Aspettiamo cinque anni

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Leggenda del tempo in tre atti e cinque quadri

di Federico  Garcìa  Lorca

Traduzione di Vittorio Bodini

Arnoldo Mondadori Editore - Milano – 1962

PERSONE

IL GIOVANE

IL VECCHIO

LA DATTILOGRAFA

L'AMICO

IL BAMBINO

IL GATTO

IL DOMESTICO

IL SECONDO AMICO

LA FIDANZATA

IL GIOCATORE DI RUGBY

LA CAMERIERA

IL PADRE

IL MANICHINO

ARLECCHINO

LA FANCIULLA

IL PAGLIACCIO

LA DOMESTICA

LA MASCHERA

PRIMO GIOCATORE

SECONDO GIOCATORE

TERZO GIOCATORE

L'ECO

ATTO PRIMO

Biblioteca. Il Vecchio e il Giovane sono seduti. Il Gio­vane indossa un pigiama blu. Il Vecchio è in giacca grigia: ha la barba bianca  e  grandi  occhiali  d'oro.

Giovane.     Vedo che non vi  fa nessuna meraviglia.

Vecchio.    Scusate...

Giovane.     M'è capitato sempre lo stesso.

Vecchio     (indagando amabilmente)  Davvero?

Giovane.     Sì.

Vecchio.    E perché...

Giovane.     Ricordo che...

Vecchio     (ride)  Sempre:  ricordo.

Giovane.     Io...

Vecchio     (ansioso)  Continuate...

Giovane.     Serbavo i dolci per mangiarmeli dopo.

Vecchio.    Dopo, vero? Sanno meglio. Io pure...

Giovane.     E ricordo che un giorno...

Vecchio     (interrompendo con foga)  La parola ricordo mi piace molto. èuna parola verde, succosa. Emana inin­terrottamente dei rivolerti d'acqua freschissima. Ed è strano: non pare anche a voi di vederla staccarsi sul ciclo chiaro di  un'alba?

Giovane      (gaio, cercando di convincersi)  Sì, sì, natural­mente. Avete ragione. Bisogna lottare contro ogni sen­timento di rovina, contro quelle terribili scorticature delle pareti. Più volte mi sono alzato a mezzanotte per sradicare l'erbe del giardino... Non ci voglio né erbe né mobili rotti in casa mia.

Vecchio.    Giusto. Nemmeno mobili rotti, perché bisogna ricordare, sì, ma...

Giovane.     Ma le cose vive, quelle che ardono nel sangue, e che hanno tutti  i loro margini  intatti.

Vecchio.    Benissimo. Vale a dire (abbassando la voce), bi­sogna ricordare, ma ricordare prima.

Giovane.     Prima?

Vecchio     (con aria di segreto)  Sì.  Bisogna ricordare fino a domani.

Giovane      (assorto)  Fino a domani.

Un  orologio suona le  sei.  La Dattilografa attraversa la scena, piangendo in silenzio.

Vecchio.    Le sei.

Giovane.     Sì, le sei e fa un gran caldo. (Si alza.)  C'è un bellissimo cielo  di  temporale.   Pieno  di  nuvole  grigie...

Vecchio.    Cosicché voi?... Io ero molto amico di quella famiglia. Soprattutto del padre. Si occupa di astrono­mia. Sta bene, no? E lei?

Giovane.     Lei l'ho conosciuta poco. Ma non fa niente. Credo che mi ama.

Vecchio.    Certamente.

Giovane.     Son partiti per un lungo viaggio. M'ha fatto quasi piacere... Per queste cose ci vuol tempo...

Vecchio     (contento)  Sicuro!

Giovane.     Sì, ma...

Vecchio.    Ma, che cosa?

Giovane.     Nulla... (facendosi fresco col ventaglio)  Aspet­terò.

Vecchio.    Il padre di lei è venuto?

Giovane.     No, mai. Per ora non è possibile. Devono pas­sare cinque anni.

Vecchio     (con contentezza)  Benissimo.

Giovane      (serio)  Perché dite:  benissimo?

Vecchio.    Beh, perché... Vi piace qua dentro? (Indicando la stanza.)

Giovane.     No.

Vecchio.    Non vi sgomenta l'ora della partenza, gli eventi, ciò che succederà da un  momento all'altro?

Giovane.     Oh, sì. Non me ne parlate!

Vecchio.    È così bello aspettare.

Giovane.     Sì, aspettare, ma intanto, avere. (Appassionan­dosi.)

Vecchio.    Che accade nella via?

Giovane.     Rumore, sempre rumore; polvere, caldo, cattivi odori. Mi irrita che entri nella mia casa l'aria della via.

Si ode un lungo lamento. Pausa.

Giovanni, chiudi la finestra.

Un Domestico sottile, che cammina in punta di pie­di, chiude la finestra.

Vecchio.    Lei... è molto giovane?

Giovane.     Giovanissima.  Quindici anni.

Vecchio.    Quindici anni che lei ha vissuto e che sono lei stessa. Ma perché non dire: ha quindici nevi, quindici venti, quindici crepuscoli? Non avete dunque il co­raggio di fuggire, di volare, di estendere il vostro amore per tutto  il cielo?

Giovane      (si nasconde il viso fra le mani)  L'amo troppo.

Vecchio     (in piedi, con foga)  O dire: ha quindici rose, quindici ali, quindici granelli di sabbia. Non potete concentrare il vostro amore, renderlo piccolo e affilato nel vostro petto?

Giovane.     Voi volete tenermi lontano da lei. Ma io li co­nosco i vostri metodi. Basta osservare un insetto vivo sulla palma della mano, o guardare il mare di sera, fissando la forma di ciascuna onda, e subito il viso o la piaga che portavamo in petto si disfà in bolle. Ma io sono innamorato, e voglio essere innamorato; così innamorato di lei come lei lo è di me; perciò posso aspettare cinque anni, finché la notte, quando tutto il mondo è spento, io potrò allacciarmi attorno al collo le sue trecce lucenti.

Vecchio.    Mi permetto di rammentarvi che la vostra fidan­zata... non ha trecce.

Giovane      (irritato)  Lo so. Se l'è tagliate senza il mio per­messo, naturalmente, e questo... (con tristezza)  mi àltera la sua immagine. (Con forza)  Lo so che non ha trecce. (Quasi infuriato)  Perché me l'avete ricordato? (Con tristezza)  Ma  in  questi cinque anni  tornerà ad averle.

Vecchio     (con entusiasmo)  E più belle che mai. Saranno delle trecce...

Giovane      (con contentezza)  Lo sono,  lo sono già.

Vecchio.    Sono delle trecce del cui profumo si può vivere senza bisogno né di pane né d'acqua.

Giovane.     Non fa che pensare.

Vecchio.    Non fa che sognare.

Giovane.     Come?

Vecchio.    Non fa che pensare che...

Giovane.     Che son tutto una ferita. Tutto in dentro. Arso.

Vecchio     (porgendogli un bicchiere)  Beva.

Giovane.     Grazie. Se mi metto a pensare a lei, alla fanciulla, alla mia bimba...

Vecchio.    Dite: alla mia fidanzata. Su, provate.

Giovane.     No.

Vecchio.    E perché?

Giovane.     Fidanzata... voi lo sapete benissimo; se dico fidanzata, senza volerlo la vedo avvolta dentro un su­dario, in un cielo sospeso a grandi trecce di neve. Può darsi che le si affili il naso, o che la mano che tiene sul petto le diventi come cinque steli verdi su cui pas­seggino le chiocciole. No, non è la mia fidanzata (fa un gesto, come se volesse respingere l'immagine che vuole impadronirsi di lui), è la mia fanciulla, la mia bambina.

Vecchio.    Continuate, continuate.

Giovane.     Se mi metto a pensare a lei, io la disegno, la faccio muovere bianca e viva, ma d'un tratto, chi è che le cambia il naso, le rompe i denti o la trasforma in un'altra donna, coperta di stracci, che cammina nel mio pensiero come se stesse guardandosi nello specchio d'una fiera?

Vecchio.    Chi? Sembra incredibile che voi diciate chi. Eppure cambiano più le cose che abbiamo davanti ai nostri occhi che non quelle che vivono arrese sotto la fronte. L'acqua che viene per il fiume è completamente diversa da quella che se ne va. E chi è che ricorda l'esatta topografia delle sabbie del deserto... o il volto d'un amico?

Giovane.     Sì. E ciò che è dentro è anche più vivo, benché muti anch'esso. L'ultima volta che la vidi non potevo guardarla da vicino perché sulla fronte aveva due pic­cole rughe che appena mi distraevo, capite?, le copri­vano tutto il viso e la rendevano vecchia, sfiorita, come se avesse molto sofferto. Dovevo allontanarmi da lei per poterla mettere a fuoco - è il termine giusto - nel mio cuore.

Vecchio.    Scommetto che quando voi la vedeste vecchia era proprio il momento in cui vi si affidava più intieramente.

Giovane.     Proprio così.

Vecchio     (con eccitazione)  E che se invece, in quel preciso momento, lei avesse confessato di avervi ingannato, di non amarvi, allora quelle piccole rughe si sarebbero mutate nella più delicata rosa del mondo.

Giovante    (con eccitazione)  Sì.

Vecchio.    E l'avreste amata di più, proprio per questo.

Giovane.     Sì, è così.

Vecchio.    E allora?

Giovane.     Allora... èmolto difficile vivere.

Vecchio.    Perciò bisogna volare da una cosa all'altra fino a smarrirsi. Se lei ha quindici anni può avere quindici crepuscoli o quindici cicli. Le cose son più vive dentro, che non li fuori, esposte all'aria e alla morte. Per que­sto cerchiamo di... non cercare... o di attendere. Perché l'altro è morire subito, ed è più bello pensare che do­mani vedremo ancora i cinque corni d'oro con cui il sole solleva le nubi.

Giovane      (tendendogli le  mani)  Grazie, grazie di tutto.

Vecchio.    Ripasserò a trovarvi.

Appare la Dattilografa.

Giovane.     Hai finito di scrivere quelle lettere?

Dattilografa  (con aria lagrimosa)  Sì, signore.

Vecchio     (al Giovane)  Che cos'ha?

Dattilografa. Voglio andarmene da questa casa.

Vecchio.    Beh, è facile, no?

Giovane      (turbato)  Giudicate voi.

Dattilografa. Voglio andarmene e non posso.

Giovane      (con dolcezza)  Non sono io a trattenerti. Lo sai bene che non ci posso far niente. Ti ho detto tante volte di attendere, ma tu...

Dattilografa.  Ionon attendo. Perché attendere?

Vecchio.    E perché no? Attendere è credere e vivere.

Dattilografa. Ionon aspetto, perché non mi piace, per­ché non ho voglia di aspettare; eppure non riesco a muovermi di qui.

Giovane.     Concludi sempre senza dare delle ragioni.

Dattilografa. E che ragioni posso dare? Non c'è che una ragione ed è... che ti amo. Sempre la stessa ragione. (al Vecchio) Quando era piccolo , io lo guardavo gio­care dal mio balcone. Un giorno cadde e gli sanguinò il ginocchio, (Al Giovane) ti rammenti?   Quel sangue vivo continua ancora a guizzarmi come una serpe rossa fra i seni.

Vecchio.    Questo non va. Il sangue si dissecca e il passato è passato.

Dattilografa. Che colpa ne ho io, signore? (Al Gio­vane)  Ti prego di farmi il conto. Me ne voglio andare.

Giovane.     Benissimo. Neanche io ce n'ho colpa. E poi sai perfettamente che non appartengo a me stesso. Puoi andartene.

Dattilografa (al Vecchio)  L'ha sentito? Mi scaccia dalla sua casa. Non vuol più tenermi qui. (Piange. Se ne va.)

Vecchio     (con aria di segreto, al Giovane)  È pericolosa quella donna.

Giovane.     Iovorrei amarla, lo vorrei davvero, come vorrei aver sete presso una sorgente.

Vecchio.    No, niente affatto. E che fareste domani? Eh? Pensateci. Domani.

Amico        (entrando rumorosamente)  Che silenzio in questa casa! E perché poi? Dammi dell'acqua con anice e ghiaccio.

Il Vecchio se ne va.

O un cocktail.

Giovane.     Mi auguro che non mi romperai i mobili.

Amico.       Sei un uomo troppo solitario, troppo serio, col caldo che fa.

Giovane.     Non puoi sederti?

Amico        (lo prende fra te braccia e lo fa girare) Din, din, dan, la fiammella di san  Giovàn.

Giovane.     Lasciami stare. Non sono in vena di scherzi.

Amico.       Uff! Chi era quel vecchio? Un tuo amico? E dove stanno in questa casa i ritratti delle ragazze con cui vai a letto? Senti (gli si avvicina)  ti prenderò per il ba­vero e ti tingerò di rosso codeste guance di cera... o te le strofinerò, così.

Giovane      (irritato)  Lasciami.

Amico.       O ti spingerò nella via a colpi di bastone.

Giovane.     E che dovrei uscire a fare? Quello che ti pare a te, no? Son già abbastanza stanco di doverla sentire, la via, piena di automobili e di gente senza mèta.

Amico        (sedendosi sul sofà e stirandosi)  Ah! Io invece... Ieri ho fatto tre conquiste; l'altro ieri ne avevo fatte due, oggi una... e la conclusione è che rimango a mani vuote, perché mi manca il tempo. Sono stato con una ragazza...  Ernestina.  La vuoi  conoscere?

Giovane.     No.

Amico        (alzandosi)  No, al solito. Ma se la vedessi... ha una cintura... Benché in quanto a cintura ce l'ha più bella Matilde (con impeto) . Ah, mio Dio! (Dà un salto e cade disteso sul divano.)  Vedi, ha una vita fatta a misura per tutte le braccia, e cosi fragile che si ha desiderio di avere fra le mani una piccolissima scure d'argento per sezionarla.

Giovane      (distratto, e a parte dalla conversazione)  Allora io salirò la scala.

Amico        (stendendosi bocconi sul divano)  Non ho tempo, non ho tempo per niente, tutto mi si accavalla. Pensa un po': fisso un appuntamento con Ernestina (si alza), le trecce fin qui, strette, nere nere, e poi... Ernesti-ti-ti-ti-ti-tina, le dico tante cose dolci col suo nome, che le si riempio­no i seni di ti e siccome le dolgono, devo togliergliele io con le labbra, con le dita, con gli occhi...

Il Giovane spazientito  batte colpi con le dita sul tavolo.

Giovane.     Non mi lasci riflettere.

Amico.       Cosa c'è da riflettere? Io me ne vado. Tanto più... che... (Guarda l'orologio)  Ègià passata l'ora, è terribile, mi capita sempre la stessa cosa. Non ho tempo e mi fa rabbia. Andavo con una donna di una bruttezza me­ravigliosa, una di quelle brune di cui si sente la man­canza nei meriggi d'estate. E mi piace enormemente (tira un cuscino in aria)  perché sembra un domatore.

Giovane.     Basta.

Amico.       Ma sì, diamine! Non scandalizzarti. Una donna può essere bruttissima e un domatore di cavalli può esser bello. E viceversa e... che ne sappiamo noi? (Si versa del cocktail in un bicchiere.)

Giovane.     Nulla.

Amico.       Vuoi dirmi che cos'hai?

Giovane.     Niente. Èil mio carattere, lo sai.

Amico.       Ma non lo comprendo. Comunque non posso met­termi a star serio. (Ride.)  Ti saluterò come i cinesi. (Strofina il naso contro il naso del Giovane.)

Giovane      (sorridendo)  Smettila.

Amico.       Ridi.  (Gli fa il solletico.)

Giovane      (ridendo)  Bestia!   (Lottano.)

Amico.       Ti faccio una presa!

Giovane.     Possotenerti testa, che credi?

Amico.       Ci sei. (Gli prende la testa fra le gambe e gli dà colpi)

Vecchio     (entrando, con gravità)  Con permesso...

I giovani si alzano e restano in piedi.

Scusate... (Con autorità, guardando il Giovane)  Dimen­ticherò il cappello.

Amico.       Come sarebbe a dire?

Vecchio     (irritato)  Sissignore. Dimenticherò il cappello... (tra i denti)  cioè, ho dimenticato il cappello.

Amico.       Ahhh...

Si ode uno strepito di vetri.

Giovane      (a voce alta)  Giovanni, chiudi la finestra.

Amico.       Un temporale. Speriamo che sia forte.

Giovane.     Non ci tengo a saperlo.  (A voce alta)  Che sia chiuso bene dappertutto.

Amico.       Questi son tuoni: dovrai sentirli per forza.

Giovane.     No.

Amico.       Sì.

Giovane.     Ciò che succede fuori non mi interessa affatto. Questa è casa mia e qui non entra nessuno.

Vecchio     (indignato, all'Amico)  È una verità irrefutabile.

Si ode un tuono in lontananza.

Amico.       Entrerà chiunque voglia entrare, non solo qui den­tro, ma fin sotto il tuo letto.

Si ode un tuono più  vicino.

Giovane      (gridando)  No, per ora no!

Vecchio.    Bravo!

Amico.       Apri la finestra. Ho caldo.

Vecchio.    Più tardi si aprirà.

Giovane.     Poi.

Amico.       Ma insomma...

Si ode un altro tuono. La luce diminuisce e una lu­minosità azzurrina di temporale invade la scena. I tre personaggi si nascondono dietro un paravento nero rica­mato di stelle.

Dalla porta di sinistra entra il Bambino morto, col Gatto. Il Bambino ha un vestito bianco, da prima comunio­ne, con una corona di rose bianche in testa. Sul suo volto cereo risaltano gli occhi e le labbra color giglio secco. Ha in mano un cero tortile e un gran laccio con fiori d'oro.

Il Gatto è azzurro, con due grandi macchie rosse di sangue sul pettino bianco e grigio e in testa. Avan­zano verso il pubblico. Il Bambino tiene il Gatto per una zampa.

Gatto.       Miau.

Bambino.    Ssss...

Gatto.       Miau.

Bambino.   Prendi il mio fazzoletto bianco.

Prendi la mia corona bianca.

Non piangere più.

Gatto.       Mi dolgono le ferite

che i bambini m'han fatto sulla spalla.

Bambino.    Anche a me duole il cuore.

Gatto.      Perché ti duole, dimmi, bambino?

Bambino.    Perché non cammina più.

Ieri mi s'è fermato pian pianino,

usignuolo del mio letto.

Un gran clamore, avessi visto... Mi esposero

di fronte alla finestra, con queste rose.

Gatto.      E tu cosa sentivi?

Bambino.   Sentivo

dei fiotti d'acqua ed api per la stanza.

Con le mani legate. Che cattivi!

I  bambini  dai  vetri  mi  spiavano.

E un  uomo m'inchiodava col martello

stelle di carta sulla cassa.

(Incrociando le mani)

Non son venuti, no, gli angeli, gatto!

Gatto.       Non chiamarmi più gatto.

Bambino.    No?

Gatto.       Son gatta.

Bambino.    Sei gatta?

Gatta        (smorfiosa)  Sì, te ne potevi accorgere.

Bambino.    E da che?

Gatta.       Dalla mia voce d'argento.

Bambino     (con galanteria)  Non ti vuoi accomodare?

Gatta.       Sì.   Ho fame.

Bambino.    Cercherò di  scovarti un topolino.

Si mette a guardare sotto le sedie. La Gatta, seduta su uno sgabello, trema.

Ma non mangiarlo intero. Soltanto una zam­petta, perché stai molto male.

Gatta.       Dieci sassate

mi hanno tirato i bambini.

Bambino.    Pesano come le rose

che stanotte han ferito la mia gola.

Ne vuoi una?  

(Si strappa  una  rosa dalla testa)

Gatta        (contenta)  Sì, la voglio.

Bambino.    Il  tuo cereo colore, bianca rosa,

occhio di luna infranta,  ti assomiglia

a una gazzella svenuta  fra i vetri.

Gatta.       Tu, che facevi?

Bambino.    Giocavo, e tu?

Gatta.       Giocavo.

Andavo per i tetti, col musetto camuso,

col  nasino di latta,

al mattino

ad acchiappare i pesciolini nell'acqua,

e a mezzogiorno

sotto il roseto del muro m'addormentavo.

Bambino.    E la notte?

Gatta        (con enfasi)

Vagavo sola.

Bambino.    Senza  nessuno.

Gatta.       Per il bosco.

Bambino     (gaio)

Anch'io, gattina dal muso camuso,

e dal nasino di latta,

me ne andavo a mangiare more e mele.

Tuono lontano.

Ah, aspetta! Stan venendo? Ho paura,

sai? Son fuggito di casa.

Non voglio che mi sotterrino.

Gigli e cristalli ornano la mia cassa;

ma io preferisco dormire

fra i giunchi dell'acqua.

Non voglio che mi sotterrino. Andiamo via.

(La prende per la zampa.)

Gatta.       Ci sotterrano? Quando?

Bambino.    Domani.

In certe  fosse scure.

Tutti  piangono. Tutti tacciono.

Ma poi se ne vanno. Io li ho visti.

E  poi, sai?

Gatta.       Che succede?

Bambino.    Ci vengono a mangiare.

Gatta.       Chi?

Bambino.    La lucertola maschio e la lucertola femmina, coi loro figliolini, che son molti.

Gatta.       E che ci mangeranno?

Bambino.    Le dita, il viso (abbassando la voce)  e il pipì.

Gatta        (offesa)  Io non ce l'ho.

Bambino     (con energia)

Allora,

ti mangeranno le zampe e i baffi.

Tuoni lontanissimi.

Andiamo. Di casa in casa

giungeremo dove pascolano

i cavallini d'acqua.

Non è cielo. È terra dura

con molti grilli che cantano,

con erbe che si agitano,

con  nuvole che si  levano,

con fionde che gettano pietre

e il vento come una spada.

Voglio esser bimbo,  un  bambino.

(Si dirige alla porta di destra.)

Gatta.       La porta è chiusa.

Andiamo  dalla  scala.

Bambino.    Dalla scala ci vedono.

Gatta.       Aspetta.

Bambino.     Vengono a sotterrarci.

Gatta.       Scappiamo dalla finestra.

Bambino.    Non vedremo mai la luce,

né le nuvole che si  levano,

né i grilli in mezzo all'erba,

né il vento come una spada.

(Incrociando le mani!)

Ahi, girasole.

Ahi,  girasole  di  fuoco.

Ahi, girasole.

Gatta.       Ahi, garofanino di sole.

Bambino.    Spento è il cielo.

Soltanto mari e monti di carbone,

e una colomba morta sulla rena

con ali infrante e con in becco un fiore.

(Canta)  E nel fiore un'oliva,

e nell'oliva un limone...

Come dice poi?... Non lo so. Come dice?

Gatta.       Ahi,  girasole  del  mattino.

Ahi, girasole.

Bambino.    Ahi, garofanino di sole.

La luce è tenue. Il Bambino, tenendo la Gatta per la zampa, procede a tentoni.

Gatta.       Non c'è luce. Dove sei?

Bambino.    Taci.

Gatta.       Stanno già venendo lucertole?

Bambino.    No.

Gatta.       Hai trovato l'uscita?

La Gatta si avvicina alla porta di destra; appare una mano che ve la spinge dentro.

Gatta        (da dentro)

Bambino,  bambino!   (Con sgomento)  Bam­bino!

Il Bambino avanza terrorizzato, fermandosi a ogni passo.

Bambino     (a bassa voce)

È sprofondata.

L'ha afferrata una mano.

Dev'esser la mano di Dio.

Non seppellirmi. Aspetta pochi minuti...

Il tempo di sfogliare un fiore.

(Si strappa un fiore dalla testa e lo sfoglia!)

Ci andrò da solo, piano piano,

e mi lascerai vedere il sole.

Pochissimo. Mi basta un raggio.

(Sfogliando il fiore.)  Sì, no, sì, no, sì.

Voce.         No.

Una mano appare e afferra il Bambino, che sviene. Appena il Bambino è scomparso, la luce torna come prima. Immediatamente escono dal paravento i tre personaggi. Dànno mostra di aver caldo e sono molto agitati. Il Giovane ha un ventaglio azzurro, il Vec­chio un ventaglio nero, l'Amico un ventaglio d'un rosso violento.  Si sventagliano.

Vecchio.    E aumenterà ancora.

Giovane.     Sì, dopo.

Amico.       È stato già abbastanza. Non credo che riuscirai a sfuggire al temporale.

Voce          (fuori)  Mio figlio, mio figlio!

Giovane.     Dio, che serata! Giovanni, chi è che grida così?

Domestico (entra, sempre camminando in punta di piedi. Con voce soave)  È morto il bambino della portinaia e ora lo portano a seppellire. È la madre che piange.

Amico.       È naturale.

Vecchio.    Sì, ma quello che èpassato è passato.

Amico.       Ma è solo ora che sta passando.

Discutono.

Il Domestico attraversa la scena e va per uscire dalla porta di sinistra.

Domestico. Signore, vuole avere la bontà di darmi la chiave della sua camera?

Giovane.     Perché?

Domestico. I ragazzi hanno ammazzato un gatto e l'han­no gettato sulla tettoia del giardino, e bisogna toglierlo di lì.

Giovane      (seccato)  Tieni. (Al Vecchio)  Con lui non la spuntate.

Vecchio.    E non m'importa neanche.

Amico.       Non è vero. Vi importa. Se c'è uno a cui non gliene importa nulla sono io, che so positivamente che la neve è fredda e che il fuoco brucia.

Vecchio     (ironico)  Secondo.

Amico        (al Giovane)  Ti sta ingannando.

Il Vecchio guarda con fermezza il Giovane, stringen­do fra le dita il cappello.

Giovane      (con forza)  Non influisce minimamente sul mio carattere. Son proprio così. È che tu non puoi compren­dere che si possa aspettare cinque anni una donna, pie­no e arso d'un amore che cresce giorno per giorno.

Amico.       Non hai nessun bisogno di aspettare.

Giovane.     Credi che io possa vincere le cose materiali, gli ostacoli che sorgono e che aumenteranno strada facendo, senza causare dolore agli altri?

Amico.       Devi pensare prima a te e poi agli altri.

Giovane.     Aspettando, il nodo si scioglie e la frutta matura.

Amico.       Iopreferisco mangiarmela acerba, o meglio an­cora, preferisco recidere il fiore e mettermelo all'oc­chiello.

Vecchio.    Non è vero.

Amico.       Voi siete troppo vecchio per poterlo sapere.

Vecchio     (severamente)  Io ho lottato tutta la vita per ac­cendere una luce nei posti più oscuri. E quando la gente stava per torcere il collo alla colomba, io ho trattenuto la mano e l'ho aiutata a volare.

Amico.       E naturalmente il cacciatore è morto di fame.

Giovane.     Sia benedetta la fame.

Appare dalla porta di sinistra il 2° Amico. E vestito di bianco, con un impeccabile vestito di lana, e porta guanti e scarpe dello stesso colore. Se questa parte non potrà esser sostenuta da un attore, dovrà farla un'attrice giovane. Il vestito dev'essere d'un taglio esageratissimo, con enormi bottoni azzurri; il gilè e la cravatta  saranno  di  merletti arricciati.

2° amico.    Sia benedetta, a patto che ci sia pane tostato e olio, e poi sonno. Molto sonno. Un sonno che non fini­sca mai. Ti ho sentito.

Giovane      (meravigliato)  Da dove sei entrato?

2° amico.    Da una parte qualunque. Dalla finestra. Mi hanno aiutato due bambini miei amici. Li ho conosciuti quand'ero molto piccolo, e mi hanno spinto su per i piedi. Sta per cadere un acquazzone... ma quello che cadde l'anno passato, quello si fu un acquazzone! C'era cosi poca luce che le mani mi diventarono gialle. (Al Vecchio)  Ricorda?

Vecchio     (acre)  Non  ricordo  nulla.

2° amico     (all'Amico)  E tu?

1° amico     (serio)  Neanche.

2° amico.    Io ero molto piccolo, ma lo ricordo con preci­sione.

1° amico.    Vedi...

2° amico.    Ecco perché non voglio crederti. La pioggia è bella. In collegio entrava dai cortili e schiacciava contro le pareti certe donnine nude, piccine piccine, che porta dentro di sé. Non le avete mai viste? Quando avevo cinque anni... no, quando ne avevo due... no, mento, quando avevo un anno, solo un anno. £ bello, vero? Un anno presi una di quelle donnine di pioggia e la tenni  per due giorni  in  una  peschiera.

1° amico     (con calma ironica)  E crebbe?

2° amico.    No: si fece sempre più piccola, sempre più bambina, come dev'essere, com'è giusto, finché non restò di lei che una goccia d'acqua. E cantava una canzone...

Torno per le mie ali,

lasciatemi tornare.

Voglio morire essendo alba,

morire essendo  ieri.

Torno per le mie ali,

lasciatemi tornare.

Voglio morire essendo una sorgente.

Voglio morire fuori del mare...

che è ormai la canzone che io canto ogni momento.

Vecchio     (irritato, al Giovane)  È completamente pazzo.

2° amico     (che   l'ha   sentito)    Pazzo? Perché non voglio essere pieno di rughe e di dolori come lei! Perché vo­glio vivere ciò che è mio e me lo tolgono.  Io lei non la conosco. E non mi piace veder gente come lei.

1° amico     (bevendo)  Tutto questo non è altro che paura della morte.

2° amico.    No. Proprio ora, mentre venivo qui, ho visto che portavano a seppellire un bambino con le prime gocce della pioggia. Così voglio esser seppellito an­ch'io. In una cassa piccola come quella, e che tutti voi andiate incontro alla burrasca. Ma il mio volto è mio, e me lo stanno rubando. Io ero tenero e cantavo, e ora c'è un uomo, un signore (al Vecchio)  come lei, che pas­seggia dentro di me con due o tre maschere belle pron­te. (Tira fuori uno specchio e vi si guarda)  Ma ancora no, ancora no... Mi vedo ancora arrampicato sui ciliegi... con quell'abito grigio... Un abito grigio che aveva delle ancore d'argento... Dio mio! (Si copre il viso con le mani.)

Vecchio.    Gli abiti si strappano, le ancore si ossidano e andiamo avanti.

1° amico.    No, per favore. Non parli cosi.

Vecchio     (entusiasmato)  Le case sprofondano.

1° amico     (energico,  in atteggiamento difensivo)  Le case non sprofondano.

Vecchio     (imperterrito)  Gli occhi si spengono e un falcetto affilatissimo taglia i giunchi delle rive.

2° amico.    Certo, tutto ciò succede, ma dopo.

Vecchio.    No. Al contrario. È già successo.

 2° amico.   Dietro, tutto rimane quieto: com'è possibile che lei  non  lo sappia? Non c'è da fare altro che andare risvegliando dolcemente le cose. In cambio, fra quattro o cinque anni c'è un pozzo in cui precipiteremo tutti.

Vecchio     (adirato)  Silenzio.

Giovane      (tremando, al Vecchio)  L'ha sentito lei?

Vecchio.   Fin  troppo.   (Esce rapidamente dalla porta di destra.)

Giovane      (andandogli dietro)  Dove andate? Perché ve ne andate così? Un momento.   (Esce dietro il Vecchio.)

2° amico     (stringendosi nelle spalle)   Bene. Non poteva essere che un vecchio. Voi però non avete protestato.

1° amico     (che ha bevuto senza interruzione)  No.

2° amico.    A voi non vi importa d'altro che di bere.

1° amico     (serio e con dignità)  Io faccio quello che mi pare e che mi aggrada. Non vi ho chiesto il vostro giudizio.

2° amico     (intimidito)  Sì, sì. Io non dico nulla... (Si siede su una poltrona, con le gambe rannicchiate.)

Il 1° Amico vuota rapidamente i bicchieri fino all'ulti­ma goccia, e dandosi un colpo in fronte, come se si ricordasse d'una cosa, esce rapidamente dalla porta di sinistra. Il 2° Amico poggia la testa sulla poltrona. Appare da destra il Domestico, sempre silenzioso, in punta di piedi. Comincia a piovere.

2° amico.   L'acquazzone.   (Si guarda le mani)   Che luce orrenda!   (Si addormenta.)

Giovane      (entrando)  Domani tornerà.  Ho bisogno di lui. (Si siede.)

Appare la Dattilografa. Porta una valigia. Attraversa la scena; giunta a metà, torna indietro rapidamente.

Dattilografa. Mi ha chiamata?

Giovane      (chiudendo gli occhi)  No.

La Dattilografa esce  guardando  ansiosa  e  sperando d'esser richiamata.

Dattilografa (sulla porta)  Ha bisogno di me?

Giovane      (chiudendo gli occhi)  No. Non ho bisogno di te.

La Dattilografa esce.

2° Amico    (mezzo addormentato)

Torno per le mie ali,

lasciatemi  tornare.

Voglio morire essendo

ieri.

Voglio morire essendo

alba.

Comincia a piovere.

Giovane.     È tardissimo. Giovanni, accendi la luce. Che ora è?

Domestico       (con intenzione)  Le sei  in  punto, signore.

Giovane.     Sta bene.

2° Amico    (nel dormiveglia)

Torno per le mie ali,

lasciatemi tornare.

Voglio morire essendo

sorgente.

Voglio morire

fuori del mare.

Il Giovane batte dolcemente le dita sul tavolo.


ATTO SECONDO

Camera da letto stile novecento. Mobili strani. Grandi tende, tutte pieghe e fiocchi. Sulle pareti son dipinti angeli e nuvole. Al centro, un letto con cortine e pennacchi. A sinistra una toletta, sostenuta da angeli con mazzi di luci elettriche in mano. I balconi sono aperti e vi entra la luna. Si ode un clacson di automobile che chiama furiosamente. La Fidanzata salta giù dal letto in una splendida vestaglia piena di merletti e nastri rosa, con un lungo strascico. Porta i capelli a buccole.

Fidanzata        (affacciandosi al balcone)  Sali.

Si ode il clacson.

È  indispensabile. Stanno per venire il mio fidanzato, il vecchio e il lirico, e ho bisogno che tu mi sostenga.

Entra dal balcone il Giocatore di rugby. Porta ginoc­chiere e casco, e una borsa piena di sigari che accende e  schiaccia  continuamente.

Fidanzata.       Vieni. Son due giorni che non ti vedo.

Si  baciano.

Il  Giocatore  di rugby  non  parla  mai.  Non fa che fumare e schiacciare il sigaro sul pavimento. Dùsegni di una grande  vitalità e abbraccia con impeto la Fi­danzata.

Fidanzata.       Oggi mi hai baciata in un altro modo. Ogni volta cambi, amore mio. Ieri non ti ho visto, sai? Ma ho visto il cavallo. Era così bello! Bianco, con gli zoc­coli dorati tra il fieno delle mangiatoie. (Si siedono su un sofà che sta ai piedi del letto) . Ma sei più bello tu. Tu sei come un drago. (Lo abbraccia.)  Mi pare che tu debba rompermi fra le tue braccia, perché son debole, sono così piccola, sono come la brina, come una piccola chitarra arsa dal sole, e tu mi puoi infrangere.

Il Giocatore di rugby le getta il fumo in faccia.

Fidanzata (passandogli le mani sul corpo)  Dietro tutta quest'ombra c'è come un'armatura di ponti d'argento per stringere e difendere me, piccola come un bottone, piccola come un'ape penetrata nel salone del trono, non è vero? Me ne verrò con te. (Posa il capo sul petto del Giocatore) . Drago, drago mio. Quanti cuori hai? Hai nel petto un torrente in cui annegherò. Annegherò... (lo guarda)  e tu te ne fuggirai (piange)  e mi lascerai morta sulla riva.

Il Giocatore si mette in bocca un altro sigaro  e la Fidanzata glielo accende.

Oh!             (Lo bacia.)  Che brace candida, che fiammata d'avo­rio emanano i tuoi denti! Il mio fidanzato aveva i denti gelidi; quando mi baciava, le sue labbra si coprivano di foglioline secche, erano come labbra appassite. Io mi tagliai le trecce perché gli piacevano molto, cosi come ora vado scalza perché a te piace. Non è vero che ti piace?

Il Giocatore la bacia.

Ce ne dobbiamo andare. Sta per venire il mio fidanzato.

Voce          (dalla porta)  Signorina.

Fidanzata.       Vattene.

Bacia il Giocatore.

Voce.         Signorina.

Fidanzata (separandosi dal Giocatore e prendendo un'aria distratta)   Vengo.   (A bassa voce)  Addio.

Il Giocatore va sino al balcone, poi torna indietro e le dà un bacio, sollevandola fra le braccia.

Voce.         Apra.

Fidanzata        (con voce studiata)   Che impazienza!

Il Giocatore esce fischiettando dal balcone.

Cameriera        (entrando)  Signorina!

Fidanzata.  Signorina, che?

Cameriera.       Signorina.

Fidanzata. Che vuoi?

Accende la luce del soffitto, che è più azzurrina di quella che entra dal balcone.

Cameriera.       È venuto il suo fidanzato.

Fidanzata.       Va bene. E perché fai quella faccia?

Cameriera (piagnucolando)  Per niente.

Fidanzata.       Dov'è?

Cameriera.       Giù.

Fidanzata.       Con chi sta?

Cameriera.       Con suo padre.

Fidanzata.       Solamente?

Cameriera.       E con un signore dagli occhiali d'oro. Stanno discutendo  animatamente.

Fidanzata.       Ora mi vesto. (Si siede davanti alla toletta e si pettina, aiutata dalla Cameriera.)

Cameriera (piagnucolante)  Ah, signorina!

Fidanzata        (irritata)  Signorina, che?

Cameriera. Signorina!

Fidanzata (aspra)  Che vuoi?

Cameriera.       Com'è bello il suo fidanzato!

Fidanzata.       Spòsatelo.

Cameriera.       È venuto tutto contento.

Fidanzata.       Sì?

Cameriera. Ha portato un  mazzo di fiori.

Fidanzata.  Losai  che non mi  piacciono i fiori. Gettali dal balcone.

Cameriera.       Son così belli. Appena colti.

Fidanzata        (imperiosa)  Gettali!

La Cameriera getta dal  balcone dei fiori  che erano in un vaso.

Cameriera.       Ah, signorina!

Fidanzata  (adirata)  Signorina, che?

Cameriera.       Signorina!

Fidanzata.       Cheeee?

Cameriera.       Pensi bene a quello che fa. Ci rifletta sopra. Il mondo è grande, ma le persone sono piccole.

Fidanzata.       Che ne sai tu?

Cameriera.       Sì che lo so. Mio padre andò in Brasile due volte, ed era così piccolo che entrava in una valigia. Le cose si dimenticano e il male  rimane.

Fidanzata.       Ti ho detto di tacere.

Cameriera.       Ah,  signorina!

Fidanzata        (energica)  Le mie robe.

Cameriera.       Che cosa vuol fare?

Fidanzata.       Quello che potrò.

Cameriera. Un uomo così buono, che ha perso tanto tempo a aspettarla. E con tanta speranza. (Le porge gli abiti.)

Fidanzata.       T'ha data la mano?

Cameriera (tutta contenta)  Sì che me l'ha data.

Fidanzata.       E come te l'ha data?

Cameriera.       Con molta delicatezza, quasi senza stringere.

Fidanzata.       Lovedi? Senza stringere.

Cameriera.       Facevo l'amore con un soldato che mi conficcava ogni volta gli anelli  nelle dita e mi  faceva uscir san­gue. Lo lasciai  proprio per questo.

Fidanzata.       Sì?

Cameriera.  Ah, signorina!

Fidanzata.       Che abito mi metto?

Cameriera.       Quello rosso le sta che è una meraviglia.

Fidanzata.       Non voglio esser bella.

Cameriera.       Allora quello verde.

Fidanzata.       No.

Cameriera. L'arancione.

Fidanzata (forte)  No.

Cameriera.       Quello di tulle.

Fidanzata (più forte)  No.

Cameriera.       Quello foglie d'autunno.

Fidanzata        (irritata,  con forza)  Ho detto di  no. Voglio un abito color terra, un abito di roccia calva, con un cordone di sparto alla vita.

Si ode il clacson. La Fidanzata socchiudi gli occhi e continua il discorso con espressione completamente mutata.

Ma voglio al collo una corona di gelsomini e che tutta la mia carne sia stretta come da un velo bagnato dal mare.  (Si dirige al balcone.)

Cameriera.       Che non venga a saperlo il suo fidanzato.

Fidanzata.       Dovrà saperlo. (Sceglie un abito talare, sem­plicissimo)  Questo.   (Se lo mette.)

Cameriera.       Ha torto.

Fidanzata.       Perché?

Cameriera.       Il suo fidanzato cercava un'altra cosa. Al mio paese c'era un giovane che saliva sulla torre della chie­sa per guardare più da vicino la luna, e la sua fidanzata lo lasciò.

Fidanzata.       Fece bene.

Cameriera.       Lui diceva che nella luna vedeva il ritratto della sua ragazza.

Fidanzata (energica)  E ti pare bello? (Finisce di acco­modarsi davanti alla toletta e accende le luci degli angeli.)

Cameriera        (stupita)  Ah, signorina.

Fidanzata.       Che?

Cameriera.       Quando mi son lasciata col fattorino...

Fidanzata.       Ti sei già lasciata col fattorino? "Ècosì bello... è talmente bello..."

Cameriera.       Sicuro. Gli regalai un fazzoletto che avevo ricamato io, con la scritta "Amore, Amore, Amore"; e l'ha perso.

Fidanzata.       Puoi andare.

Cameriera.       Chiudo i balconi?

Fidanzata.       No.

Cameriera.       L'aria le brucerà la pelle.

Fidanzata.       Così mi piace. Voglio diventar nera. Più nera d'un ragazzo. E se cado, non farmi sangue, e se prendo una mora, non ferirmi. Stanno camminando tutti sul filo con gli occhi chiusi. Io invece voglio camminare coi piedi di piombo. Stanotte ho sognato che tutti i bambini piccoli crescono per caso. Che basta la forza d'un bacio per ucciderli tutti. Un pugnale, una forbice durano per sempre, e questo mio petto dura solo un istante.

Cameriera (in ascolto)  Sta venendo suo padre.

Fidanzata.       Metti in una valigia tutti i miei abiti colorati.

Cameriera (tremando)  Sì.

Fidanzata.       E tieni pronta la chiave del garage.

Cameriera        (con timore)  Sta bene.

Entra il Padre della Fidanzata. E un vecchio dall'aria distratta,  con un cannocchiale appeso al collo. Par­rucca bianca, volto roseo. Indossa un abito nero, coi guanti  bianchi. Dà mostra d'una dolce miopia.

Padre.        Sei pronta?

Fidanzata (seccata)  Perché dovrei esserlo?

Padre         È già arrivato.

Fidanzata.       E con ciò?

Padre.        Dal momento che ti sei impegnata, e che si tratta della tua vita, della tua felicità, è naturale che tu sia contenta e decisa.

Fidanzata.       Invece non lo sono affatto.

Padre.        Come?

Fidanzata.       Non sono affatto contenta. E tu?

Padre.        Ma, figlia mia... E che dirà quell'uomo?

Fidanzata.       Dica quello che vuole.

Padre.        È venuto per sposarti. Tu gli hai scritto per tutti i cinque anni che è durato il nostro viaggio. Sui tran­satlantici non hai ballato con nessuno... non ti sei inte­ressata di nessuno. Che cambiamento è questo?

Fidanzata.       Non voglio vederlo. Io ho bisogno di vivere. E lui parla troppo.

Padre.        Perché non l'hai detto prima?

Fidanzata. Prima non esistevo neanche io. Esistevano la terra e il mare. E io dormivo dolcemente sui cuscini del treno.

Padre.        Quell'uomo avrà tutto il diritto di offendermi. Ah, Dio mio! Ed era sistemato tutto. Ti aveva regalato l'abito da sposa.

Fidanzata.       Non parlarmene. Non voglio sentire.

Padre.        E io? E io? Non ho forse diritto a  riposarmi? Stanotte c'è un eclissi di luna. Non potrò più osser­varlo dalla terrazza. Appena ho una contrarietà, mi sale il sangue agli occhi e non ci vedo più. Come ci regoliamo con quell'uomo?

Fidanzata.       Come vuoi. Io non voglio vederlo.

Padre         (energico,  con uno sforzo di volontà)  Devi man­tenere il tuo impegno.

Fidanzata.       Non voglio mantenerlo.

Padre.        Lodovrai.

Fidanzata.       No.

Padre.        Sì. (Fa il gesto di batterla.)

Fidanzata (con forza)  No.

Padre.        Tutti contro di me. (Guarda il cielo dal balcone aperto.)  Ora comincia l'eclissi. (Si dirige al balcone.)  Hanno già spento le luci.   (Con  tristezza)  Sarà  molto bello.  Me lo stavo pregustando da tanto tempo e ora non lo vedrò.  Perché l'hai ingannato?

Fidanzata. Ionon l'ho ingannato.

Padre.        Cinque anni,  giorno per giorno.  Dio mio!

La Cameriera entra a precipizio e corre verso il balcone; fuori si sentono voci.

Cameriera.       Stanno litigando.

Padre.        Chi?

Cameriera È entrato. (Esce in fretta.)

Padre.        Che succede?

Fidanzata.       Dove vai? Chiudi la porta.  (Con sgomento.)

Padre.        Ma perché?

Fidanzata.       Ah!

Appare il Giovane. È vestito da passeggio. Si ravvia i capelli. Ne! momento in cui compare si accendono tutte le luci della scena e i mazzi di lampadine che reggono gli angeli. I tre personaggi stanno a guardar­si immobili e in silenzio.

Giovane.     Scusate.

Pausa.

Padre         (con imbarazzo)  S'accomodi.

Entra la Cameriera in  preda al nervosismo, con le mani sul petto.

Giovane      (dando la mano alla Fidanzata)  È stato un viag­gio lunghissimo.

Fidanzata (guardandolo fissamente, senza lasciargli la ma­no)  Sì. Un viaggio freddo. Ha nevicato molto in que­sti ultimi anni. (Gli lascia la mano.)

Giovane.     Scusate, ma ho corso, poi ho salito in fretta le scale e sono un po' agitato. E poi... per la via ho pic­chiato dei bambini che stavano ammazzando un gatto a sassate.

Il Padre gli offre una sedia.

Fidanzata (alla Cameriera)  Che mano fredda! Una mano di cera tagliala.

Cameriera.       Badi che la sente.

Fidanzata. E uno sguardo antico. Uno sguardo che si stacca come l'ala d'una farfalla disseccata.

Giovane.     No, non posso star seduto. Preferisco chiacchie­rare. Improvvisamente, mentre salivo le scale, mi son venute in mente tutte le canzoni che avevo dimenticato e volevo cantarle tutte quante insieme. (Si avvicina alla Fidanzata)  E le trecce...

Fidanzata.       Non ho mai avuto trecce.

Giovane.     Sarà stato il chiaro di luna. Sarà stata l'aria di­ventata bocche per baciare i tuoi capelli. La Cameriera si ritira in un angolo. Il Padre si avvi­cina alla finestra e guarda col cannocchiale.

Fidanzata.       E tu non eri più alto?

Giovane.     No, no.

Fidanzata.       Non avevi un sorriso violento che eri come un airone sul tuo viso?

Giovane.     No.

Fidanzata.       Non giocavi a rugby?

Giovane.     Mai.

Fidanzata. E non montavi a cavallo tenendolo per la cri­niera,  non uccidevi  in un giorno tremila  fagiani?

Giovane.     Mai.

Fidanzata.       Allora... Perché vieni a cercarmi? Avevo le mani piene di anelli. Dove si può trovare una goccia di sangue?

Giovane.     Iolo verserò, se lo vuoi.

Fidanzata        (con energia)  Non del tuo sangue. Del mio.

Giovane.     Ora nessuno potrà staccare le mie braccia dal tuo collo.                                                                       

Fidanzata.       Non sono le tue braccia, ma le mie. Sono io quella che vuole ardere di un altro fuoco.

Giovane.     Non c'è altro fuoco che il mio. (L'abbraccia.)  Perché ti ho aspettata ed ora conquisto il mio sogno. Non sono un sogno le tue trecce, perché io stesso le farò coi tuoi capelli; non è un sogno la tua cintura, in cui canta sangue mio, perché mio è questo sangue che scorre lentamente attraverso una pioggia, e questo sogno è mio.

Fidanzata        (distaccandosi)  Lasciami. Tutto avresti potuto dire fuorché la parola sogno.  Io non voglio sognare... Qui non si sogna.

Giovane.     Ma si ama.

Fidanzata.       No, non si ama. Nemmeno questo. Vattene.

Giovane      (abbattuto)  Che dici?

Fidanzata.       Cercati un'altra donna a cui fare le trecce.

Giovane      (come destandosi)  No.

Fidanzata.       Come posso farti entrare nel mio letto se vi è già entrato un altro?

Giovane.     Ah!  (Si nasconde il viso fra le mani.)

Fidanzata. Son passati solo due giorni, e mi sento carica di catene. Negli specchi e fra i merletti del letto sento già il vagito d'un bimbo che mi perseguita.

Giovane.     Ma ho già messo casa. Ne ho toccato i muri con queste mani. Posso lasciare che se la goda l'aria?

Fidanzata.       E che colpa ne ho io? Vuoi che venga con te?

Giovane      (sedendosi  su  una sedia,  sconfortato)  Sì, sì. Vieni.

Fidanzata. Uno specchio, un tavolo ti sarebbero più vicini di quanto potrei esserlo io.

Giovane.     E ora che farò?

Fidanzata.       Puoi amare.

Giovane.     Chi?

Fidanzata.       Cerca. Per le vie. Per i campi.

Giovane      (energico)  Non cercherò. Ho te. Sei qui, fra le mie mani,  in questo istante,  e non  puoi  chiudermi  la porta perché arrivo bagnato da cinque anni di pioggia. E perché dopo non esiste nulla, perché dopo non posso amare, perché dopo è finito tutto.

Fidanzata.       Lasciami.

Giovane.     Non  è il tuo  inganno che mi  duole.  Tu  non sei cattiva. Tu non significhi nulla. Quello che mi duole è il mio tesoro perduto. È il mio amore senza oggetto. Ma tu verrai.

Fidanzata.       Ionon verrò.

Giovane.     Per non dover ricominciare daccapo. Sento che sto cominciando a dimenticare persino le lettere del nome.

Fidanzata.       Non verrò.

Giovane.     Perché io non muoia. Hai sentito? Perché io non muoia.

Fidanzata.       Lasciami.

Cameriera (entrando)  Signorina.

Il Giovane lascia la Fidanzata.

Fidanzata.       C'è qualcuno che non deve sapere ciò che hai fatto.

Cameriera.       Signore.

Padre         (entrando)  Chi è che grida?

Fidanzata.       Nessuno.

Padre         (guardando il Giovane)  Signore...

Giovane      (sconfortato)  Stavamo parlando...   

Fidanzata.       Devo restituirgli i regali...

Il Giovane fa un gesto.

Tutti. Non sarebbe giusto...  Tutti, meno i ventagli... perché si son rotti.

Giovane      (ricordando)  Due ventagli.

Fidanzata.       Uno azzurro...

Giovane.     Con tre gondole affondate...

Fidanzata.       E un altro bianco.

Giovane.     Con una testa di tigre al centro. E... si son rotti?

Cameriera.       Le ultime stecche se le portò via il bambino del carbonaio.

Padre.        Erano dei buoni ventagli,  ma insomma...

Giovane      (sorridendo)  Oh, non importa che non ci siano più.  In questo momento mi fanno un fresco che mi brucia la pelle.

Cameriera (alla Fidanzata)  Anche l'abito da sposa?

Fidanzata.       Naturalmente.

Cameriera        (piangendo)  È lì dentro.

Padre         (al Giovane)  Vorrei che...

Giovane.     Non importa.

Padre.        In tutti i casi faccia conto che questa sia casa sua.

Giovane.     Grazie.

Padre         (che guarda sempre verso il balcone)   Starà per cominciare. Mi scusi.  (Alla Fidanzata)  Vieni?

Fidanzata.       Sì.  (Al Giovane)  Addio.

Giovane.     Addio.

Escono. Il Giovane rimane solo.

Voce          (fuori)  Addio.

Giovane.     Addio... E ora? Che farò in quest'ora che viene e che non conosco? Dove vado?

La luce della scena si oscura. Le lampadine degli an­geli prendono una luce azzurra. Dai balconi riappare un chiarore lunare che va crescendo sino alla fine. Si ode un lamento.

Giovane      (guardando verso la porta)  Chi è?

Entra in scena il Manichino in abito nuziale. Questo personaggio ha la faccia grigia e ciglia e labbra do­rate, come un manichino da vetrina di lusso. Indossa con una certa rigidezza uno splendido abito bianco da sposa, con lungo strascico e velo.

Manichino (canta e piange)

Chi si godrà l'argento fino

della sposa morettina?

La mia coda si perde nel mare;

la luna ha in testa i miei fiori d'arancio.

L'anello mio, signore; l'anello mio d'oro vecchio

sprofondò nelle sabbie dello specchio.

Chi metterà il mio abito? Chi se lo metterà?

Se lo metterà l'acqua del fiume per sposarsi col mar.

 Giovane.    Cosa canti?

Manichino. Canto

la morte che non  ebbi  mai,

dolore di velo inutile,

pianto di sete e piume.

La biancheria che resta

gelata di neve oscura,

e i merletti che non possono

gareggiare con le spume.

Roba che copre la carne

servirà per l'acqua sporca.

Invece di caldo rumore,

un dorso rotto di pioggia.

Chi si godrà la roba buona

della sposa piccola e bruna?

Giovane.     L'indosserà l'aria scura

che gioca all'alba nelle grotte,

con giarrettiere di giunchi

e calze di seta  lunare.

Dà il velo alle ragnatele

perché si nutrano e avvolgano

le aggrovigliate colombe

tra i fili della bellezza.

Nessuno indosserà il suo abito,

bianca forma e vaga luce,

perché seta e brina furono

architetture volgari.

Manichino. La mia coda si perde nel mare.

Giovane.     E la luna porta sospesa la tua corona d'arancio.

Manichino (irritato)

Non voglio, no. Le mie sete

filo  per filo anelano

il  fervore delle nozze.

La  mia camicia  si  chiede

 dove son le calde mani

che  premono alla cintura.

Giovane.     Anch'io me lo chiedo. Taci.

Manichino. Tumenti. La colpa è tua.

Per  me tu  potevi  essere

puledro di piombo e spuma,

il vento  rotto  dal  freno,

il  mare legato  alla groppa.

Potevi  essere  nitrito

e sei sonnolenta laguna,

con  foglie secche e muschio

in cui marcirà quest'abito.

L'anello mio, signore; l'anello mio d'oro vecchio...

Giovane.     Sprofondò nelle sabbie dello specchio.

Manichino. Mentre  lei  nuda  aspettava

come una serpe di vento

svenuta  alle  estremità.

Giovane      (alzandosi)

Silenzio.  Lasciami.  Vattene,

se non vuoi ch'io ti frantumi

fin  le iniziali di nardo

che occulta la bianca seta.

Vattene in giro a cercare

spalle di notturne vergini

o  chitarre che ti piangano

sei lunghi gridi di musica.

Nessuno metterà  il  tuo abito.

Manichino. Io  ti  seguirò sempre.

Giovane.     No, mai.

Manichino. Lascia che ti parli.

Giovane.    È inutile. Non voglio sapere.

Manichino. Ascoltami. Guarda...

Giovane.     Cosa?

Manichino. Una vestina

che ho rubato alla cucitura.

(Mostra una vestina rosa di bimbo.)

Fontane di latte bianco

bagnano d'ansia le mie sete

e un dolore bianco d'ape

mi copre di raggi la nuca.

Mio figlio. Io voglio il mio bimbo.

Sulla gonna lo disegnano

questi nastri che già scoppiano

di gioia sulla mia cintura.

Ed è figlio tuo.

Giovane.     Sì, mio figlio,

in cui s'uniscono e incrociano

uccelli di sogno folle

e gelsomini di saviezza.

(Angosciato)

E se mio figlio non viene?

Uccello che solca l'aria

non può cantare.

Manichino. Non può.

Giovane.     E se mio figlio non viene?

Veliero che solca il mare

non può nuotare.

Manichino. Non può.

Giovane.    Calma l'arpa della pioggia,

un mare impietrito ride

ultime onde buie.

Manichino. Chi metterà il mio abito? Chi se lo metterà?

Giovane      (risoluto ed entusiasta)

La donna che m'aspetta sulla riva del mar.

Manichino. Lei sempre aspetta. Ricordi?

Nascosta nella tua casa

ella ti amava e andò via.

Onta il tuo bimbo in culla,

ed  è un bambino di neve

che sta anelando il tuo sangue.

Su, corri  in  fretta a cercarla

per  consegnarmela  nuda,

perché le mie sete possano,

filo per filo, a una a una,

aprire la rosa che occulta

il ventre di carne d'oro.

Giovane.     Dovrò vivere.

Manichino. Senza più attesa.

Giovane.   Canta il mio bimbo in culla

ed  è un bambino di neve

che attende aiuto e calore.

Manichino  Dammi  la vestina.

Giovane      (con dolcezza)  No.

Manichino  (strappandogliela)

La voglio.

Mentre tu la cerchi e vinci,

io canterò una canzone

sulle tue tenere rughe.  (Lo bacia.)

Giovane.    Su, dimmi. Dov'è?

Manichino. Nella via.

Giovane.     Prima che la rossa luna

lavi con sangue d'eclissi

il suo perfetto  profilo,

verrò con la vera mia donna,

nuda e tremante d'amore.

La luce è d'un azzurro intenso. Da sinistra entra la Cameriera con un candeliere e la scena torna soave­mente alla sua luce normale; riappare il chiarore az­zurro dei balconi spalancati sul fondo. All'ingresso della Cameriera, il Manichino s'irrigidisce in un atteggiamento da vetrina, con la lesta un po' piegata da un lato e le mani alzate in un gesto deli­catissimo.

Sempre con aria compunta e guardando verso il Gio­vane, la Cameriera posa il candeliere sul piano della toletta.

In quest'istante,  da una porta sulla destra, appare il Vecchio.  La luce aumenta.

Giovane      (stupito)  Voi?

Vecchio.    Sì, io.

Dà segni di viva agitazione e si porta la mano al petto. Ha in mano un fazzoletto di seta. La Cameriera esce rapidamente.

Giovane      (aspro)  Non ho bisogno di voi.

Vecchio.    Altro che! Ora più che mai. Mi hai ferito. Per­ché hai voluto salire? Io sapevo già ciò che sarebbe accaduto.  Ahi!...

Giovane      (con dolcezza)  Che avete?

Vecchio     (energico)  Nulla. Non ho nulla. Sì, una ferita... ma il sangue si dissecca e ciò che è passato è passato.

Il Giovane s'avvia per uscire.

Dove vai?

Giovane      (contento)  A cercare.

Vecchio.    Chi?

Giovane.     Colei che mi ama. Voi l'avete vista in casa mia, vi ricordate?

Vecchio.    Non  ricordo.  Aspetta un  po'.

Giovane.     Oh, no. Subito.

Il Vecchio lo prende per un braccio.

Padre         (entrando)  Figlia mia. Dove sei? Figlia mia.

Si ode il clacson dell'automobile.

Cameriera        (al  balcone)  Signorina! Signorina!

Padre         (andando al balcone)  Aspetta, figlia mia; aspetta! (Esce.)

Giovane.     Me ne vado anch'io. Anch'io cerco come lei il nuovo fiore del mio sangue. (Esce correndo.)

Vecchio.   Aspetta! Aspetta! Non lasciarmi così, ferito. Aspetta, aspetta. (Esce; la sua voce va perdendosi.)

Cameriera  (entra rapidamente, prende il candeliere e torna al balcone)  Ahi, Dio mio. Dio mio, la signorina!

Si ode  in lontananza il clacson.

Manichino. L'anello mio, signore;  l'anello mio d'oro vecchio,

(pausa)

sprofondò  nelle  sabbie  dello specchio.

Chi metterà il mio abito? Chi se lo metterà?

(Pausa.  Piangendo)

Se lo metterà l'acqua del fiume per sposarsi col mar.

(Sviene e rimane disteso sul sofà.)

Voce (fuori)  Aspettaaaa!


ATTO TERZO

QUADRO PRIMO

Boschi. Grandi tronchi. Al centro, un teatro circondato di cortine barocche, col sipario abbassato. Una scaletta unisce il piccolo palcoscenico allo scenario. Quando si alza il sipario passano fra i tronchi due figure vestite di nero, con le facce bianche di gesso e le mani bianche. Suona una musica lontana.

Entra l'Arlecchino. Veste di nero e verde. Ha due maschere, una per mano, che nasconde dietro la spalla. Ha una mimica plastica, da ballerino.

Arlecchino.    Il sogno va sopra il tempo

come un veliero ondeggiante.

Nessuno può aprire semi

dentro il cuore del sogno.

(Si mette una maschera dall'espressione gioconda.)

Ah, come canta l'alba, come canta!

E che lastre di ghiaccio azzurro inalza!

(Si toglie la maschera.)

Il tempo va sopra il sogno

immerso fino ai capelli.

Ieri e domani mangiano

oscuri fiori di lutto.

(Si mette una maschera dall'espressione addormentata.)

Ah, come canta l'alba, come canta!

E che spessori d'anemoni inalza!

(Se la toglie.)

Sopra la stessa colonna

s'abbracciano sogno e tempo,

il vagito del bambino

la rotta lingua del vecchio.

(Con una maschera)

Ah, come canta l'alba, come canta!

(Con  l'altra.)

E che spessori d'anemoni inalza!

Da questo momento, per tutto l'atto e in calcolati in­tervalli sempre più lunghi, si sentono echeggiare nel fondo gravi trombe di caccia.

Appare una Fanciulla vestita di nero, con una tunica greca. Va saltando con una ghirlanda.

Fanciulla.  Chi lo dice,

chi lo direbbe?

M'aspetta il mio amante

nel fondo del mar.

Arlecchino (buffo)

È bugia!

Fanciulla.  È verità.

Perduto ho il desio,

perduto ho il ditale

e fra i grandi tronchi

li ho ritrovati.

Arlecchino (ironico)

Una corda lunga lunga,

una corda per calare.

Fanciulla.  I pesci, gli squali,

i rami di corallo.

Arlecchino.     È nel fondo.

Fanciulla. Molto in fondo.

Arlecchino.     Addormentato.

Fanciulla.      È nel fondo.

Bandiere d'acqua verde

lo  spingono al mare.

Arlecchino                 (ad alta voce, buffo)

È bugia!

Fanciulla   (ad alta voce) 

È verità.

Ho perso la corona,

ho perso il ditale,

e al mezzo giro

li ho ritrovati.

Arlecchino.     Subito.

Fanciulla.  Ora?

Arlecchino.    Il tuo amante rivedrai

al mezzo giro

del vento e del mare.

Fanciulla   (spaventata)

È bugia!

Arlecchino.   È verità.

Te lo darò io.

Fanciulla (inquieta)

No, non me lo darai.

Al mondo del mare

non si arriva mai.

Arlecchino      (a voce alta, come se stesse nel circo)

Signor uomo, venga fuori.

Appare uno splendido Pagliaccio ricoperto di lustrini. La testa incipriata darà l'impressione d'un teschio. Ride con grandi scoppi.

Arlecchino.    A questa fanciullina

bisogna dare

il suo fidanzato del mare.

Pagliaccio       (si rimbocca le maniche)

Portatemi una scala.

Fanciulla   (spaventata)

Davvero?

Pagliaccio       (alla Fanciulla)

Per scendere.  (Al pubblico)

Buona sera.

Arlecchino.   Bravo!

Pagliaccio       (all'Arlecchino)

Tu, guarda da quella parte.

Arlecchino si volta ridendo.

Su, suona!  (Batte le palme.)

Arlecchino  suona  un  violino  bianco  con  due  corde d'oro. Dev'essere grande e schiacciato. Segna il ritmo col capo.

Lo vedi dove sta?

Arlecchino (atteggiando la voce)

Tra le fresche alghe

io vado a caccia

di grandi chiocciole

e gigli di sale.

Fanciulla   (spaventata)

Non voglio.

Pagliaccio.      Silenzio!

Arlecchino ride.

Fanciulla   (con timore, al Pagliaccio)

Me ne andrò a saltare

fra l'erbe alte.

Arlecchino (giocoso)

È  bugia!

Fanciulla.  È verità. (Al Pagliaccio)

Poi ce ne andremo

all'acqua del mare.

(Comincia a ritirarsi piangendo.)

Chi lo dice?

Chi lo dirà?

Ho perduto la corona,

e ho perduto il ditale.

Arlecchino (malinconico)

Al mezzo giro

del vento e del mare.

La Fanciulla esce.

Pagliaccio (indicando)

Là.

Arlecchino.    Dove? A far che?

Pagliaccio.      A recitare.

Un  bambino  piccolo

che vuole cambiare

in fiori d'acciaio

il suo pezzo di pane.

Arlecchino.   È bugia!

Pagliaccio  (severamente)

È verità.

Arlecchino (assumendo un atteggiamento da circo, e co­me se il bambino stesse li a sentirlo)

Signor uomo, venga. 

(Comincia a ritirarsi.)

Pagliaccio       (urlando e guardando verso il bosco, mentre si avvicina all'Arlecchino)

Non gridare tanto.

Buon giorno.

(A bassa voce)

Su.

Suona.

Arlecchino.   Che cosa?

Pagliaccio.      Un valzer.

L' Arlecchino comincia a suonare.

(A voce alta)

Più presto.

(A voce alta)

Signori,

ora vi dimostrerò...

Arlecchino.    Che in nuvole d'avorio

li   ritrovò.

Pagliaccio.      Ora vi dimostrerò... (Esce.)

Arlecchino (uscendo)

Il mare e la ruota

del vento che gira.

Si odono le trombe. Appare la Dattilografa con un abito da tennis sotto un lungo mantello e un basco di colore intenso. E in compagnia della la Maschera, che porta un abito novecento con lungo strascico d'un giallo rab­bioso, serica chioma gialla che le cade come un man­tello, e una maschera bianca di gesso; guanti dello stesso colore, che le arrivano sino ai gomiti. Ha un cappello giallo e il petto cosparso di lustrini d'oro. Questo per­sonaggio dovrà produrre l'effetto d'una fiammata sul fondo di azzurrità lunare e di tronchi notturni. Parla con un leggero accento italiano.

Maschera   (ridendo)  È  delizioso!

Dattilografa. Me ne andai da casa sua. Ricordo che la sera che me ne andai c'era un gran temporale estivo. Era morto il figlio della portinaia e lui mi disse: Mi hai chiamato? E io gli risposi socchiudendo gli occhi: No. E poi sulla porta mi disse: Hai bisogno di me? e io gli dissi: No, non ho bisogno di te.

Maschera. Magnifico!

Dattilografa. Stava in piedi tutte le notti aspettando che io mi affacciassi alla finestra.

Maschera. E lei, signorina dattilografa?

Dattilografa. Non mi affacciavo. Però... lo vedevo da die­tro le imposte. Se ne stava immobile (tira fuori un faz­zoletto)  e con certi occhi... L'aria entrava come un col­tello, ma io non gli potevo parlare.

Maschera. Perché, signorina?

Dattilografa. Perché mi amava troppo.

Maschera. Oh, Dio mio! Proprio come il conte Arturo, l'italiano. Oh, amore!

Dattilografa. Sì?

Maschera. Nel foyer dell'Opera di Parigi ci sono delle enormi balaustrate che dànno sul mare. Il conte Arturo, con una camelia fra le labbra, se ne veniva in barchetta col suo bambino, perché li avevo abbandonati tutt'e due. Ma io scostavo le tendine e gettavo loro un diamante. Oh, che dolcissimo tormento, amica mia! (Piange.)  Il conte e suo figlio soffrivano la fame e dormivano fra i cespugli con un levriero che mi aveva regalato un signore dalla Russia. (Energica e supplichevole)  Non hai un pez­zo di pane per me? Non hai un pezzo di pane per mio figlio? Per il bambino che il conte Arturo lasciò morire nella brina... (Con agitazione)  E poi andai all'ospedale, e lì seppi che il conte si era sposato con una gran dama romana... e poi ho chiesto l'elemosina e ho spartito il mio letto con gli uomini che scaricano il carbone sui moli.

Dattilografa. Che dici? Perché parli?

Maschera   (placandosi)  Dico che il conte Arturo mi amava tanto che piangeva dietro le cortine col suo bambino, mentre io ero come una mezzaluna d'argento, fra i binocoli e le lampade a gas che brillavano sotto la cupola dell'Opera di Parigi.

Dattilografa. Squisito. E quand'è che verrà il conte?

Maschera. Quando verrà il tuo amico?

Dattilografa. Tarderà ancora.

Maschera. Anche Arturo tarderà. Nella mano destra ha una ferita di pugnale che gli fecero... per me. (Mostran­do la mano)  La vedi? (Mostrando il collo)  E un'altra qui, vedi?

Dattilografa. Sì, ma... Perché?

Maschera. Perché? E che faccio io senza ferite? Di chi sono le ferite del mio conte?

Dattilografa. Son tue, è vero. Sono cinque anni che mi aspetta, ma... Com'è bello aspettare con certezza il mo­mento d'essere amate.

Maschera. Ed è una cosa sicura.

Dattilografa. Altro che. Ci sarà da divertirsi. Io da bam­bina conservavo i dolci per mangiarli dopo.

Maschera. Ah, ah, ah! Sì, eh? Si gustano di più.

Suonano le trombe.

Dattilografa (uscendo)  Se venisse il mio amico - è alto, coi capelli ricci, ma ricci in un modo speciale - tu fa' finta di non sapere chi è.

Maschera. Naturalmente, amica mia. (Raccoglie lo stra­scico.)

Appare il Giovane. Porta un abito da campagna, coi calzettoni.

Arlecchino (entrando)  Beh?

Giovane.     Cosa?

Arlecchino. Dove va?

Giovane.     A casa mia.

Arlecchino (ironico)  Sì?

Giovane.     Si capisce. (Fa per proseguire.)

Arlecchino. Ehi! Di lì non può passare.

Giovane.     Hanno interrotto la strada?

Arlecchino. C'è il circo.

Giovane.     Sta bene. (Si volta.)

Arlecchino. Ci sono molti spettatori. (Con gentilezza)  Il signore non vuole entrare?

Giovane.     No.

Arlecchino (enfatico)  Il poeta Virgilio costruì una mosca d'oro e fece morire tutte le mosche che appestavano l'aria di Napoli. Lì dentro, nel circo, c'è tanto oro fuso quanto basta per farne una statua delle dimensioni... sue.

Giovane.     Non si passa neanche dal viale degli ontani?

Arlecchino. Ci sono i carri e le gabbie dei serpenti.

Giovane.     Allora torno indietro.  (Fa per ritirarsi.)

Pagliaccio       (entrando dalla parte opposta)  Dove va lei?

Arlecchino. Dice che va a casa sua.

Pagliaccio       (dando ad Arlecchino uno schiaffo da circo)  Eccoti la casa.

Arlecchino (cade a terra gridando)  Ahi, come mi fa male! Come mi fa male!

Pagliaccio       (al Giovane)  Venga qui.

Giovane      (irritato)  Mi vuol dire che scherzo è questo? Io ero diretto a casa mia, cioè non a casa mia, a un'altra casa, a...

Pagliaccio       (interrompendolo)  A cercare...

Giovane.     Sì, dovevo cercare...

Pagliaccio       (allegro)  Fa' mezzo giro e troverai.

Voce della Dattilografa (cantando)

Dov'è che vai, amor mio,

amor mio,

col vento in un bicchiere

e il mare in  una bottiglia?

L'Arlecchino si è alzato. Il Giovane è voltato di spalle.

L'Arlecchino e  il Pagliaccio  escono camminando all'indietro in punta di piedi e facendo un passo di danza,   col dito sulle labbra.

Giovane      (meravigliato)

Dov'è che vai, amor mio,

vita mia, amor mio,

col  vento  in  un  bicchiere

e il mare in una bottiglia?

Dattilografa (apparendo)

Dove? Dove mi chiamano.

Giovane.     Vita mia!

Dattilografa. Con te.

Giovane.     Ioti porterò nuda,

fiore secco e corpo puro,

dove ti  attendono sete

che  tremano  dal  freddo.

Bianche   lenzuola   t'aspettano.

Andiamo presto, ora stesso.

Prima che gialli  usignuoli

gemano sopra i  rami.

Dattilografa. Sì:  il sole è uno sparviero.

Anzi, un falco di vetro.

No:  il sole è un grande tronco

e tu sei  l'ombra  d'un  fiume.

Se tu m'abbracci è impossibile

che  giunchi  e gigli  non  nascano,

e le tue labbra non stingano

il colore del mio abito.

Amore,  portami al monte

di rugiada e di nuvole,

per vederti grande e triste,

o cielo mio addormentato.

Giovane.     Non dir così, bimba. Andiamo.

Non amo il tempo perduto.

Un  sangue fervido e  puro

mi chiama lungi  di qui.

Voglio vivere.

Dattilografa. Con chi?

Giovane.     Con te.

Dattilografa. Cos'è che risuona lontano?

Giovane.     Amore,

il giorno che torna, amore mio.

Dattilografa   (gaia e trasognata)

Un usignuolo canta,

un usignuolo triste della sera

sopra il ramo dell'aria,

sulla lira del telegrafo.

T'ho  sentito,  usignuolo.

Voglio vivere.

Giovane.     Con chi?

Dattilografa. Con l'ombra d'un fiume.

(Inpena, rifugiandosi sul petto del Giovane.)

Cos'è che risuona lontano?

Giovane.     Amore,

il sangue nella gola, amore mio.

Dattilografa. Sempre così, sempre,

addormentati o desti.

Giovane.     No, mai così, mai, mai.

Andiamo via di qui.

Dattilografa. Aspetta.

Giovane.     L'amore non  aspetta.

Dattilografa   (si scioglie dal Giovane)

Dove vai, amor mio,

col vento in un bicchiere

e il mare in una bottiglia?

(Si dirige verso la sedia.)

Scorrono le cortine del teatrino e appare la biblioteca del primo atto, ma rimpiccolita e coi volumi sbiaditi. Sulla piccola scena appare la Maschera gialla, con un fazzoletto di pizzo in matto, e aspira continuamen­te una boccetta di sali.

Maschera   (alla Dattilografa)  Proprio ora ho lasciato il conte per sempre. È  rimasto là dietro, col suo bambino. (Discende la scala)  Son certa che ne morrà. Ma mi ha amato tanto, tanto. (Piange. Alla Dattilografa)  Non lo sapevi? Suo figlio morrà sotto la brina. L'ho lasciato. Non vedi come son contenta? Non vedi come rido? (Piange.)  Ora mi cercherà dappertutto. (Si stende per terra.)  Ma io mi nasconderò fra i rovi, (a voce alta)  fra i rovi. Parlo così perché non voglio che Arturo mi senta. (A voce alta)  Non voglio. Te l'ho già detto che non ti voglio. (Se ne va piangendo.)  Che tu ami me, sì; ma che io ami te, no.

Appaiono due servi dalle facce pallidissime sulle livree azzurre e depongono alla sinistra dello scenario due sgabelli bianchi. Sulla piccola scena passa il Domestico del primo atto, sempre camminando in punta di piedi.

Dattilografa (al Domestico, salendo la scaletta del pic­colo palcoscenico)  Se viene il signore, fatelo passare. (Sul piccolo palcoscenico.)  Ma non verrà se non quando deve venire.

Il Giovane  comincia a salire lentamente la scaletta.

Giovane      (sul piccolo palcoscenico, appassionalo)  Sei con­tenta qui?

Dattilografa. Hai scritto le lettere?

Giovane.     Di sopra si sta meglio. Vieni.

Dattilografa. Ti ho amato tanto.

 Giovane.    Ti amo tanto.

Dattilografa. Ti amerò tanto.

Giovane.     Senza di te mi sembra di agonizzare. Dove an­drei se tu mi lasciassi? Non ricordo nulla. L'altra non esiste; tu si che esisti, perché mi ami.

Dattilografa. Ti ho amato, amore. Ti amerò sempre.

Giovane.     Adesso...

Dattilografa. Perché dici adesso?

Appare sullo scenario il Vecchio. È vestito di blu. con in matto un grati fazzoletto bianco macchiato di sangue, che si porta al petto e al viso. Dà segni di agitazione e osserva lentamente ciò che avviene sul piccolo   palcoscenico.

Giovane.     Ioaspettavo e morivo.

Dattilografa. Iomorivo per aspettare.

Giovane.     Ma il sangue batte alle tempie con le sue nocche di fuoco, e ora ti ho qui finalmente.

Voce          (fuori)  Mio figlio, mio figlio!

Attraversa la scena il bambino morto. È solo ed esce dalla porta di sinistra.

Giovane.     Sì. Mio figlio. Corre dentro di me come una formica solitaria dentro una cassa chiusa. (Alla Datti­lografa)  Un po' di luce per mio figlio, per favore. È così piccolo! Schiaccia il nasino contro il cristallo del mio cuore, ma gli manca l'aria.

Maschera gialla (apparendo sullo scenario grande)  Mio figlio! Entrano altre due maschere che assistono alla scena.

Dattilografa (brusca e imperiosa)  Hai scritto le lettere? Non è tuo figlio, sono io. Tu aspettavi e mi hai lasciata andar via, ma pensavi sempre d'essere amato. Non è forse vero ciò che dico?

Giovane      (impaziente)  Sì, ma...

Dattilografa. Ioinvece lo sapevo che non mi avresti amata mai. E tuttavia ho elevato il mio amore e ti ho trasformato e ti ho visto in ogni angolo della mia casa. (Appassionata)  Ti amo, ma lontana da te. Sono scappata tanto che ho bisogno di contemplare il mare per po­termi accorgere della trepidazione della tua bocca.

Vecchio.    Perché se lui ha venti anni, può anche avere venti lune.

Dattilografa (poetica)  Venti rose, venti bussole di neve.

Giovane      (adirato)  Taci. Tu verrai con me. Perché mi ami e io devo vivere.

Dattilografa. Sì, ti amo, ma molto di più. Tu non hai occhi  per  vedermi   nuda,  né  bocca   per  baciare   il   mio corpo  che   non   finisce  mai.   Lasciami.   Ti   amo   troppo per poterti contemplare.

Giovane.     Non un minuto di più.  Andiamo.   (La prende per i polsi.)

Dattilografa. Mi fai male, amore.

Giovane.     Così mi sentirai.

Dattilografa  (con dolcezza)  Aspetta...  Verrò...  Sempre. (Lo abbraccia.)

Vecchio.    Ella verrà. Siediti, amico mio.

Giovane      (angosciato)  No.

Dattilografa. Sono altissima. Perché mi  lasciasti? Sarei morta di freddo e dovetti cercare il tuo amore dove non c'è  gente.   Ma  starò con  te.   Lasciami   scendere  fino  a te a poco a poco.

Appaiono il  Pagliaccio  e  l'Arlecchino.  Il  Pagliaccio ha una cortina e l'Arlecchino un  violino  bianco. Si siedono sugli sgabelli.

Pagliaccio.      Una musica.

Arlecchino.     Di anni.

Pagliaccio.      Luna e mari non aperti.

Che rimane?

Arlecchino.     Il sudario dell'aria.

Pagliaccio.      E la musica del tuo violino.

Giovane      (uscendo dal sogno)  Andiamo.

Dattilografa. Sì... Ma potrai esser tu? Così, all'improv­viso, senza avere assaporato lentamente questo dolce pensiero: sarà per domani? Non hai pietà di me?

Giovane.     Lassù è come un nido. Si sente cantare l'usi­gnuolo... e quand'anche non si sentisse, quand'anche il pipistrello battesse contro i cristalli...

Dattilografa. Sì, ma...

Giovane      (impetuoso)  La tua bocca.  (La bacia.)

Dattilografa. Più tardi.

Giovane      (appassionato)  È meglio di notte.

Dattilografa. Ioverrò.

Giovane.     Non dobbiamo tardare.

Dattilografa.  Iovoglio... Senti...

Giovane.     Andiamo.

Dattilografa. Ma...

Giovane.     Dimmi.

Dattilografa. Ioverrò con te.

Giovane.     Amore!

Dattilografa  (con timore)  Ma dobbiamo aspettare cin­que anni.

Giovane      Ah!  (Si porta la mano alla fronte.)

Vecchio     (a bassa voce)  Bene!

Il Giovane comincia a scendere lentamente la scaletta. La Dattilografa rimane sullo scenario in un atteggia­mento estatico. Entra il Domestico in punta di piedi e la copre con un grande mantello bianco.

Pagliaccio.      Una musica.

Arlecchino.     Di anni.

Pagliaccio.      Lune e mari non aperti.

Che rimane?

Arlecchino.     Il sudario dell'aria.

Pagliaccio.      E la musica del tuo violino.

Suonano.

Maschera. Il conte bacia.

Vecchio.    Camminiamo per non arrivare, ma camminiamo.

Giovane      (disperato, al Pagliaccio)

Dov'è l'uscita?

Dattilografa  (come in sogno, sul piccolo palcoscenico)

Amore, amore!

Giovane      (estenuato)

Indicatemi la porta.

Pagliaccio (ironicamente, indicando la sinistra)

Di là.

Arlecchino (indicando la destra)

Di là.

Dattilografa. Ti aspetto, amore. Torna presto.

Arlecchino (ironico)

Di là.

Giovane      (al Pagliaccio)

Ti romperò le gabbie e i teli.

Son capace di saltare il muro.

Vecchio     (con angoscia)

Di qua.

Giovane.     Voglio tornare. Lasciami.

Arlecchino.     Rimane il vento.

Pagliaccio.      E la musica del tuo violino.

QUADRO SECONDO

La stessa biblioteca del primo atto. A sinistra, l'abito nuziale messo su un manichino senza testa e senza mani. Alcune valige aperte. A destra un tavolo.

Entrano il Domestico e la Domestica.

Domestica       (stupita)  Davvero?

Domestico.      Ora fa la portiera, ma prima era una gran signora. È vissuta molti anni con un conte italiano ric­chissimo, padre del bambino che ora hanno  seppellito.

Domestica.      Poverino! Come l'avevano accomodato bene!

Domestico.      È da quel tempo che le viene la sua mania di grandezza. Tutto quello che aveva l'ha speso nelle robe e nella cassa per il bambino.

Domestica.      E in fiori. Io le ho portato un mazzetto di rose, ma erano così piccole che non le hanno nemmeno messe nella camera.

Giovane      (entrando)  Giovanni.

Domestico. Signore.

La Domestica esce.

Giovane.     Dammi un bicchiere d'acqua fresca. (L'aspetto del Giovane  manifesta sconforto e prostrazione fisica.)

Il Domestico lo serve.

Giovane.     Non era molto più grande quella finestra?

Domestico. No.

Giovane.     È strano che sia cosi stretta. La mia casa aveva un patio enorme dove io giocavo coi miei  cavallucci. Quando l'ho rivisto a vent'anni, era così piccolo chenon mi sembrava possibile che io abbia potuto corrervi tanto.

Domestico. Il signore sta bene?

Giovane.     Sta forse bene una fontana che getta acqua? Rispondi.

Domestico. Non so.

Giovane.     Sta bene una banderuola che gira come vuole il vento?

Domestico. Il signore fa dei paragoni... Io invece vorrei chiederle, se il signore permette... E il vento sta bene?

Giovane      (brusco)  Sto bene.

Domestico. S'è riposato abbastanza dopo il viaggio?

Giovane.     Sì.

Domestico (ritirandosi)  Me ne rallegro moltissimo.

Giovane.     È pronta la mia roba, Giovanni?

Domestico. Sì, signore. £ nella sua camera.

Giovane.     Che abito hai preparato?

Domestico. Il frac. L'ho steso sul letto.

Giovane      (sovreccitato)  Toglilo immediatamente. Non vo­glio salire e trovarmelo disteso su un letto così grande e deserto. Non so chi ha avuto l'idea di comprarlo, quel letto. Io ne avevo prima uno piccolo, ricordi?

Domestico.   Sì, signore. Quello di noce intagliato.

Giovane.     Appunto, quello di noce intagliato. Come ci si dormiva bene! Ricordo che quand'ero bambino vidi sor­gere dai suoi piedi una luna enorme. O fu dalle infer­riate del balcone? Non so. Che se n'è fatto?

Domestico. Il signore lo regalò.

Giovane      (cercando di ricordare)  A chi?

Domestico. Alla sua dattilografa di un tempo.

Il Giovane resta pensieroso. Pausa.

Giovane      (facendo segno al Domestico che se ne vada)  Sta bene.

Il Domestico esce.

Giovane      (con angoscia)  Giovanni!

Domestico       (severo)  Signore.

Giovane.     Avrai messo fuori le scarpe di vernice.

Domestico. Quelle coi nastri di seta nera.

Giovane.     Seta nera...  Sì...  Trovane delle altre...   (Alzandosi)  È possibile che in questa casa l'aria sia sempre rarefatta? Toglierò tutti i fiori dal giardino, soprattutto quei maledetti oleandri che saltano dai muri, e quell'erba che spunta da sola a mezzanotte...

Domestico. Dicono che anemoni e papaveri in certe ore del giorno facciano venire mal di capo.

Giovane.     Dev'essere così. Pòrtati via anche questo (indicando il cappotto). Puoi metterlo in soffitta.

Domestico. Benissimo. (S'avvia per uscire.)

Giovane      (con timidezza)  E lascia pure le scarpe di verni­ce. Ma cambia i nastri.

Suonano il campanello.

Domestico  (uscendo)  Sono i signorini che vengono per giocare.

Giovane      (infastidito)  Ah!

Domestico  (sulla porta)  Il signore deve vestirsi.

Giovane      (uscendo)  Sì.   (Esce come un'ombra.)

Entrano i giocatori. Sono tre. Indossano il frac con cappe di raso bianco lunghe sino ai piedi.

1° giocatore. Fu a Venezia. Era una cattiva annata di gioco. Ma quel giovanotto giocava veramente. Era così pallido che all'ultima giocata non gli restava più che giocare l'asso di cuori. Il suo cuore pieno di sangue. Lo gettò, e quando stavo per prenderlo per... (si guarda intorno), aveva un asso di coppe che traboccava dagli orli e bevendovi dentro fuggì per il Canal Grande in compagnia di due ragazze.

2° giocatore. Non bisogna fidarsi della gente pallida o della gente tediata. Giocano, ma con riserve.

3° giocatore. Io ho giocato in India con un vecchio che quando ormai non aveva più neanche una goccia di san­gue sulle carte, e stavo aspettando il momento per get­tarmi su di lui, tinse tutte le coppe di rosso con un'ani­lina speciale e riuscì a dileguarsi fra gli alberi.

1° giocatore. Giochiamo e vinciamo; ma che fatica ci costa! Le carte bevono sangue generoso dalle mani ed è difficile tagliare il filo che le unisce.

2° giocatore. Ma credo che con questo qui... non sbaglieremo.

3°  giocatore.   Non lo so.

1° giocatore (al 2°)  Non imparerai mai a conoscere i tuoi clienti. Questo qua? La vita gli fugge dalle pupille che bagnano la linea delle labbra e gli tingono di az­zurro il  pettino del frac.

2° giocatore. Sì, ma ricordati del bambino con cui gio­cammo in Svezia. Era quasi agonizzante, e per poco non ci  accecava  tutt'e  tre  col  fiotto  di  sangue che  sprizzò.

3° giocatore. Mano ai ferri. (Tira fuori un mazzo di carte.)

2° giocatore. Bisognerà trattarlo con molta dolcezza per­ché non reagisca.

3° giocatore. Per quanto né la signorina dattilografa né l'altra verranno qui prima che siano passati cinque anni, se verranno.

2° giocatore  (ridendo)  Se verranno! Ah! Ah!

1° giocatore. Ad ogni modo non sarà male fare un gioco più sbrigativo.

2° giocatore. Lui ha ancora un asso.

3° giocatore. Un cuore giovane su cui è probabile che le frecce scivolino.

1° giocatore (soddisfatto e profondo)  Io le mie frecce posso piantarle in un tiro a bersaglio.

2° giocatore (con curiosità)  Dove?

1° giocatore (per scherzo)  In un tiro a bersaglio, ho detto. E non soltanto sul più duro acciaio, ma sulla garza più fina. E questo si che è difficile.

Ridono.

2° giocatore. Infine, vedremo.

Appare il Giovane, vestito in frac.

Giovane.     Signori. (Dà la mano ai presenti.)  Siete venuti troppo presto. Fa molto caldo.

1° giocatore. Non tanto.

2° giocatore   (al Giovane)  Elegante come sempre.

1° giocatore. Così elegante che non dovrebbe più spogliarsi.

3° giocatore. A volte gli abiti ci cadono cosi bene che non vorremmo più...

2° giocatore (interrompendo)  Che non ce li possiamo più strappare dal corpo.

Giovane      (seccato)  Troppo amabili.

Appare il Domestico con un  vassoio e dei bicchieri che depone sul tavolo.

Giovane.     Cominciamo?

I tre si siedono.

1° giocatore. Pronti?

2° giocatore   (a bassa voce)  Occhio!

3° giocatore.  Non  si siede?

Giovane.     No.  Preferisco giocare in  piedi.

1° giocatore.  In piedi?

2° giocatori:   (sottovoce)    Dovrai andarci molto dentro.

l° giocatore   (distribuendo   le   carte)   Quante?

Giovane.     Quattro.  (Le dà agli altri.)

3° giocatore  (sottovoce)   Passo.

Giovane.     Che carte gelide! Passo. (Le depone sul tavolo.)  E voi?

1° giocatore (a bassa voce)  Passo. (Ridistribuisce le carte.)

2°giocatore  (guardando  le  proprie  carte)   Magnifico.

3° giocatore   (guardando preoccupato le proprie carte)  Vediamo.

1° giocatore  (al Giovane)  Lei gioca?

Giovane      (contento)  Gioco.   (Getta una carta sul tavolo.)

1° giocatore  (energico)    Anch'io.

2° giocatore. Anch'io.

3° giocatore. Anch'io.

Giovane      (guardando sovreccitato una carta)  E allora?

I tre giocatori mostrano le loro carte.  Il Giovane si ferma e se le chiude in mano.

Giovane.     Giovanni, servi il liquore ai signori.

1° giocatore (con gentilezza)  Per cortesia, la carta.

Giovane      (angosciato)   Che liquore prendono?

2°giocatore  (con dolcezza)  La carta?

Giovane      (al 3° giocatore)  A lei piacerà certamente l'anice. È  un liquore...

3° giocatore. Per  favore,  la carta.

Giovane      (al Domestico che entra)  Come, non c'è whisky?

Appena entra il Domestico, i giocatori restano in si­lenzio, con le carte m mano.

Cognac, nemmeno?

1° giocatore (a bassa voce e di nascosto dal Domestico) La carta.

Giovane      (con angoscia)  Il cognac è un liquore per uo­mini che sanno sopportarlo.

2° giocatore   (energico, ma a bassa voce)  La carta.

Giovane.     O preferiscono chartreuse?  (Il Domestico esce.)

1° giocatore (in piedi e con forza)  Abbia la bontà di giocare.

Giovane.     Subito. Ma prima beviamo.

3° giocatore  (forte)   Bisogna giocare.

Giovane      (agonizzante)  Sì, sì. Un po' di chartreuse. È come una grande notte di luna verde dentro un castello in cui c'è un giovane con delle capre d'oro.

1° giocatore  (con forza)  Lei deve darci il suo asso.

Giovane      (a parte)  Il mio cuore.

2° giocatore (energico)  O vincere o perdere... Su, la sua carta.

3° giocatore. Andiamo!

1° giocatore. Faccia  gioco.

Giovane      (con dolore)  La mia carta.

1° giocatore.   L'ultima.

Giovane.     Gioco.  (Mette la carta sul tavolo)

In questo istante nei palchetti della libreria appare un "asso di cuori" illuminato. Il 1° giocatore tira fuori una pistola e spara senza rumore con una frec­cia. L' "asso di cuori" sparisce e il Giovane si porta la mano al cuore.

1° giocatore. Dobbiamo fuggire.

2° giocatore. Non c'è da perder tempo.

3° giocatore. Taglia, taglia  bene!

Il 1° giocatore con un paio di forbici dà delle sfor­biciate  nell'aria.

1° giocatore  (a bassa voce)  Andiamo.

2° giocatore. Presto!

Escono.

 

Giovane.     Giovanni,  Giovanni.

Eco.           Giovanni,  Giovanni.

Giovane      (agonizzante)  Ho perso tutto.

Eco.           Ho perso tutto.

Giovane.     Il mio amore.

Eco.           Il mio amore.

Giovane      (sul divano)  Giovanni.

Eco.           Giovanni.

Giovane.     Non c'è...?

Eco.           Non c'è...?

2° Eco        (più lontana)  Non c'è...?

Giovane.     Nessuno qui?

Eco.           Qui...

2° Eco.       Qui...

Il Giovane muore.

Appare il Domestico con un candeliere acceso. L'oro­logio suona le dodici.

(1931)