, sostegno, indennizzo, tu,
mia vendetta! (pausa) Sei dunque tu, angelo, il figlio che non strinsi fra le
braccia?
Angelo- Un angelo è anche il tuo unico figlio mai nato e ti somiglia…
“P”- Fermati dunque a contemplare la mia sorte e che io ti contempli, fanciullo
mio…
Angelo- Un angelo non alza mai la fronte. E’ chino il capo, né ti fu dato di
vedere l’amore dei miei occhi.
“P”- Per risparmiarti ferite più spaventose delle mie, io non ti diedi al
mondo, mio gentile, mio veramente mio! Ma ti conosco e ti riconosco! Ti so così
simile al mio sogno, alla mia perdita di esso….So il tuo profilo amabile e la
forza della tua schiena, so le tue labbra e il palmo della mano… so la tua
spada che mi placa e mi acceca di desiderio, conosco il canto del tuo primo
volo… tu solo, veramente, mi appaghi e mi commuovi…
Angelo- Non ti fu dato di vedere l’amore dei miei occhi…
“P”- Se sei il mio sogno o il sogno dell’amante straordinario, o del figlio che
non divenne carne o infine il sogno che io ho di me, io ti conosco. Oh si che
ti conosco! Nessuno somiglia quanto te alla solitudine…
Angelo- Nessuno somiglia quanto me, alla solitudine…
“P”- Prima di andare spiegami perché… Esistono risposte?
Angelo- Esiste una risposta. Ci sono, come te creature rare che hanno luce e
danno luce, e la pretendono e la prendono, oltre ogni tenebra. Per esse non c’è
scelta e il prezzo è alto da pagare per sé e per chi ne incrocia il cammino.
Non c’è pietà…
( l’angelo esce a capo chino. “P” si inginocchia abbracciandosi a se stessa))
“P”- ( cantilenando)Non c’è pietà… Non c’è pietà… e ancora, ancora, ancora, ho
un bisogno insensato d’amore!
(IL tema musicale di percussioni, voci e fiati)
(Arriva l’aquila: l’attore a torso nudo indosserà del rapace, le ali e la
maschera. Si mostra da dietro la roccia, si pone immobile sulla cima di essa)
“P”- (La voce di freddo, doloroso distacco)
Adesso è quasi notte, beffardo ghigno di luna impoverisce la risonanza di un
giorno in più che muore. Cosa pretendi, ormai, solitaria e sovrana, non ho più cuore
da cui potresti trarre nutrimento…
(L’aquila scende lentamente e si pone ai suoi piedi, dritta, la guarda, le
spalle al pubblico)
“P”- ( risata pianto) Non mi resti che tu, come destino…E ancora, ancora,
ancora ho un bisogno insensato d’amore…
( L’aquila si avvicina ancora di più)tema musicale
No, non ho più paura… e ho ancora un bisogno insensato d’amore…
Portami lontano, strettamente avvinte la mia alla tua solitudine, portami tra i
ghiacciai ardenti su cui io possa specchiare la mia desolata incompiutezza.
Sono frutto maturo di me, siamo io e il mio dolore io la sapienza che ho
d’essermi trovata e per sempre smarrita nell’istante in cui varcai la gelida
caverna della notte. Portami ove io possa mostrare le ferite, storia, mia
storia, a un sole altro più alto, più potente di misericordia.
Bisognava vincere la notte e io la vinsi. Bisognava comunque cercare un amore
che fosse vero amore. Ma non si ama se non si è inondato di luce il groviglio
oscuro della ignoranza di noi che ci alberga e in cui alberghiamo…
Nel punto incerto che sta tra il giorno e la notte, su quella soglia insoluta,
inquietante, conturbante ci fermeremo, Aquila, e lì mi lascerai, proseguirai il
tuo inarrivabile volo. Su quella soglia io resterò a trarre nutrimento e
tormento dalla mia estrema, fatale, solitudine. Dalla mia , consapevole,
distanza dal mondo.
(L’Aquila la prende tra le braccia, la solleva . Prenderanno il volo verso
l’alto, oltre il cielo)-
-sipario-