Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno

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BERTOLDO, BERTOLDINO E CACASENNO

Carlo Goldoni

Dramma Comico per Musica da rappresentarsi nel Teatro Giustiniano di S. Moisè il Carnovale

dell'Anno     .

AMICO LETTORE

BERTOLDO, Bertoldino e Cacasenno sono tre Personaggi che hanno meritate le rime de' più celebri Poeti Italiani, li quali in    bellissimi Canti hanno di questi tre successivi eroi formato, si può dire, un Poema. Ciò m'indusse a considerarli degni di comparir sulle Scene, per far mostra, se non dei loro fatti, almeno dei loro respettivi caratteri: cioè Bertoldo vecchio astuto, malizioso, sentenzioso e mordace; Bertoldino sciocco e goffo, ma però fornito di contadinesca malizia, facendolo io vedere non ragazzo, come andò la prima volta alla Corte, ma in età virile ed ammogliato, dicendo di lui l'Autore del canto decimo nono alla trigesima settima ottava:

Da che moglie si prese, è fatto accorto;

e Cacasenno in aria affatto di semplice e baccellone. Per unir insieme questi tre Soggetti mi conviene fare una spezie di anacronismo, rispetto a Bertoldo che non era vivo al tempo di Cacasenno, per quello si legge nel testo di Giulio Cesare Croce, ma spero mi sarà perdonato dal benigno Lettore, come fu tollerato quello di Enea con Didone inventato con felicità da Virgilio, e seguitato con tanto applauso dal celebre Metastasio.

Io ho concepito il desiderio di porre in teatro tutta la famiglia delli Bertoldi, onde ho con essi introdotta la Menghina, moglie di Bertoldino, avendo lasciata in pace la veneranda Marcolfa, perché niuna delle Signore Donne averebbe avuto piacere di avere un sì fatto nome, e di far la parte della nonna di Cacasenno.

Per salvar l'unità del luogo, fingesi che il re Alboino colla regina Ipsicratea, sua consorte, sia passato a villeggiare nel suo real Palazzo di Bertagnana, territorio Veronese e patria delli Bertoldi, come si legge nel canto primo, ottava   , dell'opera riferita.

L'unità del tempo è osservata, mentre nel giro di    ore può succedere quanto nella Favola si rappresenta.

L'azione consiste nell'arrivo delli Bertoldi al palazzo del Re, e nel ritorno all'albergo loro.

L'amore del Re per Menghina è l'epissodio che li fa andare alla Corte; le gelosie della Regina e di Aurelia sua cognata è l'epissodio che li fa tornare alla campagna.

Le burle, i travestimenti e le scioccherie di Cacasenno sono invenzioni per far ridere, che è l'unico oggetto di simili componimenti. Non mi son però servito delle inezie e puerilità descritte di Bertoldino dal Croce, e di Cacasenno dal Scaligeri, sembrandomi quelle poco adattate alla proprietà del Teatro, ma ne ho ritrovate dell'altre, ricavate dal testo della mia testa, le quali se non piaceranno, non sarà colpa degli eroici protagonisti, ma del Poeta.

A proposito del Poeta, fa egli la sua protesta che le frasi e le parole poetiche non hanno a che fare col cuore Cristiano; e che, se ha fatto un cattivo libro, in dieci giorni non l'ha saputo far meglio. Circa le arie, alcune sono figlie legittime e naturali del libro, altre adottate, altre spurie ed altre


adulterine, per commodo e compiacimento de' virtuosi, onde ecc.

Personaggi

IPSICRATEA regina.

La Sig. Livia Segantini. ALBOINO re, suo marito.

La Sig. Anna Bastiglia. AURELIA sorella del re.

La Sig. Redegonda Travaglia. ERMINIO suo sposo.

La Sig. Cattarina Baratti. MENGHINA moglie di Bertoldino.

La Sig. Maria Angiola Paganini. BERTOLDO

Il Sig. Carlo Paganini. BERTOLDINO

Il Sig. Francesco Carrattoli. CACASENNO

Il Sig. Giuseppe Cosmi. LISAURA figlia del re e della regina

La Sig... Bassani, d'anni  .

La Scena si rappresenta in Bertagnana, villaggio del territorio Veronese, in un palazzo del re Alboino, e nelle campagne alpestri circonvicine.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera nel Palazzo del Re.

Il Re, la Regina, Aurelia, Erminio. Paggi e Servi Reali.

CORO                               Amor discenda

Lieto e sereno;
Fecondo renda
D'Aurelia il seno,
E doni pace
D'entrambi al cor.
RE                         Germana, è questo il giorno

Fortunato per voi. Principe, alfine
Consolato sarete. Il vostro affetto,
Benché celato in petto,
Penetrai, non mi spiacque, e fui contento:
Delle vostre dolcezze ecco il momento.
REG.                     Principi, a parte anch'io

Son del vostro piacer. So quanto amaro
Sia il sospirar d'amore,
Quanto mi costi d'Alboino il core.
ERM.                     Sire, donna real, grazie a voi rendo

Per cotanta bontà. La cara sposa
Stringo contento al seno,
E di gioia e d'affetto ho il cor ripieno.
AUR.                     Io del real germano,

Della regia cognata ammiro e lodo L'alta clemenza, e del mio fato or godo.

CORO                               Amor discenda

Lieto e sereno; Fecondo renda D'Aurelia il seno, E doni pace D'entrambi al cor.

RE                         Amico, in questa alpestre

Parte romita, ove abitar io soglio Nella calda stagion, godremo in pace Giorni lieti e tranquilli. Io le regali Cure depongo, ed a cacciar le belve, Alle rustiche feste


Ed ai giochi innocenti mi preparo;

Ch'ogni piacer, qualor diletta, è caro.
REG.                     Tutto grato mi fia, nulla noioso,

Vicina al caro sposo.
AUR.                     Sempre lieto il mio cor mi balza in petto,

Quando sono vicina al mio diletto.
RE                         Bell'amor!

ERM.                                      Bella fé!

RE                                                         Che bell'amarsi

Senza il morso crudel di gelosia!
AUR.                     Non vuò la pace mia

Coi sospetti turbar.
REG.                                                     Sì, sì, godiamo,

Tutti fé, tutti amor, tutti costanza,

Lontani ormai dalla odierna usanza.
ERM.                     Siete forse gelosa?

REG.                                                   Io non so dirlo,

Io non giungo a capirlo;

Ma se meno mi amasse il caro sposo,

Giustamente il mio cor saria geloso.

Tanti provai tormenti,

Pria di trovarmi al caro laccio unita,

Che alfin pietoso amore

Non vorrà incrudelir contro il mio core.

Bastan gli affanni miei, Basta la pena mia, Senza che un tuo sospetto Turbi il mio dolce affetto, O gelosia crudel.

Perder saprei l'impero, Viver tra rie catene, Purché il mio caro bene Meco non sia infedel. (parte)

SCENA SECONDA Il Re, Aurelia ed Erminio

ERM.                     Ciò che si cela in cor, palesa il labbro.

La regina è gelosa.
RE                                                       Ah sì! pur troppo,

Mi crucia, mi tormenta;

L'amo, l'adoro, e mai non è contenta.
ERM.                     Deh per amor del cielo, Aurelia cara,

Non mi fate impazzir.
AUR.                                                       Bravo, mi piace.

Dunque dovrei con pace


Soffrir senz'aprir bocca?

Son giovinetta, è ver, ma non son sciocca.

Qualor di fiero ardore Sento avvamparmi il core, Non so soffrire in pace I torti del mio ben.

E ver, v'amo e v'amai, Ma non sperate mai Che tollerar io voglia La gelosia nel sen. (parte)

SCENA TERZA Il Re ed Erminio

RE                         Buon per noi che, lontani

Da femmine vezzose,

Le nostre donne non saran gelose.
ERM.                     Eh, qui pur vi sarebbe,

Tra le rustiche genti,

Qualche vaga beltà da far portenti.

Una, sire, ve n'è fra l'altre tante

Di soave sembiante,

Sì vaga e spiritosa,

Che la regina potria far gelosa.
RE                         E chi è costei?

ERM.                                             Menghina,

Moglie d'un certo Bertoldin, ch'è figlio

Del famoso Bertoldo, a voi ben noto,

Vecchio d'alta malizia e di gran senno;

Ed ha un figlio chiamato Cacasenno.
RE                         Facciamla a noi venir.

ERM.                                                         Ma non vorrei...

Intendiamoci ben.
RE                                                       No, prence, andate;

Tutta a me conducete

La rustica famiglia.

Divertirmi e non altro oggi pretendo.
ERM.                     V'obbedirò. (La commissione intendo).

Ma ecco che sen viene

Il buon vecchio Bertoldo. Egli ha saputo

Della vostra venuta;

E la sua mente astuta

Con qualche ritrovato

A venirvi a veder l'ha consigliato.
RE                         Quel villan s'introduca. (ad un Servo)

ERM.                     Io so ch'è impertinente,


Che sprezza il regio impero.
RE                         Innanzi a me non parlerà sì altero.

So che rustica gente Usar non sa delle creanze il modo; Ma so che col villan triste e briccone, Se la ragion non val, s'usa il bastone.

SCENA QUARTA Bertoldo e detti.

BER.                      Riverisco, o signor, con umiltà,

Non già per voi, ma la vostra Maestà.

RE                          Perché parli così?

BER.                                                   Perché, per dirla,

V'apprezzo come re di questo impero; Ma come uomo non vi stimo un zero.

RE                          Dunque, s'io non regnassi,

Meritar non potrei da te rispetto?

BER.                      Signor, vi parlo schietto:

Tutti nudi sian nati, Tutti nudi morremo; Levatevi il vestito inargentato, E vedrete che pari è il nostro stato.

ERM.                     Troppo libero parli.

BER.                                                     A me la lingua

Pel libero parlar formò natura: Quel che sento nel cor, dico a drittura. So che sincerità fra voi non s'usa, Che dalla Corte esclusa, La bella verità sen va raminga; So che convien che finga, Chi grazie vuol sperar dal suo sovrano; So che l'uomo da ben fatica invano. Io, che grazie non curo, Che insulti non pavento, Dico quel che mi pare e quel che sento.

RE                          (L'audacia di costui non è disgiunta

Da un maturo consiglio). Amico, io lodo La tua sincerità. Ti bramo in Corte. Vuoi tu meco venir?

BER.                                                     Venir in Corte?

S'io venissi colà, povero voi! Poveri i cortigiani! In poco tempo Scoprir vorrei, con il mio capo tondo, I vizi della Corte a tutto il mondo.

ERM.                     Di quai vizi favelli?

BER.                      Non mi fate parlar: segrete trame,


Maldicenze pungenti,

Calunnie, tradimenti,

Sdegni, amori, rapine e crudeltà...

Non mi fate parlar, per carità.
RE                         Puoi la lingua frenar?

BER.                                                        Non sarà mai.

Tutto tor mi potrebbe un re severo,

Ma non la libertà di dire il vero.
RE                         Adunque in povertà viver tu vuoi?

BER.                      Son più ricco di voi.

ERM.                     Come potrai dir ciò?

BER.                      Lo dico, e il proverò.

Il re non può far niente

Senz'oro e senza gente;

Io che raccolgo della terra il frutto,

Mangio e bevo a mia voglia, e faccio tutto.
RE                         Orsù, dimmi, che vuoi?

BER.                                                          Nulla.

RE                                                                       E a qual fine

Da me venisti?
BER.                                              A rimirar se il corpo

De' monarchi è diverso

Da quel di noi villani. Voi avete le mani,

E la testa e le gambe, come me.

Dunque tanto è il villano quanto il re.
ERM.                     Così parli al sovrano?

BER.                      Io parlo da villano;

E se un tale parlar vi dà dolore,

Io dunque me ne vado, e v'ho nel core.
ERM.                     Parti senza inchinarti?

RE                         E sdegni di cavarti il tuo cappello?

BER.                      Se scopro il mio cervello,

Poss'anco raffreddarmi,

Né la vostra Maestà potrà sanarmi.
RE                         Dunque siete sì rozzi?

Qua non s'usa fra voi la civiltà?
BER.                      Queste sono pazzie della città.

Quando s'incontrano

Per la città,

«Servo umilissimo,

Padron carissimo,

Il ciel la prosperi

Con sanità»;

E nel cor dicono,

«Possa crepar». Tutti si abbracciano,

Tutti si baciano,

E si vorrebbero

Tutti scannar. (parte)

SCENA QUINTA Il Re ed Erminio

RE                         Non mi spiace costui. Felice il mondo,

Se parlasse ciascun con libertà.

Povera verità da noi sbandita!

Eccola in questa parte erma e romita.

Deh procurate, amico,

Che a me torni Bertoldo, e seco venga

Tutta la sua famiglia.
ERM.                                                       Anco Menghina?

RE                         Già s'intende.

ERM.                                           Sì, sì, capisco adesso,

Povera verità da noi sbandita!

Eccola in questa parte erma e romita.
RE                         Ma non crediate già...

ERM.                                                       Son buon amico;

Difendetemi voi dalla regina,

E a' vostri piedi condurrò Menghina. (parte)

SCENA SESTA

Il Re solo.

Ah sì, pur troppo è ver, che di Menghina

Lo spirto e la beltà m'alletta e piace.

Mi ha rapita la pace.

Erminio non lo sa, crede che nuova

M'abbia agli occhi apparir la sua bellezza;

Ed è quest'alma ad adorarla avvezza.

Buon per me che finora

La regina mia sposa,

Pazzamente gelosa,

Non ha di quest'amor verun indizio,

Per altro andria la Corte a precipizio.

So che a troppo m'espongo

Volendola vicina al fianco mio;

Ma oimè, che il cieco dio

Comincia sul mio cor a prender forza,

E a poco a poco a delirar mi sforza.

Sento che nel mio seno Questo novello amore Stringe fra' lacci il core.


Oh Dio, trovassi almeno All'amor mio pietà! Temo che la bellezza Che far mi può contento, Non curi il mio tormento. La donna ai boschi avvezza Un re non amerà. (parte)

SCENA SETTIMA

Campagna vasta e montuosa sparsa di colline, con albero in mezzo isolato, e varie capanne, e rustici alberghi, con ponte levatore praticabile, che introduce nel Palazzo Reale.

Bertoldo a sedere, mangiando castagne. Bertoldino con la zappa, lavorando il terreno. Menghina filando. Cacasenno sopra un albero, raccogliendo frutti. Altri Villani e Villane sparsi

qua e là per la campagna, e cantano come segue.

TUTTI

Qua si fatica,

Qua si lavora,

Ma quando è l'ora,

Si mangierà.

Viva, cantiamo

La libertà.

BER.

Belle campagne!

Dolci castagne!

MENG.

Sia benedetta

La libertà.

BERTOL.

Con questa zappa

Cavo una rapa.

CAC.

Correte tutti: (dall'albero)

Che buoni frutti!

TUTTI

E quando è l'ora,

Si mangierà.

Viva, cantiamo

La libertà.

BER.

Sono, figliuoli,

Cotti i fagiuoli.

CAC.

Eccomi lesto,

Eccomi qua. (scende dall'albero)

BERTOL.

Oh che animale!

MENG.

T'hai fatto male?

CAC.

No, cara mamma, (a Menghina)

Caro papà. (a Bertoldino)

BER.

Cacasennino.

CAC.

Nonno bellino.


TUTTI

Viva, cantiamo

La libertà. (parte Bertoldo con i Villani e le Villane)

CAC.

Mamma, papà, vorrei...

BERTOL.

E che vorresti?

CAC.

Vorrei...

MENG.

Parla, asinaccio.

CAC.

Vorrei che mi donaste un castagnaccio.

MENG.

Va dal nonno, e l'avrai.

BERTOL.

Che bel ragazzo!

Tu sei molto ben fatto;

Pare appunto, Menghina, il mio ritratto.

MENG.

Veramente tu sei caro e bellino...

BERTOL.

Son il tuo Bertoldino;

Questo de' nostri amori è il dolce frutto:

Ora somiglia tutto

Anco al tuo viso bello,

Ed avrà con il tempo il mio cervello.

CAC.

Addio, mamma...

MENG.

Vien qua; cos'hai là dentro?

CAC.

Niente, niente.

MENG.

Briccone,

Lasciami un po' vedere.

Metti giù queste pere.

BERTOL.

Eh lascialo un po' stare.

MENG.

Lo faranno crepare.

CAC.

Eh mamma, no.

MENG.

Lasciale, dico, o ch'io ti batterò.

CAC.

Tenete, mamma brutta.

MENG.

A me questo, briccone!

Dov'è, dov'è un bastone?

Non voglio esser beffata.

Prenditi, mascalzone, una guanciata.

CAC.

Ahi, ahi, nol farò più.

Aiuto, mio papà,

La mamma ha dato a me.

Mai più, no, no, no, no,

Mai più dirò così. (parte)

SCENA OTTAVA

Bertoldino e Menghina

BERTOL.

Povero Cacasenno!

Non vuò che gli si dia.

MENG.

L'alleverai


Qualche cosa di buono. In questa guisa

Si rovinano i figli;

Se la madre i riprende,

Il padre li difende,

Se il padre li bastona,

La madre gli perdona.

L'uno all'altro nasconde il lor difetto,

E li rovinan poi per troppo affetto.

BERTOL.              Io non so tante istorie.

Sei troppo dottoressa. Ho inteso dir più volte da mio padre: «Delle femmine questa è la dottrina: L'ago, il fuso, la rocca e la cucina».

MENG.                  Son donna, è vero; è ver, son nata vile,

Ma ho spirto e cuor civile. Volesse il ciel che anch'io, Qual fu la madre tua saggia Marcolfa, Andar potessi in Corte. Io ti prometto Che vorrei mi portassero rispetto.

BERTOL.              Orsù, finché si cuociano i fagiuoli,

Lavoriamo anche un poco. Tu con la tua rocchetta, Ed io raccoglierò di questa erbetta.

MENG.                  Sì, lavoriamo, e intanto

Mi spasserò col canto.

Ciascun mi dice ch'io son tanto bella, Che sembro esser la figlia d'un signore, Chi m'assomiglia alla Diana stella, Chi m'assomiglia al faretrato Amore. Tutta la villa ognor di me favella, Che di bellezza porto in fronte il fiore. Mi disse l'altro giorno un giovinetto: «Perché non ho tal pulce nel mio letto?».

SCENA NONA

Erminio dal ponte levatore, frattanto che Menghina canta, scende e vien al basso. Poi

Bertoldino

ERM.                     Donna gentile e bella,

Ditemi, siete quella

Che sì dolce cantò?
MENG.                  (Con costui mi vergogno). Signor no.

ERM.                     Dunque chi fu?

MENG.                                          La nostra pecorara

Ch'abita qui vicina.
ERM.                     Eh via, cara Menghina,


     v'ho sentito con le orecchie mie.
Non istà ben a dir delle bugie.

BERTOL.              Chi è costui? cosa vuol?

ERM.                                                            Amico, io vengo

A ritrovarti d'ordine del re.
BERTOL.              Questo re, questo reo, che vuol da me?

ERM.                     Vuol che venghiate a Corte.

BERTOL.              E cos'è questa Corte? è maschio o femmina?

Si mangia o pur si semina?

Non l'ho veduta mai.
ERM.                     Vien meco, e la vedrai,

Ed in essa farai la tua fortuna.
BERTOL.              Io farò la fortuna? Oh questa è bella.

Tanti anni son che la fortuna è fatta.

Che ne dici, Menghina? Oh bestia matta!
MENG.                  Perdonate, signore,

La sua semplicità.
ERM.                                                  Nulla m'offendo;

So l'innocenza sua. Ma voi, Menghina,

Ricusate accettar la regia offerta?
MENG.                  Bertoldin, che ne dici?

Quel cavalier mi vuol guidar in Corte;

Sei contento ch'io vada?
BERTOL.              Non mi par buona strada.

Tu sei una villana,

E ti vorrian far far la cortigiana.
ERM.                     Male non sospettar. Starà Menghina

Presso della regina.
BERTOL.                                             Eh, signor caro,

Credete ch'io non sappia

Che le femmine accorte

Sanno far le mezzane anco al consorte?
ERM.                     Ma il re comanda, ed ubbidir tu dei.

BERTOL.              Che vuol dai fatti miei?

MENG.                                                        Via, Bertoldino,

Caro, caro, carino,

Andiamo un poco in Corte:

Forse migliorerem la nostra sorte.

Tutto il dì si fatica,

Facciam di noi strapazzo

Senza un po' di sollazzo, e finalmente

Poco si mangia e non si avanza niente.
BERTOL.              Sì, sì; sentito ho a dir che in la città

Che senza faticar sazia sue voglie

Col beneficio d'una bella moglie.

Ma io ti parlo schietto,

Povero esser vorrei, non poveretto.
MENG.                  Sciocco che sei! Per tutto,

Chi giudizio non ha, si rompe il collo.

     soverchio timor la donna offende;


E chi pazzo pretende

La donna tormentar con gelosia,

Quello gl'insegna a far che non faria
BERTOL.              Quando dunque è così, vattene pure.

MENG.                  Ancor tu dei venir.

BERTOL.                                           Verrò, ma prima

Voglio dal padre mio qualche consiglio,

E vuò meco condur anco mio figlio.
MENG.                  Sì, sì, ne avrò piacer.

ERM.                                                       Via, su, venite. (a Menghina)

Porgetemi la man.
BERTOL.                                           Non ha bisogno;

Sa camminar da sé.
MENG.                  Vuol la creanza

Che si vada all'usanza.

Benché tra boschi nata,

Del costume civil sono informata.

Io so quel che costumano

Le donne in la città:

Due cicisbei le servono

Un qua, l'altro di là.

La testa sempre in giro,

Qua un vezzo, là un sospiro,

Ma tutti due li mandano...

Voi m'intendete già. I cicisbei si credono

Di posseder quel core;

Ma un giorno poi si avvedono

Del concepito errore,

E poscia se la battono

Con tutta civiltà. (parte)

SCENA DECIMA

Bertoldino solo.

Ora son imbrogliato;

Vorrei andar, e non vorrei andare;

Partir vorrei... ma poi vorrei restare;

S'io vado innanzi al re, cosa farò?

Ei mi farà paura, io tremerò.

Ma se qui resto a far i fatti miei,

Senza di me cosa farà colei?

La mano in mia presenza

Gli dié senza licenza,

E parlare sarebbe una increanza...

Qualche più bella usanza


In Corte vi sarà su tal proposito. Ma s'io vado... e se vedo... e se mi scotta. Farò quel che da tanti a far io sento: Soffrirò, tacerò per complimento.

Sento, oimè, che il mio cervello Già mi sbalza in qua e in là;

10non vedo che mi faccia, Che mi dico, e dove sto.

11mio core poverello Pare un ferro già infocato; Tra l'incudine e il martello È battuto e martellato,

E riposo più non ha. Tuppe tu, ta, ta, pa, ta. S'ha da dir per sto contorno, Che Menghina se ne va? Ma perché? fammi capace, Bertoldino non ti piace? E pur ella se n'andrà. Ma c'è quest'altro imbarazzo, Che s'io parlo, sembro un pazzo, dirà tutta la gente: «Villanaccio, ben ti sta». (parte)

SCENA UNDICESIMA

Camera Reale.

La Regina, poi il Re e Servi.

REG.                     Possibile che tanto

Possa lungi da me star il mio sposo? Ahi, che meno amoroso io lo pavento. Un solo, un sol momento, Lasciar non mi solea. Pur troppo è vero: Dopo quei giorni di primier diletto, Si stanca l'uom del maritale affetto.

RE                         Mia cara.

REG.                                    Ah, se tal fossi,

Men lontano da me trarresti l'ore.

RE                         Io mi trattenni, o cara,

Con la nostra Lisaura, Frutto de' nostri coniugali amori; Ella, ancorché bambina, Mostra spirto real ne' suoi prim'anni.

REG.                     De' miei penosi affanni

Più non mi dolgo, se l'amata figlia,


Con innocente amore,

Gli amplessi mi usurpò del genitore.

RE                         Lieto son io del vostro amor; conosco,

Cara, quanto mi amate, e quanta pena Vi prendete per me. Grato ne sono; Ma vorrei che l'affetto, Disgiunto dal sospetto, Vi lasciasse goder tutto il contento, Senza provar di gelosia il tormento.

REG.                     Impossibil mi fia

Amarvi, e non morir di gelosia.

Teneri affetti miei, Vi sento, sì, vi sento, E in così fier momento Provar mi fate, oh Dei! La pena del morir.

Ma voi tacete omai; Sarà più bella assai La gioia mia, se tanto È fiero il mio martir. (parte)

SCENA DODICESIMA Il Re, poi Menghina

RE                          Nuova specie di pena io provo al core:

V'è chi langue d'amore

Non trovando pietà nel caro oggetto;

Io tormentato son dal troppo affetto.

Ma ecco a me sen viene

La vezzosa Menghina,

Tutta grazia e beltà.
MENG.                  Fo riverenza a vostra Maestà...

RE                          Siete molto graziosa!

MENG.                  Vostra Maestà mi burla.

RE                          No, cara, dico il vero.

MENG.                  Io non vi credo un zero:

Quella parola «cara»

Mostra che voi di me prendete gioco,

Mentre cara non son, ma vaglio poco.
RE                          Bella vivacità! Dunque comprarvi

Posso sperare.
MENG.                                          Io non son qui venuta

Per vendermi, signor; son già venduta.
RE                          Ma quel che v'ha comprato

Non sembra di voi degno.

Meritereste un regno,


Cara la mia Menghina.
MENG.                  Vostra non son, ma vostra è la regina.

RE                         Se innalzarvi pretendo,

Nell'onor non v'offendo.
MENG.                  Ed io, purché l'onor non abbia intoppi,

Mi lascierò innalzar fin sopra i coppi.

SCENA TREDICESIMA Bertoldino e detti.

BERTOL.              Bondì a vussignoria.

Chi siete voi? Che fate con mia moglie?
RE                         Non vedi? Il re son io.

BERTOL.                                                  Voi siete il re?

Oh bella! oh bella, affé!

Sentendovi per grande

Chiamar da genti tante,

Io credevo che foste un gran gigante.
RE                          Grande è detto il monarca

Per il poter che sovra gli altri stende.
BERTOL.              Ho capito. S'intende

Che vogliate il poter stender ancora

Sovra la moglie mia?

Con buona grazia di vussignoria. (vuol condur via Menghina)
MENG.                  Dove mi vuoi condur?

BERTOL.                                                  Alla capanna,

Ove niun fuor di me

Stenderà il suo poter sovra di te.
RE                          No, no, resta, e vedrai

Che contento sarai. Olà, si porti

Al grazioso villano

Vesti da cortigiano.

Sia da tutti servito,

Rispettato, obbedito;

Ma se fa il pazzo, e al voler mio s'oppone,

Sopra di lui s'adoperi il bastone. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Bertoldino, Menghina, poi Servi con abiti di Bertoldino.

BERTOL.              Oh che bel complimento!

O cambiar il giubbone, O provar il bastone. Ah! moglie mia, Questi son tanti pazzi: andiamo via.

 


MENG.

Pazzo sei tu...

BERTOL.

Non voglio

Entrar in qualche imbroglio.

Andiamo, andiamo... Oimè! chi son costoro?

Che volete da me? Non vuò spogliarmi.

No, no, no; sì, sì, sì; come volete.

(I Servidori vanno vestendo Bertoldino, ed egli si va lamentando)

Lasciate... non potete...

Adagio... mi strozzate...

Che diavolo mi fate?

Non voglio, no, non voglio...

Lasciatemi la testa...

Che bricconata è questa?...

Aiuto... son tradito.

Aiuta tuo marito... (a Menghina)

Certo, se io vado in corso,

Mi diranno le genti: guarda l'orso.

(I Servidori lo salutano e partono)

Il malan che vi colga.

Povero Bertoldino!

SCENA QUINDICESIMA

Bertoldo e detti.

BER.

Oh che bella figura!

Che gran caricatura!

BERTOL.

Aiuto, padre mio; m'hanno tradito.

MENG.

Anzi così vestito

Ei pare un amorino.

BER.

Viva il buon gusto!

MENG.

Evviva Bertoldino!

BER.

Perché piangi, babbion? di che ti lagni?

BERTOL.

Perché tutta la gente

Di me si riderà.

BER.

Ciò non t'importi.

Si sa che nelle Corti,

Più assai che i dottoroni,

Si stimano i buffoni.

Purché bolla il pignatto,

Che importa comparir buffone o matto?

BERTOL.

Vi dico che non voglio.

Tutti, tutti vi mando, e qui mi spoglio.

BER.

Ferma, ferma, non conviene.

Sei pur bello! stai pur bene!

MENG.

Col vestito alla francese

 


Tu mi sembri un gran marchese.

BERTOL.

Questo imbroglio - non lo voglio.

BER.

Ferma, ferma, no, non far.

MENG.

Non sprezzar la nobiltà.

BERTOL.

Deh lasciate... in carità.

MENG.

Ti dirà tutta la gente : «Signor conte, a lei m'inchino».

BER.

Tutto il mondo riverente Farà inchino a Bertoldino.

BERTOL.

Non m'importa niente, niente. Oh sgraziato, oh me meschino!

BER. MENG.

}adue

Oh che vezzo! Oh che beltà!

BERTOL.

State zitti in carità.

 


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Camera Reale. Il Re ed Erminio

ERM.                     Sire, qual imponesti,

Vestì spoglia civil Menghina bella.

Se la vedi, signor, non par più quella.
RE                         Facilmente s'avvezza

A sostener il ben chi soffrì il male;

E quando in alto sale

Donna che bassa è nata,

Non si ricorda più qual prima è stata.
ERM.                     Pur troppo è ver. Menghina in un momento

Prese già il portamento

E il brio di cittadina;

Ma nata contadina,

Il rustico accoppiando al maestoso,

Un personaggio fa molto grazioso.
RE                         Mi piace in ogni guisa;

Beltade acquista fregio

Talora dal difetto.
ERM.                     Eh, tenete celato il vostro affetto.

Se lo sa la regina,

Gran ruine preveggo.
RE                                                           Ella mi crede;

E tutto fo per mantenerla in fede.

Ma ecco, ecco Menghina,

Villanella non più, ma cittadina.

SCENA SECONDA

Menghina vestita da cittadina, e detti.

MENG.                              Largo, largo alla signora;

Chi m'inchina? Chi mi onora?

Gente bassa, via di qua,

Ah, ah, ah, ah, ah, ah, ah. (ride)

 


RE

Or sì che la bellezza

Tutta risplende in voi.

MENG.

Lo sappiamo anche noi.

ERM.

Di voi più bel sembiante

Si cercherebbe invano.

MENG.

Baciatemi la mano.

ERM.

Volentieri.

RE

E di fare lo stesso io non ricuso.

MENG.

Lo so, lo so; tal complimento è in uso.

RE

Ma voi state assai bene.

MENG.

E pur non son contenta.

Quest'abito non è fatto alla moda;

Ha poca, ha poca coda,

Tutto mi sembra stretto.

Che busto maledetto!

Non so come si possa,

Per bella comparir, rompersi l'ossa.

ERM.

E pur dice il proverbio:

Chi bella vuol parere,

La pelle ha da dolere.

MENG.

Ed io vi dico:

Chi è brutta di natura,

Farsi bella con arte invan procura.

RE

Ma voi che bella siete,

Così più risplendete.

MENG.

Obbligatissima. (ironica)

Burlar lei si compiace:

Lei m'adula, signor, e pur mi piace.

ERM.

Più rispetto col re.

MENG.

Fra genti grandi

Non passa differenza,

E si tratta fra noi con confidenza.

RE

Brava, così mi piace.

ERM.

Siete molto vivace.

RE

Ho per voi dell'amore.

ERM.

Io del rispetto.

MENG.

Lasciate che ambidue vi stringa al petto.

SCENA TERZA

Bertoldino e detti.

BERTOL.

(Oh bella! Oh disinvolta!

Oh cara! A due alla volta!)

MENG.

Potete assicurarvi

Ch'io sarò per amarvi,

Anzi per inchinarvi.

BERTOL.

Sì, signori, con l'irvi e con l'ararvi.

 


ERM.

Oh caro Bertoldino,

Così ben in arnese

Tu mi rassembri un cavalier francese.

BERTOL.

Oh in quanto a questo poi,

Francese, padron mio, sarete voi.

RE

Eh via, non gli abbadate. (a Menghina)

MENG.

Lo fo per convenienza. (al Re)

BERTOL.

Signor re, mio padron, con sua licenza. (entra in mezzo fra il Re e Menghina)

RE

Olà, che ardire è il tuo?

BERTOL.

Ognuno puote ricercar il suo.

ERM.

Certo colui è un pazzo. (a Menghina)

MENG.

Pur troppo tal egli è per mia disgrazia.

RE

Sei geloso?

BERTOL.

Gnorsì... con buona grazia. (va tra Erminio e Menghina)

ERM.

Ma da me che pretendi?

BERTOL.

Vorrei saper da voi... (a Menghina)

RE

Menghina cara,

Pria che lasciarvi io giunga...

BERTOL.

Galantuom, la va lunga. (al Re)

MENG.

Di che ti lagni mai? (a Bertoldino)

ERM.

Lasciatel dire. (a Menghina)

BERTOL.

Oh razza porca, la vogliam finire?

ERM.

Non far l'impertinente,

O ti faccio provare il mio bastone.

Villano, mascalzone,

Asinaccio vestito in ricche spoglie,

Non sei degno d'aver sì bella moglie. (passa dalla parte di Menghina)

BERTOL.

Quest'è un'impertinenza.

MENG.

Marito, abbi pazienza.

Son fida, onesta son più che non credi;

Ma se in mezzo mi vedi

A questi due, non è gran stravaganza:

Della donna civil quest'è l'usanza.

BERTOL.

Questa ragion non vale.

Tu civile non sei, né criminale.

Corpo di Satanasso,

Devi venir con me.

ERM.

Non far fracasso. (alza il bastone)

BERTOL.

Bel bello, io vi domando

Alfin la roba mia. (va dalla parte del Re)

RE

L'ossa ti romperò, se non vai via. (alza il bastone)

BERTOL.

Menghina...

MENG.

Eh via, sta zitto.

BERTOL.

Dunque dovrò vedere,

Osservare, e tacere?...

RE

E andartene tu dei da questa stanza.

BERTOL.

Io? Perché?

RE ERM.

}a due               Perché sì.

MENG.

Perché è l'usanza.

 


BERTOL.                         Maledetti quanti siete,

Non mi fate disperar.

Via, Menghina, - poverina, Vienmi, o cara, a consolar. Fermi, fermi, no, non fate: (lo minacciano) Non vogl'io le bastonate, O piuttosto tacerò; Oh che rabbia ch'ho nel petto: Dal dispetto io creperò. (parte)

SCENA QUARTA Il RE, Erminio, Menghina; poi la Regina ed Aurelia

RE

Quanto è pazzo costui!

ERM.

Quant'è ignorante!

MENG.

E pur, con tutti li difetti suoi,

Mi piace più di voi.

RE

Perché, bell'idol mio?

MENG.

«Intendami chi può, che m'intend'io».

RE

Sarò per voi fedele.

ERM.

Per voi sarò amoroso.

REG.

Mi rallegro con voi, signore sposo.

AUR.

Bravo, signor consorte.

RE

Sentite...

ERM.

Non credete...

REG.

Non parlate, infedele.

AUR.

Empio, tacete.

MENG.

Cos'han queste signore,

Che sembran sì stizzose?

ERM.

Sono le nostre spose, e voi vedendo

Con noi parlare unita,

L'una e l'altra di voi s'è ingelosita.

MENG.

Oh, oh, rider mi fate.

No, no, non dubitate;

Vi lascio i vostri sposi

Sì belli e sì graziosi. Io di marito

Non patisco appetito;

Uno ne ho, che fa le parti sue,

E non lo cangierei con tutti due.

Se di me gelose siete,

La sbagliate in verità;

Che m'incanti non credete

La ricchezza o la beltà.

Vi vuol altro, la ran le la.

Vi vuol altro, la ran la.

 


Un marito mi ho cercato Tutto pieno di bontà; L'ho trovato, e son contenta Della sua semplicità. (parte)

SCENA QUINTA

Il Re, la Regina, Erminio ed Aurelia

RE                         Deh placate lo sdegno.

REG.                     Itene lungi, indegno;

Ho veduto abbastanza:

Bella fé, bell'amor, bella costanza!
RE                         Se scherzai con Menghina,

Perdon vi chiedo. Io non offesi, o cara,

L'amor mio, la mia fé. V'amo, v'adoro,

Voi siete il mio tesoro.

Deh mio bel nume irato,

Deh placate il rigor.
REG.                                                     Siete un ingrato.

RE                         S'io l'amo, se tradisco

L'affetto coniugale, Erminio il dica.

Ei che de' miei pensieri

Sempre a parte chiamai,

Vi dirà che son fido, e ch'io scherzai.
REG                      Conosco l'arte, e invan vi lusingate

Ch'io presti fede al labbro lusinghiero.

Quel ch'io vidi ed intesi, è troppo vero.
RE                         (E cedere non vuol? Partir conviene).

Adorato mio bene,

S'io v'offesi con voglia empia e impudica,

O se vi son fedele, Erminio il dica.

(Ah che nel dirle addio Mi sento il cor dividere, Parte del sangue mio, Viscere del mio sen).

Spero che il vostro core Non sarà meco ingrato; Che per cangiar di stato, Saprà gradirmi almen. (parte)

SCENA SESTA La Regina, Aurelia ed Erminio

 


REG.

Ma voi, voi che dovreste (ad Erminio)

Con migliori consigli

Svegliar nel di lui core

La sopita ragione,

Voi delle sue follie siete cagione.

ERM.

Io, regina? Più tosto...

AUR.

Ma voi, nel giorno istesso

Che a me date la mano,

D'altra fiamma accendete il core insano?

ERM.

Credetemi, mia cara...

REG.

Ma sfogherò, m'impegno,

Contro di voi lo sdegno.

ERM.

Placate l'ira vostra...

AUR.

Non soffrirò con pace

Il tradimento audace.

ERM.

Oh Dei! Ma non è vero...

AUR.

Parto per non udirvi, menzognero. (parte)

ERM.

Fermatevi, sentite...

REG.

Dite perfido, dite,

Se offesa, se oltraggiata...

ERM.

Seguo la bella mia, che fugge irata. (parte)

SCENA SETTIMA

La Regina sola.

Erminio mi schernisce,

Lo sposo mi tradisce,

M'abbandona ciascun e mi deride,

E il dolor mi tormenta, e non m'uccide?

Barbaro, ingrato sposo,

Traditor, inumano,

Se per affetto insano

Sprezzi il mio fido amore,

Vieni, spietato, a lacerarmi il core.

Ecco il petto innocente:

Impugna, impugna il ferro,

Qua ferisci ed impiaga, alma crudele;

Svena con le tue man la tua fedele.

Ma no, ferma, e rammenta,

Pria di passarmi il petto,

Quel dolce primo affetto

Onde un tempo mi amasti,

Che tuo ben mi chiamasti,

Che tu sei... che son io... ma che ragiono?

Spargo al vento i sospiri, e folle io sono.

Confusi i miei pensieri

 


M'empiono di spavento, E dal dolor mi sento L'anima lacerar. Ma più cresce il mio affanno Perché pietà non vedo Nel traditor, né credo Maggior ne' giorni miei Poterlo, oh Dio! provar. (parte)

SCENA OTTAVA Cacasenno, poi Lisaura

CAC.                     Oh poveraccio me, cosa sarà?

Ho perduto la mamma ed il papà.

M'è stato detto ch'eran qui venuti,

Ma non li trovo ancora,

E sento che la fame mi divora.

Io non so dove sia;

Fra tante belle cose mi confondo:

Parmi d'esser passato all'altro mondo.

Ma chi è questa ragazza,

Che così ben vestita

Per qui rivolge il passo?

Figlia sarà di qualche villan grasso.
LIS.                       Olà, che fai tu qui, brutto villano?

Va via, va via di qua.
CAC.                     Cerco la mamma.

LIS.                                                  Oh faccia di minchione,

Ti conosco che sei quel bernardone.
CAC.                     Eh non mi strapazzate;

Perché, perché, se no,

Qualche cosa nel grugno vi darò.
LIS.                       A me questo? Briccone,

Son la principessina,

Figlia della regina;

Se non saprai parlare,

Ti farò bastonare.
CAC.                                                  Oh perdonate!

No, no, non farò più. Facciamo pace.

Divertiamoci un poco,

Facciamo a qualche gioco.

Sette, cinque.
LIS.                                              Insolente!

CAC.                     Bellina!

LIS.                                    Impertinente.

CAC.                     Vi voglio tanto bene.

LIS.                       Che sì, che sì, se viene

 


Il re mio padre, e non mi lasci stare,

Ch'io ti faccio ben bene bastonare.

Son ancora piccinina,

Non mi posso vendicar.

Quando poi sarò regina,

Saprò farmi rispettar,

Ed ognuno mi dirà:

«Che vezzosa Maestà».

Avrò paggi, avrò lacchè,

Colla coda avrò il mantò,

E se alcun mi burlerà,

Cospetton, se n'avvedrà. (parte)

SCENA NONA

Cacasenno, poi Erminio

CAC.

Guardate che pisciona!

È picciola, e vuol far la braghessona.

ERM.

Olà, dimmi: chi sei?

CAC.

Io son solo, signor, non siamo sei.

ERM.

Domando, come hai nome?

CAC.

Voi mi parete un pazzo;

Vedete, uomo non son, son un ragazzo.

ERM.

Capisci, o testa sciocca:

Dico come ti chiami.

CAC.

Con la bocca...

ERM.

Di chi sei figlio?

CAC.

Di mio padre.

ERM.

E il padre

Chi è, come s'appella?

CAC.

Non si pela mio padre; oh questa è bella!

ERM.

(Sarebbe mai costui

Figlio di Bertoldin?)

CAC.

(Mi fa paura.

Vorrei fuggir, se si voltasse in là).

Guardate. (lo fa voltar dall'altra parte)

ERM.

Dove vai? (s'accorge che vuol fuggir e lo ferma)

CAC.

Son qua, son qua. (tremante)

ERM.

(Oh che bel turlulù).

Dimmi, saresti tu

Figlio di Bertoldino?

CAC.

Per l'appunto.

ERM.

Quando arrivato sei?

CAC.

Quando son giunto.

ERM.

Tu parli molto male.

CAC.

Voi siete un animale,

 


Perché non m'intendete,

E si vede che avete il capo tondo.

ERM.

Di che paese sei?

CAC.

Di questo mondo.

ERM.

Vuoi venir meco?

CAC.

Messer no.

ERM.

Perché?

Solo restar vuoi qua?

CAC.

Vuò cercar la mia mamma e il mio papà.

ERM.

(Vuò condurre, s'io posso,

Questa dinanzi al re vaga figura).

Vieni, vieni.

CAC.

Ho paura.

ERM.

Vieni a far colazione.

CAC.

Col pane, o col bastone?

ERM.

Vieni, e sarai contento.

CAC.

Ho paura di qualche tradimento.

ERM.

Orsù, perché tu veda

Ch'io ti parlo sincero,

Prendi questi denari e questi dolci:

Mangia, godi, trastulla, e non temere.

CAC.

Cose buone? denari? oh che piacere!

Me li donate a me? son tutti miei?

Mamma, venite pur tutta giuliva.

Cose dolci e denari? evviva, evviva.

Oh quanto contento

Ch'io provo, ch'io sento!

Le belle monete

Consolano il core,

E il dolce sapore

Diletto mi dà.

La la ra la le la,

La la ra la la.

(ballando e saltando parte)

SCENA DECIMA

Erminio solo.

Oh gran semplicità! Piacer non poco

Prender dovrem da questo

Scimunito ragazzo.

Egli riesce grazioso, ancorché pazzo.

Son tre degni soggetti

Padre, figlio e nipote.

Il vecchio è un gran volpone;

Il figlio è fra l'astuto ed il minchione;

 


Ma quest'ultimo, pien di balordaggine,

La quintessenza egli è della goffaggine.

Anch'io ne goderei se Aurelia mia,

Per troppa gelosia,

Non mi tenesse in pene.

Le donne non ci lascian aver bene.

Non ho in petto un core ingrato, La pietà risento anch'io, E il timor dell'idol mio Mi costringe a sospirar.

Se talor mi sento irato, Lo fo sol per mio decoro, Ma risento egual martoro Con chi veggo lacrimar. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Notte.

Sala con tavolino e lumi.

Bertoldo, e poi Menghina

BER.

Tal vita non mi piace;

Così durar non puole;

Non si può andar a letto quand'un vuole.

Il re lo vuol sapere,

Il re ci vuol vedere,

Tutto si deve far con sua licenza,

Anche quando vogliam... con riverenza.

MENG.

(Ecco il suocero mio.

Con questo buon vecchietto

Vuò divertirmi un poco). (smorza il lume)

BER.

Diavol, come s'è spento

Codesto lume? Sarà stato il vento.

MENG.

Eh, ehm.

BER.

Chi è là?

MENG.

Son io.

BER.

(Una donna?)

MENG.

(La voce altererò).

BER.

Che volete voi qui?

MENG.

Ve lo dirò:

Son di voi innamorata.

BER.

Di me? (Col pel canuto?)

MENG.

Appena v'ho veduto,

Mi ho sentito nel cor dare un martello;

Voi siete agli occhi miei vezzoso e bello.

BER.

(Certamente costei mi prende in fallo).

 


È scuro, e non vi vedo:

Fate almen che vi senta.

MENG.

Eccomi qua da voi tutta contenta.

BER.

Ma perché senza lume?

MENG.

È questo il mio costume.

Caro mio, vi assicuro,

Tutte le cose mie le faccio al scuro.

BER.

Ma chi siete?

MENG.

Son una che vi adora.

BER.

E venite a quest'ora?

(Mi sento venir caldo;

Non posso star più saldo).

MENG.

(Questa volta l'astuto

Certamente è caduto).

BER.

E mi volete bene?

MENG.

Ardo per voi.

BER.

(Fosse mai qualche vecchia? Eh non lo curo;

Bella o brutta che sia, siamo all'oscuro).

MENG.

Datemi almen la mano.

BER.

Eccola; dite piano,

Che nessun non ci senta.

SCENA DODICESIMA

Bertoldino e detti.

BERTOL.

(Che fa mio padre con la luce spenta?)

MENG.

Idolo mio diletto,

Io tanto ben vi voglio.

BERTOL.

(Che cos'è questo imbroglio?)

BER.

(Certo non mi conosce).

Anch'io mi sento in petto

Bruciarmi dal diletto.

BERTOL.

(Oh vecchio storno!

Vado a prendere un lume, e adesso torno). (parte)

BER.

Ma s'è ver che m'amate,

Qual segno a me ne date?

MENG.

Venite, anima mia, fra queste braccia.

(Bertoldino torna col lume)

BERTOL.

Messer padre gentil, buon pro vi faccia.

BER.

Come? che vedo?

MENG.

Oh bella!

BER.

Menghina?

MENG.

Sì, son quella.

Era sol di scherzar il mio pensiero,

Ma il vecchietto però faria da vero.

Toccatemi la mano;

Or la biscia ha beccato il ciarlatano. (parte)

 


SCENA TREDICESIMA

Bertoldo e Bertoldino

BERTOL.              E non vi vergognate?

BER.                                                        Via di qua.

BERTOL.              Voi mi diceste il vero,

Che amor fa l'uomo pazzo,

E che il vecchio alla fin torna ragazzo.
BER.                      Via di qua, mascalzone,

O ti rompo sul capo il mio bastone.
BERTOL.              Bravo, gnor sì, mi piace.

Con tutta la sua pace,

Si divertiva il buon vecchietto al scuro.

Perché lo son venuto a disturbare,

Mi vuol romper la testa ed ammazzare.

Zitto e bel bello, Come un agnello, Messer Bertoldo S'innamorò. Or ch'è scoperto, Si è fatto un istrice, Mi pare un buffalo, Tira dei calci, Mi vuole mordere, Mi vuol mangiar.

Il buon vecchietto Fa il giovinetto, Si sente muovere, Vorrebbe amar. Se il pelo è bianco, Robusto ha l'animo; Non si può muovere, Ma pur ingegnasi, E fa il possibile D'innamorar. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Bertoldo solo.

Oh donne maliziose!

Si può sentir di peggio?

Io maestro di beffe ognor son stato,

 


E da una donna ho da restar beffato?

Ma Bertoldo non son, se non mi vendico:

Pensar fa di mestieri,

E la notte è la madre de' pensieri.

Si potrebbe... ma no...

Più tosto... non mi piace...

Sarà meglio... sì, sì.

Dunque farò così.

Questa volta ti giuro, ragazzaccia,

Che rendere ti vuò pan per focaccia.

Mi par di vederla Da rabbia crepar. Sfacciatella, Birboncella,

Tu venirmi a minchionar? V'amo, v'adoro, Languisco e moro; Povero vecchio, Venirmi a tentar? Sì, sì, maledetta, Vedrai la vendetta Che teco vuò far. Mi par di vederla Da rabbia crepar. (parte)

SCENA QUINDICESIMA La Regina ed Aurelia

AUR.                     Così è, ve l'accerto.

Credetelo, o cognata,

Non è infido il german, siete ingannata.
REG.                     Ma vedeste voi stessa

Quello che vidi anch'io.
AUR.                     S'ingannò il vostro sguardo, ed anco il mio.

Menghina non è amata

Né dal re, né da Erminio. Ell'affettando

Vezzi, grazie e beltà, serve di gioco

A chiunque la mira;

Ride ognuno di lei, ma non sospira.
REG.                     E ciò vero sarà?

AUR.                                                Ve l'assicuro.

REG.                     Temo che v'inganniate.

AUR.                                                         Io ve lo giuro.

REG.                     Dunque che far degg'io? Sarà irritato

Del mio furor geloso

L'adorato mio sposo.

 


AUR.                     Eh non temete;

Gli sdegni de' mariti

Poco soglion durar. Due parolette,

Due sospiri amorosi,

Fanno tosto placar i più sdegnosi.

Superbo l'uomo irato Sen va di sdegno armato; Ma della donna il pianto Tutto cangiar lo fa.

Dirà talor che sdegna La sua nemica indegna; Ma poi, quando la mira, Sospira e n'ha pietà. (parte)

SCENA SEDICESIMA La Regina, poi il Re

REG.

Volesse il ciel, che l'idol mio placato

Potessi riveder; ma, oh Dei! sen viene,

E sdegnato mi sembra; io sento il core

Fra la speme agitato e fra il timore.

RE

Sposa, bell'idol mio.

REG.

Voce soave,

Che mi torna nel sen l'alma smarrita.

Dunque, caro, mi amate?

Dunque voi vi scordate

De' miei trasporti e de' furori miei?

RE

Non facendo così, non v'amerei.

Basta che voi mi amiate,

Che fido mi crediate, e son contento.

Ed io tutto in piacer cangio il tormento.

REG.

Siete dell'amor mio certo e sicuro;

Io pur trovarvi spero

Sempre fido e sincero;

E se talor pavento,

Nasce dal troppo amore il mio spavento.

RE

Orsù via, non si parli

Che di gioia e di pace.

REG.

Sì sì, così mi piace:

Goder giorni tranquilli a voi unita;

Voi siete l'idol mio.

RE

Voi la mia vita.

Cara, sei tu il mio bene,

L'idolo del mio cor.

REG.

Caro, fra dolci pene

 


Ardo per te d'amor.

RE

Sposa, te sola adoro.

REG.

Per te languisco e moro.

RE

Oh Dio? che bel contento!

REG.

Che bel piacer che sento!

a due

Che fortunato amor!

RE

Sempre sarò fedele,

Mai non t'ingannerò.

REG.

Di gelosia crudele

Il duol non proverò.

a due

Sperarlo se mi lice,

Sarò felice ognor. (partono)

SCENA DICIASSETTESIMA

Camera.

Bertoldo travestito con caricatura da Corte, con naso finto; poi Menghina

BER.                      Affé che l'ho trovata;

La burla è ben pensata.

Con questo finto naso

Non mi conoscerà Menghina al certo,

E vestito così, mi crederà

Qualche gran cavalier della città.

Procurerò star ritto più ch'io posso.

S'ella di notte a scuro mi ha burlato,

Io mi sarò di giorno vendicato.

Ma eccola che viene;

Se voglio vendicarmi,

A far da giovinotto ho da sforzarmi.
MENG.                  Ah ah, mi vien da ridere

Quando ci penso ancora... (Bertoldo la saluta)

A me questo, signor? Troppo mi onora.

Oh, oh, non tanti inchini.

Anzi lei, anzi lei, mi meraviglio.

(Parmi questo signor di me invaghito).
BER.                      (La buona donna accetteria il partito).

MENG.                  Ma chi è lei, mio signore?

BER.                      Un vostro servidore. (alterando la voce)

MENG.                  Anzi mio gran padrone.

BER.                      Sono un adorator del vostro bello.

MENG.                  Eh, lei mi burla.

BER.                                                 No, vi dico il vero.

MENG.                  Giuratelo, signor.

BER.                                                   Da cavaliero.

MENG.                  Io non v'ho più veduto.

BER.                      Per voi son qui venuto.

 


MENG.

Ma da me che volete?

BER.

Cara, quel che vogl'io, voi lo sapete.

MENG.

(Costui mi va tentando).

BER.

(La scaltra va cascando).

MENG.

Ma io son maritata.

BER.

Senza malizia amar credo si possa.

Non mi fate languire.

MENG.

Io vengo rossa.

SCENA DICIOTTESIMA Bertoldino e detti, poi Bertoldino parte, e torna con Cacasenno vestito da donna.

BERTOL.

(Eccola con un altro cavaliere.

Oh questo è un bel mestiere!)

BER.

Datemi almen la man, per carità.

MENG.

Io la man vi darò per civiltà.

BERTOL.

(Che ti venga la rabbia!

Eppur degg'io tacere.

Ma voglio un po' vedere

Se questa moglie mia sì spiritosa

È del marito suo punto gelosa). (parte)

MENG.

Almen mi faccia grazia

Dirmi come si chiama.

BER.

Or ve lo dico:

Io mi chiamo il marchese Papafico.

MENG.

(Oh che nome curioso!)

BER.

(Oh che piacer gustoso!)

Vuol ch'io la serva?

MENG.

Lei può comandare.

(Torna Bertoldino con Cacasenno)

BERTOL.

(Vieni meco: sta zitto, e non parlare).

CAC.

(Ma se donna non sono...)

BERTOL.

(Chetati, animalaccio, o ti bastono).

MENG.

Bertoldin, chi è colei?

BERTOL.

Badate ai fatti vostri, io bado ai miei.

BER.

Dice bene: lasciate che ognun goda.

Facciamola alla moda.

BERTOL.

Mia cara mascheretta. (a Cacasenno)

MENG.

Oh razza maledetta!

BERTOL.

Ti voglio tanto bene.

MENG.

Bertoldin, chi è colei?

BERTOL.

Badate ai fatti vostri, io bado ai miei. (a Menghina)

BER.

Venite, state salda. (a Menghina)

MENG.

La testa mi si scalda.

BERTOL.

Sì, caro idolo mio. (a Cacasenno)

MENG.

Indegno... (a Bertoldino)

BERTOL.

Taci tu, che taccio anch'io. (a Menghina)

 


MENG.

Chi è colei?

BERTOL.

Chi è colui?

MENG.

Io non lo so.

BERTOL.

Io lo voglio sapere.

MENG.

Io lo saprò. Vuò conoscere quella Marfisa.

BERTOL.

Vuò saper quel Zerbino chi è.

CAC.

(Io mi sento crepar dalle risa).

BER.

(Vuò che impari a burlarti di me).

BERTOL.

Aspetta, ti giuro, t'avrai da pentir.

MENG.

Questa maschera voglio scoprir.

(Menghina smaschera Cacasenno, e Bertoldino smaschera Bertoldo)

BER.

Riverisco, signora garbata.

CAC.

Gli son serva divota, obbligata.

BER. MENG.

}adue

Oh chi vedo! chi diavolo è qui?

BERTOL.

Veramente tu sei di buon gusto.

BER. CAC.

}adue

Che bellezza, che grazia, che fusto!

MENG.

Vecchio pazzo, briccon di ragazzo, M'hai schernito, mi vuò vendicar.

BER.

Vi son servo. (a Menghina)

CAC.

Vi fo riverenza. (a Menghina)

BER.

Chi s'inchina convien ringraziar. (a Menghina)

MENG.

Temerari, vi voglio ammazzar.

CAC.

Aiuto!

BERTOL.

Fermate.

BER.

Lasciatelo star.

BERTOL. BER.

}adue

Oh che spasso, che rider, che gioia!

MENG. CAC.

}adue

Oh che rabbia, che stizza, che noia!

a quattro

da rider

di rabbia

 


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Camera del Re con sedie.

Il Re, la Regina, Aurelia ed Erminio

REG.                     Sposo e signor, questo piacer vi chiedo:

Rimandate costoro

Tutti alle case loro.

È troppo impertinente

Questa rustica gente: a noi vicina

Io non posso soffrir quella Menghina.
RE                         (Già comprendo il perché).

AUR.                                                                Non sembra giusto

Che donna vil, di rustico natale,

Sia veduta occupar stanza reale.
ERM.                     (L'intendete, signor?) (piano al Re)

RE                                                           (Son ambe oppresse

Dal medesimo mal). Sposa, germana,

Consolate sarete:

Oggi tornar vedrete

Questa gente che a voi reca disaggio

Lungi da queste soglie, al lor villaggio.

Itene, Erminio, e i preparati doni

Fate quivi recar; poscia guidate

A me, senza bisbiglio,

Bertoldo, Bertoldin, la moglie e il figlio.
ERM.                     Il vostro cenno ad eseguir non tardo.

(Han queste donne avvelenate il guardo).

So che chi fido ha il core, Teme un rivale amore; So che l'amante sposa Suol sempre dubitar.

Ma quel timor geloso Che turba il suo riposo, Da sé femmina accorta Alfin dovria scacciar. (parte)

SCENA SECONDA

 


Il Re, la Regina, Aurelia

AUR.

Qual merto avran costoro

Per esiger da voi premio o mercede?

Germano, ah ben si vede,

Con vostra buona pace,

Che privarvene ancora vi dispiace.

Se non dorme il vostro cuore

In un cieco indegno amore,

Saprà fare il suo dover.

E se mai pensasse ancora

D'adorar chi v'innamora,

Discacciate un tal pensier. (parte)

SCENA TERZA

Il Re e la Regina

REG.

Udiste? la germana

Più di me vi conosce. Io non vorrei...

Basta, già m'intendete.

RE

E ancor gelosa siete?

Non giuraste testé, mia cara sposa,

Scacciar la gelosia?

REG.

Non son gelosa.

RE

Di che dunque temer?

REG.

Non so.

RE

Vedete

Quanto in error voi siete.

Se Menghina da me Franco allontano,

Ch'arda per lei voi paventate invano.

REG.

Ma la fiamma vicina

Riaccendere si può.

RE

Dunque...

REG.

Partiamo.

Alla reggia torniamo.

Allor sarò contenta,

Allor certa sarò del vostro affetto.

Promettete partir?

RE

Sì, vel prometto.

REG.

Ora son io felice;

Il cor di più non brama,

Quando lo sposo mio costante mi ama.

Non si dà maggior diletto

D'un costante amor sincero;

Sempre fida al caro oggetto

 


Serberò l'amor primiero, La costanza del mio cor. Ed amore, per mercede Della mia sincera fede, Farà sì che il mio tesoro Dia ristoro al mio dolor. (parte)

SCENA QUARTA Il Re, poi Erminio con Servi che portano bacile con doni.

RE

Vada, vada Menghina; alfin la sposa

Contentare si dee.

ERM.

Signor, i doni

Ordinati son questi,

E i Bertoldi son qui come imponesti.

RE

Sediam. Venga Bertoldo. (ad un Servo)

Vuò rimandarli in pace,

Ma consolati almen. (il Re ed Erminio siedono)

ERM.

Così mi piace.

SCENA QUINTA

Bertoldo e detti.

BER.

Che comanda da me

La Maestà vostra, che vuol dire il re?

RE

Dei ritornar al tuo nativo albergo.

BER.

Vado contento, e già vi volto il tergo.

RE

Fermati anche un momento:

Non dei partir scontento;

Perché mi fosti caro,

Prenditi per regalo quel denaro.

BER.

Io grazie non vi rendo,

Ma compensar intendo,

Perché Bertoldo sono,

Con un dono più bello il vostro dono.

Voglio darvi un arricordo

Che profitto a voi farà.

Con le donne fate il sordo,

Non badate alla beltà.

Sono tutte fattucchiere,

Assassine, menzognere:

Chi lo prova, dir lo sa.

 


Eh signor, che cosa dite? Signor sì, è la verità. Hanno poi un altro vizio: Voglion sempre aver ragione, E sposata un'opinione,

Più rimedio non si dà. (parte, e seco un Servo con un bacile di monete)

SCENA SESTA Il Re, Erminio, poi Menghina da contadina.

RE                         Venga Menghina. Questo astuto vecchio

La sa lunga da vero.
ERM.                     Almeno il labbro suo parla sincero.

MENG.                  Ecco ai vostri comandi

La signora Menghina,

Tornata in bassa stima.

Eccoci qui: baroni come prima.
RE                         Non so che dir; mi spiace

Di dovervi lasciar, ma l'uopo il chiede.

Andate, e per mercede

Della vostra modestia,

Da cui convinto sono,

Prendete quelle perle: io ve le dono.
MENG.                  Ringrazio la bontà

Di vostra Maestà. Sarà finita

Della regina alfin la gelosia.

Vi faccio riverenza, e vado via.

Se la moglie vi tormenta, S'è gelosa in opinione, Adoprate un buon bastone, Che il suo mal risanerà.

Zitto, oimè! che non mi senta Qualche moglie indiavolata, Che sia stata bastonata Per la sua temerità. (parte seguita dal Servo col bacile con le perle)

SCENA SETTIMA

Il Re, Erminio, poi Bertoldino e Cacasenno

RE                         Anche questa ha voluto, in conclusione,

Nel partire beffarmi.

 


ERM.

Ell'ha ragione.

BERTOL.

Férmati, dove vai? (dietro a Cacasenno)

CAC.

Vo dove voglio.

BERTOL.

Vien qua; fermati, dico,

Che questo è il re.

CAC.

Non me n'importa un fico.

RE

(Bella coppia graziosa!)

BERTOL.

Signora Maestà, voi lo vedete,

È un povero ragazzo

Che sembra mezzo pazzo.

Io le creanze e le virtù gl'insegno,

Ma lui per imparar non ha il mio ingegno.

RE

È una gran stravaganza

Che un uom come sei tu, d'alto consiglio,

Abbia prodotto sì ignorante un figlio.

(O che sciocco)!

ERM.

(Godiamlo).

CAC.

Presto, presto,

Ch'io crepo dalla fame;

Datemi da mangiar.

RE

Olà, si diano

Quelle paste sfogliate a Cacasenno.

CAC.

Via di qua, gnorantaccio; (al Servo)

Portami un castagnaccio.

Mi piace e m'alimenta

Latte, rape, fagiuoi, pomi e polenta.

RE

Soddisfarlo conviene. Itene tosto:

Empitegli de' sacchi,

Finch'egli si contenta,

Di rape, di fagiuoi, pomi e polenta.

CAC.

Oh caro, oh benedetto!

Che ne dite, papà?

La mamma nol saprà.

Vado subito, corro... (cade in terra)

BERTOL.

Bestia matta, che fai?

CAC.

Mi son stroppiato.

Maledetto quel re che m'ha chiamato. (parte)

SCENA OTTAVA

Il Re, Erminio e Bertoldino

RE

Lo saprai, Bertoldino:

Devi a casa tornar.

BERTOL.

Lo so benissimo,

E ne son contentissimo.

RE

E perché non ti lagni

Che la mia protezion sia stata vana,

 


Una ricca ti dono aurea collana.
BERTOL.              A me mi basta che per cortesia

Voi mi lasciate star la moglie mia.
RE                         Sì, sì, non dubitar. Ma tu ricusi

Quell'oro ch'io ti dono?
BERTOL.              Così pazzo non sono;

M'insegna la natura:

Quand'uno vuol donar, piglio a drittura.

A riveder io torno Le affumicate mura Qual notte tetra oscura. Ma là sarò contento, Sapete voi perché?

Perché v'è la cucina Ove in un calderone Bolle quella farina Che forma la polenta, Che gusto mi darà.

La Corte non mi piace. Goder vogl'io la pace; E so che di catene, Son piene - le città. (parte col Servo con la collana)

SCENA NONA Il Re ed Erminio

RE                         Or vanne, Erminio, dalle nostre spose:

Di' lor che stian contente, (si alzano) Ch'oggi si partirà; che per godere Non piccolo piacer, vengan con noi A rimirar qui nel vicin contorno Ritornar i Bertoldi al lor soggiorno.

ERM.                     Obbedito sarete.

Oggi spero veder due spose liete.

RE                         Sì, rendo grazie al ciel, che dal mio petto

Questo novello affetto Tutto alfin discacciai; e riconosco La salute del cuor dall'amorosa Molesta gelosia della mia sposa. Per altro a poco a poco Cresceami in sen, m'inceneriva il foco.

Voi che il mio cor sapete (ad Erminio) Quant'è in amor fedele, Dite alla mia crudele

 


Ch'abbia di me pietà. (Se non la placa il pianto, Se non la calma il ciglio, S'accresce il mio periglio, Né più mi crederà). (parte con Erminio)

SCENA DECIMA

Campagna vasta con colline, sopra le quali vedesi la capanna degli Bertoldi.

Bertoldo, Bertoldino, Menghina e Cacasenno

BER.                      Belle le mie campagne,

Care le mie castagne!

Contento a voi ritorno.
MENG.                  Amabile soggiorno,

Quanto mi piaci più!
BERTOL.              Andiamo, andiamo su;

Andiamo alla capanna,

Dove noi goderem vita contenta.
CAC.                     Mamma, venite a farmi la polenta.

(Vanno tutti quattro sulla collina alla capanna, cantando)

Che bel contento! Che bel piacere! Che bel godere La libertà! (Arrivati alla capanna si fermano, e si voltano verso il piano)


RE REG.

AUR. ERM.

RE REG.


SCENA ULTIMA

Il Re, la Regina, Aurelia ed Erminio; e detti.

Mirate la famiglia Tutta allegra e contenta.

In lor si vede L'amor di libertà scolpito in fronte. A chi è avvezzo a goder sì vita amena, Il viver alla Corte è dura pena. Ah, volentieri anch'io Cangerei con costor lo stato mio. Veramente è un piacere Passar la notte e il giorno Senza pensieri in placido soggiorno.

}aquattro     Dolcediletto

Piacer verace,


 


AUR.

ERM.

MENG.

BERTOL.

BER.

CAC.


}a


Goder in pace La libertà. Che bel contento!

Che bel piacere!

quattro

Che bel godere

La libertà!

TUTTI

Dolce diletto

Piacer verace, Goder in pace La libertà.


Fine del Dramma.