Aristodemo
di Carlo de' Dottori
PERSONAGGI
ARISTODEMO
AMFIA
POLICARE
MEROPE
NUTRICE
OFIONEO, sacerdote
LICISCO
ERASITEA, sacerdotessa
TISI
SOLDATO
MESSO
CORO mobile di cittadini messenii
CORO stabile di donne messenie.
La scena è in Itome, città di monte di Messenia.
ATTO I
SCENA I
ARISTODEMO, AMFIA.
ARISTODEMO
Tanto piangesti tu, tanto io pregai,
ch'a' miei voti, a' tuoi pianti
il Ciel s'intenerì. Respiro, Amfia.
Uscì dall'urna l'infelice Arena;
restò Merope nostra
allo sposo, alla patria, a' genitori,
e, s'a noi tocca, di Messenia al regno.
AMFIA
Lagrime avventurose,
figlie del mio dolor, lagrime degne
del periglio di Merope, e del nostro
tenerissimo affetto,
pur saliste nel Ciel co' miei sospiri,
pur trovaste pietà: Merope vive.
Or quali io desterò fochi odorati,
santi miei patrii numi,
sull'are vostre? E di quai fiori eletti
Merope mia vi tesserà corone?
ARISTODEMO
Ma sia privato il sacrifizio, Amfia;
ché vanità d'ambiziosa pompa
non è quella, che paga
i benefizii al donator celeste;
né con publico segno
d'allegrezza importuna
si deve concitar l'odio del volgo,
e stancar la pazienza
dell'oppresso mestissimo Licisco,
AMFIA
Così farò né perché meco esulti,
resto di pianger con Licisco il caso.
ARISTODEMO
È generosa questa,
e nobile pietà: tranne Licisco,
io più d'ogn'altro forse
accompagno dolente
il sangue degli Epitidi all'altare.
AMFIA
Ma che fia, s'egli niega
d'esser padre d'Arena?
ARISTODEMO
Uopo è di prova
e di sicuro testimon di questa
interessata scusa. E chi non vede
ch'e' niega d'esser padre
per negarci la figlia? E mentre perde
di genitore in apparenza il nome,
l'esser di padre veramente acquista.
Ma l'infelice frode
men fede che pietà trova in Itome.
AMFIA
Pur se frode non fosse?
ARISTODEMO
Aristodemo
daria la propria.
AMFIA
Oimé, signor, d'Arena,
non di Merope nostra, uscito è 'l nome.
ARISTODEMO
Dunque è vittima Arena; e invan Licisco
con pietosa bugia l'usurpa al Cielo,
ed inganna la terra.
AMFIA
Per lo tuo genio grande, e per le sacre
più venerande leggi
di natura e d'amor, signor, ti priego.
Non dir più che daresti
in difetto d'Arena
Merope al sacerdote.
ARISTODEMO
E tu non creder più ch'altri ch'Arena
sia la vittima eletta.
AMFIA
È degno certo
il timor di perdono in donna e madre.
ARISTODEMO
Ma non soverchio in donna illustre, e moglie
d'Aristodemo.
AMFIA
È così fiero il moto
del passato dolor, ch'io sento ancora
tremarmi in sen la mal sicura speme.
Non così tosto cessa
tempesta impetuosa ove flagella
le terga a Lilibeo Noto o Volturno;
ma, benché taccia il vento,
serba l'onda i tumulti,
né l'agitato mar si fida ancora
di rimettersi in calma.
ARISTODEMO
A te sen viene
policare: io mi parto. Oh come ha sparsa
del sereno del cor la fronte! A voi
lascio i pensier più dolci, e meco porto
le cure della patria e della guerra.
SCENA II
POLICARE, AMFIA.
POLICARE
O giorno per me candido e sereno,
che mi dona la vita
nella vita di Merope, in cui vivo!
Piovetemi sul crin rose e ligustri,
spirino intorno a me l'aurette molli
fiati d'amomo e nardo,
ch'oggi felice io son. Così alla sorte,
così piace agli dèi. Ridami intorno
il suol nei fiori; erga la face e venga
lieto Imeneo con fortunati auspizii.
Dal periglio di morte
oggi Merope è tolta. Oggi risplende
più puro il dì, ché dal tornato lume
in que' begli occhi viene
questa insolita luce. Oggi respira
natura in questa sua bell'opra, a cui
dal favor della sorte, anzi del cielo
conservata è la vita. Or qual può darsi
di perfetta beltà prova maggiore
della pietà del ciel, dell'evidente
rispetto di fortuna?
AMFIA
Policare, diverso
è questo giorno dal passato. Uscita
è Merope di rischio, io di spavento;
e tu, fatto già nostro,
meco il pianto rasciughi, e senti al pari
della noia il contento.
POLICARE
Non mi cape nel seno
l'immensa gioia (i' lo confesso) e temo
che la lingua o la fronte mi condanni
appresso il volgo, e sia
chi penetri il mio cor. Merope è salva,
ma condannata Arena;
e' non è tolto, ma cangiato il lutto
al sangue degli Epitidi. In sì fatta
division d'affetti
è più sicuro e più innocente il mesto.
Io però, che non fido
il segreto alle labbra del cor mio
senza provata fé di chi m'ascolti,
oh come volentier t'incontro, Amfia!
Confine angusto a gran diletto è un seno
che sia pieno d'amor. Ma quasi fiume
che intumidì per nuova pioggia, e sorse
col corno a minacciar gli umili campi,
già dell'alveo natio fatto maggiore,
cerca chi lo riceva,
spuma sul margo e quasi il margo affonda.
AMFIA
Necessaria altrettanto
quanto degna prudenza. A tempo giungi:
poiché se nel tuo petto
è soverchio il piacer, nel mio non sorge
con tanta piena; e forse
quello ch'avanza al tuo, potrà bastante
luogo trovar nel mio, senza che stilla
ne bea mal nota o peregrina fede.
POLICARE
Qual reliquia di tema
restar può in te, da che la sorte elesse
Arena al sacrificio?
AMFIA
O che sien queste
reliquie del timore,
o d'animo presago
(il che tolgan gli dèi) segni infelici,
non è tutta tranquilla
l'anima mia, né riconosce ancora
per legittimo lume
il raggio del piacer, che scorre e fugge
come fugge il balen per nube estiva,
e quante volte nasce
splendido e cerca nutrimento e regno,
tante muore sepolto
in questa mia caliginosa nebbia
di cure sospettose. Ah, ch'io non odo
senza tremar la scusa
addotta da colui, ch'altri deride:
io parlo di Licisco.
POLICARE
O generosa Amfia, non osa ancora
occuparti il contento,
che forastiero sopraggiunge e ignoto
all'anima abbattuta dal dolore:
così nel discacciar torbida notte
tutto non esce il sole,
ma nell'indico Gange
mezzo sommerso ancor, manda le prime
armi dell'alba a procacciar la via,
né pria che vincitor sorge dall'onde.
Licisco è padre tenero, e non guarda
a mentir della figlia
perché gli resti. E dove nacque? E quando?
Chi la produsse? È forse cieco Giove,
se bendata è Fortuna,
che ministra di lui ne trasse il nome?
AMFIA
Oh quanto di conforto,
Policare, mi porgi! Or sia tua cura
il prepararti alle vicine nozze.
Così voglian li dèi farti felice
di talamo fecondo, e così porga
lo stesso Amor, lo stesso
pacifico Imeneo fausti gli augurii.
Ti fie donata in breve
Merope mia; la più stimata parte
del nostro amor; nobilitato dono
del favor degli dèi; più prezioso
fatto dal suo pericolo e più caro.
POLICARE
Candida Giuno, vieni!
AMFIA
Vieni e tu, Citerea!
POLICARE
Merope torni
dal rogo mesto alle felici tede.
AMFIA
Merope torni dal sepolcro al letto.
POLICARE
E se Arena in sua vece
sotto a sacra bipenne
deve purgar le nostre colpe, ah, serva
per sempre il sacrifizio, e regni invitta
la stirpe degli Epitidi in Itome.
AMFIA
Io stessa della patria, e di noi degne
qui sparger vo' le concepite preci.
Rotin gli astri innocenti al mondo, e nutra
alta pace le genti.
Torni il ferro alla terra, onde fu tolto,
o in uso della terra
sia volto sol dalle sonore incudi;
e si perda non pur l'uso, ma il nome
di lorica e di spada.
Nessun foco più scagli
l'irata man di Giove;
portino Borea ed Austro
i suo' turbini altrove.
Fiume più non trabocchi
per neve sciolta dal suo letto, e renda
vane al bifolco le fatiche o svelga
la capanne e le piante.
Di nessun mortal succo
crescan tumide l'erbe, e non si beva
più nell'oro il veleno a mensa infida
di sanguigno tiranno;
e se di scelerato e di funesto
altro produr deve la terra, affretti
i mostri e le sventure,
sì che le purghi in un sol punto Arena.
POLICARE
Pace resti alla Grecia, a voi lo scettro
della Messenia, e giunga
Aristodemo alla nestorea meta,
o dell'Euboica polve
vegga gli anni felici. A te non fili
più brevi Cloto o men sereni i giorni.
Per voi scorra Pattolo e tinga Sparta
di porpora le lane;
Ibla fiorisca a voi, Lesbo vendemmi,
Gargara mieta; io sol comprendo in una
Merope fortunata ogni fortuna.
AMFIA
Quella, di cui si parla, ecco sen viene.
Resta, ch'io vo' partendo
lasciarvi affatto in libertà quel tempo
ch'alla sua libertà primo succede.
SCENA III
POLICARE, MEROPE.
POLICARE
E doveasi con tanto
pregiudizio del Ciel dare in tributo
questa bellezza ai fieri dèi dell'ombre?
Di pretender cotanto ardia l'inferno?
E tanto ardia la terra? O lumi eterni,
di cui risplende un vivo raggio in questi
adorati begli occhi,
meditavasi dunque onta sì grande
dall'arbitrio superbo di Fortuna?
MEROPE
Policare, s'io vivo,
vive un acquisto de' tuo' merti appresso
la celeste pietà. Temé Fortuna
d'offender tua virtù, per cui difesa
suo mal grado è Messenia. Io per te vivo,
e mi pregio di ciò. Tanto m'è cara
la vita, quanto è tua.
POLICARE
Se non fu sordo
a' miei lamenti dolorosi il cielo,
Argo anco fu per riconoscer queste
prodigiose tue caste bellezze,
immagini di quelle,
che splendono lassù: ne si potea
senz'ingiuria dell'une offender l'altre.
Te salvò dunque interessato il cielo,
e non osò Fortuna
de' più begli astri invidiarti i doni,
ed eclissar negli occhi tuoi due stelle.
Merope mia, tu vivi adunque? Appena
lo crederei, così fu grande il rischio,
così crudele il mio timor. Ma sento,
sento ben io che nel mio cor discende
quel raggio, che balena
nelle tue vivacissime pupille,
che m'assicura di tua vita, e il seno
d'una fiamma dolcissima m'ingombra.
MEROPE
Forse che sembra lume
quel che non è, ma tale
a te lo rende il paragon dell'ombre.
Ei nacque dall'oscure
tenebre del periglio, e nel sereno
ben tosto svanirà. Neve del Caspe
così notturna splende,
ch'all'apparir dell'alba
pallida langue e perde
il suo lume col dì.
POLICARE
Fu sempre lume
questo che manda il tuo bel volto, e sempre
i' n'arsi, e n'arderò.
MEROPE
Ma non potrebbe
uscir dagli occhi miei, se non avessi
foco nel sen. Dunque la fiamma è pari.
POLICARE
Dunque la nutra un sempre fido amore.
MEROPE
E con quella del rogo alfin s'unisca.
POLICARE
E 'l cener nostro una sol'urna accolga.
Ma d'onde solo viene,
e taciturno il venerabil Tisi?
MEROPE
Resta, io ti lascio a lui.
POLICARE
Parti, io l'incontro.
Ma protegga i miei casi e la mia fede
l'alma Giuno ed Amor. Gran dea di Samo
e d'Argo, odi i miei voti:
salgano a te dell'amor mio sull'ali.
SCENA IV
POLICARE, TISI.
POLICARE
Saggio Tisi, che porti, e donde vieni?
Grave pensier t'ingombra e teco stesso,
se la fronte severa il cor m'esprime,
tacitamente ne discorri.
TISI
È certo
grave il pensier, gravissime le cure
della Messenia, ed importanti sono
in questo giorno i casi. Odo chiamarsi
nel picciol tempio d'Ercole il senato
per terminar qual fra le poche e meste
pronipoti d'Epito
vittima scelta sia, qual re succeda.
Quindi piange Licisco, e 'l dolce nome
lascia di padre, protestando Arena
non del sangue d'Epito e non sua figlia.
Quindi Cleone, Aristodemo e Dami,
mendicando suffragi,
contendono del regno:
sta nel mezzo Fortuna; ancorché penda
il pubblico giudizio, e i voti stessi
del popolo a favor d'Aristodemo,
ch'Eufae, l'ucciso re, del suo favore
ha, prima di morir, lasciato erede.
POLICARE
Ma se il fato d'Arena è il fin de' mali,
donisi pur tributo all'innocente
vergine destinata a' numi inferni
di lagrime dovute; e poi si speri.
TISI
Certo non ha mai più veduto Itome
vergine illustre in sul fiorir degli anni
andar bendata a ritrovar la scure;
grande è 'l lutto però. Del re pur dianzi
morto in battaglia è segnalato il caso,
ma in sé non ha prodigio.
POLICARE
Ultimo forse
ei sarà de' flagelli.
TISI
Ultima pena
sia l'uccider le vergini all'altare,
né inorridita erga la Grecia il volto,
e chiegga qual sacrilego misfatto
la Messenia commise,
per cui plachi con l'ombre
delle fanciulle il provocato inferno,
e compri dalle Furie ignobil pace.
POLICARE
I suo' segreti il Fato
in notte profondissima ricopre.
Né pensier temerario, ancorch'i segni
vegga d'ira celeste,
de' giudicar per qual cagion di mano
esca il fulmine a Giove,
che i propri tempii folgorando abbatte.
TISI
Può ben esser occulta
la cagion per cui tuona,
pur è cagion. Ma tu saper non dei
de' Castori lo sdegno; e qual delitto
di Messenia irritasse
i due numi amiclei. Però, con degno
silenzio in te raccolto,
l'origine de' mali
in breve istoria e dolorosa attendi.
Fra Messenii e Spartani arde la guerra
per odio già invecchiato,
e di radici sì profonde e forti,
che sveller non si può, se non si perde
o di Laconia o di Messenia il nome.
Già fu pari il valor, pari gli dèi
prima che offesi: ogni confine intatto,
egual ogni battaglia, ogni fortuna.
E queste ch'ora stanno
giacendo miserabili ruine
d'abbattuti edifizii, onde l'orrore
viene accresciuto alle deserte ville,
Andania furo, Steniclero, Amfia,
città fastose, or sassi ed erba, dove
il superbo Spartan pasce gli armenti.
E quest'Amfia, di cui s'onora il nome
del tuo suocero illustre or nella moglie,
reggia sublime fu, ch'ultima oppresse
con insidia notturna
l'implacabil nemico: a cui successe,
di fama impari e di bellezze, Itome.
Così dunque tu vedi
che violati dell'imperio antico
d'ogn'intorno i confini, angusto regno
e gran nome ci resta. I fatti sono
maggiori della patria e della forza
ma dell'odio minori. E qualche volta
stupì fortuna, e diede luogo a questa
pertinace virtù, sì che difesa
da sé stessa e dal sito
regna pur anco. Or questa guerra ardea
sul fior degli anni miei d'esito ancora
quasi che indifferente,
quando per nostra colpa
perdemmo i dèi, mancò la sorte, e cesse
Messenia sfortunata
allo sdegno de' Castori, ed all'armi
del protetto fierissimo rivale.
Stava accampato lo spartano a fronte
dell'esercito nostro, e celebrava
de' due figli di Leda e del Tonante,
tra le vittime e i fochi, il dì festivo;
l'opra chiedea la fede
dello stesso nemico, e 'l giorno sacro
e 'l sacrifizio assicurava il campo;
ma non so qual furor gli animi spinse
di Panormo e Gonippo,
giovani audaci, a scelerata frode;
anzi tal, che minore
muover non può contro l'umana gente
l'ire tarde del ciel, levar le sacre
tutele avite ad una patria, e tutte
ribellarle le stelle.
Costoro occultamente
tolte le note e riverite insegne,
di cui sogliono ornarsi
i simulacri di que' numi appunto,
sopra veloci e candidi destrieri
più che neve pangea, con l'aste in mano
volser concordi il passo
da' nostri padiglioni a quei di Sparta.
Non così tosto apparve
la sacrilega coppia, ancorché bella,
che stupefatto il popolo d'Eurota
chiamò Castore l'un, l'altro Polluce,
e lor drizzando i voti e rinnovando
le vittime e gl'incensi,
adorò riverente
la deità mentita;
e l'augure, non ch'altri, e 'l sacerdote,
tratte le bende e le corone al crine,
a quegli empii le offerse,
che il suo cor ne ridean. Né qui fermossi
l'orgoglio lor, ma far nocenti osaro
gli dèi con empia colpa, insanguinando
nel volgo inerme ed ingannato il ferro.
Or che dissero in cielo
i veri numi? E di che giusto sdegno
sfavillò tra le stelle
il bell'astro Ledeo? Stanchi alla fine,
e superbi dell'opra,
ma profani, ma lordi
d'infausto sangue di tradite genti,
sen vennero, portando
all'infelice lor patria innocente
acerbe, miserabili sventure.
Da quel punto infelice
non fu più dubbio Marte,
né più sospesa la vittoria. Giove
la sua causa ha protetto; e benché fosse
quel valor primo in noi, però non v'era
quella sorte primiera.
Si perdé combattendo, e 'l vincitore
vinse col fato, anzi ammirò sovente
le sue vittorie, in forse
di crederci perdenti.
Ruinò le cittadi, arse le ville,
desolò le campagne: invitto in loro
il braccio, il core in noi: fastosa Sparta,
sdegnosa Itome, e ricusante il giogo.
E qual terra perduta
dell'ossa nostre non biancheggia? E quanto
del cener nostro il vomero spartano
ara ne' campi, or che nemico all'ombre
per uso lungo senza orror s'avvezza
il fier bifolco a violar sepolcri?
Pur non manca virtù. Pur il feroce
genio nostro minaccia; e l'orgoglioso
vincitor pur paventa
le reliquie de' vinti,
e d'un gran nome le memorie e l'ombra.
Già venti volte caricò di neve
Taigeto il giogo, ed altrettante ha scosso
il verno dalla chioma;
e pur dura la guerra. Ofioneo,
ch'entro alla notte de' celesti arcani
vede altamente, interprete del fato,
e degli dèi, propone
che la mente del Ciel da Febo intenda
uom pio dei nostri. A tanto onor fui scelto,
né 'l meritai. L'opra eseguita, in breve
tornai da Delfo; infausto nunzio a pochi,
felice a molti.
«Una fanciulla epitida, matura
scelga la sorte, e s'offerisca a Dite
quando più tinge il ciel la notte oscura».
Così Pitio cantò. Questo è l'oracolo;
io lo portai. Fioriscono due sole
vergini in questo punto, in cui s'adempie
la richista di Febo:
Arena di Licisco,
Merope, e tu lo sai, d'Aristodemo.
L'altre d'età incapace, e sul primiero
limitar della vita,
men lagrimosa perdita e men grave,
credesi che non sien chieste da Dite,
a cui rimessa ha la vendetta il cielo.
Son posti in piccol'urna i nomi adunque
di Merope, e d'Arena,
in cui si sente vivamente il danno,
e che lascian di sé lutto solenne.
Trema Licisco, e pave
Aristodemo. La Messenia pende
attonita dal caso,
ch'oggi a favor di Merope condanna
Arena al sacrifizio. Un pianto solo
resta di due timori.
Respira Aristodemo;
Licisco infuriato
implora in suo soccorso uomini e dèi.
Niega che Arena a lui sia figlia, niega
di darla al sacerdote;
chiede prove il Senato,
protesta Aristodemo,
re non s'elegge; e sta sospesa Itome.
Io dal confuso popolo mi traggo,
abborrisco l'aspetto
delle cose turbate, e vonne al tempio
lassù di Giove ad aspetarne il fine.
POLICARE
Gran cose ascolto. Io, quando ardì Panormo
fingersi Dio, da molli fasce avvolto
innocente vivea. Sentito ho poi
da molti il caso variamente e poco,
con mio stupore, a detestarlo. Solo
Ofioneo significò pur dianzi
ciò che ogn'altro tacea, che la cagione
del nostro mal fu de' garzoni il fallo.
TISI
Spesso un misfatto prospero e felice
è chiamato virtù. La miglior parte
non assentì con la maggior, ma tacque.
Così restò impunito:
o che fosse destino
della Messenia o dell'umano fasto
delitto, del commesso assai maggiore.
POLICARE
Ma di Licisco?
TISI
O trovar deve il padre
d'Arena, o consegnarla.
POLICARE
E se trovasse
il genitor?
TISI
Ritorna
nello stato di prima il dubbio, a cui
tocchi di dar la vittima. O che forse
nella rimasta sola
figlia d'Amfia fora eseguito il duro
imperio della delfica risposta,
se vanno esenti le bambine.
POLICARE
O santi
numi del ciel, no 'l consentite!
TISI
Alfine
padre sarà Licisco. E qual più certo
segno che 'l suo dolor? Quanto s'affanna,
altrettanto s'accusa.
Ma che parla colui, che frettoloso
ed attonito vien?
POLICARE
Messo è di corte.
SCENA V
MESSO, POLICARE, TISI.
MESSO
I tutelari patrii numi e Giove
abitator di questo nobil monte
difendano i Messenii
in sì torbido giorno. Oh che sventure!
Il fin d'un mal grado è dell'altro! Guerre,
morte de' re, vittime umane, accuse,
fuga, timor, contrasto
di titoli e di regno.
TISI
O tu, che mostri
gran cose agli atti, alle parole, al volto,
d'onde vieni? A chi vai così veloce?
Nunzio di che?
MESSO
D'insoliti accidenti.
POLICARE
Eletto è 'l re?
MESSO
Non anco.
TISI
E chi succede?
MESSO
Aristodemo ha tutto
il favor della plebe; e pria ch'eletto
viene acclamato. Ma si tratta prima
di dar vittima a Dite,
ch'alla Messenia il re.
POLICARE
Fu scelta Arena.
MESSO
Scelta, ma non presente.
POLICARE
Oh Dio! Licisco?
MESSO
Fuggito è seco.
TISI
Oh stravaganza!
POLICARE
I' temo
qualche sciagura orribile.
MESSO
Licisco,
che lungamente ha protestato invano
d'esser padre supposto,
partì dolente e disse
d'acquetarsi col Fato,
e di cedere a' dèi, ma, scaltro, aggiunse
la seconda menzogna alla primiera,
e partì con la figlia inosservato
per la città confusa ed occupata
nell'esequie del re.
POLICARE
Tradita è Itome.
MESSO
Pur fu chi sospettò, chi lo riferse;
ne dubitò il Senato,
ma pur non si credea. Mi fu commesso
sottrarne il ver. Vera è la fuga, e vero
il suo delitto e 'l comun danno.
POLICARE
O crudo
ingegno di Fortuna,
che mediti di grande e di funesto
per la Messenia e per le dolci mie
lusingate speranze?
SCENA VI
NUTRICE, MEROPE.
NUTRICE
Figlia e signora, è vero:
sempre è bella virtù dovunque alberghi;
ma quest'anima grande, immobil tanto
alla varia Fortuna, e questo eccelso
petto, che morte e vita incontra, e nulla
o poco almeno, si rallegra e turba,
degno è d'eroe, d'invidia al sesso forte,
di stupore a natura. Oh meraviglia!
Allor che 'l nome tuo l'urna chiudea
e che tua nobil vita
dall'arbitrio del caso, oimé, pendea,
distruggevasi Amfia,
Policare languia,
sospirava il gran padre, e a viva forza
d'una virtù sublime
il pianto trattenea,
e tu sola potevi il proprio lutto
mirar col ciglio asciutto!
Or che torni a te stessa, a' genitori,
a Policare tuo, mentre la patria,
non che 'l tuo sangue, esulta,
con sì deboli segni
di lieto cor l'alta ventura incontri?
MEROPE
Nulla osservi, o Nutrice,
di severo o d'insolito, che possa
meritar questa o meraviglia o lode.
Ho senso per i mali,
ma per quei della patria. I miei non furo
e non parvero mali;
ché troppo gloriosa era la morte
per atterrirmi. Orsù, fur mali, e torna
il bene: io lo ricevo: è questo forse
altro ben, che 'l goduto,
pria che 'l male apparisse? Io pur son quella
Merope stessa, e sono
figlia d'Aristodemo,
pronipote d'Epito, e imitar deggio
i costumi degli avi, e con la sorte
moderarmi d'Arena.
NUTRICE
Ma non merta una vita
donata dagli dèi sì poca stima,
che non gli applauda ogni pensier più grande,
e più severo.
MEROPE
Il dono
è grande; e grande era l'onor di quella
morte liberatrice
della Messenia. S'io perdea la vita,
cosa frale perdeva: eterno acquisto
era quel della fama; e dalla plebe
dell'anime distinta
l'ombra mia segnalata ita sarebbe
maggior dell'altre alle tenarie vie.
NUTRICE
Figlia, termina il fasto
col rogo, e non arriva
a insuperbir fra i morti.
MEROPE
Il merto ha premi
anco fra l'ombre, e separata stanza
ha la virtù. Sono distinti i casi,
distinti i luoghi, e per grand'atto fassi
grande anco un'ombra.
NUTRICE
Ombra quantunque grande
non ti volea Policare. Ah, per lui
cara ti fia la vita! Egli è ben degno
di te; tu l'eleggesti; e basta questo
testimon del tu' affetto
per farnel degno. Or se di lui ti cale,
di te ti caglia, e mostra
che ti piaccia una vita,
che piace a lui. Questo è pur troppo un segno
ordinario e comun, che non ti toglie
di seno alcun de' tuo' riguardi alteri.
MEROPE
Generoso è Policare, e non chiede
da tenerezze molli
prove dell'amor mio.
NUTRICE
Par che tu abusi
il favor degli dèi, che ti sia grave
la vita, o figlia. A che pugnar con questo
rigor con la natura,
e scacciar ostinata il dolce nome
e 'l piacer della vita?
MEROPE
Io non ricuso
la sorte mia. Ma non so già se porti
dallo scorso periglio
qualche men grata impression la vita,
che bella non m'appar com'io sperai,
e men lieta, e men avida, l'incontro.
NUTRICE
Il passato timor non t'assicura.
Vedi s'i giorni tuoi volger sereni,
figlia, ti mostra d'ogni parte il Fato;
vedi com'oggi porta
la salute alla Patria, il regno al padre,
a te lo sposo.
MEROPE
A me lo sposo. Or questa
speranza adorna sola
la vita a cui ritorno. Io ti confesso
ch'una perdita sola
perdita mi parea. La patria, il padre,
la vita, le fortune,
cose o scordate o non amare almeno
nel pensier di lasciarle.
Sol Policare mio,
perdita grave e certa,
mi destava un pensiero,
in cui tutta apparia, quant'è, la morte.
NUTRICE
E in questo solo acquisto
bella t'apparirà, com'è, la vita.
MEROPE
Di Policare sono,
a lui vivrò.
NUTRICE
Vivrai, nobile dono
della pietà celeste,
onor della Messenia, amor d'Itome.
SCENA VII
ARISTODEMO, SOLDATO.
ARISTODEMO
O troppo nel donar facili dèi,
ma difficili ah troppo
nel conservar i fuggitivi doni!
Sceglie la sorte Arena,
e Merope rifiuta! Arena fugge,
e la mia figlia a nuovo rischio espone!
Restan gli dèi scherniti? O chiedon questa
se perdonano a quella? Il Cielo è forse
diviso in parti? E alcun de' numi è fatto
compagno della fuga? O Febo mente?
Né son placati i Castori? E non basta
una vittima a Dite? Ah, ch'uman senso
è cieco, è sordo, e tenebroso il calle
dell'umana prudenza. In che diffidi,
troppo molle pensier? Béndati, e segui
l'ordine del destino,
che qual impeto d'onda, allor che sciolte
delle tepide etesie al fiato estivo
le nevi pirenee cadono in fiumi,
arbitro delle cose il tutto abbatte,
e seco tragge ruinoso al fondo.
Ma che? Trascurerà l'uom forte e saggio
ciò che detta ragione,
e natura comanda?
SOLDATO
È già in procinto
spedito stuol d'arcieri nostri, a cui
scelsi i destrier più rapidi, che mandi
Argo o Tessaglia, e voleran per l'orme
del fuggito Licisco,
qualor tu 'l chieda.
ARISTODEMO
Ite, allentate i freni,
sollecitate ai corridori il fianco
e superate le saette e i venti.
Ritornate agli dèi l'ostia involata,
pace alla patria, a me la figlia (ah, dove
mi portava l'affetto?), al Genio, al nome
dell'invitta Messenia il pregio antico.
Se lo vieta Licisco, e si difende,
castigate il ribelle;
ma voi, ch'alzaste altari
al domator di Cillaro, al feroce
lottator amicleo, fanciulle, intanto
spargete incensi e cominciate il canto.
CORO
Mentre salgono al ciel fumi odorati,
e risplende ogni altare
di fiamme sacre, in ciel s'acqueti il vento,
e al canto nostro intento
senza timor de' procellosi fiati,
stenda le terga affaticate il mare.
Pace spirin le chiare
sante faci ledee: miri benigno,
e pace canti in fra le stelle il Cigno.
De' Castori tra noi risuona il nome;
chieggon pace i Messenii
ai figli del Tonante oggi, e di Leda.
In questo giorno ah ceda
l'ombrosa Amicla alla sassosa Itome;
lascia l'Eurota, o prole eterea, e vieni.
Diano i sonori freni
segno della venuta, e quanto un solo
Cillaro può dica percosso il suolo.
Voi Nettuno ammirò del mar non uso
all'oltraggio de' remi
tentar ignoti e formidandi casi.
Voi sul barbaro Fasi,
vinto il rigido Fato e 'l re deluso,
lieti portaste alla Tessaglia i premi.
Corse su i lidi estremi
attonito il Pelasgo, e ornò d'alloro
le sacre fronti e l'ariete d'oro.
Sull'ampio Alfeo gli omeri forti e 'l seno
tu, Polluce, nudasti
prima, e di piombo ti suonò la destra.
Né men nobil palestra
Castore esercitò; né si dovieno
dar principii all'Olimpica men vasti.
Ché in quei primi contrasti
lottar con meraviglia il Greco vide
d'elea polve e di membra orrido Alcide.
Egli v'ornò dell'iperboreo olivo
prima le chiome bionde,
e consacrò le gare illustri a Giove.
Tali ah venite dove
vi porge il coro nostro inno votivo,
d'alloro cinti e di palladia fronde.
O quali in sulle sponde
del patrio Eurota, o del Taigeto ombroso
dopo l'armi cercate alto riposo.
O quali atra tempesta in mar feroce
ad appianar scendete,
auree stelle di pace a' naviganti.
Stagnansi i flutti erranti,
fuggon le nubi, e il fiero stuol veloce
de' venti fugge alle caverne usate.
Pigra e innocente estate
occupa l'aria; e nel primiero sito
tornato il mar, bacia, non urta il lito.
Tali ah venite a noi; così risplenda
pacifica e clemente
oggi a Messenia la tindarea stella.
Cessi omai la procella,
ed in placida calma il fianco stenda
oggi, vostra mercé, la stanca gente.
Passin con l'ombra algente
della vergine offerta al negro Averno
i mali nostri, e sia 'l riposo eterno.
ATTO II
SCENA I
AMFIA, NUTRICE.
AMFIA
Nulla più di speranza
lasciano al mio timor gl'infausti augurii.
Non danno incerti segni
su caso certo i dèi. Fuggita è Arena
o non ben scelta, o non accetta, o forse
cura d'alcun di lor.
NUTRICE
Febo non mente:
indarno ella fuggì.
AMFIA
Pur fugge, e resta
Merope mia di nuovo esposta.
NUTRICE
Il Cielo
non muta voglia. Arena
è la vittima eletta.
AMFIA
E chi del Cielo
gli arcani intende e può saper le vie?
NUTRICE
Parlò in Delfo abbastanza.
AMFIA
Io non l'intendo.
NUTRICE
Febo s'espresse ben.
AMFIA
Non disse Arena.
NUTRICE
Disse un'eletta.
AMFIA
Epitida v'aggiunse.
NUTRICE
Di che temi o gran donna?
AMFIA
Dell'incerte
vie di fortuna e dell'ingegno umano.
NUTRICE
La tema è figlia del tu' amor.
AMFIA
La tema
nel dubbio è un infelice augure muto.
NUTRICE
Ma spesso vano. Or quai prodigi osservi?
qual sasso parla, o quale
ciel senza nubi tuona?
qual ombra ti minaccia? Ardono i fochi
sacri di Giuno, ed alla dea d'amore
coronate di fior s'apron le porte:
nulla s'ode di mesto ov'è salvata
a Merope la vita, a voi la figlia,
e la sposa a Policare; e tu temi?
AMFIA
Voce notturna, vocal marmo o tronco
portentoso che parli, a me non porge
questo terror. Gli stessi dèi pavento
non placati o implacabili. Io pur vidi
segni orrendi di ciò sui proprii altari,
che mentre a' patrii antichi dèi di questa
regal casa d'Epito io dianzi offersi
vittime, incensi e preghi,
né serena la fiamma al Ciel drizzossi
né con fulgida cima,
ma incerta, ottusa e fiacca,
gì serpendo all'intorno e d'atro fumo
sparse torbidi flutti. Un color solo
non ritenne, o un aspetto,
ma qual iride curva apre confuso
il sen dipinto, e non distingue alcuno
terminato confin tra l'ostro e 'l croco,
così la fiamma ora cerulea e mista
di bionde note, ed or sanguigna, alfine
in tenebre fuggìa. Pur questo è poco.
Non cadde il toro al primo colpo esangue,
ma ferito, muggendo
fuggì dal sacerdote, e dopo un breve
furioso rotar, stanco, a gran pena
col sangue vomitò l'alma ritrosa.
Nella vittima aperta
più crudeli minacce apparver poi.
S'ascose il cor nel sangue,
né sorgea capo alcun: scotea le fibre
alto tremor. Sparse di fele tutte
son le viscere infauste,
né v'è segno infelice,
che non s'osservi in lor. Ma, per più atroce
prodigio, un altro già prostrato bue
alza dal suol le sanguinose membra,
e vacillando in su mal fermi passi
gli stupidi ministri urta col corno.
Or che fia ciò? Non è placato il Cielo:
cagione ho di temer.
NUTRICE
Non te lo niego;
gran cose son, ma forse
da geloso timor troppo osservate.
AMFIA
Pur attonito stava il sacerdote,
e le temeva.
NUTRICE
Spesse volte al caso
un facile sospetto
dà nome di prodigio. Or ecco torna
un de' soldati arcieri,
che seguito han Licisco. Intender puossi
ciò che seguì da lui, ciò che più resti
di tema o di speranza.
SCENA II
AMFIA, SOLDATO, NUTRICE, TISI in disparte.
AMFIA
Ferma i passi, o guerrier, narrami quanto
Oprò, vide o sentì la schiera vostra
nel seguitar Licisco.
SOLDATO
O donna eccelsa,
ben che fretta importante
al Senato mi spinga, a te pur deggio,
moglie d'Aristodemo e già vicina
ad essermi regina,
anco obbedir. Sollecito e spedito
di Licisco seguì l'orme il drappello,
ed io compagno all'opra,
anzi dell'opra stessa
non picciolo calor, primo scopersi
Licisco fuggitivo ove il Taigeto
veste d'antica selva il piede ombroso,
che negra d'elci, irta di pini, opaca
di vecchie querce, in più d'un luogo appoggia
i tronchi annosi e stanchi
alle vicine vigorose travi,
e col nerbo dell'un l'altro sostiene.
Così folto, difficile e mal certo
si rende il bosco; e, ricusato il giorno
dall'ombre pertinaci, un pigro e mesto
aer vi siede. Io lo scopersi appunto
che, avvistosi di noi, verso la selva
a tutta briglia il corridor spingea.
Noi lo seguimmo, e minacciando pure
di saettar le fuggitive terga,
rapidamente l'incalzammo. Arena,
accusata dall'abito e dal crine,
prima fuggìa: seguia Licisco, e dietro
un giovanetto servo. Alfine, o fosse
avvantaggio di spazio, o lena forte
de' lor destrieri, o qualche Dio nemico
alla Messenia, ricovrolli il bosco,
e li difese; ch'a ferir le piante
se n'andar le saette
drizzate a lui con disperato fine
di punirlo o fermarlo. Entrammo dopo,
ma fu cercato e minacciato invano
per l'indistinto errore
e la confusa libertà del bosco.
Sdegno, stupor, vergogna
in noi rimase; e dopo lunga e vana
diligente ricerca, usciti a vista
delle tende spartane,
entrar vedemmo il ribellato padre
e la figlia seguace, accolti e forse
istigati alla fuga.
Noi pochi e stanchi, inabili ad impresa
e difficile e grande,
torniam dolenti ad avvisarne Itome.
AMFIA
Ecco certi i prodigi,
ecco i segni veraci.
NUTRICE
Ah dèi, che sento?
SCENA III
TISI
TISI
Non sol fuggita, ma perduta è dunque
la figlia di Licisco. Oh quale a Sparta
favorevole incontro!
E qual cura gelosa
della sua vita avrà, se la sua morte
salvar può la Messenia! Oh, nel profondo
abisso del destin sommersi arcani,
venerandi però! Chi non credea
l'una assoluta e condannata l'altra
dal voler degli dèi? Pur vive Arena
cinta dal muro forse e dalle spade
del feroce nemico,
e sola esposta al sacrifizio resta
Merope sfortunata,
protetta invan dal caso. O forse il caso
ha da vagar fra gli altri nomi, e al grande
rischio mortale andranno
le tenere bambine, in cui non trovi
luogo per la ferita il sacerdote?
Oh, di che pianto amaro
han da bagnare il sen le donne illustri
della casa d'Epito! Ite, e fondate
su i titoli degli avi, e sull'inferme
basi d'alta fortuna il fasto umano.
Già così non paventa
agreste madre, e non aspetta il duro
oracolo febeo, che dalle braccia
le svelga i pegni dolci. O santa pace
delle capanne, intorno a cui non rota
invidia di Fortuna!
Le speranze sollecite, i timori
gelati errando vanno
solo per le città. Per le superbe
porte de' re non entra il sonno mai
se non chiamato; e timoroso passa
fra gli armati custodi. Oh fortunato
chi fra povere canne occulto vive
sicuramente! E la morte non cerca,
ma non la teme; e per lasciare il nome
sopra un marmo loquace,
ambizioso il proprio mal non segue.
Ma intender vo' ciò che ne parli Itome,
e l'indovin comandi.
SCENA IV
ARISTODEMO, AMFIA in disparte.
ARISTODEMO
Hai vinto, Sparta, hai vinto:
pur son teco gli dèi. Nessun di loro
resta a Messenia, o restano i perdenti.
Or chi darà la vittima, s'Arena
più non può darsi? Ofioneo protesta,
insta, minaccia, e chiede un cambio eguale.
Ha da sacrificarsi una fanciulla
del sangue nostro a Dite.
Ma dove il petto antico? Ov'è la dura
virtù, che ammira il vincitor d'Eurota
nel sangue degli Epitidi feroce?
Sento rapirmi: e non so dove; e pure
pur son rapito. Assai maggior dell'uso
l'animo ferve intumidito e volge
pensieri eccelsi. Non ardisce ancora
confessarsi a se stesso. Ah, non ha vinto
Sparta! Espugnar bisogna
il cor d'Aristodemo. Itene, affetti,
itene, o tenerezze; e tu, natura,
volgi altrove la fronte. Oggi mi svelgo
il cor dal sen: Merope dono a Dite.
Crudel, ma generoso
sì; redimer mi piace
con parte del mio sangue un regno intiero.
Ritornate, o da noi partiti numi;
Merope è vostra. Errò la sorte: il padre
non errando la dona. In lei s'adempia
la richiesta di Febo. Ogn'altra io scuso
per innocenza d'anni;
le colpe dell'età, dell'esser mia,
dell'affetto comun Merope tiene;
le pagherà. Sì fatta
piace al rigido Inferno; e tal sen vada,
ombra nobile e grande,
ad occupar l'ombre d'Eliso, e mostri
quanta sia; quanto sdegno
consumasse de' Castori; e con quale
apparato d'oracolo e d'altare
e di pubblico lutto a Stige arrivi.
Olà, Messenii: manca
Arena, ma non manca ostia a Cocito.
Sien placati gli dèi.
SCENA V
AMFIA, ARISTODEMO, TISI in fine.
AMFIA
Fra i Messenii io pur sono
non ultima, e non vile, e nella vita
dell'offerta fanciulla
ho la metà delle ragioni; e prima
che cederle ad alcuno,
cederò questa vita omai stancata
da lunghi mali. Aristodemo, ah troppo
è barbaro il pensier per greco padre,
s'esser padre rammenti; e non rifiuti
a Natura i suo' doni, e non calpesti
le leggi; e furioso
non rompi il dolce vincolo d'amore.
Or quali, or quali sono
gli dèi che inviti a ritornarsi a noi?
Qual pietoso spettacolo prepari
degno di lor presenza? Un padre uccide
la figliuola non chiesta, anzi dal Cielo
preservata pur dianzi, e spettatori
gli dèi chiama dell'opra?
Quel che davi dolente e a forza or doni
volontario e non mesto? A te s'aspetta
dar legge al ciel? Così abusato è il grande
dono di sua pietà? Così placati
gli dèi saranno e soddisfatto Averno?
ARISTODEMO
Donna, né a te s'aspetta
dar legge a me, che sento il duol, ma il duolo
non mi toglie a me stesso. Or dimmi, e quale
vittima resta, s'è perduta Arena?
Ah, si fregi di questo
atto di volontà nobile e grande
ciò che diamo costretti; e paia dono
l'obbligo necessario. A che avvilirlo,
con inutile pianto? Ornar più tosto
convien di generosa alta apparenza
ciò che si rende al Ciel, ciò ch'esser noto
deve a tutta la Grecia, e sulle penne
di non bugiarda Fama
volar eterno alle venture etadi.
AMFIA
E pur è ver! Determinato è questo
funesto, abominevole pensiero!
Tua mente il concepì! l'anima fiera
senza orror lo trattiene!
E m'adorna un dolor tanto difforme
di vani fregi! Io guiderò all'altare
sì, sì, Merope nostra. Io d'aspra fune
le stringerò le molli braccia al tergo;
io canterò l'orrendo voto. O Dio!
Vuoi più? Vuoi ch'io ferisca? Ah, questa cruda
destra baciata indarno,
e bagnata di lagrime infelici,
certo di man mi leverà la scure.
Aristodemo, Aristodemo, padre,
sposo, nomi già dolci! O Dio, tu soffri
l'orribil faccia d'un pensier sì atroce,
e l'aspetto non tolleri di questa
moglie e madre dolente?
ARISTODEMO
Ad altro tempo
serba, donna, le lagrime. I Messenii
attendono quest'atto,
o lo vorran. Le violenze abborro.
Libera io do la figlia al sacerdote,
prima che prigioniera; e degno io resto
di duello scettro a che m'acclama Itome.
AMFIA
Vorran questa i Messenii
vittima, che non fugge, e mal difesa
dal padre stesso. Or che non vassi prima
a trar di mano al vincitor superbo
la trafugata e l'usurpata Arena?
Qual più degna cagion d'impiegar queste
reliquie di virtù? Ma si perdoni
al profano Licisco, e vegga Arena
dalle torri spartane
di mia figlia innocente in pace il rogo,
e sieda in ozio Itome
a sì fiero spettacolo e sì ingiusto:
così permette il padre, e con tal prezzo
compra l'applauso delle genti e 'l trono.
Ah, tolga Dio che 'l regal manto cinga
il sangue della figlia
al padre ambizioso.
ARISTODEMO
Io non pretendo
di salirvi così. Più cauta, Amfia;
la dignità del genio mio s'offende.
Amo, qual deve uom forte,
più che la figlia mia la patria e 'l nome.
AMFIA
Gran parte sono della patria i figli.
ARISTODEMO
E dansi per la patria.
AMFIA
Dansi lecitamente.
ARISTODEMO
Non è lecito sol, ma degno il caso.
AMFIA
Il caso ha scelto Arena.
ARISTODEMO
Ed il caso l'ha tolta.
AMFIA
Chi chiede il sacrifizio, il caso o Febo?
ARISTODEMO
Certo, il delfico nume.
AMFIA
Or a lui s'obbedisca e torni il nome
di Merope nell'urna ov'altri sieno
e disponga Fortuna. Io non ricuso
di ritentarla.
ARISTODEMO
Invidiata è questa
sorte dagli astri avversi. Ha figlie Dami
e n'ha Cleone, ma dall'urna escluse
per l'incapace età. Tisi dirallo,
ch'opportuno qui giunge.
SCENA VI
TISI, ARISTODEMO, AMFIA.
TISI
Non basta all'avid'Orco
picciolo sacrifizio. Oimé, bisogna
che sappia di morir l'ostia che muore.
Però si crede che rifiuti quelle,
nella cui debil vita
poco potrebbe esercitarsi morte.
poco goder la crudeltà d'Averno.
AMFIA
E chi l'afferma?
TISI
Ofioneo. Di Febo
egli è ministro, e tocca a lui d'esporre
la delfica risposta.
AMFIA
Egli ci forma
gli dèi crudeli. Oimé, più tosto a Delfo
perché non si ritorna?
TISI
Tanto commercio non abbiam col cielo,
ch'a voglia nostra ei parli.
AMFIA
O Tisi, o sempre
funesto quando parli! Io non credea
che tu crollassi ancor le ruinose
misere mie speranze.
TISI
Amfia, mi duole
di te. Fosse pur altra
via di salvar Messenia! Andai richiesto,
richiesto parlo.
AMFIA
O misera! E mi serba
al funeral di Merope fortuna?
Chiuderò gli occhi a lei, raccorrò l'ossa?
E riporrò le ceneri nell'urna,
quel ch'io da lei sperava,
offizio di pietà, ch'era dovuto?
Vile, ah troppo, ch'io sono
a saziar la rabbia delle stelle
col mio dolor. Non fia mai ver ch'io viva
dopo Merope mia. Degno è un sì grande
sacrifizio di qualche atto solenne,
che lo preceda. Io sarò nunzia a Dite
della venuta sua: né ignobil forse
né inoperosa. All'anima preclara
liberatrice di Messenia, offerta
dal padre suo, preparerò la via.
ARISTODEMO
Necessità di Fato,
obbligo con la patria, onor severo
ti sgridano altamente. Una sol morte
mille vite risparmia: or se tu nieghi
timida, non è questo
un tradir la tua patria? Un dar in preda
all'avido spartan, che vincer puossi
se tu vinci te stessa, i pochi avanzi
e preziosi del messenio impero?
Sofferirai che spenga
la nostra gloria il fier nemico, e mieta
con la fiamma vorace i patrii campi?
Che disperga le polveri di mille
anime illustri, a cui
costò tanto la patria? E tu le mani
e i lacci porgerai? Sì, sì conferma
Merope al tuo nemico, Aristodemo
al trionfo di Sparta! O moglie, o Amfia,
ti sien legge i miei detti. In pace togli
il voler del destin, ch'al mio dà legge.
SCENA VII
AMFIA, TISI.
AMFIA
Udite strana legge,
che mi porge e mi limita il dolore!
Che approvi le mie pene, e che a misura
d'una falsa ragione il cor le senta,
com'esser puote? O del mio duol tiranno
più tiranno divieto! Anco m'è tolta
la libertà del pianto? Anco son tolte
al funeral di Merope infelice
le lagrime materne? Ah, non fia tolto
il sangue: onor più degno, onor più grande,
e più caro ad Averno.
Del morir quando io voglia
l'arbitrio è mio. Mi si può tor la vita,
ma non la morte.
TISI
Non è virtù temer la vita, Amfia,
ma l'ostare ai gran mali.
AMFIA
È lieve il duolo
capace di consiglio.
TISI
I proprii casi,
o nobil donna, fuor di tempo aggravi.
Così penoso è 'l mal, come la strada,
che guida al male.
Degli umani giudizii
spesso ride Fortuna, e 'l fin diverso
dall'atteso prepara.
AMFIA
Ov'è Fortuna?
Aristodemo è la Fortuna e il Fato:
ei condanna la figlia.
TISI
E la Fortuna,
e 'l Cielo Arena. E chi può dir qual sia
la mente del destin prima che cada
sulla vittima il colpo?
AMFIA
Ah, moribonde
scintille di speranza! Ah, di pietoso
consolator dolci lusinghe, e vane!
Disposto il padre ha della figlia, ed io
della madre ho disposto.
TISI
Furiosa ella parte. Oh qual feroce
spirito infiamma il volto! Oh quanti il volto
affetti esprime! Frettolosa, incerta
muove il piè, come suole
agitata baccante. O dèi, prendete
cura o pietà della Messenia almeno!
CORO
O sapienza eterna di natura,
che dai legge alle stelle e che l'immensa
mole del ciel con certo moto aggiri,
perché dispor con ansiosa cura
l'eteree vie così, che 'l freddo verno
ora nudi la selva,
or torni l'ombra al bosco,
ora il fervido Cancro
Cerere imbiondi, ora s'invecchi e tempri
le forze sue men vigoroso l'anno,
e lasciar senza alcuna
regola poi le cose umane esposte
all'arbitrio incostante di Fortuna?
Quaggiù tutto disordina o confonde
il caso cieco, e con occulto inganno
la prudenza delude,
defrauda le speranze,
e con diverso fin dal preveduto
termina gli atti nostri e l'opre chiude.
Nascon guerre da pace,
quiete da tumulto, amor dall'odio,
dal possesso desio, tema dal certo,
perigli dal sicuro, error dal lume,
tutto confuso al fin, mobile incerto
più che mar, più che vento,
più che libica arena,
e in cento dubbii e cento
pur v'è chi trovi ombra di vero appena.
Non fu così turbato
certo l'umano stato
quando era inerme e giovanetto il mondo,
e dal regno non anco
discacciato Saturno,
non insegnava ad usurparsi i regni
lo stesso Giove, e nutrir gare e sdegni.
O allor quando diviso
in tre gran parti il tutto,
non sì orrendi e nocivi
sapea temprar i fulmini Vulcano,
e con indotta mano
il mal uso Tonante
imparava ad aprir le aeree nubi,
e nelle querce sol, solo ne' faggi
drizzando i colpi, esercitava il braccio.
Quando il fiero Nettuno,
re inesperto de' mari,
pacifico reggea flutti innocenti;
né sapevano i venti
turbar le calme all'Oceano, intatto
anco da remi e dalle prore audaci.
Quando a dar legge all'ombre
giunto di nuovo il rigoroso Dite,
trovò il Tartaro vuoto,
ozioso il nocchier, le Furie e 'l Cane
quasi che mansueti,
e ne' principii suoi rozzo l'Inferno.
La terra, che fu poi nido de' mostri,
per anco non avea purgato Alcide,
e dipintone il Cielo.
Non s'armava Orion, né splendea l'Orsa,
né la Pleiade acquosa o 'l Cane estivo.
Tizio non occupava
con l'ampie terga al pallid'Orco i campi;
Ission non volgea
la rota eterna, e Tantalo assetato
non sospirava ancor l'onda fugace.
O felici quei primi uomini rozzi,
a cui davano gli antri albergo e l'ombre,
facil bevanda il rio, cibi non compri
il pino, il sorbo, e lieta mensa il prato!
Il ciel non risplendea
d'immagini temute, il mar tacea,
stava chiuso l'Inferno, e l'uomo in pace.
Nacquer odii e timori,
ambiziosi amori
quindi, e nacque Fortuna. Or togli quella
peste dall'uom, tolta è Fortuna anch'ella.
ATTO III
SCENA I
ARISTODEMO, CORO de' Messenii.
ARISTODEMO
Poiché del sangue nostro Averno ha sete,
si liberi la patria. Aristodemo
in difetto d'Arena offre la figlia.
Io non ho dalla sorte
quest'obbligo, o Messenii,
ma dalla patria. In ciò le parti adempio
d'uomo libero e greco. Il prezzo è grande,
ma la salute di Messenia è molto
maggior del prezzo. O mi comandi il Fato
o mi regga dover, sia dono o sia
necessità, Merope io v'offro e tolgo
i privati ed i pubblici timori.
Tanto d'onor mi resta
che risarcisce il danno. Inutilmente
non sarò stato padre. Alla salute
d'un regno generata avrò la figlia.
Se più chiedon gli dèi, più non possedo.
Ma non chiedono più. L'anima mia
esposta cento volte e rifiutata
non è vittima idonea, anzi non basta
un popolo de' morti in tante pugne.
Una vergine sola
degli Epitidi chiude
l'avide fauci alla spietata Erinni,
sazia per noi la morte, impiega tutta
la cupidigia dell'ingordo Abisso.
CORO
O d'Alcide e d'Epito inclita prole,
l'indole generosa
co' fatti approvi e con quest'una vinci
quante bell'opre mai fecero gli avi.
Liberatore e padre
te chiama la tua patria e ti prepara
simolacri perenni, eterni onori,
sempre del merto tuo minor mercede.
ARISTODEMO
S'avvisi Ofioneo, s'erga l'altare,
la vittima si purghi. Io cedo tutte
le mie ragioni, e mi riserbo il solo
dolor che non mi sia
imputato a fiacchezza.
CORO
È sublime vittoria e gloriosa
vincer sé stesso. O del vicino scettro
ben degna man! Così virtù s'eterna,
così monta alle stelle, e poco lunge
regna da' sommi dèi.
SCENA II
POLICARE, CORO de' Messenii.
POLICARE
Poiché fuggì l'usurpator Licisco
alla schiera seguace,
ritorna il mio dolor tanto più fiero,
quanto più certo.
Oh quanto volentier torrei, Fortuna,
a temerti di nuovo! A te non resta
più ragion sovra un nome
rimasto solo. Ah, dubbii miei, tornate,
se tornar più si può. Nel mortal vaso
il caro nome accompagnato torni,
e giudichi Fortuna un'altra volta
della mia vita. Ofioneo pavento,
gl'interessati Epitidi, il possente
stimolo di regnar temo nel padre.
Tutti sono sospetti,
genitor, patria e dèi.
Che più? Di lei diffido. O tu cui fanno
venerando le vesti e 'l crin canuto,
dimmi (ch'a te non è celato forse)
qual vittima s'elegge, or che l'eletta
si ricovrò tra le spartane genti?
CORO
Un padre generoso offre la figlia.
POLICARE
Cleone o Dami?
CORO
Aristodemo.
POLICARE
Oh Dio!
Chi divolga l'offerta?
CORO
Il padre appunto,
ed io fra poco avviseronne il sacro
Ofioneo, che drizzi l'ara, e imponga
di sacrifizio tal degno apparato.
POLICARE
Scota Nettun la terra,
cadano torri e tempii, e stenda Itome
a sì gran sacrifizio ampio teatro;
arda la man di Giove
questa patria co' folgori, ch'appena
convenevole sia rogo dell'ossa.
Con sì vasto apparato
sacrificar si deve ostia sì grande.
CORO
Ei da sé stesso
parla dolente e mostra
nella fronte e negli atti
Segni d'affanno immenso.
POLICARE
Merope è sola forse
nella casa d'Epito? Ella pur dianzi
assoluta dal Cielo,
condannata è dal padre?
CORO
Ella è sol atta al sacrifizio, a cui
non dansi le bambine. Il padre dona
quel che forse darebbe,
ricusandolo, a forza.
Ma il generoso d'una
magnanima costanza orna il suo caso,
né contamina il don con bassi affetti.
POLICARE
E lo permette Amfia?
CORO
Perch'è costretta.
POLICARE
E l'approva Messenia?
CORO
Altra non resta.
POLICARE
E non si cerca Arena?
CORO
Ella è fuggita.
POLICARE
Non si toglie al nemico?
CORO
Ah, di salute
trattasi qui, non di ruina.
POLICARE
In lei
la salute consiste.
CORO
E per lei forse
perirebbesi indarno.
POLICARE
Or vanne, e trova
l'indovino crudele: avida attenda
di respirar con la sua morte Itome.
Non perirà.
CORO
Giovane audace, frena
l'impeto del dolor.
POLICARE
Prima quel colpo
scenderà sul mio capo, e pria di mano
trarrolla al sacerdote;
violerò la pompa;
smorzerò con l'altrui, col sangue mio
l'indegno foco; abbatterò gli altari,
sacrilego, profano, disperato,
contro gli uomini e i dèi, contro me stesso.
Ah, Dio! Parton coloro,
ed io misero spargo
scelerate querele, empie rampogne,
inutili minacce!
Chiaman quest'ire, e queste
vendette, i Lacedemoni spietati.
Contro l'usurpator del mio privato
e del publico ben, volgiti, o sdegno;
darà forze ragion, daralle amore;
O periremo in sì bell'opra, e, prima
di Merope, vedrò l'atra palude,
ma non già solo.
Non s'aspetti che segua
la colpa; pria si vendichi. Preceda
al misfatto la pena, e sia punita
la cagion del misfatto.
Misero, chi mi segue? Aristodemo,
che la proscrive? Amfia
donna ed inerme? O 'l mio furor, la mia
stella nemica? E due compagni al fianco
ambi crudi, ambi ciechi, Amore e Morte?
SCENA III
MEROPE, POLICARE.
MEROPE
Policare, vicino
è 'l fin della mia vita. Il colpo attendo,
che libera la patria, e mi preparo
a non temer sì gloriosa morte.
Io vado, e nulla meco
porterò di più nobile e più degno
della mia fé. Tu le memorie mie
pietoso accogli, e vivi.
Un cener poco, un molto amor ti lascio;
prendine cura. Unico e dolce erede
de' miei candidi affetti,
rendi l'ossa al sepolcro e serba il nome.
Duolmi di te; ma di morir mi piace
per te, che sei compreso
nella Messenia liberata gente.
Così 'l mio sangue pur ti plachi il Cielo,
ti concilii Fortuna. Io fra le opache
ombre d'Eliso andrò narrando i casi;
e dell'istoria mia non poca parte
Policare sarà: sì che 'l tuo nome
fie per la lingua mia, se parlan l'ombre,
prima dell'ombra tua noto agli Elisii.
Tu, deh frena i lamenti; e sol di due
picciole lagrimette il cener bagna,
ultimo onor, più caro
dell'arabe fragranze;
e co' teneri uffizii,
deh, per pietà la madre mia consola.
POLICARE
Ch'io viva? Io ti dia tomba? Io così vile,
crudel, ti sembro? E tal m'amasti? e tale
che se ferro mancasse o tosco o laccio,
non possa solo uccidermi il dolore?
Merope, o tu mi tenti, o tu non m'ami.
Testificar saprò ben io la fede
e l'amor mio. Va, raccomanda l'ossa
e l'onor del sepolcro a chi non deve
teco perir. Se mi toccasse, o dèi,
un rogo istesso, e mescolar nell'urna
le polveri felici, io già v'assolvo,
ed assolvo Fortuna.
Scompagnata da me tu non vedrai,
Merope, Averno. Attenderò sul lido
la tua venuta, e varcheremo insieme,
per le tenebre cieche e per l'ignote
vie del sepolto mondo
precederò. Lusingherotti il Cane,
difenderò i tuoi passi
dalle pesti di Abisso. Ah, qual Erinni,
qual Cerbero vedendo ombra sì bella,
stupido e riverente
non deporrà l'orgoglio,
e non ti lascerà libero il calle?
Né sarò vil compagno: a te bel fregio
darà l'opra famosa, a me la fede.
Tu con atto magnanimo non temi
la morte per la patria, e tu vorrai,
s'io per te muoro, invidiar la lode
al mio seguace amor? Sarai gelosa
di tua virtù, che non s'imiti, e tanto
altri non osi?
Se disprezzi il compagno,
non amasti lo sposo. Altri che morte
congiunger non ci può. Separa morte
le basse, e non l'eccelse anime amanti.
Ma non è questo il talamo e la face,
misero, ch'io sperai. Non sull'erbose
rive del pigro Lete
teco fra l'ombre aver letto infecondo,
e con amplessi vani e freddi baci,
sterili, e senza suon nudrir un muto
e vano amor d'inefficaci affetti.
Non so chi ti condanni altri che 'l padre,
o ambizioso o ingiusto,
né so qual dio, qual dura
umana legge ad obbedir ti sforzi.
Vive Arena pur anco,
in cui cadde la sorte. A te non tocca
non sortita cader. Non ti condanna
chi pria t'assolse. E tu vorrai la vece
sostener d'una vittima fuggita,
incerta dell'evento e della lode,
certa solo del danno?
MEROPE
S'io non ti salvo, perdo
la metà de' miei voti.
In te la miglior parte
pere della Messenia. Ah resta, e attendi
dal voler della Parca il fin degli anni.
Io son vittima propria. Errò Fortuna
nel dispor di mia vita, ed ha perdute
le sue ragioni in quell'error fatale.
Sola io resto, e mi piace
non dipender da lei; ch'ignobil fora
l'obbligo seco o l'odio. Io cado offerta
dal padre, e confermata
dal sacro Ofioneo, tra mille applausi
d'un popolo salvato, e vuoi ch'io fugga?
Tu, se pèri, chi salvi? E chi t'elegge?
Deh, non voler che resti
questa invidia di me. Lascia ch'io vada
sola e innocente a Stige.
Se meco vieni, io meno ad Eaco avanti
il testimon d'una insolente colpa.
Resta, e più fortunata
godi la patria, or ch'io la rendo tale.
E ricordati almen, s'ad altra in seno
di posseder t'è dato
felici amori, ampie fortune e figli,
che questo dono è mio; che la mia morte
che salvò la Messenia, a te diè vita,
e sposa e dote e prole.
Un'ombra nuda, ch'io sarò tra poco,
gelida amante ed infeconda moglie,
a ragion non ti piace.
POLICARE
Vuoi ch'io viva, e m'uccidi
con amari rimproveri. Ma senti.
Ampia e nota è la via che mena a Dite,
ma se fosse anco ignota,
la troverei: se niuna,
la farei per seguirti. O vuoi compagno
o vuoi servo, o mi tolleri o rifiuti,
indivisibilmente a tergo al fianco
io ti sarò. Febo t'elegge? Amore
maggior di Febo impon che teco io vegna.
Tu liberi la patria, ed io me stesso:
la tua sorte è la mia. Più non ti chiedo
se ti spinga a morir caso, ragione,
giustizia o forza; sol ti chiedo quando
s'ha da morir. Sol tua bontà conceda,
ch'io generoso men (per me non priego)
deplori queste tue somme bellezze,
ch'io perdo eternamente, e le cadute
misere mie speranze.
MEROPE
Questa perdita è indegna
delle lagrime tue. Quel che deplori,
quel dunque amasti? Io mi credea che 'l meno
che ti piacesse in me fosse il mio volto.
A che dunque seguir quel che men prezzi?
POLICARE
Io volentier confesso
d'esser men forte. Il tuo corpo mi piacque,
sede d'una bell'anima; e fin tanto
ch'io son uomo, e non ombra
piango le cose umanamente amate.
Se tu resti col corpo, io seco resto;
se l'abbandoni, io l'abbandono. Ah, cessa,
Merope, di tentarmi. Ah, non si cerchi
con importuni intempestivi affanni
di pregustar la già vicina morte.
SCENA IV
SOLDATO, MEROPE, POLICARE, NUTRICE in fine.
SOLDATO
Merope, Aristodemo a sé ti chiama
e chiede pronta obbedienza. Ha teco
da conferir alti pensieri.
MEROPE
Il padre
con tal fretta? in tal tempo? e per gli arcieri
mi fa chiamar? Dove le serve sono?
E dov'è la nutrice?
Sei tu nunzio o custode? Ah, ben conosco
i preludi di morte. Il primo oltraggio
è questo di fortuna; il tormi prima
la libertà. Forse comanda Febo
che di miseria tal resti aggravata
la morte della vittima? e più tosto
se volontaria e generosa muore,
l'atto grande non piace? O petto, aduna
tutte le forze tue. Virtù debelli
i tumulti del senso.
Non può negarsi. Duro
è l'incontrar ciò che natura abborre.
Venisse almen tutta la morte in una
sol volta, e orribil fosse:
né cercasse d'abbattermi l'ardire
crudelmente ingegnosa, e di levarmi
quel che del sesso ad onta orna il mio petto
generoso vigor. Mio sposo, addio;
io parto, addio.
POLICARE
Dove n'andrai, crudele,
senza di me? Ma non andrai. Fra poco
ti seguirò nell'Erebo. O spietato
padre! Spietati dèi! Perfida Itome,
che 'l misfatto atrocissimo sopporti!
SCENA V
NUTRICE, POLICARE.
NUTRICE
Pigri, e imbelli siam noi, se posta in uso
dell'ingegnoso Amore
non è l'arte e l'ardir. Così vilmente
cederemo a Fortuna? e al primo impulso
della sua mano al precipizio andremo?
Né troverai difesa
degna d'amante? E contro al Fato avverso
userai femminili armi di pianto?
Non sarà chi s'opponga? e chi deluda
il forsennato e forse
d'Aristodemo interessato zelo?
Né chi l'ambiziosa
fiera virtù della fanciulla espugni?
Policare, io son donna, e curva omai
sotto il peso degli anni: e serva io sono.
Tu giovane ed amante,
e di chiara prosapia, odi i mie' detti.
Deh, per Dio, non lasciar che questa bella
sposa tua, figlia mia, per vano orgoglio
d'ostentata virtù danni sé stessa.
Nulla si toglie a' dèi, nulla alla patria:
a ingiusto genitor figlia innocente,
e quel ch'è tuo ti togli.
Fuggì la condannata
vergine, e non dovrà fuggir l'assolta?
Forse che non eletta
perisce inutilmente; e forse il prezzo
chiesto per la messenica salute
non è il suo capo.
Sono pur anco in ciel que' stessi dèi,
che l'han protetta, e forse
non pentita è Fortuna
di favorirla e attende
chi la provochi. Al fine
l'ozio tuo la condanna. Ergiti, o figlio,
e qualche nobil opra
degna di lei, degna di te prepara.
POLICARE
Se non ricusa d'incontrar la morte,
come per forza ha da restar in vita?
Se questa nostra ignobiltà di mezzo
ad abborrir la conducesse il fine,
quanto sarìa Policare infelice!
NUTRICE
Della sua lingua è men feroce il core.
Sosterrà mille morti
pria che parlar men generosa. Il sesso
è però molle. Amore
gran forza ha in nobil petto:
reclamerà natura,
comanderalle imperioso amore,
che della forza si compiaccia e viva.
S'opri, il rischio è di morte;
se cessi, è morte certa.
POLICARE
Ecco, o nutrice,
un rischio non minor: l'offender lei.
NUTRICE
Vie più l'offendi
a lasciarla perir.
POLICARE
Che più si tarda?
Chi nulla può sperar, nulla disperi.
NUTRICE
Nulla più, no: ma se ben dritto io miro,
forza giovar non può. S'usi l'inganno.
POLICARE
S'usi purché si salvi, e poi mi tocchi
sul Caucaso gelato
di dar vece a Prometeo, e sotto il peso
d'Etna giacer perché Tifeo respiri.
NUTRICE
Non sarà sì colpevol la frode.
Vieni, e del mio pensiero
rapido esecutor previeni il padre.
SCENA VI
OFIONEO.
OFIONEO
Oh come sferza i rapidi destrieri
per tuffarsi nell'onda il sol cadente!
Forse affretta quell'opra, a cui concorse
insegnandola a Delfo?
fugge di vederla? O discacciato
fugge dal nostro error? Ma qual errore
può nel certo cader? Merope è sola.
Né per la mente mia, non mai da Febo
delusa, odo pensiero
che voglia dubitar, non che riprenda.
Ministri, preparate
un negro altare a Dite, uno alla trina
Ecate, un altro all'Erebo, alla Notte;
e nuovo latte, e vino antico e Sangue,
e di pigra palude
onda pallida e grave.
Di steril felce e di funebre tasso
coronate le tempie, e d'atre bende.
Mostrin l'orrida pompa
fiaccole meste, e sia 'l silenzio inditto
religioso e grande.
Oh con che stranio rito
plachiam gli dèi! Sono lassù tant'ire?
Ma quaggiù tante colpe? Ah, per natura
erra l'uomo e non Dio. Chiedesi eguale
l'obbedienza umana
all'imperio del Ciel, che mai non erra,
Tutto si rende a lui, nulla si dona;
e quando chiede, è segno
che gradir voglia il sacrifizio. Quindi
pace promette a noi; che sia distrutta
dal castigo la colpa.
Così tornan li dèi. Sorge da questa
notte alla patria il tramontato lume.
Darà il cipresso allori,
darà il fato d'un sol vita ad un regno;
ed adorna di queste
glorie l'ombra felice andrà pei campi,
che lento bagna e taciturno Lete
da cento elisii eroi mostrata a dito.
A che dolersi? o presto o tardi andremo
tutti dell'Orco alla magion capace.
Scote a tutti egualmente
l'urna fatale il regnator d'Egina.
Visse assai chi ben visse,
e chi con atto egregio
onorandone il corso illustra il fine.
CORO
Sotto al selvoso Tenaro una rupe
s'apre in negra voragine, che mena
alle stanze de' morti orride e cupe.
Passano l'ombre ignude
per questa via che, su 'l principio angusta,
vassi poi dilatando ed in immenso
spazio termina al fine,
dove un immoto e denso
aer si ferma, e dove
perisce l'uman genere sommerso.
Né faticoso è 'l calle;
guida la stessa via facile e china;
e stimolate son l'ombre al cammino
come talor da rapido reflusso
rapite son le involontarie navi.
Necessità d'inesorabil Fato
qui tragge ogni mortal. Veder bisogna
la stigia notte e 'l mesto
fin delle cose. Navigar per l'onda
ultima d'Acheronte. Udir conviene
da tre gole i latrati
del feroce custode dell'abisso,
ed inchinare il tribunal temuto
de' rigorosi giudici dell'ombre.
Passa indistinto il re dal servo, e sola
virtù distinta passa. A lei men gravi
rende le nubi, onde se stessa preme
la tenebrosa patria della morte.
Pronto è 'l nocchier per lei, tacito il cane,
pio Radamanto ed arrendevol Dite.
Virtù che sprezza morte
dopo morte è sicura. Idre e Chimere
vede, ma non paventa anima forte;
passa fra l'ombre nere
di Stige, e nulla teme.
Tema e virtù non han commerzio insieme.
Il luogo della pena
a lei serve di via, per d'onde passa
alla stanza del merto opaca, amena.
Di pena orma non lassa
la stessa morte; e deve
esser da vita a vita un mezzo breve.
Né crederiasi uscita
dalla stanza di pria s'alla seconda
s'assomigliasse la sua prima vita.
Più che di Stige l'onda,
del mezzo della morte
è testimon la migliorata sorte.
Va, fanciulla magnanima, ch'un breve
Sospiro il nome tuo porta alle stelle.
Bella sei, ma beltà cosa è fugace,
e di breve stagion labile dono.
Così caldo vapor d'accesa estate
strugge i prati ridenti allor che 'l sole
egualmente divide il dì prolisso.
Vien rapito dal tempo
fulgor di molle guancia in quella guisa
che le pallide foglie
abbatte al giglio moribondo, e come
sugge fervido sol l'ostro alle rose.
Non è dì, che non toglia
a beltà qualche spoglia.
Bella morrai. Se questo
fregio passa ne' morti,
è tuo, teco lo porti.
ATTO IV
SCENA I
POLICARE, ARISTODEMO.
POLICARE
Mio re, ché re fra poco
de' salutarti Itome, udii più volte
dalla tua stessa bocca
che 'l re comanda agli altri, al re la legge.
ARISTODEMO
Custode è della legge
il giusto re; né deve
da lei partirsi mai.
POLICARE
Tal è di grande
anima, e degna dello scettro, appunto
lo studio generoso. Or quale un padre
ha ragion nelle figlie altrui donate,
e quale un re nell'altrui mogli?
ARISTODEMO
Segui.
POLICARE
Poco ho da dir. Né Aristodemo padre,
né Aristodemo re dispor di cosa
deve fatta d'altrui. Merope è mia;
me la concesse il padre,
non me la tolga il re.
ARISTODEMO
Che fia mai questo?
Policare, vaneggi? Altro che nozze
chiede il rigido Fato. Io non dispongo
di Merope ch'è mia, diciam, ch'è tua:
il Fato ne dispon; cedo al Destino.
Deh, tu non sollevar gli affetti miei
a gran forza domati.
Ah, che temo pur troppo
che si ribelli amor, che la natura
m'accusi padre, effemminando il maschio
vigor del petto, or che più viene astretta
a mostrarsi virtù.
POLICARE
Signor, tu dammi
Merope, e 'l Ciel poi me la tolga. Il Cielo,
che pur or la salvò dalla Fortuna,
confermò le mie nozze,
ed è un zelo soverchio, un'affettata
religione il darla.
Dimmi, s'Arena vive,
perché Merope muore? Alfine, è mia;
non la darò. S'a te sì fragil sembra
la difesa e persisti
d'offerirla tu stesso, io tolgo solo
a difender la scusa. In me cadranno
i fulmini di Giove, e l'ire tutte
della Messenia: Aristodemo è salvo.
ARISTODEMO
Salvisi pur la patria. E tu, garzone,
cui per cieco sentier guida un più cieco
che giusto amor, la vana
autorità di sposo e 'l vacuo nome
dona alla patria, ed a domar impara
da me gli affetti. Il padre
l'offre alla patria. Il re, se re m'elegge,
difenderà l'offerta. A te non lice,
giovane, avvilir gli atti
della nostra virtù. Se tu non temi
l'ire del ciel, lo sdegno
della Messenia, io temo
più de' folgori stessi e più di morte
un atto vile. O consiglier fallace,
o difensor dell'altrui colpe, è questo
quel petto audace, che incontrar ben cento
volte vid'io l'armi di Sparta, e in cui
di nobile virtù restano impressi
onorati vestigi?
POLICARE
Il sangue diedi
e darò per la patria. Un casto, un giusto,
ed un possente affetto
non posso dar, né deggio. Al re m'appello,
se manca il padre. A' dèi, se 'l re non m'ode.
ARISTODEMO
Han già risposto i dèi.
POLICARE
Non sono intesi.
ARISTODEMO
Ciò niega Ofioneo.
POLICARE
Tutto non vede.
ARISTODEMO
Sol può Dio preveder.
POLICARE
L'uomo provegga.
ARISTODEMO
Ben dicesti. Io proveggo.
POLICARE
Inutilmente.
ARISTODEMO
Salvandosi la patria?
POLICARE
Tu la perdi.
ARISTODEMO
Augure infausto, taci.
POLICARE
Aristodemo,
sacrilego 'l silenzio, ov'io permetta
che tu sì ciecamente
gli dèi, la patria, e la natura offenda.
Sotto a gran nome un'empia colpa incontri.
Merope è mia; se mia,
vive. Se tua, la perdi, e perdi l'opra,
e 'l fin dell'opra.
ARISTODEMO
Assai
fu garrito fra noi. Folle, desisti
da vana impresa; e alla Messenia basti
un Panormo, un Gonippo
per irritar gli dèi.
POLICARE
Più chiaro dunque
s'ha da parlar? Si parli.
Merope è mia, donna già molto, e madre
sarà fra poco. Or vada
d'una vergine invece
una fanciulla gravida all'altare:
se s'adempie l'oracolo, se salva
è la Messenia, io la rinunzio e taccio.
ARISTODEMO
Che senti, Aristodemo? A questi colpi
è temprato il tuo seno? Ardito ha tanto
Merope? Od è menzogna
di costui per salvarla? Io sono offeso,
ancor se finge; ed è l'offesa senza
pro dell'autor. Ma che? L'autor in cosa
di tanta mole
fingerà vanamente?
POLICARE
Attonito ei riman, qual chi di serpe
calcata in mezzo all'erbe
pallido incontra inaspettato assalto.
ARISTODEMO
Ma deluder mi giova arte con arte.
Policare, tu menti, e la menzogna
arte è d'amor, ma troppo cieco amore
trova indegni pretesti.
POLICARE
Io non t'ascondo
i furti miei: dover mi sforza, e dritto
a confessarli, acciò costei non cada
senza alcun frutto, e non riesca l'opra
un delitto del padre.
ARISTODEMO
Con un altro delitto
tu pur vietasti il mio. Con qual ardire
d'Aristodemo violar la figlia
pria delle nozze? Il mio togliesti, e quello
che donarti io volea; me lo rubasti,
e fu abusato il don: perduto è dunque
il merto, ed io divento,
di donatore, offeso.
POLICARE
Signor, se grave è l'amorosa colpa,
grave anco è dirla. È vero,
ch'i tuo' doni rubai, ma non già prima,
che dichiarati miei. Nulla fu tolto
allor a' dèi, che non chiedean fanciulle
alla casa d'Epito, e nulla al padre,
che a Policare offerta avea la figlia,
non anco a' numi inferni.
ARISTODEMO
A preghiere d'Amfia
Merope fu concessa a valoroso
e nobil garzon, sì ch'io sperai
d'aver aggiunto un degno fregio al sangue
chiarissimo d'Epito;
ma l'ingrato tradì le mie speranze,
e profanò le nozze
con lascive, illegittime rapine.
Nozze invalide, infauste,
rapite al padre, ai coniugali dèi,
senza i quali t'unisti. Or va, del vile
ardir premio ti fia l'indegna moglie,
ch'io per figlia rifiuto, e pianger deggio,
più che vittima, sposa.
È tua: non ti si niega
con titolo sì egregio. E poi ch'è tolto
dalla tua colpa il modo
di salvar la Messenia, io mi protesto
con gli altri offeso: or vanne
per l'orme di Licisco, e porta questo
trionfo a Sparta, e di' che in ozio attenda
del tuo misfatto i nostri danni estremi.
Già voi sarete meno
esecrande ed orribili ad Itome,
di Panormo e Gonippo ombre nocenti.
Maggior fallo sommerge
la memoria del vostro. Ira maggiore
destano in ciel contro il messenio impero
Policare e Licisco.
POLICARE
Tolga il ciel, che 'l mio amor nobile e giusto,
che la mia fé, che 'l mio
dover giammai t'offenda! Ah, che non furo
senza dèi quelle nozze,
che celebrai col testimon d'amore.
Non offese chi errò. L'error ti rende
la figlia; e come fuor di colpa avvenne,
così lo scusa il ciel. Però la sorte
elesse Arena; e se rapì Licisco
l'ostia dovuta, è già la causa fatta
de' stessi dèi. Non resta
che temer alla patria,
bensì a Licisco. Io resterò fra queste
mura, di cui bagnai del sangue mio
più d'una volta i sassi, e da cui spinsi
l'audace assalitor con queste braccia
non vile difensor; né sono ancora
profane sì per amoroso fallo,
che non osi guardar le sacre soglie
del gran Giove itomeo, quando sperasse
il credulo nemico
di trovar senza dèi, senza difese
la sfortunata patria. Un atto grande
di pietà, di valor ferma gli dèi,
sforza le stelle.
ARISTODEMO
O te la serbi il fato,
o la pietà di qualche nume amico,
o sia questa la via, ch'alla fatale
ruina guidi l'avanzata Itome,
Merope è tua. Son tutti
testimoni per me gli uomini e i dèi,
che per la patria volentier l'offersi.
SCENA II
POLICARE.
POLICARE
Bella dea, che mi reggi,
santo amor, che mi guidi, ah sostenete
il principio felice
di sì gran mole. Oh ben gittate basi!
Oh fondamenti validi e robusti
d'una lodevol macchina d'inganno!
Se tanto io feci, or che far deve Amfia,
e la nutrice? Egli se n'entra, e al varco
l'attendono le donne acciò ch'e' cada
or che più crolla. Io palesar frattanto
vo' che Merope è mia; citar in prova
la nutrice ed Amfia. La mia congiura
guidi e protegga amor. Tu mi perdona,
o della sposa mio genio pudico,
se indegno è questo mezzo
di tua severità. Cangerà nome
la colpa, e fatta industriosa frode
meriterà poi lode.
Di Merope temer solo potrei:
conosco ben l'anima altera e schiva;
ma vieta Ofioneo ch'altri le parli,
acciò più pura vada
e più lontana da terreni affetti
alla sacra bipenne. E s'anco rotto
il fren religioso, Aristodemo
cercasse il ver da lei, non andrà prima,
che da noi non riceva
un triplicato testimon concorde.
Trabocca intanto il dì: passato il mezzo
di quest'orrida notte, il sacrifizio
è rimesso ad un'altra. Intanto il caso
d'accidenti tra noi padre fecondo
aprirà nuove strade. Amor darammi
nuovi consigli. Io vado.
SCENA III
OFIONEO, MEROPE.
CORO de' sacerdoti che non parla.
OFIONEO
Ministri, il bruno manto
porgete alla fanciulla, e la corona
di cipresso fermate
sui crini sparsi; e tale a me s'accosti.
Giovanetta real, scelta dal Fato
a liberar la patria, io non t'esorto
a non temer la morte. Hanno i più forti
che apprender dal tu' esempio. Egual ti mostri
a te stessa, al tuo sangue; e s'anco fosse
meno illustre il morir, non men saresti
tu generosa e illustraresti quella
morte ch'ora t'illustra. Occupi un luogo
fra gli eroi più lodati,
che per la patria lor morendo han dato
grido alla Grecia e volo eterno al nome.
Tu, separata dal commerzio altrui,
co' generosi tuoi pensier conversa,
né pensar alla terra, e non t'aggravi
peso d'affetto alcun l'anima scarca.
L'ora fatal s'accosta: e tu per breve
spazio tacendo in separata stanza
ti devi preparar. Però ti spoglia
delle cure terrene, e i sensi acqueta.
E s'altro lasci in terra,
che la tua nobil fama, a me fedele
esecutor dell'ultimo desio
lascialo in pace.
MEROPE
Padre, due giorni sono
ch'io lotto con la morte, e non m'arriva
né improvvisa né orribile, né sono
colta senza difese.
Allor che stava il nome mio nell'urna
a morir cominciai.
M'assolse la fortuna,
ma non il fato: allontanossi poco
morte da me, né la perdei di vista.
Or che torna, mi pare
men feroce di pria. Resta a mio padre
l'onor d'avermi offerta, e condannata
da giudice più nobile mi muoro.
Quel ch'io vorrei lasciar di vivo in terra
oltre il mio nome, è l'infelice mio
sposo innocente. Ah, viva, e viva in lui
la mia candida fede.
Temo ch'egli mi segua, e che m'aggravi
di questa colpa. Ah, che s'ei pere, tutta
non è salva Messenia, io non ho tutti
adempiti i miei voti. Ogn'altra cura,
ogni pensier depongo, e muoro in pace.
OFIONEO
Figlia, questo è un affetto
lecito e generoso, e degnamente
al tuo cenere avanza.
Depositar prometto
nel seno di Policare l'estremo
testimon del tu' amor; pregalo insieme,
che lo conservi; e conservar no 'l puote,
se non vive per te. Non li sia cara
come amante la vita,
ma come erede dichiarato in questa
facoltà preziosa
dell'amor tuo, che perderia morendo.
MEROPE
Se Policare vive, omai consacra
la vittima a tua voglia,
plachisi il Ciel, sia liberata Itome.
O che mi stimi il Cielo
prezzo al debito eguale o di leggera
pena si soddisfaccia, io piego il collo
ubbidiente alla Messenia, ai Fati:
rendo al padre mia vita, e quando avvenga,
che il sangue mio l'antiche colpe lavi,
e ristori la patria, io già con grande
obbligo resto alla natura, al padre
di quella vita, che impiegar si deve
in sì nobil acquisto.
OFIONEO
Parlando in questa guisa,
o magnanima vergine, tu merti
che t'ascoltin li dèi. La stirpe, gli anni,
la virtù, la bellezza offerta loro
è un pieno sacrifizio: il tuo modesto,
generoso pensiero,
figlia, è maggior del sacrifizio; e puossi
con offerta sì grande
salvar più regni.
Or con sì bella impression ti resta,
che da sé ti consacra. Io ti consegno
alla tua stessa mente, in cui ben veggio
regnar omai di sovrumana forza
ammirabil indizii. O voi ministri,
la vergine tornate
alla sua stanza; e non profani alcuno
il luogo a Dite sacro, a cui prepongo
in difesa le Furie, e le più atroci
custodie dell'Abisso,
se di più orrendo e più temuto guarda,
o le soglie di Dite
o lo stagno fatal dai giuramenti
consacrato di Giove;
se del Tartaro ignoto
nell'arcane latebre altra si cela
più formidabil peste,
da cui Cerbero fugga e tema Aletto.
Sia lasciata in silenzio, e al sacerdote
menata poi nel cupo orror profondo
della tacita notte: ora più grata
a' tenebrosi dèi del muto Averno.
SCENA IV
OFIONEO, CORO.
CORO
O tu nella cui mente il sacro ardore
entra di Febo, e da cui pende tutta
oggi Messenia, udisti
la nuova acerba, onde ritorna Itome,
perdute due speranze,
sotto l'ire del Ciel? Merope è tolta.
OFIONEO
Cessi la tema infausta. Ostia sincera
Merope è custodita, e per la patria
non ricusa morir. Pur or commisi
la sua cura a ministri, e quella stanza
a Dite consacrata, io consegnai
a custodie terribili d'Abisso:
Merope or com'è tolta?
CORO
Tolta già molto tempo ed incapace
d'esser offerta.
Una vergine intatta
chiedon li dèi, non già corrotta sposa
vicina ad esser madre.
OFIONEO
Gran cose, o dèi! Chi violò la figlia
d'Aristodemo? Aristodemo inganna,
od è ingannato? E la fanciulla audace
osa accostarsi profanata all'ara?
E perdendo sé stessa
ingannar la sua patria?
Che furor, che superbia infruttuosa,
che violenza è questa?
CORO
Policare la sposa a lui promessa
corruppe. Egli promulga
il fatto, e chiama in prova
la nutrice ed Amfia.
OFIONEO
Aristodemo?
CORO
Egli stimò la figlia
sinora intatta. In questo punto esclama
contro il genero audace,
e dalla colpa sua, che toglie a noi
la sperata salute, a forza toglie
la figlia indietro inutilmente offerta.
OFIONEO
Ed al giovane amante
deve il padre prestar subita fede?
CORO
Amfia tutto conferma; e corre fama,
ch'a' piedi suoi prostrata
impetrasse perdon di quella colpa,
che le rendeva la comune figlia.
Sfortunata Messenia! Or qual più resta
via di salute? Trafugata è l'una,
corrotta l'altra. Ah, non saran più chieste
fanciulle in sacrifizio. Il sangue forse
avanzato al furor della spartana
emula spada ha da versarsi tutto.
SCENA V
POLICARE, AMFIA.
POLICARE
Sin qua molto s'è fatto. Erra la fama
per la città con cento lingue, e spande
garrula il fatto. Il romor vario cresce,
e come accader suole
in gelosa materia, ove d'austera
religion si tratti, anco il sospetto
libera la fanciulla, o ne sospende
il sacrifizio. Ecco le donne. Oh come,
oh come a' voti miei
corrisponde il successo!
AMFIA
Or tu mi narra
ciò che fortuna, e in brevi detti, or volga,
ch'ogni momento è prezioso.
POLICARE
Il tutto
sin qua felicemente. Aristodemo
rimproverò, turbossi,
poi mostrò di placarsi. Itome è piena
della bugiarda nuova,
ed è sospeso il sacrifizio. Attendo
sorte miglior; ché spesso
fiera virtù la doma, e la costringe
a cangiar volto.
AMFIA
A noi
men rigoroso d'ogni mia speranza,
Aristodemo venne,
e me richiese e la nutrice. Esposi
a suo' piedi tremante
la nostra pietosissima menzogna
sì ben, che verità non trovò mai
fede maggior. Bagnai di vero pianto
la finta colpa della figlia amante;
proseguì la nutrice, egli si tacque:
ma in quel silenzio io riconobbi il padre,
e ritrovai il consorte. Una sua grave
dolcezza balenò nelle pupille,
che, come lampo suol di ciel turbato,
del volto rischiarò l'austere nubi,
e d'una lusinghevole speranza
empì l'anima mia. Spero, e pur temo
l'infedeltà della fortuna. Spero
che sia placato il genitor, ma temo
il genio altier dell'ingannata figlia,
se bene in parte al mio timor provvide
Ofioneo, che dalla stanza sacra
ov'ella è custodita
severamente ogni persona esclude,
né pria ch'e' lo permetta
alcun deve accostarsi. Aristodemo
certo non andrà primo. Io la fanciulla
guarderò cautamente,
né lascerò, pria che disposta a dirsi
donna, od a farsi fuggitiva. Amore,
sin a quest'ora, e Morte
l'avran più strettamente persuasa,
e materia più facile e disposta
io troverò. Ma s'anco nieghi, e voglia
ostinata perir, di nuovo pure
l'ingannerò. Torni pur mia: non temo.
POLICARE
Cresce la notte, e con la notte il grande
romor sparso da noi. Non andrà molto,
che Merope sia sciolta. O che tu possa
farle approvar la frode, o tu la deggia
anco ingannar, pera Messenia, pera
mia vita, il mondo, io non mi scosto. Andiamo.
SCENA VI
ARISTODEMO.
ARISTODEMO
Così comincia il regno. Ecco la prima
arte de' re, dissimular le offese
per vendicarle.
Ma sia pur Dami re, sia pur Cleone,
a cui le indegne figlie
non levano di man lo scettro offerto.
Re mi volea Fortuna, Itome, il Cielo;
la colpa della figlia
s'oppone al cielo, alla Fortuna, al mondo,
e mi toglie il diadema, e macchia il nostro
onor eternamente; il più temuto,
il più atroce de' mali: in cui non pecca
già nemico furor, già sorte avversa,
o maligna influenza,
ma la sola malizia de' congiunti,
inevitabil peste. Era sicuro
dall'invidia degli uomini, dall'ire
di fortuna, l'uom forte;
né, se schiudeva l'Erebo i suoi mostri,
domar potea virtù. La rabbia umana
s'armò contro sé stessa,
e per contaminar le parti intatte
stillò dalle corrotte empio veleno,
che tal non versò mai libica serpe,
né trascinato a sopportar il giorno
Cerbero vomitò sul mar vicino.
Diede al mondo l'onor, tiranno illustre,
carnefice adorato, e vinse il crudo
ingegno dell'abisso, ed innocenti
rese le stelle, la fortuna, i mostri.
O sventurato Aristodemo! O invano
generoso alla patria, a te crudele!
Volli perder la figlia,
ma perderla innocente, e rea l'acquisto.
La sua colpa la salva, e la sua colpa
pur la condanna. È del peccato grande
maggior l'effetto. La stagion crudele
mi fa crudel; gli dèi negletti, giusto:
la patria e 'l padre offesi,
giudice rigoroso; il mio furore
vendicator. O mal fuggito, o sempre
empio Licisco! Io ti perdono il duro
cambio, che per te feci,
ma degli scorni miei, di mie sciagure
l'infelice cagion non ti perdono.
Orribile furor, sollecitato
da scherniti Messenii, a cui si rende
la nostra fé sospetta,
che lo stesso indovin pur dianzi accrebbe
co' rimproveri acerbi,
vieni, e m'occupa omai. S'io non son pieno
di te, scota la face,
e le pesti del crin crolli Megera;
quant'è, quanto sa farsi orrida, vegna,
e di mostro maggior s'empia il mio petto.
Per l'attonito sen scorre un tumulto
non più sentito, ed alle pigre mani
Insegna un non so che di violento,
e di feroce.
Sì, lo farò. Sia pena o sia misfatto:
l'approveranno, o fuggiran li dèi.
Che approvino, che fuggano: sia fatto!
CORO
Pera chi prima
dalle segrete viscere de' monti
il già innocente ed or colpevol ferro,
e non senza rossor della natura,
quel mostro palesò ch'ella copria
fra le cupe latebre della terra.
Ma vendicossi dell'umano oltraggio
natura, e fu l'ingegno umano appunto
stromento alla vendetta,
che 'l rigor dell'acciaro
domato da Vulcano
volse in usberghi, in aste,
e produsse la guerra.
Fu allor che 'l primo indomito destriero
l'ignoto freno morse,
non vile onor di Paletronia incude,
e coperte d'acciar le membra ignude,
tollerò prima il domator Lapita,
che ad accortar la vita
così fra l'armi più veloci corse.
Fu allor che di fortissimi recinti
si munir le città; che minacciose,
segni all'ire del ciel, crebber le torri,
e che, levata ai fiumi
la libertà, fu sotto ad alte mura
acqua di nobil rio
condannata a passar, flutto servile,
o levata al primiero
moto vivace, impaludarsi in una
squallida fossa, onda negletta e bruna;
allor fu che cozzò ferreo montone
contro le mura, e che avventò fra' merli
la balista feroce aste pennute.
Fu allor che si divisero le genti
in popoli distinti, e fatto angusto
all'umana ingordigia il mondo vasto,
sdegnò i primi confini,
e col ferro omicida
allontanò i vicini.
Fu allor, fu allora appunto,
che scoprironsi i re, che la Fortuna,
dividendo dagl'infimi i supremi,
avvilì gli uni e in superbì negli altri.
Quindi gli odii, le gare, e quindi l'armi,
le stragi, le rapine,
e da turbine eterno
agitate vediam l'umane cose.
Quindi armiamo al Tonante
di folgori la destra, e nacquer quindi
i mali nostri. O mal trovato ferro,
per cui nuotan nel sangue
i patrii campi: ove sol Marte miete,
Cerere esclusa, ove dall'empia spada
tolto è l'uffizio all'ozioso aratro!
SAFFICI
E se non placa — i dèi d'abisso Itome,
misere, ah come — 'l regno fia distrutto!
L'ultimo lutto — l'indovin predice,
gli ultimi danni.
Già per tant'anni — siam usate al pianto,
che solo il Xanto — la metà ne conta.
Una sol'onta — così lungo sdegnio
dunque produce!
O di Polluce — imitator insano,
e tu profano — Castore mal finto,
Sparta ebbe vinto — quando profanaste
le are sacrate.
Torna all'usate — lagrime, o dolore,
senta il furore — già del cor la destra
fatta maestra — 'n flagellar l'ignudo
seno dolente.
Il duol frequente — tiene sparso il crine
alle rapine — della mano infesta;
e di funesta — voce di lamento
Eco risuona.
ATTO V
SCENA I
NUTRICE, TISI.
NUTRICE
Qual procelloso turbine mi porta
per l'aria, e d'atra nube
m'involve sì, ch'agli occhi miei rapite
sien queste crude ed esecrande mura
macchiate del più orribile misfatto,
del più innocente sangue,
che da barbara man versato in terra
chiami vendetta in ciel? Messenia è questa?
È questa Itome? O la spietata Colco,
o la gelida Ircania? o la feroce
Scizia più tosto? o s'altro è più lontano
dalle strade del sole
efferato ed inospito paese?
TISI
A ragion ti lamenti,
nutrice; acerbo è il caso;
ma v'ha gran parte la pietà infelice
della misera Amfia. Narra, se lice
tanto impetrar dal duolo,
narra come seguì l'eccesso grande.
NUTRICE
Se raccolgo gli spiriti, se 'l corpo
dall'orror della tema e dal dolore
irrigidito riassume il primo
uffizio delle membra, e se la cruda
immagine del fatto,
che mi sta pertinace innanzi agli occhi,
mi daran le parole,
lo narrerò. Sarà pur anco questo
pianto per lei. Parte sarà di pena
il confessar con penitenza amara
l'infelice delitto. Aristodemo
simulò di placarsi
a quella miserabile menzogna,
ch'ordì la moglie, e finse
di lasciar a Policare la sposa;
ma, ricevuta in seno
altamente la piaga, ah Dio, nel tempo
dall'indovin vietato
furioso, terribile, funesto
qual pe' getuli campi irto leone,
che di recente oltraggio
mediti minacciando alta vendetta,
corse alla stanza custodita, i sacri
vincoli ruppe; violò le porte,
fugò i ministri attoniti: col proprio
furor le Furie vinse
tutelari del luogo, o al proprio aggiunse
il furor di Cocito;
e trovata giacer tra brune spoglie
l'impallidita e tacita fanciulla,
un certo che sol mormorò d'orrendo,
e trafisse la vergine innocente,
che generata avea. L'anima bella,
osservando l'inditto
silenzio, non si dolse.
Con un gemito sol rispose all'empio
fremer del padre; e i moribondi lumi
in lui rivolti, ed osservato quale
il sacerdote inaspettato fosse,
con la tenera man coprissi il volto
per non vederlo; e giacque.
TISI
A che non guida un cieco
empito d'ira! Un furioso zelo
d'onor tiranno!
NUTRICE
Ciò non bastò al crudele.
Punì prima il delitto, e poi cercollo
nelle viscere intatte della figlia.
Col ferro stesso aperse
il seno virginal. L'utero casto,
e voto ritrovò, senz'altri segni
che gli orribili, impressi
dal suo furor: ma sé ingannato ed empio
uccisor della figlia. Il ferro quasi
per gran dolor nel proprio seno immerse,
e si feria, s'un de' ministri a tempo
a trattenerlo non correa, che solo
fece ritorno occultamente a quella
mal custodita soglia; e tutto vide,
e riferì. Quindi volgendo in uso
di Messenia il peccato, ed approvando
per sacrifizio l'omicidio enorme,
si lasciò lusingar da un suo pensiero,
che vittima approvata
la vergine cadesse; e con la speme
temprò il dolor: né riserbò di tanta
ira precipitosa
e disperata, altro che l'odio, contro
l'infelice cagion della sua colpa.
TISI
Ma chi dannò Policare alla morte
per punir la cagion di questo errore,
come giudicherà contro al primiero
giudizio? E accetterà per buon l'effetto
di rea cagion? Se la menzogna vostra
ha salvata la patria, a che sen giace
sotto un monte di sassi
l'infelice Policare sepolto?
Nutrice, ah ch'io pavento,
che se l'approva Itome,
l'abborriscan li dèi.
NUTRICE
Prima abborrito
sia l'inganno funesto! A noi conviene
prima sentir del provocato cielo
l'ira vendicatrice. O dall'affetto
cieco materno mal guidato amante,
Policare innocente!
Tu giaci, e accresci il pianto nostro e aggravi
la nostra colpa. E tante colpe sono
anco impunite? Ed ozioso Giove
o irresoluto le sopporta? Forse
il desio del castigo è maggior pena
dello stesso castigo, ove più tema
l'aspetto della colpa un cor non vile
che l'aspetto di morte.
Policare morì. Ma chi l'uccise?
Volontario seguì la sanguinosa
ombra della tradita?
L'uccise Aristodemo? A me si cela
il caso, nel maggiore
lutto sommersa della figlia, e intenta
ad impedir che non s'uccida Amfia.
TISI
Aristodemo concitò la plebe
contro di lui, ritrovator infausto
di funesta bugia: mostrò le aperte
membra caste innocenti, e con parole,
che gli dettò il dolore,
e la tema del popolo, commosso
dall'orror del misfatto,
accese il volgo mobile e capace
sempre di nuovi affetti
contro di lui. Mentre alla fama dunque
del miserabil caso
il giovane correa, fermato giacque
da un improvviso turbine di sassi,
e in lor sepolto: come allor che svelle
dalle cime de' monti
le tracie nevi rapida procella,
repentina ricopre
e l'armento e 'l pastor. Ma fortunato
se cercava punir la propria colpa,
e soddisfar l'ombra ingannata, e farsi
compagno della sposa, o preceduto
esser di poco; e non lontan da quella,
che tanto amò, lasciar le membra in terra.
NUTRICE
Egli morir volea,
se Merope dovea: ma questa morte
non volea, né dovea trarli di vita.
Noi la sforzammo. È dell'affetto nostro
opra famosa il cangiar morte altrui;
e di nobile ch'era e gloriosa,
abominevol farla.
Della pietà materna odi un effetto
insigne, industre! Uccisa abbiam la figlia
con la mano del padre; e pria ch'uccisa
duramente oltraggiata. Or qual si serba
pena al mio fallo? O mi sia data, o ch'io
me la torrò. Chi mi rapisce, o venti,
e chi mi porta dove
rapito a noi cade sommerso il giorno?
TISI
Teme a ragion. Ché sfortunata fede
spesso paga le pene
mentre color sostiene
che la fortuna Opprime. O dèi, fia questo
principio o fin di mal? Chi l'opre umane
perturba in onta vostra? E qual invidia
contamina gli effetti
di volontà sincera?
Così l'ostia vi piace? Il rito è questo
dell'offerirla? Un sacerdote padre?
Un altar di vendetta? Un foco d'ira?
SCENA II
TISI, CORO
TISI
O di che strani, o di che fieri eventi
miseramente è fatta
oggi la patria mia tragica scena!
Che fia d'Aristodemo?
Che di Messenia?
CORO
Aristodemo adduce
per sua difesa l'altrui fallo, e torce
la colpa nell'autor, ch'estinto giace.
E perché trovò vergine la figlia,
e pria sacrata a' dèi d'Averno, stima
ben offerta la vittima, adempito
il voler dell'oracolo, salvata
così la patria.
TISI
A ciò consente Itome?
CORO
Approva, e spera. Ofioneo sol resta,
che ricevendo sta gli auguri in parte
remota ed alta, onde confermi l'opra,
se la conferma il ciel. Scenderà quindi
la sospesa corona
sul crin d'Aristodemo; e 'l regno antico
il nuovo re ricuperar poi deve.
TISI
Tuoni il ciel da sinistra, e pe' sereni
campi dell'aria il bellicoso augello
placide e larghe rote
formi, ed applauda; e non rimanga segno
che non sia lieto e non consenta il cielo.
CORO
Così voglian li dèi: ma viene appunto
Aristodemo. — Io qui l'attendo.
TISI
Io parto.
Del misero non posso
l'aspetto rimirar, del reo non voglio.
SCENA III
ARISTODEMO, CORO.
ARISTODEMO
Chi mi vuol, terra o inferno?
Mi soffre il cielo, o m'abborrisce? Un regno
mi promette la terra;
con orrendi prodigi
mi spaventa l'inferno, e dagli augurii
del ciel pende mia vita!
Piacemi. I casi nostri
stancano la fortuna,
affaticano il cielo, apron l'inferno.
Di chi sarò, non sarò vile. È degno
di tanta gara Aristodemo o giusto,
o scelerato; purché invitto, e grande.
L'offerir la figliuola alla salute
della sua Patria, il castigar in lei
un presunto delitto
contro l'onore, atti non son del volgo,
né men che generosi. Offersi, e diedi
Merope a Dite: e se morì in vendetta
del sangue offeso, è la vendetta forse
nume ignoto e plebeo fra quei d'Averno?
Come peccò nel darla,
se meritò nell'offerirla il padre?
Se non peccai, di che pavento? Forse
fu illusion, fu sogno, e vano parto
della mente agitata
ciò che veder mi parve: ah non fur due
ombre di Stige uscite
quelle ch'agli occhi miei squallide ed irte
momentanee offerì l'egro pensiero.
Tre son le Furie, e la mia figlia è sola;
due larve io vidi: o nulla vidi peggio
di me, d'Amfia. Se 'l fulmine cadesse,
errar già non potrà. Qualunque pere
di noi, pere nocente. Ah, chi mi toglie
l'orror dal sen? Chi mi consola, o dèi?
L'atto, che approva Itome,
chi conferma di voi? Lasciato è questo
grande giudizio al volo
de' vani augelli? Ed infelice, io pendo
dal moto loro? È sceso
dalle cime del monte,
Messenii, l'indovin?
CORO
Sul giogo ei siede,
cui di Giove itomeo corona il tempio,
solo, ed osserva diligente ancora.
Tempra il duolo, signor: non vario fia
dal giudizio dell'uom del cielo il cenno.
Ma che vuol dir colui
che quasi prigioniero
vien fra soldati? Egli è Licisco: è desso.
SCENA IV
LICISCO, ARISTODEMO, CORO, ERASITEA in fine
LICISCO
Licisco io son, quell'empio
fuggitivo, ribelle,
che m'ha chiamato ingiustamente Itome;
ma quel pio sfortunato,
che de' chiamarmi giustamente in breve.
Licisco io son: né fui,
né son padre ad Arena.
ARISTODEMO
Qual nostro Dio, qual tuo furor ti guida
a riportar questo esecrabil capo
all'offesa tua patria? O quanto parti
mendace, e quanto torni! Ov'hai celata
la vittima agli dèi? Scoprila, al fine,
dall'infami latebre esca a sua voglia.
Altra in sua vece ad Acheronte è scesa,
e se conferma il sacrifizio il cielo,
più non tema l'altar: tema una vita
agli altari involata,
e lasciatale in pena
di sua viltà. Tu reo di colpe gravi,
infedel con la patria, empio col cielo,
giustamente morrai.
LICISCO
In cupo centro in tenebrosa stanza,
là dove umano ardir piede non ferma,
sicuramente sta riposta Arena.
Tu ne fosti l'autor.
ARISTODEMO
L'autor più tosto
io son della messenica salute,
e quasi tu della ruina.
LICISCO
col favor degli dèi vittima impropria,
dalla cieca Fortuna eletta in fallo;
e giustamente tolsi
un delitto alla patria.
ARISTODEMO
In fallo? Or chi commise
alla Fortuna ch'eleggesse il nome,
altri che Febo? Errar non puote adunque
obbedendo agli dèi. Ma di chi nacque?
E come ascosa fu?
LICISCO
Di me non nacque:
ier fu tolta da' tuoi.
ARISTODEMO
Favole inette,
egizi sogni: il padre
qual è d'Arena? O tu la trova, o ch'io,
vecchio iniquo, infedel, t'espongo all'ire
del violento esacerbato volgo.
CORO
Trovi la figlia prima
rubata a' dèi, tolta alla patria; ed abbia,
se non può nella tua, salute in lei
oggi Messenia.
LICISCO
È ben ragion che torni
la preda onde fu tolta. Itene adunque,
prendete Arena alla sua patria, donde
cacciata fu con violenza ingiusta.
Torni spontanea e immobilmente attenda,
che la giudichi Itome. Ecco, o Messenii,
la vittima cercata. Ecco eseguito
il furor vostro e l'odio delle stelle.
Chi riconosce
di voi lo stral? Chi di sì certo colpo,
o Messenii, si vanta? Arco famoso,
che liberò la patria e 'l crudo onore
levò della ferita al sacerdote!
Ma quella patria almeno,
che le negò la vita,
non le nieghi la tomba.
Termini l'ira vostra
con la sua morte, e fia concesso il rogo
a questa sventurata
vittima di Fortuna. Io piango ogn'altra
cosa perduta, che la figlia. Io piango
un prezioso don di sacra mano,
che suppliva ai difetti
del talamo infecondo,
e che dolci rendea
gli sconsolati miei sterili giorni.
CORO
Io t'ho pietà, bella innocente, e molto
costui m'intenerisce. Or questo flutto
dove si frangerà?
ARISTODEMO
Rendasi il corpo
alla pira, o soldati. E tu, Licisco,
dimmi: così gran pianto
dunque non è paterno?
LICISCO
Io rivelarti
deggio cose occultissime, ed in parte
anco a me stesse ignote. Or m'oda Itome,
e sia chiamata Erasitea frattanto,
quella dell'alma Giuno
sacerdotessa illustre.
CORO
Chiamisi. O Dio! che scoprirà Licisco?
LICISCO
Messenii, chi di voi non si rammenta
che dopo aver molt'anni
dal mio letto infecondo atteso un figlio,
io diventai d'Arena
padre improvviso? Ah, non mi diè natura
prole giammai. La diè fortuna; e tale
fu 'l don ch'occupò tutto
il luogo vacuo e l'amor nostro ottenne.
Un dì ch'io spargea voti
là nel tempio di Giuno, e impaziente
importunava i fastiditi dèi,
la bellissima allor sacra ministra
a me sen venne e disse:
— Licisco, uditi ha Giuno
i tuo' fervidi prieghi;
vieni, e vedrai qual sia del cielo il dono. —
E, presomi per man, d'interna cella
ne' penetrali occulti in aureo letto
mi fe' veder una bambina: un volto
pien di bellezze: una bellezza al fine,
che la Messenia tutta
ammirò poi nella infelice Arena.
Attonito io rimasi; e quel bel volto
conciliossi tutti
gli affetti miei. L'indole sua mi fece
padre: tal mi conobbi; omai geloso,
omai timido ed ansio. Ella ridente,
sciolte, non so dir come,
dalle fasce le man tenere e belle,
con una troppo amabile innocenza
al nostro affetto applause. E fu quest'atto,
ch'affatto strinse il vincolo fra noi
di figliuola e di padre. — Or togli questo, —
mi disse Erasitea, — nobile parto,
che ti donan li dèi. Questa bambina
è tua: più non cercar: l'alto segreto
sia da te custodito: acciò la pena
non sia la morte sua. — Così mi tolsi
il caro dono, e l'improvvisa figlia
alla moglie recai, cara non meno.
Crebbe fu detta mia: mia fu creduta:
sinché l'empia Fortuna,
sazia di custodirla,
l'espose a morte iniquamente: allora
io negai d'esser padre.
Erasitea sen corse
frettolosa e dolente
al deposito caro, e mi commise
con quell'autorità, che di ragione
in cosa propria avea, subita fuga.
Fuggimmo occultamente. Ella mentia
sesso co' panni. Una fanciulla serva,
di ricche vesti e non ignote adorna,
fingea d'esser Arena, Arena un servo.
Ci accompagnò la sorte insino all'ampie
radici del Taigeto;
ivi, o pentita o stanca
un'altra volta abbandonolla; e mentre
ver la selva confusa
dagli arcieri fuggìa, per colpa forse
di men pronto destrier più tarda al corso,
fu da questa, ch'io stringo, infausta canna
trafitta il fianco inerme, ancorché 'l moto
tardi portasse a' sbigottiti sensi
la notizia del mal. Misero, io volsi
l'occhio geloso al sangue; e sospirando
sollecitai la vergine smarrita
rincorandola spesso: in fra la tema,
la speranza e 'l dolor. Corse tingendo
i fior d'ostro vivace,
e lasciando la vita a poco a poco
sulla strada col sangue. Intanto addietro
erravano gli arcieri
lungi da noi pel bosco ambiguo denso:
onde non più seguito, o indarno almeno,
corsi men frettoloso, e, dalle guarde
di Sparta assicurato,
mi ricovrai con la ferita Arena.
Ma, posto ch'ebbe il piè dentro alle tende,
la man fredda mi porse e in fiochi accenti:
— Padre, — mi disse, — io manco: — e, vacillando
una e due volte, alfine
traboccò dall'arcion nelle mie braccia,
e con un fievolissimo sospiro
mandò l'anima bella ed innocente
prima nel volto mio, poi negli Elisi.
Io piansi, e piango ancora
le sue sventure, il danno mio, le umane
misere cecità, lo stato incerto
della Messenia, e chiedo
ragion per la mia causa e pace all'ombra.
Qual andai, tal ritorno;
ciò che tolsi riporto. Intese Sparta
il caso mio: mi ridonò la morta
inutile per lei, com'era viva
inutile per noi. Così fin sotto
le mura nostre io la recai. Fui preso
da soldati col corpo. Il corpo giacque
poco quindi lontan sotto la cura
d'uno di lor, come pregando ottenni.
Lecito fia che questo sen, che queste
mani pietose, in cui
spirò la sfortunata, e morta viene
resa alla patria, anco riempian l'urna
del cener caro, e nella patria terra
lo ricoprano sì, ch'uffizio alcuno
non adempito all'amor mio non resti.
SCENA V
ERASITEA, ARISTODEMO, CORO, OFIONEO in fine.
ERASITEA
Vengo, Licisco, vengo
compagna nell'uffizio e nel dolore.
Non sarai solo a seppellir le care
ceneri della figlia. Un solo pianto
non beverà il suo tumulo. Più grande
il lutto in breve fia s'io scopro il padre;
la madre è già scoperta. O figlia, o invano
nascosta ai fati! O mia pietà delusa,
o prudenza schernita! Ah, fosse almeno
per te salva Messenia! Almen ferita
dal sacerdote, nelle braccia mie
spirato avessi, e mi restasse questa
onorata memoria
di tua caduta, a consolarmi il duolo.
T'ho levata agli altari,
e t'ho esposta ne' boschi! O boschi infidi
del nemico Taigeto! O in nessun luogo
innocente Laconia! Uscite, o fiere,
che 'l sangue suo negato a' dèi lambite,
ad ammorzar nel sangue mio la sete,
lieve pena a gran fallo. Odami Itome,
oda Messenia; Aristodemo, ascolta.
Se l'uccider le vergini in vendetta
o nelle patrie stanze o nelle selve
è sacrifizio, ecco placato il cielo,
liberata la patria, il regno salvo,
gli Spartani fugati. Invece d'una
due vergini ha l'Inferno,
ambe per la tua mano, ambe tue figlie.
ARISTODEMO
Che sento, oimé! Già temo. Ah rimembranza
ERASITEA
Se ti rammenta più, signor, de' nostri
furtivi antichi amori,
rammentarti anco dei, che quando prese
l'orgoglioso spartan la prisca Amfia,
la reggia de' Messenii,
tu mi lasciasti sconsolata e grave
il sen di quasi maturata prole;
e per la patria tua pugnando in quella
battaglia sanguinosa,
sparso ch'avesti quanto
di valor, di fortezza in uomo alberga,
moribondo fra morti al fin cadesti.
Te pianse il genitor, la patria, il regno;
io non ti piansi. Un'altra
sorte d'affanno mi seccò le luci
e mi stagnò le lagrime nel petto.
Pensai di seguitarti; e mi trattenne
l'orror di uccider meco l'innocente
tua prole, e mia. Pietà vinse il dolore;
e vissi per dar vita ad una figlia,
che quel perdon, che dalla madre ottenne,
lassa, ottener poi non dovea dal padre.
Vissi, ma in quell'istante
dal patrio albergo rapida mi tolsi,
e con inviolabil giuramento
di conservarmi casta,
mi dedicai sacerdotessa a Giuno.
Tu poi vivesti; ed io
obbligata al mio voto
ti ricusai. Fu da te scelta Amfia,
io l'approvai. Nacque frattanto Arena
occultamente, anco a te stesso; e quando
mi chiedesti del parto, il parto io dissi
perì nascendo. Ah sventurato parto,
ché non peristi? Io diedi
questa colpa alle stelle,
di ch'erano innocenti,
perché se non presente, almen ventura
nelle stelle io vedea colpa maggiore;
e tre volte un'ignota
voce notturna m'ammonì nel sonno,
voce di qualche Dio mal obbedito,
ch'io la celassi alla sua patria, al padre.
Così, senza saper qual fosse il dono,
l'ebbe Licisco: e quel ch'avvenne è noto.
In me cadano tutte
l'ire vostre, o Messenii. Amai la mia
figlia più che l'altrui. Due madri sono
oggi accusate. Ambe han levato a' dèi
le vittime dovute; ambe hanno amato
con troppo affetto i figli, allor che i figli
si doveano alla Patria. Io son più rea,
più scusabile Amfia. Feci la strada,
Amfia seguì. S'han da morir le madri,
io prima il capo mio stendo alla scure.
CORO
O che gravi accidenti! O di natura
col rigor del destin pugna infelice!
ARISTODEMO
Donna, parti, e mi lascia
tra questi lutti; e attendi cheta dove
voglia portarmi la fatal procella.
Almen giungesse Ofioneo.
CORO
Non lunge
è discosto da noi.
SCENA VI
OFIONEO, ARISTODEMO, CORO.
OFIONEO
Io tutto intesi. Aristodemo, il cielo
non è placato: e non ha chiuse ancora
l'ingorde fauci Averno. Odi, io ti reco
pessimi augurii, avvisi infausti. Or chiana
la maggior tua virtù, che 'l cor difenda.
Due vergini infelici, ambo tue figlie,
o padre infelicissimo, periro:
l'una per tua cagion, l'altra per questa
furiosa tua destra, inutilmente.
L'una ferita in mezzo un bosco, l'altra
in luogo profanato
dall'ira tua. Fu saettata Arena
in pena della fuga, e fu trafitta
Merope in pena di presunto errore.
L'una uccise l'arcier, l'altra il tuo sdegno,
per fallo l'una, per vendetta l'altra,
senza altar, senza rito e sacerdote,
senza dèi finalmente
dalla tua sceleraggine fugati.
Piange però Messenia; impaziente
vittima nuova il re tartareo chiede,
instano i numi offesi, il ciel minaccia
con orribili segni,
e muggendo la terra
risponde al ciel. Tremano i tempii e l'urne
si scompongon de' morti. Ulula il bosco
sacro di Giove, e del delubro antico
sudano i marmi. O che precedan questi
segni al crollo del regno, o che si dolga
la natura in tal modo e si risenta,
misera Itome, a cui sì facil modo
di salute vien tolto! In questo solo
t'invidian le città, che assorbe il mare,
o divora il terren, che pianger puoi
la tua caduta, e celebrarti prima
quei funerali, ch'aspettar non devi
dallo spietato sovversor fatale.
CORO
Or sì, lecito è il pianto, or sì, è dovuto.
Si resiste al nemico
con la forza e con l'armi;
nulla s'oppone al fulmine, che frange
i più solidi marmi;
l'ira del Ciel si piange.
SCENA VII
ARISTODEMO.
ARISTODEMO
Rapitemi all'orrenda
faccia del mio delitto, o Furie, o Mostri,
e renda il tetro carcere dell'ombre
a queste luci mie più grato aspetto.
Sommergete nel caos, che prima diede
origine all'Abisso,
o se cosa più occulta, e più profonda
sotto al Tartaro giace,
l'ombra mia scelerata; e sovra il capo
m'oda rotar di Sisifo il macigno,
volgersi l'orbe d'Ission, chinarsi
Tantalo all'onda: e sia mia pena questa
che le mie non consoli
la pena altrui. Già sono
in odio al mondo, alla natura, al cielo;
m'odia l'inferno sì, ma non rifiuta
di ricevermi in sé. Non mi consegni
ad avoltoio, a rota, a doglio, a sasso:
mi consegni a me stesso; e qual maggiore
mostro dell'odio mio, s'odio me stesso?
Vengo, figlie adirate, ombre dolenti,
vengo a placarvi; a liberar la patria
d'un mostro: e in questo alla salute vostra
io concorro, o Messenii. Il mio crudele
error poco vi rende, e tolse molto;
ma non è poco. Un uccisor de' figli,
un sacrilego, un empio io levo al vostro
demerito col cielo, e della mia
contagiosa fortuna io vi disgravo.
CORO
Tolga il Ciel, che quest'altro
lutto s'aggiunga a' gravi nostri danni.
Osservatelo, arcieri,
che la man furiosa
dal disperato sen l'alma non tragga.
SCENA VIII
TISI, CORO, SOLDATO
TISI
O con qual di natura
mostruoso tumulto, e terra, e cielo
dello sdegno celeste oggi dan segno!
Nulla piace agli dèi! mutasi in atro
sangue il don di Lieo. La fiamma sacra
volontaria s'estingue, e contro l'uso
verso l'arido suol fuma l'incenso.
Piena Itome è di pianto, e d'ululati
risuona il tempio, ove la turba mesta
delle matrone sbigottite esclama
appiè de' numi sordi, e bagna indarno
d'amaro pianto le marmoree basi.
Co' stimoli dell'uno
l'altro duol si provoca. Altra il comune,
altra piange il mal proprio, altra il periglio.
Non tal sarebbe il lutto
se di foco spartano Itome ardesse,
se violasse il vincitor superbo
i sepolcri e gli altari;
se di sangue corressero le vie,
e di fanciulli e vergini predate
pallido gregge inerme
la servitù attendesse
o dalla sorte o dalla voglia altrui.
CORO
Dolce cosa agli afflitti
è l'aver ne' lamenti
un popolo compagno. Un gran dolore
gode spargersi in molti. Ah, non son queste
lagrime inusitate!
Cosa antica è fra noi pianto lugubre.
Non inesperto volgo
invita a lamentarsi oggi Fortuna.
SOLDATO
Morte a morte s'aggiunge, e lutto a lutto.
A crudeltà di colpa
atrocità di pena. O numi, o quale
resti per noi, s'alcuno
ha più cura di noi, basti il versato
nobil sangue d'Epito. Assai bevuto
n'ha l'Erinni spietata;
torni ovante all'Abisso. Ah, qual mi scorre
gelo per l'ossa! Oimé, che vidi! O pigro
o stupido, ch'io fui!
Ma frettoloso e furibondo oh quanto
fu Aristodemo!
CORO
Narra ciò che vedesti. Io già m'appongo
al ver. S'uccise Aristodemo.
SOLDATO
O dèi!
S'uccise. Udite come. Egli partissi,
poiché dannò sé stesso; io seguitai.
Entrò l'infausta sanguinosa stanza,
dove trafisse e lacerò la figlia;
e qual tigre funesta il guardo acceso
fieramente in me volse,
minaccioso, terribile, veloce
poi corse al luogo appunto del primiero
suo misfatto, e commise anco il secondo.
S'abbandonò su quella stessa spada,
con che fu dianzi Merope trafitta;
non parlò, non gemé: diede il romore
segno della caduta. Indarno io corsi,
ché nel punir sé stesso
troppo ben conosciuto il luogo avea
dove ferir dovea.
Si passò il cor. Già vi disserro questa
porta, e veder potrete
come sen giaccia, e con le membra sue,
quasi che coprir voglia il primo errore,
quello spazio funesto ingombri tutto.
TISI
Ah, spettacolo indegno! In questa guisa
regni, infelice! In questo modo porgi
salute alla Messenia! O sfortunato,
o furioso Aristodemo! O quanto
sangue per una colpa ha sparso Itome!
Gran Dio, la cui sol man dà moto al tuono,
se siamo in odio al ciel, s'agli occhi tuoi
spiace Messenia, e 'l nome nostro abborri,
stendi le mura al pian d'Itome, abbatti
i tetti nostri, e giaccia
nel cener della patria
il miserabil popolo sepolto;
o pur, se indegno è della man di Giove
folgore, che punir debba i Messenii,
e pena più volgar riserba il Fato,
l'emula Sparta in questo giorno espugni
gli odiati rivali; alla ruina
l'invidia aggiunta. Più crudel ministro
dell'ira tua non troverai, che aggravi
con le vittorie sue la nostra pena.
FINE