ARSA
di
Giuseppe Manfridi
Al Ghetto. A
Venezia. La stanza di una giovane donna, che fu già la stanza di una bambina e
poi quella di una fanciulla.
Durante le sedute di una confessione coatta.
Carissima, mi chiedi di sapere qualcosa della nostra Sara ma, con ogni probabilità, tu vuoi sapere di quell'altra Sara, realmente vissuta, da cui la nostra nasce e che si chiamava: Sara Coppio Sullam.
Come anche la
mia scrittura fa intendere, quella Sara visse scrivendo. E, come a tratti
accenno, a Venezia. Nel Ghetto ebraico di Cannaregio. Quel che non dico è
quando: a cavallo tra il Cinque e il Seicento. Il suo epitaffio ce la tramanda
bella e consunta, di febbri, precocemente. Bionda, come te. Amava leggere
quanto amava scrivere e leggeva di tutto, ma soprattutto versi. Leggeva i poemi
della sua gente, ne leggeva di antichi e moderni, di arabi e cristiani. La fame
da cui era trascinata la portò, infine, a imbattersi ne ‘La Regina Esther’, una
sterminata sequela di endecasillabi ben foggiati che racconta, per l'appunto,
di una regina pagana convertita. Ne era autore un vecchio cattolico bolognese,
l'erudito Ansaldo Cebà, arido quanto la sua penna ma che pur seppe incantare la
fanciulla con la grave possanza del suo armamentario retorico e con la sterile
precisione della sua metrica. Perciò Sara gli scrisse; lui le riscrisse e lei,
come peraltro ho scritto, gli riscrisse ancora, innamorata di quell'uomo che
non incontrò mai e che una sola cosa insisteva a chiederle: di convertirsi.
Sara Coppio si rifiutò. Alla nostra Sara, invece, ho imposto di dire 'sì'. Ed è
oltre questo sì che tu vai ad incontrarla: tra la gente di un tempo che la
nuova natura non le consente, comunque, di abbandonare. E furiosa. Furiosa
contro di sé, scorgendosi così piegata, contro chi la piegò e contro l'incauto
sacerdote che, quotidianamente, la raggiunge nel Ghetto, come fosse in terra
nemica, affinché ella possa praticare il sacramento, a lei ignoto, della
confessione.
La mia e nostra Sara cercherà redenzione praticando all'estremo la propria colpa.
E digiunando, negandosi a se stessa sino all'estinzione e alla trascendenza.
Bene... ciò detto, compiamo il misfatto. Le parole hanno bruciato Sara, le
parole la raccontino.
Sarà arsa, Sara.
Rasa
arsa
Sara.
Sarà arsa
rasa
Sara.
Sarà
Sara
arsa.
Il Rabbi mi diceva:
fuori di qui
ti brucerebbero.
Hai un'innata vocazione all'eresia.
Fuggi
le tue radici
come un passero il ramo.
Tu sai fuggire, Sara,
ma non
abbandonare.
Ciò da cui ti involi
è dove tornerai.
II
Dirò, sin dal principio, la mia storia.
Breve davvero,
quanto, fino ad oggi, la mia vita.
E' storia, Padre, che voglio raccontarvi
in quanto voi chiedete a me una colpa.
Colpe cercate come corpi chiari
su cui calcare i
chiodi della croce.
Ma colpa mia non vedo. Oh, non
che non ci sia, ma non la vedo
in tutta quanta
la storia che vi affido.
Fatti e peccati saran mischiati insieme
come luce nell'aria: a voi di sceverarli.
III
Certo non è
mistero, qui nel Ghetto,
che Sara, già
bambina, amasse le parole.
Amava trasformarle, cavarne acrobazie.
Confondersi in questioni, malarsi di problemi
che sol chi
scrive e non chi legge sa.
Qui germina, voi dite, un primo accenno...
- No, non mangio! V'ho detto che non mangio!
Qui germina, dicevo,
o, se non germina, traluce
qualcosa d'infernale?
(Ride)
Amavo, insomma, poesie e poesiole.
Scritte da me:
qualsiasi.
Di mano d'altri: poche,
e, più che un bacio, un verso
poteva conquistarmi.
IV
(Brandendo, contro qualcuno, una lettera e citandola a memoria)
"M'è grato il tuo interesse...
m'è grato ma non
caro.
Di più non posso darti,
creatura a me non cara.
Io voglio che la mia
poesia raggiunga cuori
che siano cari al Dio
che scorgere non vuoi."
(Abbassando il braccio)
Eccolo, Padre: è qui il principio
di tutte le
sevizie.
Qui il principio e il suo inverarsi.
E poiché, Padre, tutto
noi possiamo volere fuor che il nostro volere,
io cominciai ad
amarlo.
Inorridite, Padre:
cominciai, desiderandolo, ad amarlo.
V
Lessi un suo
poema.
La regina Ester.
Storia di donne
pagane
convertite.
La forza
del suo scritto
mi convinse.
Sapessi dire
cosa fu
quest'essere convinta!
Posso azzardare:
piegare il capo a una passione nuova
ch'era nel peso
dei suoi versi innanzitutto.
Non il tema mi convinse ma la forma.
Ma quella forma mi propose un tema
e tema e forma mi
condussero a chi scrisse.
Dunque a un nome e il nome a un corpo.
Di naso, viso.
Occhi, braccia e gambe.
Vivo e vero.
Vecchio sapevo.
Lontano e infermo.
Ma vivo e vero.
Cristiano.
Famoso e colto.
Mi dissi:
certo bello in giovinezza.
Tra me e me
sorrisi a lui.
Di me sorrisi.
Così l'amai.
(Un silenzio.
Poi davvero come se parlasse a sé)
Mi si
prosciughino le ossa ormai!
Si vuoti la mia carne
e sgusci via dai
muscoli ogni polpa.
Disparirò per lui.
Contro
di lui.
Gli scrissi insomma.
Praticamente: vi amo.
Vi amo gli scrissi scrivendogli che amavo
i suoi versi
senza requie.
E lui mi scrisse.
Gli riscrissi e lui mi scrisse.
Gli scrissi ancora
e lui mi scrisse
ancora.
Non gli scrissi
una volta
e lui mi scrisse allora:
"Scrivimi,
Sara.
Perché non scrivi più?"
Ed io gli scrissi:
"Perdono
se non vi ho più scritto."
"Di che perdono?"
Mi scrisse lui.
"Di temervi" gli scrissi.
"Perciò non scrissi"
gli scrissi.
"Scrivimi, piccola
ebrea." Mi scrisse quello.
Non scrissi,
lui lo riscrisse e da quel giorno
io gli riscrissi
sempre.
Così fui
più che
un'amante.
Gli scrissi pure
quando già lui
non mi scriveva più.
VI
Non bene, no,
ma grazie
d'essere qui.
Che rumori!... Sentite?
Come fossero voci.
E cresceranno.
Ah,
in nomine Patri
et Filii...
così si dice,
vero?
Cristo
Gesù...
Mi godo
Padre
le mie prime invocazioni
a Lui.
(Un silenzio)
Non so dire cosa
di quel che ho fatto
tra ieri e oggi
sia peccato o no.
Ho
forse trattato
con un eccesso
d'ira la mia serva.
Per me l'ira
anzi
dico meglio: in me
è un tracotante
rifiuto d'ogni
cosa.
Taccio, scanso, mi sottraggo
a chi viene con le solite parole: "Mangia, Sara,
solo un poco, e bevi bevi"
Non rispondo
nemmeno: via!
Mi volto e taccio
mordendomi le
labbra.
E' un silenzio, credetemi, che insulta.
Non voglio nulla e ben presto verrà quando
più nessuno verrà nemmeno a insistere
nemmeno voi verrete
io nulla voglio e questo
mio non volere lo pretendo
con tale decisione
che a chi lo impongo suona
quasi come la più
dura delle offese.
Sono rari i miei 'no', sapete?
E quando m'escono son duri.
Perciò li fuggo.
Addirittura più di quanto
non siano gli
altri a farlo.
Forse
son sola in tutto
ormai.
E pure in questo: sola.
Se non veniste voi...
(Si distrae)
Poi vediamo
che cos'altro ho fatto?
(Sorride)
Che strani
sacramenti, voi
cristiani!
(Si corregge)
Noi cristiani.
Dirsi le cose.
Ah,
ditemi:
ma pure dei miei
sogni devo dirvi?
E di quello che penso, che mi passa
anche senza
volerlo per la testa?
(...)
Pure quello!
E pure questo
forse è un poco ingiusto
poiché spesso
noi pensiamo ciò
che non vorremmo.
Ma così sia.
Ve lo dirò lo stesso.
VII
Rieccovi,
signore, all'esazione quotidiana.
Puntuale all'ora vostra. Puntualissimo.
Meritate per davvero un bell'applauso:
ne avete di coraggio a traversare
le fosse del
nemico, inesorabile, ogni giorno.
Debbo starvi molto a cuore, ne ho piacere.
Però purtroppo
sono spiacente per voi: ho deciso
di starmene oggi
muta. Sì, oggi muta.
Crudele, vero,
crudelissimo
negarvi i miei peccati,
ovvero il vostro
pane! Così è.
Ragion per cui, restate pure
se il mio silenzio giustifica l'impresa,
ma vi prego:
non fatemi né fatevi domande:
così ho deciso, non c'è perché.
VIII
Ieri
pure con voi sono
stata prepotente.
Ieri e altre volte ancora, m'aspettavo
punizioni
adeguate.
Ma nulla o quasi nulla.
Come mai, mi domando.
Per bontà?
Per carità?
Perché?
Presso di noi la bontà non è
esser buoni ma giusti.
Non fate mai, vi supplico,
che debba
ringraziarvi.
Ringraziare
non voglio più
nessuno.
Già l'ho fatto con voi, non lo farò mai più.
Né dir grazie, né scusa.
Ad ogni modo ho fatto
la mia lieve
penitenza.
Dunque, di nuovo...
Che pur da ieri a oggi
non è trascorso
che un giorno di pensieri e basta.
Solo pensieri, e cosa dirvi adesso?
Ah
ricordi!
Quelli sì
forse un po'
peccaminosi.
E sempre di lui, o almeno
per lo più di lui.
(Rumori)
E' per il rito
della circoncisione.
Usiamo feste
che ingombrano
ogni luogo.
Quel giorno non verrete.
Sola mi voglio.
Troppo molesto per un buon cristiano.
(Si alza. Va a prendere delle carte)
Le sue lettere,
vedete?
Mi ciberei di queste.
(Mastica un foglio)
Già accadde.
Non accadrà mai più.
(Si siede)
Che dicevate ieri?
Che il Cielo è debitore
di un'anima a
quell'uomo.
La mia colpa, costante, è non spartire
con voi
quest'entusiasmo.
Del credito suo quell'uomo
è in debito con
me.
Mia fu
quell'anima che, persa,
quiggiù m'affossa
tra mura di vergogna.
IX
(Con una lettera tra le mani, scorrendola)
"Mi fai sapere, stranamente, Sara,
del tuo aspetto che tu dici:
può piacere.
Come a aggiungere, tra veli:
può piacerti."
(Leva lo sguardo)
Di più altro, astutamente,
non mi scrive.
Solo che, perfidamente,
di me ha capito
che son bella.
E che mi andava, soprattutto, di farglielo capire.
Che ha capito, mi scrive, quanto mi andasse di farglielo capire.
La prima, questa, di infinite sue vittorie.
Lo stupro umilia
immensamente ma è pur vero
che già di per sé
l'umiliazione è stupro.
(Straccia la lettera)
Stupro! Stupro!
Io da te
contaminata ormai per sempre. Io da te
stuprata. Io che se
contro di te...
io che se
contro di te mi scaglio
ribadisco la tua assenza e, soprattutto,
il tuo sconfiggermi. Ripeto
lo stupro che credetti
un approdo coniugale,
o l'esito perfetto.
(Alzando con forza gli occhi sul deuteragonista)
Sì, stupro:
esatta è la
parola, precisamente intesa!
E mai lo vidi, mai mi vide ma fu stupro
per ogni mia interiora, per ogni ìncavo
del corpo mio, del cuore mio in attesa
e gettito di caldo liquame che da dentro
come un bitume mi scurì facendo
il corpo suo nel
corpo mio di me padrone.
Stupro: questa
è l'unica parola.
Oh, la vedo la domanda: come si possa, Padre,
pure così nella più estrema
tra noi distanza,
vero?...
Via, ammettetelo, stavolta
è pura smania di sapere ad accendervi lo sguardo e non il mite,
a voi più usuale,
puro senso del dovere...
Ebbene, qui impalata la risposta sono io...
qui piantata come un fiore tropicale nella macchia lagunare,
estranea a tutti e tutti essendo
ormai per me stranieri:
la risposta
a come possa tanto stupro consumarsi sono io.
(Allarga le braccia, come crocifissa)
Più che ascoltandomi, guardandomi potrete
perciò, forse, comprendere qualcosa.
X
(Con un libro tra le mani)
Fui debole ad amarti
amando l'apparente
tua amabile scrittura?
Fui debole per
questo?
Per ciò precipitata
in tanto
disamore?
O fu virtù poetica
nutrir d'amore la
tua debole scrittura?
XI
(Sara
gualcisce i lembi di una carta appallottolata. Legge.)
"Non voglio
non voglio non voglio...
Nel modo più assoluto mai,
capiscimi mia cara, non voglio né vorrò
volere mai il tuo
volere, Sara.
Dio me ne scampi, non lo vorrei giammai.
Né voglio che tu voglia
volere ciò che, ammetto,
vorrei fosse il
tuo volere e non lo è.
Ma mai che tu lo voglia
solo perché lo
voglio.
Io solo posso dirti: quandomai
volesse il tuo volere coincidere col mio
e il Cristo Nostro Dio
farsi in te carne del vivo desiderio, allora sì
perfetta e salda come tu vuoi sarà
quell'unione tra noi che adesso,
per questo tuo ostinato non volere, son costretto
purtroppo a non volere. Purtroppo, Sara,
se tu non vuoi, non posso io volere."
(Sara riappallottola il foglio e lo morde.)
XII
Eppure ci fu
dell'amore
ci fu.
No!
Sì.
Ci fu. E se ci fu
ancora c'è.
Da cercare ma c'è.
Non so dove,
né come, ma c’e:
in quel buio che penetra il buio
d'un piccolo stipo pensato
per nascondersi all'occhio, in un mobile
che i casi hanno perso nell'ombra c'è ancora
un peluzzo,
un'inezia, una scheggia...
quel pochissimo tutto che sia
quell'amore che
pure ci fu.
O fu tutto
un mio solo
pensiero?
Un mio solo donarmi?
Solo un suo possedermi?
No, non voglio
più crederlo, né
più saperlo, più sentirmelo dire! Non voglio
mai più!
Mi ha amato, lo amai.
Poiché amato mi amò.
Niente ha preso ma avuto.
Niente ho perso ma dato.
E potessi di nuovo, di nuovo amerei.
Di nuovo! Mai più
quegli orrendi pensieri, mai più!
(Accorgendosi di qualcuno che avanza)
Ah voi... siete
qui...
c'eravate già prima?... Da quanto?...
A vedermi parlare da sola, a sentirmi... m'avete
sentito mentire?
Mentirmi? Da sola, a me stessa...
Niente niente... dicevo
che quel caro signore che tanto v'è caro
c'è caso che,
forse, un po' m'abbia anche amata.
Me lo dico e un po' quasi ci credo.
Sì lo so che mentire è una colpa,
ma mentire con gli altri: mentire
a se stessi per
me è già penitenza.
Non da questo vorrei,
non da questo!,
esser mai perdonata.
XIII
"Convertiti o sospendi
la tua penna, Sara:
se non per questa
unica cagione
non penso più d'adoperar la mia."
E così fece.
Al mio 'no' lui tacque.
Gli replicai quel 'no'
per dieci, venti
lettere e lui
tacque.
Dopo un anno infine...
"T'ha benedetta il Cristo?"
E già il mio 'no' si fece
un 'non ancora'.
(Una breve pausa)
Altre poche sue lettere bastarono
per donarmi spezzata al vostro Dio.
XIV
Io, Sulamita,
mi feci cristiana
per dirgli 'sì'.
Un 'sì'.
Quel 'sì'.
Lo dissi.
Lo scrissi.
Lo feci.
Mi feci
inumana
cristiana.
Benedetta alle vostre
pupille, io che dissi
scrivendo
quel detto
dettato
da lui
dettatissimo
'sì'.
(Si segna)
In nomine
Patris...
et Filii...
(Rumori da
fuori.
Canti. Folla)
XV
E nemmeno m'importa, a volte, che
m'abbia fatto lui
fare ciò che ho fatto.
Non m'importa, a volte, questo
ma che non m'abbia amata
assolutamente mai,
e che con tanta
forza non amandomi
m'abbia
governata.
Questo, a volte, m'importa. Solo questo, terribilmente.
Che mai, neppure in illusione,
m'abbia al centro
del suo mondo avvicinata.
Oh, questo sì m'importa, a volte, più
dell'abiura, della non rivelazione
alla quale son piegata, del nonnulla
a cui m'ha
convertita in ossequio ai suoi bisogni.
Che l'enorme io abbia affrontato
per condiscendere al suo verbo e non sorretta
da una briciola di lui, né mai partecipe
del più opaco e distratto fra i suoi sogni.
XVI
Che sciocchissimo errore! Che vi chiesi,
iersera, di cercare
la colpa in ciò
che ho fatto?
Ma se è evidente:
il mio delitto
atroce, il mio tradire
la gente mia che ronza adesso
con voci e canti attorno a questa casa
come uno sciame attorno a una carcassa,
voi d'altre rive
non lo chiamate... Grazia?
XVII
Parlo
con più
confidenza a Nostro Signore ormai.
Lo chiamo per nome innanzitutto e gli attribuisco i suoi meriti.
La sua natura gli riconosco.
Non è poco per me.
Anche se qualcosa, dentro, mi uccide.
Glielo direte che son brava? Glielo direte?
Che davvero sto divenendo quello che lui voleva.
Per il mio bene lo voleva. Certo, lo so: per il mio solo bene.
Queste voci di fuori mi cercano.
Ero in lotta con esse. Ora di meno.
Quasi non più. Facciano
quello che
vogliono!
Ho sgranocchiato del pane. Solo del pane e basta.
Ma perché non ne ho bisogno; non è che non voglio.
Non posso.
Vuol dire che è giusto così.
Ho imparato la perfetta equivalenza
tra giusto e naturale
perciò nessuna
risposta su questo argomento.
Per carità, non sembri
un moto di
ribellione; disobbedienza.
Nella fatica che compio
cerco solo la via per me più semplice.
XVIII
(Rumori da oltre le pareti
Voci.
Ritmi.
Musiche.
Sara sorride; accenna)
Circoncideranno.
(Tace,
ascolta.
Rumori, suoni e ritmi più forti.
Lei si incupisce)
Ci circonderanno.
XIX
(Ride)
Un autentico
nano.
M'hanno detto che è un autentico nano.
Non m'ha turbato, anzi.
Secondo voi ciò rende
il mio amore più prezioso
o ancor più insano?
XX
Non ho più
gola.
Se non per l'aria.
Mangiare m'offende.
M'offende il piatto colmo.
La carne che s'illiquida e s'incarna.
L'uso dei denti addosso agli elementi.
L'ingombro che rammemora
alla forma i suoi
recessi.
L'esigenza diuturna. L'indecenza
delle stupide e occluse
polpe senza voce. Per mille volte:
non provatevi ancora
a venire, e
venire!...
Non v'è chiaro che l'aria
in cui vivo è all'oscuro
di gusti e
profumi?
Ripeto: non mangio, e sia dato
per legge.
XXI
(Sara
carezza i suoi oggetti.
Come cose lontane, evocate dalla nostalgia)
Era una pietra
compatta e forte
di colori
dardeggiante il luogo mio.
Foresta d'anime e come adesso voci
ma voci mie. Non
più.
Un chiuso e casto spazio
la mia terra nel recinto lagunare,
la mia casa in quella terra,
la mia stanza
nella casa.
Questa stanza.
Qui covavo, vezzeggiando i miei piaceri, la passione che diruppe.
Praticavo la mia Fede.
Figuravo altri orizzonti.
Spasimavo, ma in un rogo di delizie.
Ero in pace coi fratelli.
Ero assenza del mio corpo.
Ero dita della mano.
Ero corso, infiltrazione,
ero vena che portava
come gli altri la sua parte, il suo fardello,
di sangue cupo e vivo che poi ad altri trasmettevo.
Ero sola e impreziosita
dal mio starmene da sola ma congiunta
alla gente, alla Natione.
Non più. Mai più.
Mai più, poiché voi dite:
"Sta' quieta, Sara:
sei nella luce adesso..."
(Ride)
Di questa luce, dunque,
che a niente qui si sposa,
vi tacerò quello che penso.
XXII
La Sinagoga, giù di là, è nascosta tra le case.
Muratura tra le mura. Quasi sembra
una casa come tutte. C'è di fronte
uno spiazzo dove
giocano i bambini.
Ascoltateli, si sentono.
Ricordarla mi ricorda
il primo maschio che abbia odiato. Ero bambina
nello spiazzo che giocavo. Uno straniero,
qui ne arrivano
pochissimi, s'avvicina per guardarla.
Ha la pelle dura e nera e un mantello che lo fascia
dalla testa sino
ai piedi.
Come un giunco divorato da una fiamma.
"Ah, sognare - sognai - solo sognare
che stanotte mi rapisca!"
Sta con uno.
Io m'accosto per sentire
che mai dice quel
principe bellissimo.
Non è chiaro come parla ma abbastanza
perché l'altro lo
capisca, e lo capisca io.
Il mio Tempio lo paragona a un minareto.
Ma con sdegno, lamentando
d'aver perso
tanto tempo per vederlo. L'avrei ucciso.
Nessun altro se ne accorse. L'avrei ucciso.
E due volte, non una, l'avrei ucciso.
Per il sogno e per l'insulto. E mai più voglia
di morte più
potente da allora ho mai provato.
Se, Padre, mi credete:
così potente mai. Neppure adesso.
XXIII
Incombi.
Detta tra noi la verità,
catastrofico vecchio, è che tu incombi ancora.
Sei tra me e il tetto
di questa stanza. Fuori di qui saresti
tra me e il cielo, tra me e il suolo
che mi regge e
non mi tocca: tu mi tocchi.
Sei tra l'aria e la mia pelle
un'ardente
fasciatura.
Incombi, maledetto. Mi mastichi e trituri,
e lì dove tu ti trovi nemmeno forse senti
di che fame sei preso e quanto ancora,
dimentico di me,
continui a maciullarmi.
Il morso tuo ha lasciato
dentro la pelle fori
solidi più dei denti.
XXIV
(Sara
si carezza con i polpastrelli le guance.
Forse dinanzi a uno specchio)
Perdo fiori.
Gocce rosa dal pallido prato
ormai nudo alla
luce dell'aria.
Sì, lo sento: svanisco.
Non più il luogo lo dice
ma le introvabili labbra, i miei seni sfiniti
e lo sguardo che spinge
i suoi raggi
stanchissimi incontro alle cose.
Si infiggevano un tempo - ora, foglie,
sanno solo poggiarsi, tenersi
un istante e
cadere.
Foglie, fogli...
qui ai miei piedi i miei sguardi nei suoi.
XXV
Tremate.
Spiritosamente tremate.
Sarà che cosa? Il clima della festa? Ammettete, lo previdi.
O no, piuttosto: il mio cangiato
aspetto?
Orripilante, vero?...
Non mi sembra che più tanto
gusto abbiate nel
venire.
Ed arretrate.
O sarò io
nei gangli miei quintessenziali finalmente adivenuta
all'intera mia
finale inverecondia? Sono io?
Ed arretrate.
Ombra siete
che chiede
all'ombra: succhiami.
Tremate.
Comicamente tremate. Ah, ricordassi
una almeno, solo una
delle tante mie storielle
d'un tempo! Qui gli ebrei
ne inventano
stupende.
Ne sapevo, le ho scordate.
Divertentissime, credetemi...
vi ridarei coraggio.
O non volete? Non vorreste? No?...
Signore, dove andate?
Che fiume vi trascina a gambe alte? In che corrente
pur di fuggir da me comicamente
schizzate via
annaspando?
Ma sapeste
che spasso ne avreste!
Signore, dove
andate?
Se solo voi voleste,
se solo ricordassi,
una almeno
di quelle mie storielle!
(Ride. Chiaramente sola)
XXVI
Ti odio.
Ti ho, Dio.
Tuo addio.
Tu ed io.
Tu e Dio.
Tuo Dio.
Tu, oh Dio!
Tuo odio.
Mio odio.
Mi odi,
mio Dio?
Mi ha Dio.
Mio addio.
Mio Dio.
Mi odio.
XXVII
Mi confesso.
Cerco colpe da confessare
e confessarmi
è la mia colpa.
Come in tutta la mia vita fu
chieder perdono ciò di cui dovetti
farmi perdonare.
E perdonare da me per prima.
XXVIII
Non mi vedo dimagrire ma so che dimagrisco.
Per me è come se lo spazio
si dilatasse attorno
e dileguasse, si facesse fino fino.
Non sono io che muto
ma è il mondo che
si sforma.
Poiché soffro, mi domando dove soffro.
E in quale corpo
la notte mi
addormento?
Qualcosa forse muore
per colpa del mio morire?
XXIX
Io
ardo per questo mio
non più divenire.
Pater, brucio.
Non mi vedete voi
ardere, brillare e farmi
minuscola, minuscola?
XXX
Diversa
sono
ovunque
ormai tranne
dove sono
tranne
dove non sono
più
dispersa
nel corpo
mio disperso
che comincia
comincia
a non essere
non essere
più.
XXXI
Veggo un'anima...
una sposa alla quale il Verbo ha dato
un vestimento fatto a foggia nuova,
stampato di gigli e rose
e carica ha la fronte e il collo
di tante gioie che giammai si vide
sposa colma di gioie quanto questa.
La veggo entrare in Paradiso risguardando
il sommo trono, circuita
da Serafini e Santi; e dopo questa veggo
una seconda sposa
la veste della quale è nudità
e che si adorna di nulla e d'esser
dispregiata. Ed essa
non entra in Paradiso: sta
in su la soglia e guarda
per un cancello e non ardisce
d'alzar gli occhi a risguardare
non dico il trono ma nemmeno
il basso cielo, la luce... Anima mia,
una di queste due
spose scegli!
Se fossi sapiente quella
vestita di nulla
eleggeresti.
La prima è il Verbo
umanato; la seconda,
la dispregiata, è il Verbo
divino. E' luce e carne!
Esser quella dovresti, divenire
quell'anima nuda,
anima mia!...
Tu che un nichilo sei...
Solo un nichilo al mondo.
XXXII
Io, Sara, quella nuda cosa sono.
In me s'è fatto il vuoto nudità.
Io ti bestemmio ultimo mio Dio
e dubito che
fosti mai immortale.
Affamata ai tuoi piedi estinguo, e vedo
il velame che sciama nel silenzio.