Arsura

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ARSURA

Tragedia in tre atti

Di TURI VASILE

PERSONAGGI

ROSA

IL MAESTRO

JANO

STELLA

DONNA CONCETTINA

DONNA AGATINA

LUCIANO

MENICO

MARIUZZA

LA NONNA

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Una stanza. A sinistra una porta e un letto, il centro una parla che da in terrazza e attraverso cui sì vedono il cielo e il contorno di monti in lontananza. A destra una porta. Una credenza. Su una parete, un'icona della- Ma­donna con il Bambino.

Il cielo che si vede attraverso la porta centrale al dì là della terrazza - è prossimo al tramonto. In scena, a destra. Donna Concettina e Rosa discutono a mezza voce. In un angolo Mariuzza - scema, sui dieci anni, che non parla, non sente e non capisce - si trastulla con dei limoni. La nonna, moribonda, giace sul letto. Uno due volte sì vede il Mae­stro che passeggia su e giù per la terrazza, accigliato)

In un borgo dell'Etna, oggi.

Rosa                              - Donna Concettina, quasi non mi posso capacitare; e mi vergogno, ecco, mi vergogno a sentirmelo dire. (Pausa) Sapeste quante ce n'ha fatte vedere: a questa povera vecchia di mia madre e a me stessa. Ma ora mi pa­reva che ci avesse messo una pietra sopra e non se ne parlava più. Mi dicevo: ha capito che ha i piedi nella fossa, che da questo mondo se ne deve andare. E un poco - di­cevo - un poco lo fa per lei che da venti giorni non parla; per rimorso lo fa. E in­vece! Gesù Gesù... chi ci poteva credere.

Donna Concettila          - Quando me lo disse, io restai senza parola, signora Rosa. Il signor Maestro? Il signor Maestro a sessant'anni an­cora non si da pace? E Stella! Entrò in casa, si sedette, mi guardò, poi disse-: Mammuzza, disse e si mise a piangere. « Che hai? Che hai? ». Niente. Non faceva altro che pian­gere e dire: Mammuzza, mammuzza mia. Sopra la figlia mia immacolata si dovevano posare gli occhi del demonio!

Rosa                              - Sono sicura che lei lo sa. Non capisce, non sente più, dice il dottore. Ma mi pare che quando ogni sera lui le va a dare un bacio - bacio di Giuda - lei lo guardi come una dannata. E dannata muore, lei che è santa in tutto e per tutto; dannata perché se lo vorrebbe portare dietro nella fossa. Pensa che dopo morta, lui - vecchio e mal ridotto com'è - si prende in casa qualcuna, perché è il sangue che ancora gli va bollendo nelle vene. Con la scusa che io ho i figli a cui pensare, qua dentro a me non farà met­tere un piede, ve l'assicuro.

Donna Concettina         - Ma sopra la figlia mia immacolata Dio non lo doveva volere. Sa­pete che diceva? « Quattro soldi ce l'ho per farti una signora. La moglie del maestro di­venti ». E me la lusingava. Quando ci penso - - la figlia mia che è ingenua come quando l'ho fatta - non so quello che farei, signo­ra Rosa.

Rosa                              - (avvicinandosi al letto) Quante ne ab­biamo viste tra te e me, Iddio solo lo sa. Io ho questa croce (indica Mariuzza), questa croce che vale le altre. Tu una signora eri, e guarda come ti sei ridotta. Non dovevi innamorarti di lui che aveva dieci anni meno di te e quel vizio nel sangue. (Pausa) Quante volte t'ho trovata che piangevi mentre rac­contavi le favole a Jano che era bambino. Jano ti vuole bene; Jano è cresciuto sempre accanto a te. L'ho avvertito. Speriamo che arrivi in tempo. (Pausa) Donna Concettina, mi ricordo che una volta, trent'anni fa, mio padre si ritirò dalla caccia senza manco un coniglio. Era di mattina e tutta la notte c'era stata la luna. Lo sapevano tutti che invece di appostarsi per la caccia si diver­tiva con la figlia del capo-cantoniere che era una continentale. Dicono che nacque pure un figlio, per sbaglio, che dopo quattro mesi morì o lo fecero morire. Mia madre, non so cosa gli disse quella mattina, e lui diventò rosso in faccia che pareva che tutto il san­gue gli fosse salito alla testa. Poi la bastonò, davanti agli occhi miei, davanti a me che ero un'innocente di dieci anni, Donna Con­cettina. La bastonò, mia madre che era una signora figlia di signori e in casa sua non si usava bastonare la gente. (Pausa) Poi, si chiuse a chiave nella camera del pianoforte e gridava ancora, finché si calmò. Dopo un paio d'ore uscì. Non ci credereste: l'andava chiamando casa casa e quando la trovò le si inginocchiò davanti piangendo come una femminetta. E le domandò perdono e la por­tò di là e si mise a suonare il pezzo che ave­va composto giusto in quel paio d'ore. Mia madre ch'era rimasta di pietra, senza un grido, senza una lagrima, a poco a poco si mise a piangere e gli buttò le braccia al collo. (Pausa) Se non si fosse chiuso in questo paesaccio per l'amore del quieto vivere e della caccia, se non avesse avuto prescia di spo­sarsi, chissà dove sarebbe arrivato. Mia ma­dre stessa lo diceva sempre: è un artista, e si deve sfogare. Ma dentro chissà quanto ve­leno le faceva, povera mamma mia. (Pausa) E ora, vicino al suo letto di morte, non. lo doveva fare. (Silenzio)

Donna Concettina         - Certo, signora Rosa, per rispetto sacro non lo doveva fare. E magari, per rispetto di suo nipote Jano.

Rosa                              - (vibrata) Donna Concetta, mio figlio Jano lasciatelo stare. (Silenzio) (Pacata) Mio padre manco l'immagina, perché niente c'è da immaginare tra vostra figlia e Jano. (Di nuovo vibrata) Ma che vi siete messa nella testa, santa cristiana!

Donna Concettina         - L'ultima volta che ven­ne, Jano disse a Stella...

Rosa                              - Un momento di fantasia, donna Con­cettina. Non ne fate impegno. Jano è gio­vane e ancora non sa quello che dice. (Pausa) Lo so io quello che ho fatto per mantenerlo agli studi. Ora il bar è più avviato; e penso di levarlo, mio figlio, dal suo impiego a Catania, e di mandarle a Roma a conti­nuare gli studi, a laurearsi. Ma la moglie di Jano ancora deve nascere.

Donna Concettina         - Nacque proprio sventu­rata la figlia mia? Che non debba vedere al­tro che pene e dolori nella vita la figlia mia, signora Rosa? Io non so più che dire. Mi sento una cosa qua dentro il petto. Ma sono sicura che quando Jano torna, se ne ripar­lerà.

Rosa                              - No. Non se ne riparlerà. Anzi, quando torna, fatemi il piacere di lasciarmelo in pace, mio figlio.

Donna Concettina         - (commovendosi) Signore Iddio, non vi basta di averla fatta povera e orfana la figlia mia? Da qualche mese non pensava ad altro che Jano; e Jano era l'uni­co suo conforto. Le ridevano gli occhi quan­do parlavamo di lui e qualche volta pian­geva e non mi sapeva dire perché. Ora, dopo quello che è successo ne è restata scossa, perché da due giorni non tocca né pane, né acqua e non parla quasi. Che le debbo fare io, povera vedova, che le debbo fare? (Piange)

Rosa                              - Ora, donna Concetta, è meglio che ve ne andiate. Se mio padre entra e vi vede qua... Sapete, non vuole nessuno in casa, tranne i ragazzi della fanfara, perché gli cu­rano cavallo e carrozzino. Non lo capisce che venite per farle l'iniezione; dice che una volta fatta l'iniezione, ve ne potete andare. Dice che non vuole pettegolezzi in casa.

Donna Concettina         - Non ve ne importa niente di mia figlia, signora Rosa? Pensate che è per colpa della vostra famiglia... E che ve ne può importare, se avete pure voi le vostre croci! (Esce, a sinistra)

(Rosa resta ferma, assorta. Mariuzza le si av­vicina, e le scuote la veste, mandando piccoli gridi inarticolati)

Rosa                              - E mai ti secca il fiato! Che vuoi? Non lo sai manco tu. E io non ho più che farti. Vieni; siediti qui. Vicino alla nonna tua, e sta' ferma. (La mette a sedere. Il volto della scema è ora spaventato)

(Suona l'Avemaria. Il maestro entra. Si fer­ma davanti all'icona della Madonna, si toglie

11 berretto e si fa tre volte il segno della croce, e altrettante volte bacia, con la mano l'immagine)

Rosa                              - (dopo aver mormorato alcune preghiere) Benedicite.

Il Maestro                      - (un po' brusco) Buona sera  (Si­lenzioQuesti ragazzi, non vengono?

Rosa                       - Li hai puntati a un'ora di notte.

Il Maestro                      - Menico no. Menico doveva venire ali'Avemaria.

 Rosa                             - (aspra) E che vai cercando! L'Avemaria è suonata ora ora.

Il Maestro                      - E zitta! Non te ne lasci mai una indietro. Hai sempre la risposta pronta.

Rosa                              - Buono. Buono. Non ti si può dire niente.

Menico                          - (da fuori, a sinistra) C'è permesso, signor Maestro?

Il Maestro                      - Entra.

Menico                          - (entrando) Benedicite, signor Maestro,

II Maestro                     - Buona sera.

(Menico - un ragazzo sui quattordici an­ni indossa una tuta da fabbro ferraio, e porta un tamburo a tracolla)

II Maestro                     - L'hai portato il ferro?

Menico                          - Sissignore (E mostra un ferro da cavallo)

Il Maestro                      - Ma a ferrarlo, da solo ce la fai?

Menico                          - (dandosi un po' d'importanza) Eh!

Il Maestro                      - E allora, presto, scendi nella stalla.

Menico                          - (sta fermo e non si decide)

Il Maestro                      - Che ci aspetti?

Menico                          - Signor Maestro, e la lezione?

Il Maestro                      - Dopo, dopo, figlio di Dio. Dopo ti metti là (In terrazza), cammini, e ti ripas­si la marcia numero tre. Io di qua ti sento e se sbagli te lo dico.

Menico                          - Sissignore (E si avvia)

Il Maestro                      - (sulla porta centrale) Ehi, Meni­co. Dagli da bere prima al cavallo, senti?

Menico                          - (che è giù fuori) Sissignore.

Il Maestro                      - E non ti scordare di mettergli dopo un fascio di fieno nella mangiatoia.

Menico                          - Sissignore.

Il Maestro                      - Bestia, perché ti porti appresso il tamburo nella stalla? Posalo lì.

Menico                          - Sissignore.

Il Maestro                      - (rientrando e sedendo presso l'am­malata, dopo un silenzio) Come sta?

Rosa                              - Ora ci hai pensato?

Il Maestro                      - (alzandosi, impulsivo) Con te non si può ragionare. (Passeggia nervosamente per la stanza)

Rosi                               - (dopo un silenzio) Come sta? Da un mo­mento all'altro muore, come vuoi che stia? Noi, pare che ci abbiamo fatto l'abitudine a vederla così, che non si muove, che non parla. Alla sera vengono sempre i musicanti e suonano; e lei in un fondo di letto: non sen­te, non parla. Venti giorni di agonia sono assai, no? Ci siamo pure scordati che è in ago­nia. Tu non pensi che al cavallo e a chi sa che cosa, come sempre. Fai lezione, mangi e dormi. Mio marito sta al caffè dalla mat­tina alla sera e vede gente. Io sola, sempre qui, che non la lascio mai la povera mam­ma mia che se ne va.

Il Maestro                      - (commosso) Faccio lezione, man­gio e dormo, dici tu. Sapessi invece quello che ho nel cuore, figlia benedetta. (Si avvi­cina ai letto. (Con voce sommessa) Maria, Mariuzza. Finirono quei tempi quando tu mi aspettavi ogni sera ed io tornavo dal con­certo che mi sentivo un leone. Tu, dalla fi­nestra, mi buttavi con la mano un bacio, ed io ti rispondevo. Eri bella, Maria; e credevo che t'avrei voluto bene davvero, per tutta la vita. Ora lo lasci il tuo vecchio. Ti basta il cuore per lasciarlo solo?

Rosa                              - (convinta che reciti) Buono, buono.

Il Maestro                      - (accorgendosene, stizzito) E tuo marito piuttosto! Perché non viene mai, quello scansafatiche?

Rosa                              - Lavora. Con che mangiamo se no?

Il Maestro                      - (sprezzante) Assai ti guadagna! Non è capace di far fruttare. Tutti i dolcieri del paese guadagnano. Lui niente.

Rosa                       - Non ti pare vero di trovare un tanto per disprezzarlo.

Il Maestro                      - In questo stato, chi ti ci ha mes­so? Io? Se mi avessi ascoltato, altro che dol­ciere avresti preso con la tua dote. (Pausa) Ah! perché non vi ammazzai quella notte, quando ve ne fuggiste! Avevo caricato il fu­cile a palla, e poi, non feci altro che male­dirvi. (Meno aspro) A quest'ora, non ti ve­drei ridotta così (Pausa) Più tempo passa e più incapace diventa. E io non ti posso aiutare perché sono diventato vecchio, le lezio­ni non me le faccio pagaie, dato che sono conosciuto; e la campagna non frutta. Se non fosse per tuo figlio Jano, tutti in un canto di strada potreste morire: voi due e questa... (S'interrompe)

Rosa                              - (aspra) Di questa croce la colpa è tua, papa, e tu lo sai. La colpa è della tua male­dizione. (Con uno scatto) Ma da dove ti vie­ne dì parlare cosi stasera?

Il Maestro                      - (fa un gesto impulsivo, ma si con­tiene. Dopo un silenzio, con voce forzatamen­te pacata) Il dottore, non viene?

Rosa                              - A fare che? Sono due settimane che l'ha rinunciata. Ieri sera è venuto perché s'era trovato a passare.

Il Maestro                      - E l'iniezione?

Rosa                              - (calcando) Gliel'ha già fatta donna Con­certina l’iniezione. (Breve silenzio)

Il Maestro                      - Io... vado a vedere che combina Menico, nella stalla con quel cavallo... che aveva bisogno di essere ferrato (Si avvia)

 Rosa                             - (massiccia; senza tono) No. Resta.

Il Maestro                      - (suo malgrado, con uno scatto) Tu piuttosto che hai stasera: si può sapere?

Rosa                              - Non alzare la voce. Ora mi pare che troppo la stai trattando come un pezzo di mattone messo là. Con la scusa che lei non sente, ognuno grida per conto suo in questa casa d'inferno.

Il Maestro                      - (contenendosi) Che vuoi?

Rosa                              - Siediti là. Voglio ragionare con te. (Il Maestro la guarda fisso, poi si scuote e va a sedersi in silenzio presso il letto)

 Rosa                             - Stella Resuglia, la conosci?

Il Maestro                      - (si alza di scatto, collerico; poi sie­de di nuovo, contenendosi) Sì.

Rosa                              - Che le dicesti l'altra mattina, a quella innocente di Stella Resuglia? Che le dicesti? (Tl maestro ha abbassato il capo e non ri­sponde)

Rosa                              - (con disgusto) Papa, all'età tua... non ti vergogni. E poi, non sei un uomo timo­rato di Dio se pensi di portarti un'altra in questa casa che sa tutta di lei. (La vecchia si è sollevata a fatica, ha mandato un gemito di dolore e si è abbattuta di schianto. I due si alzano e la guardano atterriti)

Rosa                              - (come folle) Ha sentito! Papa, ha sen­tito! È morta dannata per causa tua!

Il Maestro                      - Maria. Mariuzza. Mi senti? (Si china per ascoltarle il cuore) È vero che sei morta dannata per causa mia? (Pausa) Mariuzza, guardami. Ti domando perdono in ginocchio. Perdonami; per quel Signore che sta nei cieli mi devi perdonare, che io non ci ho tanta colpa, che io stesso non sempre so quello che faccio, quello che penso. Sentì Mariuzza: sopra il tuo letto di morte te lo giuro. Nessuna estranea qui - in casa tua - ci mette piede. In casa tua, Mariuzza, faccio venire tua figlia che ti ha adorata, tua figlia Rosa, tuo genero e i tuoi nipoti. Io lo so che tu volevi bene a loro quasi più che a me. I due sposi li metto nella camera no­stra, quella col letto a due piazze, tua figlia e tuo genero e tu di lassù li guardi, li aiuti. Magari a me, magari a me devi dare un aiuto, Mariuzza; non mi abbandonare. Io sono vecchio e debole: non ci resisto. Quan­do mi viene la tentazione, non ci resisto più; ma tu aiutami. Guarda: tre volte in petto mi batto in penitenza.

Rosa                              - (commossa) Buono, buono papa.. Sia sempre fatta la volontà, di Dio. (Si ode in lontananza il ritmare lento e mo­notono di un tamburo: è Menico che prova la marcia n. 3)

Rosa                              - (componendo la morta) £ finito il mio conforto, mamma, il mio conforto che eri tu. Con l'acqua e il vento, d'inverno o d'estate ogni sera ero qua e ti raccontavo tutto, e tu mi dicevi sempre: - Pazienza, figlia, pa­zienza. Ora, quando le cose vanno male o quando Jano ritarda a scrivere, o sempre - quando mi piange il cuore per questa crea­tura che il signore non ha voluto, a chi gliele racconto le mie pene? Vado gridando casa casa e non ti trovo; ti cerco in terrazza e non ci sei dove ogni sera d'estate sedevi al fresco a lavorare. Donna di casa, che non ti sei dato mai un momento di riposo. O mamma, mamma mia, perché mi hai lasciata sola a combattere con tanti pensieri?

Il Maestro                      - Rosa, figlia mia, noi ci dobbiamo volere bene. Tutto quello che posso, io lo farò di tutto cuore per te. Lo so che tu non mi hai nessuna fiducia; ma perché, Rosa, non ci dobbiamo volere bene tutti e due? Non siamo lo stesso sangue? (Silenzio) Rosa, guar­da quanto è bella, pure dopo morta. Quel naso affilato, quella fronte. Pare che le ru­ghe non ci siano più, come quando era gio­vane che aveva la fronte bellissima e io glie­la baciavo e dicevo di volerle bene. Rosa, non è vero che bisogna comprarle un vestito da metterle nella bara? Un bel vestito glielo voglio comprare io, che si ricordi di me, dì lassù tra gli angeli. Un vestito tutto nero.

Rosa                              - Non c'è b;sogno, papa. La buonanima mi disse che nella bara voleva entrarci col vestito che Jano le portò l'anno passato da Catania,

(Silenzio. Rosa in ginocchio mormora d'elle preghiere)

Il Maestro                      - (come inquieto; come non sapendo darsi un contegno) Rosa, e ora? Non biso­gna chiamare il prete, accendere le candele, fare qualche cosa?

Jano                               - ( Comparendo sulla porta dì sinistra) Mamma.

Rosa                              - (scuotendosi, con un grido, va do lui e l'abbraccia) Morta la trovi, Jano, la tua, nonna.

Jano                               - (resta colpito; poi lentamente si avvicina al letto, e sta a guardare la morta, e le sfiora con le dita i capelli) Pare che lei lo' sapesse quando mi salutò l'ultima volta e mi disse: « Jano, non ti vedo più ». E io: « Ma non­na, che discorsi fate! ». « Niente, - mi di­ceva - non lovedo più. Tutto benedetto, figlio, tutto benedetto ». (Pausa) Le avevo portato un po' di formaggio fresco, di quello che piaceva a lei.

Il Maestro                      - (un po' acido) Tua madre non ti scriveva niente, per non affliggerti. Ma la buonanima era da venti giorni che non par­lava, che non ragionava più.

Jano                               - Povera nonna. Che ne hai avuto di que­sta vita: sempre pene e dolori... Sorridevi, ma gli occhi pareva che da un momento all'altro ti si dovessero riempire di lagrime e cominciavi: « C'era una penna di uccello gri­fone..- » e a poco a poco ti addormentavi e piangevi, nel sonno. Sempre dentro queste quattro mura. E il caldo, il paese, la polvere. La polvere... aumenta ogni volta che vengo quassù. E non ti vedevi accanto che tua fi­glia, infelice, e tua nipote, Mariuzza. Mariuzza come te di nome, nonna. (Con uno scatto) C'è stato qualcuno qua, che le ha av­velenata la vita, fino all'ultimo

II Maestro                     - (scattando a sua volta, aggressivo) Jano! Che vuoi dire?

Jano                               - La nonna è rimasta qua per sempre e avrebbe voluto andarsene, come le- promet­teste un giorno, prima di sposarla.

Il Maestro                      - Che vuoi saperne tu, di queste cose.

Jano                               - Me l'ha detto lei stessa. Andarsene, per­ché voi, nonno, faceste fortuna con l'arte vo­stra, e tutto fosse bello, diverso.

Il Maestro                      - È facile parlare. Uno apre la bocca e parla. Ma che sai tu? Le ho doman­dato perdono. Ho giurato che nessuna qui dentro metterà piede. Che devo fare di più?

Jano                               - E Intanto è morta e non ha avuto pace. Ha aspettato tutta la vita che un giorno voi tornaste dalla caccia e non vi muoveste più. E voi, e voi invece credete che io non lo sappia...

Il Maestro                      - Jano! Rispetta almeno il suo letto di morte.

Jano                               - E tutti i vostri soldi li avete spesi così; e vostra figlia s'è maritata con chi non vo­levate, che quando ve n'accorgeste la male-diste.

Rosa                              - Jano. Non è momento questo di par­lare così. Noi dobbiamo volerci bene, tutti; e il Signore ci aiuterà.

Jano                               - Ecco la vostra maledizione, quella, ed io, in Catania, solo tutto il giorno, senza luce né gioia.

Rosa                       - Tu non devi pensare a queste cose. Tuo padre me l'ha detto proprio ieri: tra poco noi saremo a posto. « Tra poco saremo a posto - ha detto - e Jano dei suoi soldi potrà fare quello che vuole. Potrà impiegarsi, che so, a Roma, e continuare gli studi ». Che ne dici?

Jano                               - Oh, mamma Che ti pare che voi siate quei quattro soldi che vi mando al mese? Io vi voglio bene; vi sento come sangue mio. Vorrei che tutto fosse diverso. Che la nonna vedesse e fosse contenta. Che tu tornassi bella, come quand'eri giovane, e Mariuzza cantasse e parlasse, e il nonno dirigesse una orchestra e papa andasse vestito bene. E nes­suna bestemmia; nessuno parla con l'acidu­me nel cuore: mi capisci?

Rosa                              - Dobbiamo volerci bene, tutti.

Donna Agatina              - (entrando) È morta? (Esita molto) Povera signora. Ma peggio per chi resta, non per chi se ne va.

Rosa                              - Aiutatemi, donna Agatina, aiutatemi a dire le preghiere per l'anima sua.

Donna Agatina              - Si, ma io ero venuta... per un fatto che è capitato a lui, vostro marito.

Rosa                              - (agitata) Che gli è successo?

Donna Agatina              - L'hanno arrestato.

Jano                               - (con un grido) Chi?

Donna Agatina              - Vostro padre.

Jano                               - Perché?

Donna Agatina              - Qualcuno gli fece la spia, un suo nemico. Teneva gioco di zecchinetta.

Jano                               - Teneva gioco di zecchinetta... lui?

Rosa                              - Gesù! Gesù e Maria!

Donna Agatina              - Signora Rosa, non v'eccitate. Si accomoda a tutto. Solo alla morte...

Il Maestro                      - Non voglio sentire niente. Prima o poi doveva succedergli qualche cosa. Io ho questa da piangermi. Non voglio sentire niente.

Jano                               - Teneva gioco di zecchinetta. Come ci siamo ridotti!

Rosa                       - (ribellandosi) No - tu no - non c'entri.

Jano                               - Come, non c'entro? Sono figlio suo; faccio parte della famiglia. L'hanno amma­nettato, è vero? E tutto il paese gli andava dietro.

Rosa                              - Jano, che vai pensando? Ascoltami, non ti preoccupare.

Jano                               - Ed io lo so, lo so che lui l'ha fatto per me. Per il bisogno e forse non era capace di fare in un altro modo. Ma questo disonore non me lo doveva dare. (Silenzio) Mamma, quando venne il pensiero di maritartelo! Guarda, è mio padre: io gli voglio bene. Ma se non ti fosse venuto quel pensiero, meglio sarebbe stato. Lui - Incapace - Niente. Incapace di muovere un dito. Buono e caro, e dentro, nel petto, s'angustia. Un giorno o l'altro gli si spezza il cuore. Ma ha sonno, tanto sonno. Dormirebbe sempre: e non ha colpa. Tu l'hai voluto per marito: gli hai dato una casa, una famiglia; e lui s'è trovato con un gran peso sopra, incapace. Non ti accorgi come respira? Pare che abbia l'asma.

Rosa                              - (energica) Ma tu non c'entri. Sei pulito, libero. Domani stesso te ne torni a Catania, E ti devi scordare di tutto, di tutto.

Jano                               - (dopo un silenzio. Dolce) No, mamma, non è cosa questa che si può avverare. Io re­sterò vicino a voi, sempre. Voglio darvi conforto. Sono un uomo ormai. E cercherò di darvi un po' di pace. Non voglio che tu faccia la sua (della nonna) fine. Dobbiamo volerci bene, tutti hai detto.

Rosa                              - No, Jano. Come se noi non ci fossimo. Tu sei già un'altra cosa. Ogni volta che tor­ni io vedo come vesti, come parli, come guardi: tutta un'altra cosa; e con qua non ci hai niente a che fare. Vattene lontano, continua gli studi. Questo te lo dico senza stancarmi mai, finche tu mi ascolti, finché tu te ne vai per davvero. A noi, non ci pensare. Qualche biglietto da cento, ogni tanto. Non per me, per questa creatura.

Jano                               - No mamma: qua resto. Sono io che ingrandisco sempre le cose. Vedrai, papa lo lasceranno presto. Sono io, povera mamma, che complico tutto, che ti procuro altre pre­occupazioni. Sta tranquilla, mammuzza: fal­lo per me. Che tu già tante ne hai pene nel cuore per questa morte e per quello che è capitato a lui. (Silenzio)

Donna Agatina              - (che si è tenuta in disparte a recitare le orazioni) Signora Rosa, io me ne vado. Sapeste quanto mi dispiace: mi viene quasi da piangere, vedete? Manco un parente per quanto è vero Dio.

Rosa                              - Donna Agatina, in giro non ne pallate. Sapete com'è il paese. Non cerca che un tan­to per sparlare.

Donna Agatina              - Non dubitate, signora Rosa. Ma piuttosto, a quest'ora... basta, speriamo che nessuno se ne sia accorto. (Sostando presso il letto detta morta) Povera signora. Tutti la chiamavano la santa. Un lutto per il paese. Povera signora, quanto ha sofferto.

Il Maestro                      - (impulsivo, scattando) Basta! Ve ne siete scordati tutti qua che essa non c'è più! Io solo ho una pietra così sopra il mio cuore. (Vocio dal di fuori, I musicanti urgono alla porta; e si sente qualcuno che soffia nel proprio strumento. Menico è entrato, ap­profittando, con il tamburo ancora a tracolla)

Una Voce                      - C'è permesso, signor maestro?

Il Maestro                      - (fuori di sé) Andatevene! Non vi fate più vedere. E dite a tutto il paese che per il dolore e per la vergogna, il maestro s'è murato in casa!

FINE DEL PRIMO ATTO

ATTO SECONDO

All'alzarsi del sipario, la scena è al buio; ma attraverso le fessure del tetto, della porta cen­trale, della finestra, la prima luce del mattino vorrebbe irrompere dentro. Il Maestro entra da destra con il suo passo leggermente trabal­lante. È in maniche di camicia; ha gli stivali; imbraccia un fucile che poggia in un angolo. Poi va ad aprire la porta. Sul vano guarda i monti e il primo sole. La stanza è diventata più squallida e polverosa. Bussano ad una por­ta che è nel cortile, al di là della terrazza. Il Maestro esce per la porta centrale e rientra poco dopo con Luciano, un contadino forte e robusto, sui trenta anni,

II Maestro                     - Là, sono i finimenti. Presto, mi raccomando, e cerca di non fare rumore. La­sciali dormire.

Luciano                         - (prendendo i finimenti) Va bene, si­gnor maestro. (Si avvia, poi) La bestia, la faccio bere?

Il Maestro                      - No. All'abbeverarono ci fermia­mo un momento. Piglia pure il fucile e la pelle, e mettili sul carrozzino.

Luciano                         - Cartucce, signor Maestro?

Il Maestro                      - Ci penso io. E sbrigati a prepa­rare, che è tardi. (Pausa) Luciano!

Luciano                         - Signor Maestro.

Il Maestro                      - (esitante) Donna Ciccina...

Luciano                         - (ammiccando e ridendo) State tran­quillo: è già là.

Il Maestro                      - Luciano, che credi? Che significa questa risata?

Luciano                         - (facendosi serio di botto) Donna Ciccina ha messo a posto la casa, perché ci an­davate voi. E ha preparato il letto perché sa che - stanco del viaggio - dopo man­giato un po' di sonno ve lo fate.

Il Maestro                      - Vattene. No. Luciano, vieni qua. Queste, sono cinquanta lire. Il tuo dovere lo sai.

Luciano                         - Filo di ferro nelle labbra, signor maestro.

Il Maestro                      - (inquieto) Di che, Luciano? Che diavolo dici? Donna Ciccina... è della mas­seria. Ogni tanto, quando capito in campa­gna, mi da il verso alla casa... mi tira un po' d'acqua dalla cisterna. Sono vecchio... Credi... che ci sia male? Che la gente, che mia figlia può sparlare?

Luciano                         - Signor maestro, no. Ma non vi tor­mentate. È l'unica.

Il Maestro                      - Ti pare che alla mia età... Figlia di mia figlia mi può venire. Ecco! Figlia di mia figlia.

Luciano                         - Certo, signor maestro.

Il Maestro               - Va, Luciano, va e fa presto. Se no ci toccherà di fare il viaggio sotto il perno del sole.

Luciano                         - (esce)

Il Maestro                      - Ma chi me lo fa fare alla mia età, chi me lo fa fare? Mi devo guardare da tutte le parti; devo stare attento che non se ne accorga anima viva; e campo con la palpitazione che qualcuno, lei o Luciano, oggi o domani parli. Ed io che ho giurato sul suo letto di morte: non so resistere, non posso resistere; e il Signore sa e il Signore mi deve perdonare. Quella... figlia di mia figlia mi può venire; che me ne vergogno...

Rosa                              - (che ha sostato per un momento dinanzi alla porta di sinistra da cui è entrata silen­ziosamente) Papa!

Il Maestro                      - (voltandosi, come sorpreso nei suoi pensieri) Rosa! che fai alzata a quest'ora?

Rosa                              - Non ti spaventare, papa. Niente mi fa, se mi alzo a quest'ora. (Silenzio),

II Maestro                     - Ma ti devi riguardare, figlia san­ta. Con questo male che hai nel cuore è un'imprudenza alzarsi presto; lo capisci, fi­glia santa?

Rosa                              - Non fa niente, papà.

Il Maestro                      - Per rispetto dei tuoi figli e di quella specialmente, che senza di te non so come farà a campare.

Rosa                              - Suo fratello ha giurato di pensarci.

Il Maestro                      - Un piatto di pasta al giorno le può dare. Ma a starle dietro chi può pen­sarci se tu te ne vai? (Silenzio. Rosa è ri­masta colpita)

Il Maestro                      - Tornatene a letto.

Rosa                              - Papa, per forza devi andare in campa­gna stamattina? Non puoi restare in casa?

Il Maestro                      - Perché? Che ti succede? Ti senti male?

Rosa                              - Io, per me, non ci penso.

Il Maestro                      - E allora, che succede?

Rosa                              - Quando ti sei alzato, mi svegliai. Ac­canto a me mio marito non c'era.

Il Maestro                      - Non c'era?

Rosa                              - Non posso dirlo; ma mi pare che non ci fosse nemmeno stanotte a mezzanotte. Papa... non te ne andare. Io ho paura.

Il Maestro                      - Ma perché fai così? Tuo marito sarà uscito a prendere aria. L'ha fatto sem­pre. Magari torna alle dieci, stamattina, con due, tre conigli. Hai visto se sì è portato il fucile?

Rosa                       - Ho visto: è al suo posto il fucile. Papa, non mi abbandonare.

Il Maestro                      - Eh! sembri una bambina. Buona Buona. (Pausa) Lo vedi tu quante ansie ti fa soffrire. Te le meriti. Se mi stavi a sen­tire, ora, così ridotta, col marito disoccu­pato, incapace pure di ridere, di piangere, d'impazzire, non ci saresti. Basta. Queste piacere della caccia, oggi, non me lo posso levare. Che mi resta alla mia età, con tante miserie e tante pene, che mi resta... (S’ avvia)

Rosa                       - (con un grido) Papa! Papa, così non si può andare avanti. Mio marito, da un mese che non parla, manco una parola. Che ci avrà dentro, che ci avrà, Santa Vergine benedetta? E ogni giorno che passa sente che egli perde la speranza che il caffè gliele facciano riaprire. Non ci possiamo ripiglia­re più: non c'è niente da fare. Già poi mio marito energico non è mai stato; figuriamoci ora, dopo il disonore del carcere. E Jano là in Catania, che manda qualche soldo e per guadagnarlo si rompe la schiena. La vita gliela avveleniamo! La vita!

Il Maestro                      - Rosa, tu sei più malata oggi. Riguardati. Per rispetto dei tuoi figli ti devi riguardare. Vai a coricarti, e stai tranquilla Tuo marito è sul ritornare. Riguardati, Ro­sa, per rispetto dei tuoi figli.

Luciano                         - (chiamando da fuori) Signor maestro!

Il Maestro                      - Vengo, vengo. Hai capito? Se Jano torna e non ti trova, ci pensi, Rosa, che dolore. Ti vuole bene. Ti ricordi come diceva quando era bambino? Ti vuole bene questo mondo e quell'altro. Vero è, Rosa. Ogni volta che viene basta vedere come 1 guarda... (Con risentimento) Lui, di qua non vuole bene che a te, ora che sua nonna non c'è più...

Luciano                         - (chiamando più forte) Signor mae­stro 1

II Maestro                     - Bestia, non hai sentito che t'In­detto vengo? Dunque, hai capito Rosa? (La figlia lo guarda ora supplichevole; lo prega ancora di restare. Il Maestro fa delle sue parole, che pronunzia precipitosamente, un pretesto per distogliersi da questa muta in­vocazione) Tu ti devi curare. Se no, Jano, Mariuzza, come faranno senza di te? E tue marito stesso: tu sei la sua anima; perché lui, anima, forza, non ne deve avere. Se non ci fossi tu, sono sicuro che lui si coricherebbe senza muoversi più. Hai capito? E ascolta me che sono tuo padre. Basta. A Mariuzza falle passare qualche capriccio oggi. Qua ci sono due lire.

Luciano                         - Signor maestro!

Il Maestro                      - Viene! A me per stasera mi pre­pari due uova. E non mi guardare cosi! Che ti faccio se resto? Ingombro - lo dici sem­pre tu stessa - ingombro, povero vecchio. Il signore ti benedica. (Esce)

Rosa                              - Quando sente che c'è qualcosa d'im­brogliato, di pericoloso, che non si sa quello che sta succedendo, scappa. Non vuole sen­tire afflizioni. E poi, non ne perde una: non ne ha perduta mai una, lui, nella sua vita; perché ha pensato sempre a sé. Manco ora, manco ora che tutti e tre, qua, ci stiamo consumando a poco a poco, come tre ceri; e non se ne vuole accorgerò. (Entra da si­nistra Mariuzza: è in camicia da notte. Rosa la stringe a se) Pure tu ti sei sve­gliata? Che cerchi pure tu tuo padre, fiato mio? (La guarda negli occhi, ansiosa di scor­gervi un barlume d'intelligenza) No. Tu non sai manco che tuo padre in casa non c'è: tu non lo sai capire. Povera Mariuzza. Quan­do eri più piccina, ti mettevi a ridere nel sonno, e io mi svegliavo, -e ti sentivo ridere, e il cuore mi batteva forte forte. Chissà: mi pareva che l'indomani, svegliandoti, tu. dovessi ragionare come noi. Ora, manco nel sonno ridi più; e le speranze l'ho perdute da un pezzo. Tuo padre diceva sempre: a forse, con l'età... ». Ed io t'ho cresciuta, figlia mia, giorno per giorno, ora per ora; e ogni momento ti guardavo negli occhi, così, e speravo che tu, di botto sapessi non dico parlare, ma guardare, sorridere. Ecco. Tuo padre! Tuo padre forse ne ha colpa. Lui, non è stato capace di fabbricarti un'anima. (Pausa) No. Io sono stata, io che non ti vo­levo e che t'ho portata per tanti mesi qui dentro, come una pietra. Che ti pare che non lo so? Io dicevo: « Signore, non mi ba­sta l'anima per voler bene ad un altro fi­glio, dopo Jano ». Jano che era bello come un santo d'altare. È per questo che ogni volta che ti guardo mi sento seccare il cuore. Non per te, povera creatura, che non hai da andare né al Paradiso né all'Inferno; non per me; non per tuo padre mi si secca il cuore. Ma per lui, per Jano. Io ho i giorni contati in questa vita; e tuo padre... dov'è tuo padre? Perché non viene? Mi spavento pure ad aspettarlo, povero uomo che non ha mai saputo campare. (Pausa) Tutti e tre non siamo che un ingombro per Jano, che ci stiamo a fare? E quando resterai tu sola, luì dovrà trascinarti per tutta la vita, come una catena al piede, perché lui è buono e non ti lascerà in un canto di casa, come una be­stia; ma ti curerà, s'angustierà per te; si leverà il pane dalla bocca, e tante cose belle che avrebbe fatte, non le farà, per te, per la memoria di me, di tuo padre, di questa casa che gli deve sembrare un carcere ogni volta che viene dalla città. (Trasportata si inginocchia davanti all'icona) Vergine San­ta, consigliatemi voi. Ditemi voi che cosa debbo fare, ora. (Fuori, il suono di uno « scacciapensieri » afoso)

Donna Agatina              - (entrando di botto, atterrita) Signora... (Pausa)

Rosa                              - (alzandosi lentamente) Donna Agatina. C'è cosa?

Donna Agatina              - Vostro marito... (Pausa)

Rosa                              - Per carità di Dio!

Donna Agatina              - Stanotte, in camposanto, so­pra una tomba vuota, s'è ammazzato! (Si­lenzio") .

Rosa                              - (sedendo, come impassibile) Ah, s'è ammazzato/ (Pausa) Da due anni pensava di fare quello che ha fatto; da che mori la buonanima di mia madre, e a lui gli chiu­sero il caffè. (Come presa da un pensiero im­provviso) Maria, Mariuzza, vieni qua. Lo sai? Papa non c'è più... papa... Ma che ti dico, tu manco questo capisci, povera bestia; che t'affliggo a fare! (Singhiozzi sec­chi e brevi, senza lagrime, ma terribili le squassano il petto)

Donna Agatina              - Signora Rosa, signora Rosa/ che vi sta pigliando? Chiamo gente? Chiamo gente, signora Rosa?

Rosa                              - (con uno sforzo) Donna Agatina, lascia­temi stare, non mi piglia niente. La morte sola mi dovrebbe pigliare.

Donna Agatina              - (asciugandosi le lagrime) Avete ragione, signora Rosa, a tormentarvi cosi; ma che ci volete fare: era destino... Quando uno si mette il lutto, non se lo leva più fino a che campa. Lo vedete il mio lut­to? Da quando è morto mio padre, dieci anni fa, non me lo son levato più. Ogni due­ tre anni, un morto, signora Rosa. Che ci volete fare, ognuno si piange i suoi. (Pausa) Tutto il paese è andato al camposanto, per­ché crede di vederlo là,' per terra, davanti alla fossa vuota. Non dubitate, signora Rosa, l'hanno messo nella camera mortuaria; e mandano a dire... se lo volete vedere; se ci volete andare voi... là; perché in casa, forse, non vi conviene che ve lo portino, dato che... Basta, il Signore accolga la sua anima.

Rosa                              - Non mi basta la forza per andarlo a vedere, donna Agatina. Vedete come sono ridotta? Poco tempo di vita m'è restato. (Pausa) Presto o tardi 1? maledizione di mio padre gli doveva arrivare. La colpa è mia, che mi misi in testa di maritarmelo e nes­suno al mondo lo poté impedire. La gente mi diceva: « Che ci trovi? ». Ma io sempre ostinata; forse perché tutti erano contro di ' me. Certo che era un buon'uomo, donna Agatina, incapace di fare una mala azione. (Come confessandosi) E mi guardava che pa­reva che dentro gli occhi ci avesse, non so che cosa... il ciclo, donna Agatina. Mi guar­dava cosi, la prima notte: e attorno si sen­tivano abbaiare i cani, e mio padre gridare perché gli era salita una furia di sangue alla testa. Mi guardava così, e basta: che altro non sapeva fare. Tanto che quando mio pa­dre spuntò, perché ci aveva trovati, non ave­vamo fatto che guardarci: ma a lui chissà che gli pareva e si mise a maledire, a male­dire noi due e i nostri figli. Donna Agatina, ve lo debbo dire: intatti ci sposammo, senza peccato, e Dio che lo sapeva, non doveva permettere che s'ammazzasse. Dio!

Donna Agatina              - Le afflizioni che Dio ci man­da senza meritarle, non si contano, signora Rosa.

Rosa                              - Io penso alla morte che ha fatta, alla morte che non si meritava, e so che i morti ammazzati restano sulla terra a dannarsi. E il povero marito mio a questa terra non ha mai voluto bene. A questo penso, donna Agatina, che pure mi si spezza il cuore. Per altro, dovevamo morire tutti e tre in una giornata, magari avvelenati e senza saperlo; ed era bene. Era bene, per Jano. (Silenzio. Poi un vocio di folla, lontano)

Donna Agatina              - Mi pare che venga gente, si­gnora Rosa, vi vogliono vedere: che fac­ciamo?

Rosa                              - Non fate entrare nessuno. Io mi sento male. Ringraziateli della premura che hanno avuto, ma dite loro di lasciarmi in pace. (Donna Agatina esce a sinistra)

La voce di Donna Concettina   - Io si. Io e mia figlia si. Lasciatemi passare, donna Aga­tina. (Donna Concettina e Stella irrompo­no nella scena. Ma si arrestano davanti a Rosa che è immobile e nemmeno si volge a guardarle)

Donna Concettila          - Comare! (Silenzio) Co­mare Rosa, quanto mi dispiace. Mi dovete credere. Priva di vedere questa figlia mia. Quando l'ho saputo, sono corsa subito qua, perché vi debbo dire una cosa che lui mi disse. (Pausa) Lui buonanima ci voleva be­ne, a Stella e a me; ci voleva bene, comare Rosa, e ogni tanto ci veniva a trovare, se non lo sapete. Avantieri sì fermò davanti alla mia porta senza parlare e mi disse: co­mare Concettina - disse - mi sento stan­co... - Di che? - gli domandi. - di cam­pare. -- Poi mi raccomandò: - A Rosa po­veretta non dite niente; non dite niente che magari lei con i pensieri con la malattia che ha, afflizioni ne deve sentire più di me. Dopo... dopo andatele a dire che le ho vo­luto bene. Lei lo sa; ma andateglielo a dire, che non se lo scordi in mezzo a tante pene che io stesso, con questo mio carattere, le ho procurato. Poi ancora si voltò dalla parte di Stella e le disse piano che quasi non si sentiva: « A te, ti raccomando Jano... ».

Rosa                              - (si alza colpita; poi, dominandosi) Non disse altro?

Donna Concettina         - No, comare Rosa, non disse altro.

Donna Agatina              - (entrando) Volevano vederla. Prima di convincerli ad andarsene ho dovuto spiegare cento volte che si sentiva male. Piangevano: e dire che quand'era vivo nes­suno se ne voleva accorgere di lui buona­nima.

Rosa                              - E ora, lasciatemi sola. (Pausa)

Donna Agatina              - Ce ne andiamo, signora Rosa. (E s( avviano)

Rosa                              - Stella. (Tutte e tre si fermano e si voltano. Silenzio. Poi fanno per avviarsi an­cora) Stella. (Le altre due esitano un po', quindi escono frettolose; e Stella resta da­vanti all'uscio col capo chino, come atten­dendo) Se è destino che Jano e tu vi do­vete maritare, pure io te lo raccomando Jano. (Avvicinandosele e sollevandole dolce­mente il capo) Ma dimmi: tu gli vuoi bene?'

Stella                             - (scoppia a piangere e si stringe alla spalla di lei)

Rosa                              - Se gli vuoi bene veramente, fallo an­dare lontano da questo paese, da queste mu­ra, da questa casa. Ha tanti progetti lui nella sua testa: ma tu non glieli levare; non glieli levare, ti raccomando. (Scostandola) E poi, non ci sarà nessuna ragione dì restare qua, mi capisci? Nessun impedimento. (Pau­sa breve) Mariuzza, saluta tua cognata che se ne va.

Stella                             - (fa un passo avanti, come se volesse dire qualcosa; poi fugge via ancora singhioz­zante)

Rosa                              - (assorta) Gli vuole bene. Non passa molto e lui viene qua e se la sposa. Suo pa­dre non c'è: anche sua madre non c'è più, che non tramonta il sole e muore già, per questo male al cuore, per queste pene. Si sposano; sono felici e contenti; hanno figli. Non c'è nessuno che li trattenga qua, (Im­provvisa) Mariuzza! Mariuzza, dove sei? (Le va incontro, la scuote, quasi feroce) Non è la prima volta che ci penso. Tu stai meglio lassù. Lassù non c'è bisogno di capire, di parlare: e tutti gli innocenti angeli sono. Non mi guardare cosi: sei tutta lui, Jano. Non me ne sono accorta prima d'ora, e sei tutta lui, gli occhi, la bocca, i capelli. Ora non c'è che Jano, Mariuzza: tu non lo puoi capire. Jano e Stella che si vogliono bene, che se ne vanno; e noi restiamo per sempre. Tu non lo puoi capire, ma Dio si! Signore Iddio lo sa quello che debbo fare. (Va len­tamente alla credenza e ne trae un bicchiere e una bottiglia. Da questa versa un liquido nel bicchiere; e si avvicina a Mariuzza; e si ferma; e si avvicina ancora. Poi le si ingi­nocchia vicino e parla, come una madre a una bambina, una madre che cerchi di elu­dere l'attenzione, di quella, per imboccarla), Jano e Stella che si vogliono bene e noi che campiamo a fare qua, Jano e Stella che debbono essere lasciati soli, che si pigliano per mano e se ne vanno. Bevi, bevi, bella di mamma tua; chiudi gli occhi e poi bevi; così. (Si alza, di scatto) Coricati ora. Cori­cati sul letto dove morì tua nonna e cerca di addormentarti zitta zitta. Ancora è molto presto e puoi dormire. (Pausa) Sai che pro­fumo fa questo liquore? Un profumo di pe­sche mature. Mi ricorda di quand'ero gio­vane che io e tuo padre e Jano, e Jano, ogni estate andavamo a mangiare la frutta in campagna, a coglierla sugli alberi. Forse, mi sentivo contenta a quei tempi. Poi abbiamo persa l'abitudine ed io non uscivo più, man­co per andare a messa. Ora che ci penso la mia giovinezza è durata poco e niente. Io non mi sono mai divertita. Mi ricordo da quando ho cominciato a ragionare fino ad ora che m'è morto il marito. Sempre a pena­re, mai un momento felice. Manco quando an­davo ogni estate in campagna a cogliere le pesche mature. Ora piuttosto, Mariuzza, ti faccio un po' di buio, perché il sole si alza e tra un'ora o due le tegole della casa e la ter­razza arderanno di quanto farà caldo. (Va pesantemente verso la porta che da sulla terrazza. Guarda il cielo, i monti, la per­gola) Ah! La pergola quest'anno è caricata e l'uva incomincia a farsi rossa. Se ci fosse tua nonna, che contentezza per lei, povera mamma. (Socchiude i battenti della porta, e torna presso il letto) Mariuzza. Mariuzza. Dorme. (La scuote, poi quasi gridando) Ma­riuzza! Mariuzza! Posso stare tranquilla? Per davvero sei... addormentata? (Silenzio lun­go, Rosa si sdraia allora presso il cadave­rina) Io dico un'orazione per tuo fratello Jano, che il Signore me l'aiuti, che la Ma­donna me l'allontani da ogni male. Poi... io, poco ci sto ad addormentarmi per sem­pre. (Silenzio)

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

 Pomeriggio afoso d'estate. Non ci sono segni confusione e ogni cosa pare più necessaria)

Jano                               - (sì guarda intorno e si sofferma davanti a qualche oggetto che tocca, pensoso) _ Qui mia madre sedeva, accanto a mia nonna, ogni sera perché lei non perdeva un giorno per venire a trovare sua madre. Quest'im­magine l'andavamo a baciare ad uno ad uno, tutti all'Avemaria, anche mio padre quando per caso si trovava qua. E Mariuzza, mi ricordo, non voleva imparare a ba­care da sola la Madonna. La dovevamo guidare. Un giorno io cascai su questo gradino e mi feci una ferita così grande alla ironie che ancora ci porto il segno. Ricor­do lo spavento di mia madre, che mi pi­gliò in braccio e mi portò su questo letto emi guardava e piangeva per me che dovevo parere un morto, svenuto come ero. Questo letto... in pochi anni ha visto tre Morti, Io ci dormivo qualche volta e mi paventavo, solo qua la notte; e aspettavo che spuntasse il sole e guardavo su, verso 1 tetto, perché sapevo che la luce sarebbe passata tra le canne, e quando cosi succedeva mi sentivo tranquillo. (Pausa) Ma è già venuta l'ora di lasciarle tutte queste cose. (Con - in fondo - una punta di no­stalgia) Lasciarle. Le campane all'Avemaria mi fanno tanta tristezza, e a « un'ora di notte ». Pare che salutino il sole che se ne va. E le campane a morto. Si sentono be­nissimo di qua: come se suonassero qua dentro, le campane. In città, è tutta un'al­tra cosa: non ci si bada. Oggi stesso voglio presentare Stella a mio nonno. Poi me ne andrò lontano, a cercare fortuna, e tornerò solo per sposarla. (Fa per uscire, ma si fer­ma dinanzi alla credenza) Questa pistola. Con essa si ammazzò mio padre. Voglio por­tarla con me questa pistola, per ricordo. Ecco quello che m'è restato di loro. (Ed esce, per la porta di fondo) (Silenzio, Poi bussano alla porta)

Luciano                         - (da fuori, a sinistra) Maestro, si­gnor maestro.

Maestro                         - (comparendo a destra) Apro su­bito: aspetta (e attraversa penosamente la stanza)

Luciano                         - (entrando) Allora?

Maestro                         - L'ho cercate; sapessi come l'ho cercate. Le tenevo nascoste perché non le pigliasse nessuno, perché non se ne accor­gessero. Non l'ho trovate. Diecimila lire di cambiali, capisci, non l'ho trovate...

Luciano                         - Non l'avete trovate?

Maestro                         - Ma in qualche posto devono es­sere. Cercherò meglio, Luciano. Sono sicuro che le troverò. E poi domani io stesso glielo dirò a Ciccina: io qua sono, non me ne scappo.

Luciano                         - No, signor maestro. Ero venuto proprio per questo. Donna Ciccina dice che domani non vi vuole vedere. Dice che ri­schia troppo, e voi, pare che fate un gran sacrificio ogni volta e la generosità ve la siete scordata...

Il Maestro                      - Domani, non mi vuole vedere? Sono cinque giorni che non la vedo, Lu­ciano, cinque giorni. (Febbrile) Le voglio dire che ho dieci cambiali da mille lire, na­scoste; ma che le troverò. Glielo voglio dire io stesso, domani. Ma per ora non le posso portare niente; queste tre morti mi sono co­state tutto quello che avevo. Ma la vendem­mia verrà presto e venderò il mosto... Io non me ne scappo. Ho comprato tre tombe, una accanto all'altra: era una spesa che si doveva fare. Chi la poteva fare?

Luciano                         - (alzando la voce) II figlio. Vostro nipote Jano allora che ci sta a fare?

Il Maestro                      - Jano? (Con un leggero disprez­zo) Col poco che prende al mese, credo che abbia fatto pure qualche debito, senza con­tare quelli che gli ha lasciati suo padre e che sono un pensiero grosso. Ma se le cam­biali non le trovo... guarda, Luciano... sono disposto a farmi prestare il denaro, io, io, che morirò di vergogna e di rabbia quan­do lo saprà tutto il paese che non ho più un soldo; di vergogna e di rabbia. (Suppli­chevole) Domani mattina vienimi a pigliare, come al solito. Ciccina non mi può trattare cosi, dopo il bene che le ho fatto, che l'ho tirata io dalla miseria...

Luciano                   - Donna Ciccina, avete detto? Ma qui l'affare è un altro, lo volete capire? A un certo punto lei non c'entra più, povera ragazza. Qui si tratta dei fratelli. Se i fra­telli si vedono mancare i denari, cosi, di botto, sono capaci di tutto. Quelli vengono a trovarvi in casa, a fare i conti con voi, perché avete disonorato una sorella che pri­ma di conoscervi era l'ingenuità in persona.

Il Maestro                      - (con impeto) Basta. Parliamoci chiaro. La colpa è tua se la ragazza è stata smaliziata. E tu, tu Luciano! con la mia scusa: tu pure con Ciccina... mi capisci. E non mi sbaglio. Facevo finta di non vedere perché mi conveniva: ci passavo sopra per­ché ero un disgraziato. Ma tu dovrai ren­derne conto davanti a Dio il doppio di me. Ricordatelo.

Luciano                         - Maestro! siete passato agli insulti, alle calunnie. Questa è la gratitudine dopo quello che ho fatto. Non ne parliamo più. Intanto non fatevi vedere dalle parti della masseria dì donna Ciccina. I fratelli, sapete che pezzi di giovani; alti, forti, vanno sempre col fucile caricato a palla. E rassegna­tevi, signor maestro, perché le cose sono complicate assai. Ciccina è una ragazza, la più bella che ci sia nelle campagne dell'Etna, una femmina tutta fuoco. Attira. Con tante bellezze non è difficile che qualche vecchio nobile, che so, il barone di Monterotondo, la veda e se ne innamori e un giorno - tutto può succedere - se la porti in casa, e magari... in chiesa.

Il Maestro                      - Luciano! Non sono i soldi quello che vuoi da me! £ una scusa. Tu vuoi che Ciccina mi lasci. Ma io ti darò tutto, tutto quello che vuoi; le diecimila lire si debbono trovare.

Luciano                         - Signor maestro: vi basta ormai. Pi­gliatevi una corona da Rosario e ditevi le ora­zioni giorno per giorno. Non è più età la vostra.

Il Maestro                      - No. No. Non sono cosa da but­tare in un fondo di letto, pure a questa età. Luciano, non mi abbandonare; dimmi quel­lo che vuoi da me. Luciano, io t'ho fatto tanto bene. T'ho comprato il cavallo, t'ho comprato il carretto, io t'ho cercato lavoro. Non mi lasciare solo.

Luciano                         - (ormai sulla porta) Maestro! Il ba­rone di Monterotondo, che credete non l'avrà di bisogno un uomo... di fiducia per am­ministrare le terre? Sono stanco di trava­gliare a giornata e di fare il servo a questo o a quello. Signor maestro illustrissimo, io vi saluto. (Ed esce)

Il Maestro                      - Luciano! Luciano, non sono cosa da buttare in un fondo di letto. Non mi abbandonare; non mi lasciare solo. Non è più come una volta che non avevo bisogno dì nessuno, e cambiare ogni tanto mi pia­ceva. Non è più come una volta, quando, a tempo di mietitura, c'era la luna e mi ap­postavo a conigli, e dalla terra pareva che salisse un calore che mi faceva girare la te­sta; allora lasciavo la caccia, perché le donne non mi mancavano; e andavo a svegliarne una che dormiva vicino all'aia ed era stanca; ma a me si concedeva, dentro il pagliaio di massaro Nino e la terra era calda Tornavo a casa e componevo musica seduto a tavo­lino, e a mia moglie, accanto a me, infelicitavo la vita. Perdonami, buonanima, e pure tu Rosa, che ora vedi e sai. Maledetto il giorno quando nacqui, che non mi so fre­nare perché nacqui di carne vicino alla mon­tagna. Ma non voglio morire così; mi ricordo di loro due abbracciati su questo letto: la pelle gialla, tirata. Non si può fare niente, dopo morto: è finita, e i vermi cominciano a nascerti dal cuore e l'anima, forse, va cam­minando disperata, non sapendo che fare. Le diecimila lire! Forse sono di là. In qualche posto debbono essere. Forse io sono ancora in tempo... (Ed esce per la porta di sinistra barcollando)

 Jano                              - (comparendo sul fondo) Entra, entra. Stella.

Stella                             - (entra esitante)

Jano                               - Non avere soggezione: nessuno c'è, che mi si stringe il cuore a vederla deserta questa stanza.

Stella                             - (stringendosi a lui) Jano.

Jano                               - Tremi tutta: che hai?

Stella                             - Niente. Che so, Jano... Ma ci sei tu

Jano                               - Non stare cosi: alza la testa. Manco il tempo di guardarci negli occhi abbiamo avu­to in questi giorni.

Stella                             - (esita, poi alza il capo e lo guarda)

(Un breve silenzio),

Jano                               - Stella, ti voglio dire una cosa prima di presentarti a mio nonno. Io già sto pensando di andarmene di qua, per sempre. I miei studi d'Università non li posso fare che a Roma. Da tanto tempo pensavo dì impie­garmi a Roma e di mantenermi da solo agli studi. Ora farò così. Poi, quando mi sarò laureato, potrò fare quello che vorrò, che a pensarci mi sento tutto scosso. Potrò pa­gare i debiti che mio padre ha lasciato e con questo paese non ci vorrò più avere a che fare. E finalmente noi ci sposiamo, Stel­la, che lo sa Dio se non ci penso come a una cosa bella: ci sposiamo noi due e cam­peremo tranquilli senza perderci in tante pic­colezze, perché sono certo che riuscirò e po­tremo avere una casa grande piena di sole, dove nessuno di noj alza la voce né bestem­mia come si faceva qua. Io sono certo che tutto quello che ho desiderato per tanto tem­po si deve avverare. Ma questo, Stella, ti volevo dire: sento rimorso perché ci ho pen­sato subito ad andarmene per sempre di qua, e loro non sono morti che da pochi giorni. Però io sento che da tutto questo non può venire che bene. Io sarei restato sempre qua; e loro, che ci avrebbero guadagnato? Per mio padre ogni giorno era veleno; Mariuzza poveretta che campava a fare; mia madre... Ecco, questo sì che mi addolora assai; la mamma non mi vedrà un giorno sistemato. Stella, tu mi guardi e non mi dici niente. Tu forse stai pensando che non sono discorsi da farsi questi, specie in questa stanza? Io ti debbo parere un egoista. Ma Dio lo sa e tu pure quanto ho voluto bene a tutti e tre, che tante volte mi sentivo in pena perché per loro non potevo fare tutto quello che ì! mio cuore voleva. E là, in Catania, magari mi privavo. I miei compagni la sera andavano ai festini e io niente; la domenica facevano le gite e io niente perché si spendeva. Dio sa quanto ho voluto bene a mia madre. Le sono stato sempre affezionato. E ora, mi ­ricordo di quando ero bambino che una volta io e mia madre andammo in campagna. Fa­ceva caldo e dopo mezzogiorno lei si mise a dormire sotto un albero di olivo. Io stavo a guardare le lucertole che spuntavano da ogni dove, quando la sentii sospirare forte e lamentarsi e agitarsi nel sonno. Mi voltai e vidi che aveva la fronte bagnata di su­dore e gli occhi chiosi. Poi, d'improvviso, si abbatté e stette ferma che pareva morta. Non potei gridare né muovermi, tanto era lo spavento che mi prese, ma sentivo le api ronzare tutto intorno e le cicale cantare. Quando mia madre si svegliò di botto scop­piai a piangere sulle sue ginocchia. Ora che ci penso, da allora che non avevo sei anni, mi spaventavo di ogni suo sospiro, di ogni colpo di tosse, di ogni suo lamento e fino a tre mesi fa, una notte non potei dormire per­ché sentivo che era tutta agitata e che si lamentava nel suo letto. (Pausa) Ma che hai, Stella? Perché mi guardi ancora così e non mi dici niente?

Stella                             - Sai che sto pensando, Jano? Che io, non sono cosa per te. (Silenzio)

Jano                               - Non sei cosa per me? E te ne accorgi ora? Ora che ne ho bisogno più di prima, orfano come sono? Forse tutti questi discorsi non te li dovevo fare; ma credi a me, Stella...

 Stella                            - Non sono cosa per te. Tua moglie, Jano, porta ancora le trecce e le vestine cor­te e chissà in quale grande città abita. Tua moglie, è di un'altra gente Jano.

Jano                               - (fa un gesto)

Stella                             - Lo sai quando ci ho pensato a questo per la prima volta? Cinque giorni fa oggi: cinque giorni che ci penso senza stancarmi-Eravamo venute qui, io e mia madre, a dire... di tuo padre; e tua madre mi fece re­stare soia con lei e tutti mandò via. Mi chiamava per nome ed io mi fermai a quella porta e lei era qui dove sono io ora, e solo alla fine mi venne accanto perché pure mi misi a piangere. Mi disse che tu avevi tanti progetti per la testa; che il tuo destino non era in questo paese... e sai che cosa ha fatto tua madre per te? Ha ammazzato Mariuzza perché mi fece capire che lei cre­deva che Mariuzza fosse un impedimento se restava orfana a tuo carico. E orfana restava perché tua madre già lo sapeva che aveva poche ore di vita col male al cuore e con tutte le pene che soffriva. A questo non ci hai pensato? Non te l'hanno voluto dire per carità umana. E tu hai creduto subito: tre morti in una sola giornata e quasi non do­mandavi perché, come. Ti dissero quattro cose e hai creduto. Ma tu lo sai che le tro­varono tutte e due morte abbracciate, su questo letto? Tua madre per malattia; ma tua sorella, perché si doveva fare largo at­torno a te, attorno al tuo destino, (Pausa) Da quel momento - cinque giorni fa oggi - da quando penso a quello che tua madre è stata capace dì fare per te, io so soltanto che tu devi essere solo e senza altri pensieri per la testa; che da questo paese te ne devi andare e non tornarci più, perché qua niente hai a che fare, capisci? E tu stesso lo pensi e lo dici. Ed io mi debbo fare indietro. Mi debbo rassegnare. Pure se ti voglio bene mi debbo rassegnare, dietro l'esempio di tua ma­dre che per il bene tuo non ha avuto paura di comparire davanti a Dio come un'assas­sina.

Jano                               - Che mi vai dicendo, Stella, che mi vai dicendo? (Silenzio) Tutto questo è successo! E io quasi non ci posso credere, pure se me l'immagino. Ma tu, Stella, ora mi vuoi la­sciare? Ora che se resto solo sono sicuro mi farà paura a campare, (Lunga pausa. Jano si avvicina a Stella come preso da un pen­siero improvviso) Ma tu! Forse tu pensi a qualche altra cosa; e non me lo vuoi dire, e vai parlando così perché io non sospetti di niente? Pensi a qualche altra cosa, Stella? Perché mi vuoi lasciare? Parla!

Stella                             - A questo penso e a nient'altro. Per quanto è vero Dio, Jano, mi devi credere. (Silenzio)

Jano                               - (inerte) Io non ci posso credere che tu mi voglia lasciare. Quando poco fa ti dissi quelle cose, non mi ricordo, ma forse ti ho fatto credere che a te in persona quasi non ci pensavo. E invece eri la prima cosa, e se non te l'ho fatto capire, era perché mi pa­reva Quasi una debolezza. (Ancora con ener­gia) Ma che credi con questo discorso? Di farmi convincere che tu sei come Mariuzza un impedimento? Senti, Stella: ti voglio dire tutto quello che sento, tutto quello che sento che magari me ne vergogno perché mi pare ingiusto dirlo qua, in questa stanza; ma te lo voglio dire lo stesso. Mariuzza, chi l'ha voluta? Ti pare che non la sentissi, io come un peso morto, che non capissi che per me era come una, croce da portare per tutta la vita?

Stella                             - Ma era sangue tuo, Jano, sangue tuo! E io, sempre un'estranea sono.

Jano                               - Che significa che era sangue mio? Che io potevo maledire Dio di avermela mandata, Dio e non altro? O Stella, non mi far dire cose che non vanno per la dritta via. (Pausa) Invece te, io t'ho incontrata in chiesa. Ce n'erano tante della tua età, brutte e belle; e c'era la Madonna sopra l'Altare, tutta bianca che mi pareva un incanto a guardarla. Ma io guardavo te, perché t'avevo scelta, e non vedevo altro e tutto questo l'ho vo­luto io. Altro che croce, Stella! Tu mi pa­revi la liberazione. La liberazione, solo a guardarti. (Silenzio),

Stella                             - Tu ora parli così; ma forse un giorno diresti: « Guarda che ingombro che mi son messo sulle spalle ». E se non arrivassi mai dove tu vuoi, diresti: « È colpa sua. Meglio era se non avevo impicci ».

Jano                               - (abbracciandola) Ho ragione di dire così. Non solo riguardo a Mariuzza; ma riguardo a tutti, pure riguardo a quella santa di mia madre. Io mi ero già ambientato in città, in mezzo ad altra gente, con altra mentalità e già vedevo come poteva essere - ancora me­glio però ancora meglio - la mia vita e la tua: la nostra capisci. Ogni tanto venivo qua con un rimorso più grande di me dentro il petto e ci venivo con le migliori intenzioni. Ma quando... mi baciavano tutti, con le lab­bra bagnate - che mi restava su questa fac­cia per tanti giorni la loro saliva umida - come potevano bastarmi le sole intenzioni! E poi li sentivo parlare tra loro che tante volte gridavano e bestemmiavano, pure mia madre, che mi pareva mi dessero tante pu­gnalate alle spalle. Una volta avevo quin­dici anni e perdetti cinque lire, non so come fu. Mia madre lo sai mia madre quanto mi voleva bene - si arrabbiò tanto, che si mise a bestemmiare e mi prese la testa tra le mani e me la batté forte a questo spi­golo, perché mi ricordo eravamo in que­sta casa da mio nonno, ed era giorno di Pa­squa. (Pausa) (Con paura, quasi) Ma tu stammi vicino: non mi lasciare più. E giu­rami ancora che mi vuoi bene; che non pensi ad altro; che questi discorsi non sono una semplice scusa. Se tu mi lasci, io qua resto, in questa casa, e mi angustio per tutta la vita, e invecchio. Come mio padre divento che appena me ne accorgo io faccio la sua fi­ne. (Scostandola, impetuoso) Guardami, Stel­la: c'è uomo o cosa che ti vuole levare a me?

Stella                             - (quasi ebbra) Jano... Jano... io sono cosa tua. Che vai pensando? Soltanto voglio che tu faccia il comandamento di tua madre, che per te, povera donna, ha fatto tutto quel­lo che poteva. Il mio spavento era che io potessi rovinare magari un tanto dell'avve­nire tuo. Perciò ti dico, Jano, di non darti pensiero per me. Di non darti pensiero se io debbo aspettare anni ed anni prima di ma­ritarmi; e non devi affrettare le cose, ma fare la strada giusta e necessaria. Se tu vuoi così, io sto qua e ti aspetto. Sì, ti aspetto pure se ogni tanto mi può venire di pensare che un giorno tu mi lasci, che tu mi lasci, Jano.

Jano                               - No. Questo non te lo posso sentir dire. Sai che mi pare Una mancanza di fiducia, mi pare.

Stella                             - Hai ragione, Jano, io sono cosa tua. Non ci debbo pensare. Non ci penserò.

Jano                               - E poi, chi lo sa, dopo i primi mesi, quando sarò ambientato e avrò visto come vanno le cose, eh; lo sa: ti sposo subito Stel­la, ti porto via con me. Dicono che nelle grandi città chi ha volontà e intelligenza si fa subito avanti... E non aver paura. Ora che ho deciso dj rischiare non mi fermo più se prima non arrivo. E sorridi! Non fare quella faccia.

Stella                             - Che il Signore ti dia la grazia di arri­vare dove vuoi. Io non so più come mi deb­bo comportare, ma se non ti posso essere di aiuto, spero almeno che non ti sia d'impaccio.

Jano                               - Ecco. Ora tu aspetti che io vada a chia­mare mio nonno e ti presento a lui. Stella. Mi pare che presentarti a mio nonno sia qua­si sposarti. Perché della famiglia non mi è rimasto che lui.

Stella                             - No. Non mi lasciare sola, in questa stanza. (Pausa, Jano la guarda)

Jano                               - Non spaventarti. Stella. Loro ti guarda­no, ma non ti vogliono male. Aspettami qui (Ed esce a destra)

 Il Maestro                     - (compare a sinistra, rantolando quasi) Non ci sono. Non l'ho trovate... Stella, tu? Che fai?

Stella                             - (arretrando) Per carità, lasciatemi sta­re, non mi toccate.

Il Maestro                      - Ti sei ricordata di me? Non vo­glio morire. La mia provvidenza sei.

Stella                             - (sorda) Lasciatemi stare.

Il Maestro                      - (avanzando verso di lei) Vieni qua. Stella; non te ne andare.

Stella                             - Lasciatemi stare!

Jano                               - (comparendo sulla porta) Nonno!

Il Maestro                      - (arretra verso l'altro lato della stan­za. Rauco con astio) Jano, che vuoi tu?

Jano                               - Nonno, con vostra nipote, voi...

Il Maestro                      - (a Stella) Mia nipote, tu?

Jano                               - Venivo a presentarvela perché dev'essere mia sposa, e voi... (Pausa) Siete stato voi la rovina di questa casa, voi, coi vostri pec­cati. Ho sentito tante volte la nonna pian­gere. Come non vi accompagnano i suoi sin­ghiozzi, nonno! Come non vi tortura quello che avete nella coscienza. Pure la mia na­scita avete maledetta!

Il Maestro                      - Zitto, tu non sai. Lasciami sta­re: non mi torturare tu.

Jano                               - Stella... Stella. Ti ha toccata: Stella ti ha guardata e negli occhi suoi di uomo pec­catore chissà quello che hai visto, quello che ti ha turbata. Ma ci sono io accanto a te. Guardami, io non ti lascio. Fuggiremo lon­tano, oggi stesso, insieme. Non voglio saper, ne più di questo paese. Stella, perché non mi guardi? (Stella scoppia a piangere) Stella, perché piangi? Ah, se le maledizioni di un giovane possono arrivare, una ne faccio io: che ricada su voi stesso quella che avete fatta.

Il Maestro                      - Non voglio sapere niente. Stella, dammi conforto. Stella, non mi lasciare (E le si avvicina)

Jano                               - Nonno! Non la toccate. (Impugnando la pistola) Vedete? Con questa si ammazzò mio padre. Nonno, non vi avvicinate; fermatevi.

 

Il Maestro                      - Non me ne importa niente: è questo il mio destino. (Con forza) E tu, per­ché mi sei stato sempre nemico? Bastava ve­dere come mi guardavi da piccolo. Levati, non mi guardare! Le diecimila lire non ci so­no più ; la mia giovinezza è finita.

Jano                               - Nonno, fermatevi. Nonno, questa è vo­stra nipote ed io venivo a presentarvela per­che ci benediste. Voi siete come un cieco, nonno. Voi non sapete nemmeno quello che fate.

Il Maestro                      - Ho soltanto una vampa, qui, den­tro il petto; che mi brucia tutto, che mi sale alla testa. Levati, ti ho detto.

Jano                               - Badate, nonno, badate! (E gli spara contro)

Il Maestro                      - (cade riverso)

 (Lunga pausa)

Stella                             - (piange sommessa)

Jano                               - (lento) Ci sono qui io, vicino a te, che quasi mi sento l'Arcangelo Gabriele per aver messo sotto i piedi il demonio. Stella, alza la testa, guardami. (Pausa)

Stella                             - In questa stanza, pochi giorni prima che morisse tua nonna, m'ha tentata, che da allora m'è restato qui dentro come un groppo che non si scioglie più. E ogni volta che entro in questa stanza, tremo. Ah, quando ti venne in testa di lasciarmi qua sola1

Jano                               - Calmati, Stella. Nessuno ti farà più del male; giglio immacolato. (Fa per accarezzar­le i capelli)

Stella                             - (arretrando fino alla parete, con un sin­ghiozzo) Non mi toccare. Non mi toccare. (Silenzio)

Jano                               - Hai paura di me? Sono Jano, Stella, guardami.

Stella                             - (come in un'amara constatazione; sen­za disprezzo) Assassino.

Jano                               - Assassino? Ah, tu credi che io avrei do­vuto fare in un altro modo. Non avrei dovuto ammazzarlo, secondo te. (Impulsivo) Ma perché parli così che interesse hai? Forse tu, con mio nonno...

Stella                             - Jano!

Jano                               - Forse tu con mio nonno... che io non so più cosa debbo immaginate, cosa debbo aspettarmi oggi, dopo tutto quello che agl'improvviso è successo.

Stella                             - (con forza) No, Jano. Parlo per te. Solo per te. Che cosa hai fatto! Perché a que­sto punto in cui eri ti sei dovuto rovinare con le tue stesse mani? (Disperatamente) Ah, Jano, come presto finì la nostra vita insieme, e tu già ne parlavi con tanta sicurezza. Che potrai più fare, con il rimorso che ti verrà ira poco, che già t'è venuto, forse. (Silenzio)

Jano                               - (sommesso, smarrito) È finita così? Non c'è più speranza allora? Siamo rimasti soli, e quello che volevamo non l'avremo più.

Stella                             - Jano, Jano poveretto, tu che ne sa­pevi che doveva finire cosi. E manco io lo sapevo. Tre anni d'amore, che Dio lo sa quello che si fantastica in tre anni d'amore. (Silenzio)

Jano                               - Perché le cose che sono stato buono a pensare, non le farò più? Non ero buono a farle. E in questo lungo tempo avrei potuto vivere forse in un altro modo, senza avvele­narmi la vita, senza avvelenarla agli altri con la mia fantasia, e tante disgrazie forse non sarebbero successe. I miei venticinque anni perduti! (Si china sul cadavere. Angosciato) E ora? (Pausa. Egli sì guarda intorno) Quasi non posso credere che in questa stanza pic­cola quanto una scatola siano successe tante cose. Che in questa stanza ci siamo trasci­nati da muro a muro, ci siamo voluti bene e ci siamo ammazzati l'uno con l'altro, inu­tilmente.

Stella                             - Ora sì, ora sì che non mi posso stac­care più da te. Che quasi mi sento della tua famiglia, io, come sangue tuo. Che devo aspettarti qui, sola; aspettare che tu ritorni dal carcere in questo paese morto.

FINE