Bouvard e Pécuchet

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Bouvard

Sipario testi

Bouvard

e

Pécuchet

di Tullio Kezich e Luigi Squarzina

dal romanzo di Gustave Flaubert

PERSONAGGI

Bouvard

Il Capitano Heurtaux

Pécuchet

Il sindaco Foureau

Descambos

Gorju

Il Capoufficio del Ministero

Placquevent, la guardia campestre

Padron Gouy

Romiche, il gobbo

La vedova Bordin

La Castejon

Ilparroco Jeufroy

L'Albergatore Beljambe

Hurel

Il Maestro Petti

Il dottor Vaucorbeil

La Contessa De Faverges

La Signora Vaucorbeil

La Signorina De Noares

Il notaio Marescot

Vittorio

La Germana

Vittorina

La Mélia

Un gendarme

Il Conte De Faverges

Colleghi d'ufficio di Bouvard e Pécuchet, un fattorino,  contadini, operai, borghesi, gendarmi.

Premessa in 3 lettere

Montreal, 20 giugno 1967

Caro Tullio,

chi ti incontro a Montreal in questo inaudito albergo dove i portieri sono vestiti da pirati del '600, i fattorini da cinesi di Hong Kong (sono cinesi), i camerieri da Buffalo Bill e le cameriere da tirolesi? Bernard Dort (c'è un congresso di teatro, frequentato molto bene) che su­bito mi chiede notizie di Bouvard e Pécuchet. Ci crede molto. Secondo lui in Francia si potrebbe presentarlo senza un riadattamento, semplicemente ritraducendo il nostro testo su Flaubert.

La verità è, che i viaggi, le prospettive di tournée a Broadway sono una bella cosa, ma sono stufo di dispersioni e vorrei puntare su poche e concentrate cose. Fra que­ste primeggia Bouvard e Pécuchet. Chissà se tu stai la­vorandoci? Penso sempre di più che occorre trovare una teatralità tutta particolare, "aperta", non chiusa: magari scene che non si sviluppano fino in fondo — conferma Dort che in Francia ormai Bouvard e Pécuchet è conside­rato l'origine del romanzo moderno, cioè (diciamo noi due) il primo "antiromanzo"; e noi bisogna che tiria­mo fuori un po' una "anticommedia" — sempre secon­do Dort, il pericolo di cadere in Beckett è forte. Io fran­camente ci spero (è un paradosso) perché mi sembra maggiore il pericolo della "leggerezza" e della "farsa". Ho già in testa certi ritmi molto strani di regia. Ma oc­corre dare densità alla materia.

Con queste non peregrine considerazioni mi accingo a prendere l'aereo per Caracas, secondo il diabolico itine­rario predisposto da Ivo. Sarò in Italia a fine giugno e ti cercherò per telefono.

Tuo Luigi

Milano, 14 ottobre 1967

Caro Luigi,

tutto preso dai rituali per reinserirmi in Bouvard e Pécuchet, trovo un articolo di Monique Wittig sui Ca-hièrs Renaud-Barrault (marzo '67, il numero dedicato a Le tentazioni di sant'Antonio). Alcune osservazioni in­teressanti:

1) La modernità di Flaubert: "la nozione di modernità fa la sua apparizione nello stesso tempo del bisogno di considerare la civiltà europea sotto un profilo critico... Baudelaire e i Goncourt parlano d'arte moderna, cioè di poeti, romanzieri, pittori le cui preoccupazioni sono di ordine formale... (il che significa) mettere le tecniche in primo piano nelle loro creazioni, parlarne, tentare di comprenderle e di criticarle". Bouvard e Pécuchet (il più "moderno" dei romanzi di Flaubert) segna una cri­si nelle varie maniere dell'autore di affrontare questi pro­blemi ed è perciò un buon oggetto d'analisi delle tecni­che "moderne"...

(Inutile aggiungere che Bouvard e Pécuchet deve essere il più "moderno" dei tuoi spettacoli altrimenti l'opera­zione non ha senso!)

2)   Scarsa importanza del "soggetto" in Bouvard e Pé­cuchet ("una tale disaffezione per il soggetto s'era già prodotta in Russia con Gogol e Gonciarov"). Flaubert lo definisce, nelle intenzioni, "un livre sur rien". Dice che dovrebbe sostenersi da se stesso, per la forza interna dello stile, come la terra si sostiene nell'aria... In una lettera a Zola   (1877), Flaubert annuncia che il libro presenterà sempre la stessa situazione di cui si varieranno gli aspetti; e teme, poveri noi, " que ce ne soit embètant a crever".

3)   Importantissimo invece, per la Wittig, il "tema" del romanzo e cioè la "cultura" (la tua raccomandazione, va­lidissima, che bisogna prendere estremamente sul serio le esperienze culturali di Bouvard e Pécuchet,). "...Poli­morfa, caotica, contraddittoria, insoddisfacente, inessen­ziale, ma appassionante". È la prima volta che questo te­ma è scelto per un romanzo, Secondo la Wittig l'amore per la cultura è una sublimazione dell'attrazione omoses­suale che Bouvard e Pécuchet provano l'uno per l'al­tro (!). Infatti scatta nei due personaggi nel momento in cui si incontrano, non prima, ed è esclusivo e violento co­me l'amore della Bovary per Leon, dì Frédéric (L'educa­zione sentimentale) per Madame Arnoux. Solo contraffat­to, volto al grottesco. (Avevamo già notato che Bouvard e Pécuchet è anche, sotto il velame, una storia d'amore inconscia), La Wittig paragona Bouvard a Sancho, Pé­cuchet a Don Chisciotte, "due altri uomini celebri che cavalcavano di conserva nel regno dell'Utopia".

4)  La struttura di Bouvard e Pécuchet (come quella del Don Chisciotte) accumula i fatti anziché seguire un ordi­ne necessario (narrativo, drammatico). I fatti sono sem­plicemente contigui, "non si contaminano e non si giu­stificano gli uni con gli altri". Anche a Flaubert, benché avesse scelto deliberatamente questa strada, il procedi­mento creò dubbi e preoccupazioni durante la stesura: "gli sembrava insolito e troppo poco romanzesco". Per­ciò introdusse fin dal capitolo 2 dei personaggi secondari (il gruppo della gente dì Chavignolles) perché sentiva il bisogno di "un semblant d'action, une espèce d'histoire continue pour que la chose n'ait pas l'air d'une dissertation  philosophique". È il nostro stesso problema. La Wittig osserva, sempre sulla struttura, che "l'aspetto ge­nerale del libro è quello di una discontinuità, quella che presentano i paradigmi, i dizionari, le enciclopedie... Con la rassegna delle esperienze negative di Bouvard e Pécu­chet,  Flaubert si  proponeva di indispettire il lettore: "C'est mon but (secret) d'ahurir tellement le lecteur qu'il en devienne fou". E ancora nella citata lettera a Zola Flaubert conferma: "Il n'aura de signification que dans son ensemble". Noi abbiamo notato da sempre il carat­tere reversibile,  non narrativo, aperto della scaletta di Flaubert.

L'articolo contiene altre interessanti osservazioni di tipo particolare (p. es. il carattere defiguré dell'amore in Bouvard e Pécuchet: la Bordin, la Mélia e l'importante scena in cui Pécuchet da voyeur osserva la Castillon of­frirsi a Gorju).

Ti ho riassunto queste note di lettura sia per chiarirmi meglio il problema, sia perché credo che a noi, rein­ventori scenici di Bouvard e Pécuchet, ci si ripropone (magari "defiguré" in senso grottesco) lo stesso proble­ma di Flaubert. Per l'eremita di Croisset era il problema di fare un romanzo che non fosse un romanzo, ma potes­se apparire tale ai lettori più schizzinosi; per noi è fare uno spettacolo che sia un antispettacolo, ma possa anche venir digerito.

Sto pensando a una "scaletta" divergente dalla solita puntualizzazione di una progressione drammaturgica, più simile a un programma del circo. Cioè, prima parie: parata del circo, numero dei cavalli, la cantante, entrata dei clown, il prestigiatore ecc. Penso soprattutto al circo americano, tipo Buffalo Bill, che conteneva " numeri " drammatici, scene di rievocazione storica ecc. Questo, na­turalmente, è l'esempio limite. Ma io credo che si debba applicare accanitamente il principio della variazione sti­listica per ottenere un efficace risultato di "discontinui­tà"; il difficile sarà il conciliare questo metodo con la necessaria "serietà" e intima tragicità dell'esperienza di Bouvard e Pécuchet.

Spero che queste note servano a provocare qualche tua riflessione. A presto, ciao

Tullio

Genova,  16-17 ottobre  1967

Caro Tullio,

replico mandandoti, tramite M.T., un libro di interesse al­meno pari a quello dell'articolo da te citato: Le second volume de Bouvard et Pécuchet a cura di G. Bollèrae. E accludendoti l'Epilogo rifatto anche in base alle accre­sciute conoscenze dello "sciocchezzario" flaubertiano. Il libro mette l'accento, credo giustissimamente, sul tema di tutta l'opera di Flaubert: la lotta contro l'imbecillità, Da ragazzo a uomo, fino, appunto, a Bouvard e Pécuchet, Flaubert ha quell'idea fissa. E ne ho tenuto conto nell'epilogo.

Sul bisogno dì dinamitare la struttura, mi troverai sempre d'accordo. Ritengo indispensabile una struttura solida sul prologo-e-incontro (— cioè fino alla partenza da Parigi — com'è adesso va già quasi bene —) e nel finale-e-epilogo (discorsi di Bouvard e Pécuchet alla folla, crollo della pedagogia, abiura, esilio in patria e dictionnaire: com'è adesso). Per tutto il resto, chiariamo che:

a)  il 1848 è già molto "inventato";

b)  le prime esperienze (medicina ecc), come ne parlam­mo, presumono un massimo di libertà;

c) tutta la seconda parte (amore/filosofia/noia/suicidio religione) sta ancora nella fase della "sceneggiatura". C'è una successione pedissequa; d'altro lato si basa su pezzi di dialogo incantevoli, da conservare;

d)  quanto mi dicesti al telefono sull'arrivo in campagna al buio mi funziona molto — e così pure (in teoria) la tecnica del circus/show esposta nella tua lettera. Tecnica applicabile, forse, proprio alla presentazione dei presupposti di Chavignolles — grazie al narratage, polemico a due?

e)   per quanto libero sia l'organismo romanzesco dì Bou-vard e Pécuchet, esso è saldamente inquadrato (nel libro) da un inizio e un finale ferrei (finale a prescin­dere della concreta fattura del Dictionnaire). Se la Wittig per "modernità" intende l'arte che parla di se stessa, l'arte per cui il soggetto è un pretesto e ma­gari un ingombro, posso aderire (con riserva). La no­zione di "moderno" è, per me, più sconvolgente, più sottile; implica l'azione dell'artista che reagisce alla "morte dell'arte" allargando talmente l'area dell'arti­sticità da includervi non solo il deforme-e-disarmonico  (già  adottato  dal manierismo/e/barocco);  non solo la tecnica-come-espressione-in sé; ma (soprattut­to) una diversa valenza verso il suo pubblico, che pre­tende partecipe. Studiando per una conferenza tenuta a Venezia, ho visto che un salto decisivo ci fu quando Nietzsche a proposito della tragedia greca sostituì al­la imitazione degli antichi dell'estetica rinascimentale la emulazione della loro esperienza spirituale: non si vuol più recuperare un magistero formale, bensì una ricchezza dì vita.

Nonostante il "tono critico" della grande arte da Baudelaire in poi, tu senti sempre che l'artista va cercan­do di conservare calda e aromatica l'esperienza vita­le di cui ti parla, quasi egli speri che tu possa goder­ne e patirne in eterno assieme con lui. Onde l"'aper­tura"...

Allora, Bouvard e Pécuchet, il nostro Bouvard e Pécuchet (opera, ti prego di credere, autonoma — almeno quanto le Demoiselles d'Avignon rispetto al bordello avignonese reale, o meglio le Ninas rispetto a Velasquez) dev'essere teatro aperto — non solo struttura drammaturgica aper­ta. E lo è nella nostra comune intenzione di agire median­te Bouvard e Pécuchet. Bouvard e Pécuchet dev'essere, al tempo stesso, una sghignazzata sulla bestialità del prossimo e un inno alla buonafede: uno spettacolo, co­me indichi tu, modernissimo in questo oltre e prima che nella forma.

Se verrai qui e vedrai Tango vi noterai (spero sia chiaro) la burla e la disperazione sull'arte sperimentale, sull'ar-te/come/vita; ci ho costruito su lo spettacolo, fino al "vuoto di potere" finale riempito dai "colonnelli". In Bouvard e Pécuchet il vuoto finale dovrebbe essere un ri­succhio, un maelstròm — l'imbecillità dovrebbe incom­bere come minaccia dì annichilimento planetario, rial­lacciandoci (anche in questo) allo Zeno. I due, che pro­vocano le "frasi fatte" degli altri personaggi, devono es­sere presi in un sadomasochismo contagioso, universale, per cui sprofondano nel gorgo anche loro. Il dizionario come ciclotrone, come bottiglia elettromagnetica per con­tenere la fusione nucleare.

Tuo Luigi

Teatro Stabile di Genova

Sala Politeama Genovese, 20 novembre 1967

Regia di Luigi Squarzina

Scene e costumi diPierluigi Pizzi

Musiche di Angelo Musco da Gounod

PERSONAGGI E INTERPRETI

Bouvard

Tino Buazzelli

Pécuchet

Glauco Mauri

Descambos

Arrigo Torfi

Il Capoufficio del Ministero

Vittorio Penco

Padron Gouy

Enrico Ardizzone

La vedova Bordin

Rita Di Lernia

Ilparroco Jeufroy

Roberto Paoletti

Hurel

Antonello Pischedda

Il dottor Vaucorbeil

Maggiorino Porta

La Signora Vaucorbeil

Luisa Bertorelli

Il notaio Marescot

Daniele Chiapparino

La Germana

Myria Selva

La Mélia

Carla Bolelli

Il Conte De Faverges

Raffaele Giangrande

Il Capitano Heurtaux

Sandro Dal Buono

Il sindaco Foureau

Pupo De Luca

Gorju

Renato Campese

Placquevent, la guardia campestre

Bruno Alessandro

Romiche, il gobbo

Alberto Carpanini

La Castejon

Olga Boero

L'Albergatore Beljambe

Vittorio Penco

Il Maestro Petti

Gianni De Lellis

La Contessa De Faverges

Gianna Dauro

La Signorina De Noares

Dina Braschi

Vittorio

Adelmo Taddei

Vittorina

Stefania Riccetti

Un gendarme

Mario Marchi

Colleghi d'ufficio di Bouvard e Pécuchet,

 un fattorino,  contadini, operai, borghesi, gendarmi.


Primo tempo

1.

Le corde.

Lo spazio scenico è buio. Entra qualcuno di corsa con una candela in una bugia. La poca luce rivela che siamo in un granaio dove al centro da una trave pendono due corde fatte a cappio con sotto due sgabelli. L'uomo è in vestaglia, una vecchia vestaglia lunga fino ai piedi. È sconvolto. Cerca le cor­de, posa a terra la bugia, monta su uno sgabello, s'infila il cappio al collo, tutto freneticamente e barbugliando tra sé. Intanto si è sentita un'altra voce.

Bouvard                        - Pécuchet! Pécuchet! Non lasciarmi solo! (Entra di corsa l'altro. Anche lui è in vestaglia. Ha vagato per tut­ta la casa al buio cercando e inciampicando) Sei qui, eh? Do­ve sei? (Lo vede) Aspettami, vigliacco, razza di egoista, aspet­tami! (Sale sull'altro sgabello)

Pécuchet                       - Vattene, lasciami stare, sarò padrone di mori­re da solo!

Bouvard                        - Nossignore! O tutti e due o nessuno! (Si passa la corda al collo anche lui)

Pécuchet                       - Non ti voglio!

Bouvard                        - Avevi detto che un suicidio a due sarebbe stato degno di Catone!

Pécuchet                       - Ma se non hai neanche il coraggio!

Bouvard                        - Sta a vedere se non ho il coraggio... (Armeggia intorno al cappio per prepararsi) Piantarmi cosi, dopo anni che...

Pécuchet                       - Lo vedi? Sempre a rinfacciarmi che campo alle tue spalle!

Bouvard                        - Io non l'ho mai detto!

Pécuchet                       - L'hai pensato! Sei stanco di me, ma io ti lascio libero! Voglio morire indipendente! E da solo! E subito! (Sembra proprio deciso a scalciare via lo sgabello)

Bouvard                        - Fermati, Pécuchet! (Pécuchet si ferma, lo guar­da interrogativo. Bouvard si toglie il cappio) Non possiamo farlo cosi. Non abbiamo fatto testamento.

Pécuchet                       - Che importanza ha? Vada tutto in malora.

Bouvard                        - Vuoi che ci trovino qua appesi senza lasciare due righe di spiegazione? Un po' di senso della respon­sabilità, che diamine! (Pécuchet si toglie il cappio e scende a malincuore anche lui)

Pécuchet                       - E va bene, ma sbrighiamoci.

Bouvard                        - Chi l'avrebbe detto che la nostra vita sarebbe finita qui, nel granaio di Chavignolles... E pensare che siamo stati... (S'infuria contro se stesso) Perché parlo sempre al plurale? Io sono io e tu sei tu!

Pécuchet                       - Cosa volevi dire con quel "siamo stati"?

Bouvard                        - Siamo stati bene insieme... (Pécuchet fa un ge­sto di disprezzo) Al principio, intendevo. Adesso ho capito che serpe mi scaldavo in seno, ma la mia disgrazia è stata che a prima vista...

Pécuchet                       - Senti chi parla! Tu, per chi non ti conosce... Bouvard e Pécuchet (insieme) Maledetto il giorno che ci siamo incontrati.

Pécuchet                       - Quella domenica pomeriggio potevo rimanere dieci minuti di più all'Orto Botanico!

Bouvard                        - Ma se venivi dalla parte della Bastiglia.

Pécuchet                       - Tu venivi dalla Bastiglia, io ero stato all'Orto Botanico. Tu di là, io di qua. (Lo tira per la manica)

Bouvard                        - No, tu di là e io di qua!

Pécuchet                       - Se mi ricordo benissimo!

Bouvard                        - Ma fammi il piacere! Venivi di là, di là... (Tiran­dolo per la manica lo spinge fuori a destra)

Pécuchet                       - Eri tu che venivi dalla Bastiglia, non fare il prepotente!

 Bouvard                       - Tu venivi di là,., e io di qua! (Corre fuori dalla parte opposta per dare una dimostrazione pratica)

2.

Parigi. L'incontro.

 Mentre sparisce il granaio con i due cappi, luce di pomeriggio estivo. Una panchina al centro. Da sinistra, poiché aveva ra­gione lui, rientra Pécuchet in redingote marrone, con un ber­retto a visiera; dall'altra parte Bouvard vestito di tela, il pan­ciotto sbottonato e il cappello sulla nuca. Adesso li vediamo meglio. Bouvard è biondo, riccioluto, occhi celesti, viso acce­so, corporatura imponente. L'aspetto di Pécuchet è serio: cra­nio a pera, ciocche nere e lisce, naso lungo e calante, figura rinsecchita. Siedono quasi contemporaneamente sulla panchina. Si cavano i cappelli e li posano tra di loro. Una pausa.

Bouvard                        - Vedo che anche lei ha avuto la mia stessa idea. (Pécuchet lo guarda diffidente) Si, di scrivere il suo nome den­tro il berretto.

Pécuchet                       - Qualcuno all'ufficio potrebbe portarmelo via.

Bouvard                        - Ci ho pensato anch'io e ho fatto la stessa cosa. (Una pausa) Che caldo, eh? Trentotto all'ombra. (Si asciuga il sudore con un fazzoletto) Parigi sarà bella, ma nel mese di agosto io preferisco la campagna.

Pécuchet                       - A parte le orde nelle trattorie.

Bouvard                        - Non dico la periferia. La campagna, quella vera. Ha mai vissuto in campagna, lei? Già, allora non può capire. Guardi qua, che panorama: un mucchio di pietre da costru­zione, là un canale di acqua sporca e in fondo ciminiere di fabbriche.

Pécuchet                       - Per non parlare della puzza.

Bouvard                        - Comincio ad averne abbastanza della città, io.

Pécuchet                       - Fa più caldo in strada che in casa.

Bouvard                        - Ma faccia come me, si tolga la giacca, signor... Pécuchet.

Pécuchet                       - No, grazie, signor... Bouvard.

Bouvard                        - Che sbornia, quello là. È un operaio che festeg­gia la domenica... A proposito, lei come la pensa sulla que­stione sociale?

Pécuchet                       - Be', io... Le dirò... È una questione complessa.

Bouvard                        - Proprio cosi. Guardi, guardi quei tre calessi.

Pécuchet                       - è un matrimonio. (Seguono con lo sguardo il passaggio dei calessi)

Bouvard                        - Eccone un'altra che ha catturato la sua preda. Chi dice donna... Piene di capricci, bisbetiche...

Pécuchet                       - Per vivere in pace bisogna farne senza. Non per niente sono rimasto scapolo.

Bouvard                        - Io sono vedovo. Senza figli.

Pécuchet                       - E scommetto che se ne trova bene.

Bouvard                        - Mah... A volte, però, una mora come quella, appesa al braccio di quel soldato... Eh? (Pécuchet annuisce per compiacenza) Viene voglia, che ne dice, di un mappa­mondo per ripassare la geografia. (L'altro lo guarda senza ca­pire) Ma si, sotto le coperte! Un bel paio di chiappine calde!

Pécuchet                       - Non vede che sta passando un prete? (Bou­vard si arresta il tempo necessario, poi riprende)

Bouvard                        - Adesso che il tricorno è sparito le posso dire che per me i gesuiti... Non so lei.

Pécuchet                       - Una cosa sono i preti e una cosa è il sentimen­to religioso.

Bouvard                        - Bravo. Sarebbe come confondere il piacere che dà il fumo con gli imbrogli della manifattura tabacchi. (Si alza per andarsene) Del resto, poco mi fa o non mi fa la reli­gione, se non ostacola il progresso della scienza.

Pécuchet                       - La scienza, che grande cosa! E quanti vantag­gi porta al genere umano.

Bouvard                        - Pensi lei quanti problemi restano da chiarire, quante ricerche da fare.

Pécuchet                       - Ad averne il tempo... Ma purtroppo bisogna guadagnarsi il pane quotidiano. Dico per me, naturalmente, lei magari ha una professione che le lascia molta libertà. (Bouvard torna a sedersi. Batte amichevolmente una mano sul ginocchio di Pécuchet)

Bouvard                        - Io? faccio il copista, si figuri.

Pécuchet                       - Anche lei?

Bouvard                        - Non mi dica che...

Pécuchet                       - Al Ministero della Marina.

Bouvard                        - Io in una ditta commerciale. Fratelli Descam-bos, stoffe d'Alsazia.

Pécuchet                       - Che combinazione. (Si danno la mano. Poi si guardano un po' esitanti)

Bouvard                        - Mi chiedevo, signor Pécuchet, se non le andreb­be di cenare insieme.

Pécuchet                       - L'ho pensato anch'io ma non osavo propor-glielo. (Si avviano. Bouvard cammina a grandi passi, Pécu­chet lo segue a passettini)

(Dopo il pranzo Pécuchet ha voluto far vedere la sua stanza a Bouvard. Entrano nella stanza disordinata e ingombra di libri e scartafacci, con il letto non rifatto sul cui cuscino è stata dimenticata e sembra giganteggiare la spazzola per le scarpe. Qui e in seguito non ci sarebbe da stupirsi se, nel dop­pio sfalsamento della memoria, gli ambienti e i gruppi umani rievocati si presentassero ai due protagonisti come presenze mnemoniche deformate: immagini troppo sintetiche dove un oggetto potrebbe spiccare pantografato, il cielo starsene in cornice come un quadro, un personaggio essere diventato un dagherrotipo più grande \_Pécuchet\ o più piccolo [Bouvard] del vero, le voci risultarne manipolate, e cosi via)

Pécuchet                       - La mia sete di sapere non si è spenta quando ho dovuto interrompere gli studi. Come vede ho molti libri: "L'Enciclopedia divulgativa", i primi volumi della "Rivolu­zione francese" del Thiers dove mi vanto di aver pescato nu­merose inesattezze... Ma si accomodi. (Toglie una pila di libri da una sedia per far accomodare Bouvard)

Bouvard                        - C'è odor di chiuso. Apriamo la finestra?

Pécuchet                       - Le mie carte voleranno via.

Bouvard                        - Se non tira un filo d'aria. (Fa per aprire)

Pécuchet                       - La prego, io temo le correnti.

Bouvard                        - Scommetto che porta la maglia di flanella. Se fossi in lei me la toglierei.

Pécuchet                       - ... le infreddature...

Bouvard                        - ...via, via!

Pécuchet                       - Parola d'onore, sa che lei mi fa fare ciò che vuole... (Si toglie la maglia. Poi si spazzola le scarpe e rimette la spazzola sul cuscino. Escono a passeggio) Mia madre non l'ho conosciuta. Mio padre era un modesto commerciante. A quindici anni mi tolsero dal collegio e mi impiegarono nel­lo studio di un curatore di fallimenti. Fini in galera, ricordo ancora lo spavento. Dopo feci tanti mestieri: l'aiuto farmaci­sta, il vice prefetto in un educandato femminile, il contabile su un vaporetto della Senna. Là un capo reparto del Ministero notò la mia calligrafia e mi assunse.

(La stanza di Bouvard è lucidata a cera con linde tendine di percalle e un poggiolo. Sul cassettone un servizio da tè, dagherrotipi di amici incastrati nello specchio. Al centro il ritratto a olio di un uomo imponente con favoriti biondi, molto simile a Bouvard)

Pécuchet                       - È suo padre!

Bouvard                        - Mio zio. Mi ha fatto da padrino. Ho preso da lui i miei tre nomi: Francesco Dionigi Bartolomeo.

Pécuchet                       - Giustino Romano Cirillo. Ne ho tre anch'io.

Bouvard                        - La mia infanzia l'ho vissuta tutta in campagna. Mi ricordo che giocavo sull'aia di una fattoria. Poi lo zio mi portò con sé a Parigi per avviarmi al commercio. A trent'anni mi fu versata una certa somma; allora presi moglie e aprii una pasticceria.

Pécuchet                       - E suo zio?

Bouvard                        - Non l'ho più visto. Mi è rimasto il suo ritratto. Anche mia moglie spari, sei mesi dopo il matrimonio... e con lei la cassa del negozio. Il mio temperamento mi ridusse presto in bolletta e cosi pensai di sfruttare la mia bella scrittura.

Pécuchet                       - La provvidenza a volte è meravigliosa nelle sorprese che prepara. Si, perché se qualche ora fa... Insomma se lei e io non fossimo usciti a prendere un po' d'aria...

Bouvard                        - C'era il caso che andassimo al cimitero senza esserci conosciuti. (Una pausa di lieve imbarazzo. Poi i due tirano fuori contemporaneamente i biglietti da visita e dico­no insieme)

Bouvard e Pécuchet      - Ecco l'indirizzo del mio ufficio. (Dopo una pausa, intascando ognuno il biglietto dell'altro, an­cora contemporaneamente) Buonanotte. (Mentre Pécuchet si avvia Bouvard gli grida dietro una battuta scherzosa)

Bouvard                        - E non mi vada a donne, mi raccomando! (Un brivido di Pécuchet)

Mentre sparisce la stanza di Bouvard i due si infilano le mezze maniche. Poi spingono dentro, agli estremi opposti del­lo spazio scenico, i deschi da ufficio. Sono chiari i loro pen­sieri: "Sempre la stessa giacchetta. Sempre le mezze maniche. Aver sempre a che fare col raschio. Con la gomma. Il cala­maio, sempre lo stesso. Le stesse penne. E gli stessi colleghi". Appaiono intorno ai due copisti i colleghi e i rispettivi capuf­ficio)

Descambos                    - Signor Bouvard, le faccio notare che oggi è il 20 gennaio e non il 30 febbraio 1839. Giorno che fra l'al­tro non esiste.

Bouvard                        - Un attimo di distrazione, signor Descambos.

Descambos                    - Un attimo che dura da mesi. E non si limiti a cancellare la data, ricopi il documento per intiero. Un collega di

Bouvard                        - Ti sei innamorato, Bouvard? (Ri­sate)

Il capoufficio del ministero    - Signor Pécuchet, quante ore fanno sessantaquattro quarti d'ora?

Pécuchet                       - lo sono un copista, signore, non un contabile. (Interviene un collega) Laplume             - Fanno sedici ore.

Il capoufficio                - Esatto, signor Laplume. Quindi lei, signor Pécuchet, con i suoi ripetuti ritardi di un quarto d'ora ha sottratto allo stato sedici ore del suo tempo. Pari a quasi due" giornate di stipendio, che le saranno trattenute.

Pécuchet                       - Lei è contabile nell'anima, Laplume, se lo la­sci dire. (Ricominciano a copiare)

Bouvard                        - Mi prendono in giro perché adesso frequentiamo i musei.

Pécuchet                       - Gli elefanti impagliati mi sbalordiscono.

Bouvard                        - Le farfalle sono incantevoli.

Pécuchet                       - Abbiamo anche assistito a una seduta dell'Ac­cademia di Francia.

Bouvard                        - Vattela a spiegare la simpatia. Forse consiste nell'affinità dei gusti.

Pécuchet                       - Perfino i difetti che di solito ci sono odiosi possono attirarci verso una persona.

Bouvard                        - Mi sembra di ritrovare delle parti dimenticate di me stesso.

Pécuchet                       - Intravedo cose confuse e meravigliose.

Bouvard                        - Che ci sia il colpo di fulmine anche nell'amici­zia? Ieri siamo andati a passeggiare in campagna. Che bello vagabondare tutta la domenica fra le vigne, sui prati... .

Pécuchet                       - È stato ancora più avvilente ritrovarsi qua den­tro il lunedì. Eppure una volta questa mediocrità non mi di­sgustava tanto.

Bouvard                        - Curioso. Più cose uno vede, più idee uno acqui­sta, più aumenta la sua capacità di soffrire.

Pécuchet                       - Meglio fare il saltimbanco sulla pubblica piaz­za.

Bouvard                        - Uno straccivendolo almeno è libero. Che vita abominevole.

Un fattorino                  - Signor Bouvard, una lettera per lei. Un collega di

Bouvard                        - Che cosa vi dicevo? È la sua bella, che gli scrive in ufficio! (Risate. Bouvard apre la let­tera, legge. Alza le braccia al cielo, rovescia la testa all'indie­tro e cade svenuto)

I colleghi                       - Bouvard! Toglietegli la cravatta! Chiamate un medico! (Bouvard rinviene)

Descambos                    - Signor Bouvard, che cosa si sente?

Bouvard                        - ...Il signor Pécuchet! Devo vederlo subito! (Si precipita all'ufficio di Pécuchet, che lo accoglie sbalordito. Si appartano per non essere sentiti dagli altri)

Pécuchet                       - Signor Bouvard, che cos'è successo?

Bouvard                        - È morto mio zio. (Pécuchet gli apre le braccia per condolersi)

Pécuchet                       - Che disgrazia!

Bouvard                        - Ma io eredito! Eredito!

Pécuchet                       - Non è possibile.

Bouvard                        - Legga lei stesso. (Gli porge la lettera)

Pécuchet                       - "Studio del notaio Tardivel, 14 gennaio 1839. Si­gnore, il testamento del suo padre naturale (Occhiata a Bou­vard) signor Francesco Dionigi Bartolomeo Bouvard, deceduto in questo comune il 10 del presente mese, dispone che sia attribuita a lei, suo figlio naturale riconosciuto (Altra occhia­ta) la quota dell'eredità disponibile per legge. L'ammontare della quota a lei spettante è di circa duecentocinquantamila franchi..." Purché non sia uno scherzo.

Bouvard                        - Guardiamo il timbro postale. Savigny. Sembra a posto... Duecentocinquantamila franchi, capisci? Quindici­mila franchi di rendita!

Pécuchet                       - Ecco perché le somigliava tanto.

Bouvard                        - Finalmente? Sai che cosa faremo? Ci ritireremo in campagna! Non più copiare, niente più capoufficio, nien­te affitto alla fine del mese. E basta con quei sughi della trattoria! Mangeremo i polli del nostro cortile, faremo tutto quello che ci pare, ci lasceremo crescere la barba... Ci pensi?

Pécuchet                       - In campagna! Ma dove? (Camminano su e giù. Bouvard dà dei pugnetti nella schiena di Pécuchet, che sobbalza)

Bouvard                        - Il Nord è fertile.

Pécuchet                       - Però è freddo.

Bouvard                        - Il mezzogiorno è incantevole.

Pécuchet                       - Pieno di moscerini.

Bouvard                        - Il centro... Ammetto, quello non ha niente di speciale. L'importante, però, è avere un posto nostro. Dob­biamo partire subito.

Pécuchet                       - Subito, no. (Bouvard rimane deluso) Mi manca solo qualche mese per arrivare alla pensione. Non crederai che voglia vivere alle tue spalle. Anche se ormai ci stiamo dando del tu.

Bouvard                        - È vero. Be', aspetteremo. Intanto c'è da scegliere il posto, ci sono tanti preparativi da fare...

Pécuchet                       - Io porterò i miei libri...

Bouvard                        - Io il servizio da tè... (Pécuchet e Bouvard, nei rispettivi uffici, si congedano dai colleghi)

Pécuchet                       - Cari colleghi, in tutti questi anni io qui dentro ho patito le pene dell'inferno e questo grazie a voi. Perché voi non siete altro che un branco di mediocri senza slanci e senza interessi, e qualcuno anche spia. Ma mentre voi am­muffirete copiando e ricopiando stupide pratiche, sarete puniti dal pensiero che io intanto me ne starò in campagna, all'aria aperta, a coltivare l'orto e lo spirito.

Il capoufficio                - Chi è che disturba?

Laplume                        - Stavamo ascoltando il signor Pécuchet.

Il capoufficio                - Ancora lei!

Pécuchet                       - Si, signore, ma per l'ultima volta. (Se ne va sbattendo la porta. Bouvard è fra i colleghi che alzano il bicchiere del punch da lui offerto)

I colleghi                       - Evviva! Alla salute!

Bouvard                        - Chavignolles si chiama il posto. Un podere di 38 ettari con casa colonica e una specie di castello appena fuori del paese, con orto e giardino. Un collega   - Tutto comperato con l'eredità?

Bouvard                        - Per quattro quinti. Una parte ce l'ha messa un mio amico. Eh cari amici, mi aspettano anni di pace e di serenità.

Un collega                     - Beato te.

Bouvard                        - Eppure se ricordo i giorni trascorsi in questa metropoli, i pranzetti in compagnia, le serate a teatro... e le incursioni in certi posticini... Se penso ai lampioni dei Lungo-senna che tremano nell'acqua, al rotolio degli omnibus,..

3.

Chavignolles. L'agricoltura, l'orticoltura, il giardinaggio.

Sull'addio a Parigi è scesa la sera. Bouvard è solo in una notte senza luna né stelle. Gracidio di grilli, gracchiare di rane. Accanto a Bouvard turbato e commosso qualcuno accende una candela: è Pécuchet. Sono appena arrivati a Chavignol­les, si preparano a esplorare l'orto e il frutteto. Un gallo canta.

Pécuchet                       - Oddio, che cos'è?

Bouvard                        - Un gallo.

Pécuchet                       - Cantano anche di notte?

Bouvard                        - Succede.

Pécuchet                       - Magari è un gallo dei nostri.

Bouvard                        - Mi sembra di essere tornato bambino. Esploria­mo. La roba dal carro la scarichiamo domattina. (/ due si muovono cautamente nell'oscurità) L'erba gronda di rugiada... Senti che aromi...

Pécuchet                       - Se arrivavamo di giorno chissà che spettacolo.

Bouvard                        - Eccole! Ecco le carote!

Pécuchet                       - L'insalata, i radicchi! I cavoli, i cavoli, guar­da i cavoli! (Nel precipitarsi verso i cavoli inciampa e fini­rebbe a terra se Bouvard non fosse pronto a sostenerlo)

Bouvard                        - Laggiù mi par di indovinare... Ci devono es­sere gli alberi da frutta.

Pécuchet                       - E i campi dove sono?

Bouvard                        - Qui davanti a noi... Là a destra c'è il granaio, dall'altra parte i pioppi. (Alle loro spalle appare il fattore, padron Gouy: fronte bassa, naso da volpone, sguardo sfug­gente e spalle robuste)

Gouy                             - No, signori, il granaio è di qua e i pioppi a destra.

Pécuchet                       - Va bene, va bene. Che differenza c'è?

Gouy                             - Eh, lor signori sono cittadini. Non possono sa­pere. Vedranno, capiranno. Le stalle sono da rifare, bisogna cambiare le serrature ai cancelli, tirar su gli argini, ripulire lo stagno...

Pécuchet                       - Ma chi è costui? Cosa vuole?

Gouy                             - Sono il mezzadro, padron Gouy, per servirla. (Pécuchet bisbiglia fra i denti a Bouvard)

Pécuchet                       - Bisogna mandarlo via, eh? Trova subito una scusa. È la nostra proprietà, la nostra fattoria. La dobbiamo curare da soli!

Gouy                             - Le coltivazioni inghiottono il concime e non ren­dono niente. I trasporti costano un occhio. I prati sono pie­ni di erbaccia e contro i sassi abbiamo perso la guerra.

Bouvard                        - Se è cosi, potete far fagotto domani mattina.

Gouy                             - Ma è un abuso! Loro non possono mandarmi via da questa terra che amo come se fosse mia.

Pécuchet                       - Non rinnoviamo il contratto e basta. Vogliamo fare tutto da soli. Vero, Bouvard? (Padron Gouy fa un gesto sconsolato e se ne va) Pianteremo, sarchieremo, poteremo, se­mineremo... Da soli dobbiamo fare, da soli. (/ grilli e le rane tacciono)

Bouvard                        - Questa è la pace del paradiso terrestre. Ascol­ta... Ascolta il silenzio, Pécuchet...

(Nel silenzio perfetto il gallo canta ancora una volta. Ma sull'eco del chicchirichì una luce abbagliante di colpo mostra i due amici nel mezzo dell'intera comunità di Chavignolles invitata alla fattoria per un ricevimento di saluto. Tutti parlano insieme ad alta voce e la speranza del paradiso terrestre è già dimenticata. Anche qui i processi mnemonici dei due amici giocano dei tiri de­formanti e contraddittori, come se ne sperimentano in ciò che si può chiamare "la memoria della coppia". Va da sé che nel corso della scena, e di tutte le altre scene ricordate, i mate­riali della memoria si sciolgono via via in realtà quotidiana. La vedova Bordin ha un cappellino pieno di nastri rosa, un orologio d'oro sul petto, i guanti neri, le mani con tanti anelli. Il dottor Vaucorbeil, accompagnato dalla moglie incinta, ha i capelli grigi e è vestito di nero. Il conte de Faverges ha l'abito da dandy, stretto in vita, e i favoriti. Il sindaco Foureau è in panciotto di velluto; il notaio Marescot in panama e mo­nocolo; il prete, Jeufroy, ha la sottana nuova; l'intendente di Faverges, Hurel, ha la finanziera e appare accaldato; Heurtaux, infine, ha il tipico aspetto del militare a riposo. Pé­cuchet rimprovera Bouvard gridando per non farsi soverchiare dal bailamme: siamo tornati, per un momento, nella situazio­ne del granaio)

Pécuchet                       - Il tuo capolavoro! Sei stato tu che hai riem­pito la casa di gente.

Bouvard                        - Io? Chi è stato ad attaccar discorso con la ve­dova Bordin?

Pécuchet                       - La chiamo a testimone, guarda. Mi fermò lei, la tua vedova. Io me ne stavo raccogliendo il letame sulla strada qui fuori,

Bordin                           - Speravo proprio di avere la fortuna, avevo no­tato il loro arrivo, come stanno, come si trovano qui a Cha­vignolles, chissà che differenza con la Capitale... E che bella proprietà ha comperato il suo amico...

Pécuchet                       - Una fiumana. E io mi guardai bene dal darle confidenza. Tenni le distanze, io. E qualcuno... qualcuno!... mi rimproverò perché ero stato maleducato.

Bouvard                        - Ma se morivi dalla voglia di far ammirare la casa ai maggiorenti di Chavignolles. Di farti bello con il dot­tore e la sua signora, con il sindaco, con il notaio, con il capitano... e con il prete, naturalmente.

Jeufroy                          - Mi compiaccio di annoverare nel mio gregge due nuovi parrocchiani cosi distinti e benedico di cuore la loro casa.

Pécuchet                       - E chi è che è corso a invitare il signor conte de Faverges? Non stavi nella pelle all'idea di averlo in casa tua con dietro quel tirapiedi del suo amministratore!

Hurel                             - Il signor conte accetta di rado gli inviti. Antica nobiltà, loro sapranno, e poi è stato deputato... Non so, non prometto niente, ma forse per loro che vengono da Parigi... Chissà. (Con il progredire della lite fra Bouvard e Pécuchet gli invitati si sono azzittiti come se stessero assistendo a una baruffa in famiglia)

Bouvard                        - Eri tu che te la facevi addosso per la smania di far gustare le tue conserve, i tuoi distillati!

Pécuchet                       - Miei? Ma se a un liquore hai dato perfino il tuo nome: la Buvarina. Te la sei scordata la Buvarina?

(Gli ospiti si scuotono all'arrivo della Buvarina in due bottiglie recate da un'anziana donna tuttofare e da una giovane ser­vetta, cioè da Germana e da Melia. Di nuovo impegnati a rivivere le loro esperienze Bouvard e Pécuchet prendono le bottiglie e si apprestano a servire gli ospiti)

Bouvard                        - Gentili signore, cari amici, vorrei farvi gustare un aperitivo che è opera mia e del signor Pécuchet.

Jeufroy                          - Mi piacciono le cose fatte in casa.

Vaucorbeil                    - Sono sempre migliori di ciò che si compera in bottega.

Pécuchet                       - Il signor Bouvard, per modestia, non vi ha detto come abbiamo battezzato il liquore: Buvarina! (Sorrisi, un tentativo di applauso garbato. Bouvard si schermisce)

Bordin                           - Che nome indovinato!

Pécuchet                       - Signora Vaucorbeil... Signor parroco... (Ver­sano la Buvarina a tutti gli invitati)

Bouvard                        - Vorrebbe essere un misto di maraschino, char­treuse e krambambuli. Una formula segreta. (Tutti hanno aspettato a bere il momento del brindisi. Solo Hurel, che ha assaggiato di nascosto e fatto una smorfia, cerca di far ca­pire al conte che la Buvarina è imbevibile) E allora alla sa­lute! (Alza il bicchiere. Tutti bevono centellinando. Primi segni di perplessità, anche Bouvard non è convinto. Gli invi­tati si guardano l'un l'altro timorosi. Vaucorbeil si rivolge alla moglie. Hurel sputa)

Hurel                             - Ma non si può bere.

Vaucorbeil                    - Cara, nel tuo stato forse è meglio... Signora

Vaucorbeil                    - Certo, ha un saporino...

Bordin                           - Sarà questa bottiglia.

Jeufroy                          - Anche quest'altra però... Qualcuno, per corte­sia, tenta ancora l'assaggio. Heurtaux, con piglio marziale, si decide e beve di un colpo. Mentre tutti cominciano a spu­tare e posano i bicchierini il capitano stramazza al suolo)

Bordin                           - Ha bevuto di colpo. Signora

Vaucorbeil                    - Oh Dio, non voglio vedere!

Hurel                             - La testa! Tenetegli la testa!

Marescot                       - Trinca sempre cosi, alla militare,

Vaucorbeil                    - È imprudente. Senza sapere quello che si be­ve. (Un'occhiataccia a Bouvard e Pécuchet che si precipitano a risollevare Heurtaux e a farlo sedere su una poltrona)

Heurtaux                       - È stato come a Waterloo quando mi presi un calcio da un cavallo.

Hurel                             - Qui ci vorrebbe un cordiale.

Bouvard                        - Volete provare quello che fabbrichiamo noi? (Heurtaux fa un cenno di diniego, imitato dagli altri che vol­tano le spalle per non incontrare lo sguardo di Bouvard)

Jeufroy                          - Io bevo solo a messa.

Bordin                           - Come si sente capitano?

Bouvard                        - Ha diritto, per rifarsi la bocca, a un bicchiere della nostra birra. (Fa un cenno a Pécuchet che arriva con il barilotto) La fabbrichiamo con le foglie del querciolo. È una specialità tedesca. (Ne versa un bicchiere e si prepara a versarne altri)

Vaucorbeil                    - Alto là, non beva. Non è mica la birra che avete dato ai vostri mietitori?

Bouvard                        - L'hanno trovata eccellente.

Vaucorbeil                    - E dopo sono venuti da me a farsi curare la dissenteria. (Allontana il barilotto con un gesto deciso)

Faverges                        - Signori miei, la distillazione è una scienza che non si studia sui manuali. La pratica vai più della gramma­tica. Non ci si improvvisa birrai, come non ci si improvvisa agricoltori.

Hurel                             - E voi due, per prima cosa, avete licenziato il mez­zadro. Per me tutti i vostri guai sono cominciati di là.

Germana                       - Dopo quello che padron Gouy aveva fatto per questa terra.

Pécuchet                       - Silenzio!

Hurel                             - Insomma, cari i miei parigini, i vostri metodi mo­derni non hanno funzionato. Li ho visti io i montoni, qui nel cortile, quando hanno cominciato a girare in tondo... cosi... (Rifa il verso e la mimica dei montoni ammalati) e sono schiattati.

Foureau                         - Mi hanno detto che vi sono morti anche i buoi.

Vaucorbeil                    - Troppi salassi.

Bordin                           - E tutte quelle povere galline con le zampe spez­zate?

Pécuchet                       - Il fatto è che volevamo liberare il podere dalle larve.

Faverges                        - E allora?

Pécuchet                       - Abbiamo costruito una gabbia montata su ruo­te, una cosa piuttosto ingegnosa; ci abbiamo messo dentro le galline e abbiamo avviato questa specie di gabbia-carriola lungo i solchi...

Bouvard                        - Speravamo che dalla gabbia le galline beccasse­ro le larve. È un metodo olandese garantito. (Risate)

Jeufroy                          - Noi ridiamo, ma i signori qui hanno avuto un bel danno.

Marescot                       - Scommetto che questo primo anno avete chiu­so in deficit. (Bouvard allarga le braccia sconsolato)

Marescot                       - E allora perché non vendete la fattoria?

Pécuchet                       - No, no. Una pera che al produttore viene a costare tre soldi, a Parigi si vende a cinque o sei. Ci rifa­remo con la frutticoltura.

Hurel                             - Potando gli alberi a piramide o a candelabro co­me vi ho visto fare? Soffocandoli di concime?

Pécuchet                       - Lei forse non sa che a Pietroburgo l'uva viene venduta a un napoleone al grappolo. D'inverno, s'intende.

Hurel                             - E poi chi ve lo porta il vostro grappolo da Cha-vignolles a Pietroburgo?

Marescot                       - Parliamo un po' sul serio, signor Bouvard. Non cederebbe neppure la parte del torrente? Lei che ne direbbe,  signora Bordin?

Bordin                           - A me forse potrebbe interessare. Ma chissà quan­to ne chiede il signor Bouvard.

Foureau                         - Una donna come lei può sempre conquistarlo.

Bordin                           - Abituato com'è alle parigine?

Bouvard                        - Non mi tirerei certo indietro.

Foureau                         - Provi a dargli un bacio, signora Bordin.

Bouvard                        - Perché no? Proviamo. (Prende la Bordin per le mani e le dà un bacio su tutte e due le guancie. Risate e applausi. Pécuchet, imbarazzato, fa un cenno a Melia e in­sieme tirano le cortine. Appare fuori dalla veranda il giar­dino con la tomba etrusca, il ponte di Rialto e il laghetto. Tutti mandano un oh di meraviglia)

Pécuchet                       - Opera mia e del signor Bouvard. Ci siamo ispi­rati al più classico testo in materia: "L'arte di comporre e decorare i giardini".

Vaucorbeil                    - Mai vista una cosa simile.

Faverges                        - C'è dell'originalità, senza dubbio.

Foureau                         - Anche troppa. (Non riescono a trattenere le risatine)

Bordin                           - Ma quella specie di canile in muratura cosa sa­rebbe?

Pécuchet                       - È una tomba etrusca, signora vedova. Appar­tiene al giardino di genere romantico, che come ognun sa deve avere piante sempreverdi, resti archeologici e tombe.

Faverges                        - E quello che cosa sarebbe? Il ponte di Rialto?

Pécuchet                       - Esattamente.

Hurel                             - A che serve il ponte se nel laghetto manca l'acqua?

Bordin                           - Se avessi davanti a casa un giardino simile non dormirei tranquilla. Tra quelle rovine mi aspetterei sempre di vedere un fantasma.

Bouvard                        - Le tipiche paure di una donna troppo sola.

Pécuchet                       - I fantasmi nel secolo della scienza? (La Bor­din, sempre guardando verso il giardino, caccia un urlo. Anche la signora Vaucorbeil urla. Semisvenuta fra le braccia di Bouvard la Bordin indica tremando un punto delle mura dove nella luce del crepuscolo è apparsa una figura)

Jeufroy                          - Vade retro!

Faverges                        - Hurel, accanto a me!

Heurtaux                       - Formiamo un quadrato!

Foureau                         - Ma no, ma no... È quel fannullone di Gorju. Co­sa fai là, Gorju? Vieni avanti! Cosa vuoi?

(Tutti si rassicu­rano, ma l'apparizione resta impressionante. Magro, abbron­zato, con una divisa lacera da soldato, Gorju si avanza)

Gorju                             - Voglio da bere. (L'improvvisa apparizione ha creato un notevole disagio) Un bicchiere non si nega a nes­suno.

Foureau                         - Sei il disonore del paese, ubriacone!

Gorju                             - Sissignore, un ubriacone che ha fatto sette anni di guerra in Algeria. Un ubriacone che torna dall'ospedale, solo come un cane, disperato perché è senza lavoro. Devo ammazzare qualcuno perché mi si dia ascolto? Datemi da bere.

Foureau                         - Non si domanda la carità, Gorju.

Gorju                             - La carità, io? (Alza i pugni per colpire il sindaco ma li lascia subito cadere. Bouvard gli versa un bicchiere di birra. Gorju beve avidamente; poi si pulisce le labbra con il dorso della mano, lancia un'occhiata minacciosa in giro e se ne va. Appena scompare la compagnia riprende fiato)

Jeufroy                          - Ah, signor Bouvard, cosi non va.

Bouvard                        - Teme che la birra possa fargli male come ai mie­titori?

Jeufroy                          - Non è questo.

Bordin                           - Il fatto è che lei ha troppo cuore, signor Bouvard.

Faverges                        - Non si tratta di cuore. Il reverendo voleva ri­levare che certe debolezze favoriscono il disordine. (Jeufroy annuisce)

Bouvard                        - È un ex-militare, ha fatto la guerra d'Africa...

Foureau                         - Ha anche mangiato a spese del governo.

Marescot                       - E chissà quanto è costato in tasse a ciascuno di noi.

Hurel                             - Chi ha pagato è la proprietà fondiaria.

Jeufroy                          - Tutti sono protetti oggi, tranne la religione.

Bordin                           - E pensare che qualcuno parla nuovamente di re­pubblica.

Vacourbeil                    - Certo! La repubblica...

Bordin                           - ...E io dico, invece, che Dio ci conservi il nostro re.

Faverges                        - O magari ce ne dia urto .migliore. Ma sempre un re.

Vaucorbeil                    - Ma la repubblica...

Bouvard                        - Signori, signori, lasciamo stare la politica. Non pensano piuttosto che sia venuta l'ora dello spuntino? Pé­cuchet! (Pécuchet spinge al centro due carrelli pieni di anti­pasti. Gli ospiti si avvicinano speranzosi) Abbiamo voluto prepararvi un rinfresco tutto fatto di prodotti caserecci. Voi direte: ma c'è della roba in scatola. Ebbene, anche questa roba è stata inscatolata da me e dal signor Pécuchet. Pomo­dori, piselli, cicoria, uova... Possiamo ben concludere, con le parole dell'immortale Nicola Appert...

Vaucorbeil                    - E chi è?

Pécuchet                       - Mi meraviglio. Uno studioso insigne, l'autore del trattato "L'arte di conservare"...

Bouvard                        - ... Con le parole, ripeto, dell'immortale Nicola Appert: "quel che natura fa, qui si conserva". Assaggiate prego, le nostre cotolette di vitello in scatola...

Pécuchet                       - O, sempre in scatola, uno specialissimo mi­nestrone. (Faverges fa cenno a Hurel di seguirlo)

Foureau                         - Andiamo, andiamo, che è tardi.

Bordin                           - Anch'io ho premura, oggi è giornata di bucato.

Heurtaux                       - È giunta l'ora di suonare la ritirata.

Bouvard                        - Ma via, signori, cinque minuti... Ho l'alambicco in funzione, di là in cucina, per farvi gustare un digestivo nuovissimo, il coronamento delle nostre ricerche... Il tempo di contare fino a cinque... uno... due... tre... quattro... (Tutti si sono fermati in attesa. Ma Bouvard non arriva a dire cin­que perché dalla cucina arriva un boato) L'alambicco! (Ger­mana si affaccia tutta stracciata e con la faccia nera di chi è stato investito da un'esplosione)

Germana                       - Mi è scoppiato in faccia! Una bomba!

Foureau                         - Anche le bombe, adesso. (A Faverges, sottovoce) Che siano due sovversivi? (Tutti se la battono in fretta. Bouvard e Pécuchet rimangono soli con Germana e Melia. Germana si segna)

Germana                       - Sono viva per miracolo. Li avverto che se ri­prendono quelle diavolerie io me ne vado e non torno mai più.

Pécuchet                       - Stai zitta!

Melia                             - Anch'io ho paura di stare qui.

Bouvard                        - Ma cosa vuoi che ti succeda, stupida. (Cammina su e giù agitatissimo. Si ferma davanti a Pécuchet) Sbaglio o qualcosa è andato di traverso?

Pécuchet                       - Cosa vuoi, è gente maleducata. Paesani.

Germana                       - Si, ma anche il vostro rinfresco...

Bouvard                        - Fuori! Fuori tutte e due! andate a spazzare i vetri rotti! (Le serve scappano) Bisogna pure imparare. Fare esperienza. Non è detto che si debba riuscire al primo ten­tativo. (Fa qualche passo sopra pensiero) Quello che non capisco è come mai è scoppiato l'alambicco. Sarà che non conosciamo la chimica.

4.

I libri. La chimica.

Ancora una volta nella situazione del granaio. Pécuchet è trionfante.

Pécuchet                       - Lo vedi? Sei tu che hai pronunciato la frase fatale: "Sarà che non conosciamo la chimica"!

Bouvard                        - E allora?

Pécuchet                       - È per colpa tua che tutto è incominciato!

Bouvard                        - Io avrò detto che non conoscevo la chimica, ma chi è stato ad aggiungere: "Possiamo studiarla"?

Pécuchet                       - Non lo rinnego. Se uno si sente dire "non co­nosciamo la chimica" cosa dice subito? "Studiamola".

Bouvard                        - Non hai detto solo "studiamola"; hai detto an­che: "Basta documentarsi. Oggi si sa tutto su tutto e la scienza è alla portata di tutti". (Si precipita fuori scena a prendere dei libri su scaffali mobili, o accatastati su tavolini e sedie. Pécuchet lo imita freneticamente nell'accumulare li­bri in scena, mentre il dialogo continua) E hai riempito la casa di libri!

Pécuchet                       - No, tu hai riempito la casa di libri!

Bouvard                        - Sei stato tu a cominciare! Io i libri non li po­tevo vedere!

Pécuchet                       - Io ormai li odio!

Bouvard                        - Mi tolgono il respiro!

Pécuchet                       - Vorrei bruciarli!

Bouvard                        - A bracciate ne buttavi dentro! Cosi! (Butta in scena i libri a bracciate)

Pécuchet                       - E tu... tu che sei arrivato con un sacco? (Ma è Pécuchet stesso che arriva con il sacco di libri sulle spalle. Lo rovescia, i libri si spargono ovunque. I due amici sie­dono per terra, di nuovo nel ricordo, e raccolgono libri, li sfogliano, li leggono come forsennati)

Bouvard                        - Io non ero mai stato un gran lettore. Ma nella atmosfera grigia della biblioteca i libri sembra che mormo­rino, che chiamino come le sirene: "Leggici e grazie a noi conoscerai tutto, potrai provare tutto!" Che tentazione! E che musica beata le pagine che si sfogliano!

Pécuchet                       - Da un libro ne nasce irresistibilmente un altro, poi un altro ancora... Una quantità di altri... (/ libri si molti­plicano a vista. Bouvard legge)

Bouvard                        - In chimica gli elementi semplici sono forse com­posti. (Pécuchet va a scrivere col gesso su una tavola nera che intanto è apparsa)

Pécuchet                       - Elementi semplici uguali elementi composti. (Guarda interrogativo Bouvard)

Bouvard                        - Come distinzione è un po' confusa. (Pécuchet si precipita a prendere un altro libro, legge con aria di trionfo)

Pécuchet                       - In chimica i corpi si distinguono in metalli e metalloidi.

Bouvard                        - Finalmente un punto fermo. (Pécuchet continua a leggere, il sorriso di trionfo gli si spegne sul volto)

Pécuchet                       - Ahi!

Bouvard                        - Che c'è?

Pécuchet                       - Qui dice che anche questa distinzione non va presa alla lettera. (Bouvard gli strappa il libro e legge)

Bouvard                        - Distinguiamo allora fra acidi e basi. (Pécuchet riprende il libro e legge a sua volta)

Pécuchet                       - Ogni sostanza può comportarsi, secondo i casi, da acido o da base. (Si guardano imbarazzati. In un ritorno di fiamma Bouvard strappa ancora il libro a Pécuchet, legge e va alla lavagna)

Bouvard                        - Non perdiamoci di coraggio. Supponiamo che una molecola A... scrivo A...

Pécuchet                       - A...

Bouvard                        - ... si combini con più parti di B. Scrivo B.

Pécuchet                       - B. (Bouvard spiega la teoria alla lavagna)

Bouvard                        - Non ti sembra che la molecola A debba divi­dersi, rispetto a B, in altrettante parti?

Pécuchet                       - È evidente.

Bouvard                        - Ma se questa molecola A si divide in altrettante parti non è più una molecola. Dov'è andata a finire la sua unità?

Pécuchet                       - Dove?

Bouvard                        - Lo chiedo a te.

Pécuchet                       - Ma io non lo so.

Bouvard                        - E io nemmeno. (Sbatte il gesso per terra e si mette a passeggiare su e giti. Si ferma a guardare la lavagna, crolla il capo) Non ci capisco niente. (Cancella mentre Pé­cuchet riprende il libro con un residuo di speranza)

Pécuchet                       - Ma cosa vedo? Mi sembra impossibile!

Bouvard                        - Cosa c'è? Cos'hai scoperto?

Pécuchet                       - La terra non esiste.

Bouvard                        - Non esiste?

Pécuchet                       - Come elemento chimico non esiste. (Bouvard gli strappa il libro)

Bouvard                        - Fa' vedere.

Pécuchet                       - Guarda, guarda finché vuoi. Nell'elenco degli elementi, la terra non c'è.

Bouvard -                      - Hai proprio ragione. In chimica la terra non esiste. (Si guardano, crollano il capo)

Pécuchet                       - Qui urge lanciarsi nella chimica organica. (Rac­coglie da terra un altro libro) Negli esseri viventi ci sono le stesse sostanze che compongono i minerali.

Bouvard                        - Questo è chiarissimo. La tua testa è paragona­bile a un sasso. (Pécuchet si tocca la testa preoccupato) Non solo, ma contiene anche del fosforo come gli zolfanelli e del gas idrogeno, come i lampioni. (Appare il dottor Vaucorbeil. Pécuchet gli corre incontro)

Pécuchet                       - Dottor Vaucorbeil, io mi rivolgo a lei come al rappresentante della scienza qui a Chavignolles.

Vaucorbeil                    - Troppo buono.

Pécuchet                       - Dottor Vaucorbeil, a lei la risposta. Chimica­mente parlando, può un uomo essere contemporaneamente sasso, zolfanello e lampione?

Vaucorbeil                    - Sasso e zolfanello? (Pécuchet annuisce) E an­che lampione? (Nuovo assenso di Pécuchet) Ma vada a pren­dere in giro qualcun altro. (Fa per andarsene stizzito. Bou­vard lo rincorre)

Bouvard                        - Dottor Vaucorbeil, il signor Pécuchet non si permetterebbe mai... Il fatto è che abbiamo intrapreso degli studi di chimica e vorremmo avere da lei, che certo signo­reggia questa materia, precise nozioni sulla atomicità su­periore.

Vaucorbeil                    - Cosi su due piedi? Io non nego l'importanza della chimica, badino bene. Ma oggigiorno la ficcano dap­pertutto. La chimica esercita sulla medicina un'influenza de­plorevole.

Pécuchet                       - Lei dice?

Vaucorbeil                    - Ma volete mettere quattro formule, quattro puzze fabbricate in laboratorio, con l'infinita bellezza del corpo umano? Chi non ha studiato anatomia, chi non ha praticato la dissezione, chi non è stato a tu per tu con un suo simile trapassato e scorticato, non può capire. Voi non potete immaginare la poesia dello scheletro: la prominenza della mascella, i buchi degli occhi. (Bouvard e Pécuchet cer­cano d" rintracciare queste bellezze l'uno sull'altro) E la spina dorsale curva perché madre natura ha provveduto in tal modo a farla sedici volte più forte che se l'avesse fatta di­ritta... Sedici volte!

Pécuchet                       - Perché non diciassette?

Vaucorbeil                    - È inutile che vi sforziate di penetrare i se­greti dell'anatomia. La scienza è riservata agli eletti. (Se ne va)

5.

L'anatomia, la fisiologia, la medicina, la dietetica.

Bouvard                        - E perché noi due non potremmo occuparci di anatomia? Siamo forse più stupidi di lui?

Pécuchet                       - Te lo dico io perché: quell'ammazzacristiani ha paura che veniamo a scoprire i suoi altarini.

Bouvard                        - Il guaio è che l'anatomia si studia sui cadaveri. Come faremo a procurarcene qualcuno non essendo medici?

Pécuchet                       - Potremmo acchiappare un cane randagio e ammazzarlo.

Bouvard                        - Andrebbe benissimo per i primi studi. Ma oltre? (Pécuchet esita per un attimo, poi si toglie la giacca)

Pécuchet                       - E va bene. Mi offro io come cavia, Bouvard. Ti autorizzo, magari per iscritto, ad attuare su di me la vivi­sezione nell'interesse della scienza. (Mentre sta togliendosi anche i pantaloni Bouvard lo ferma)

Bouvard                        - Alto là! È un grande gesto il tuo. (Pécuchet, con i pantaloni già aperti, lo guarda sorpreso) Ma prima devi vedere una cosa. (Colpi all'uscio. Bouvard si frega le mani. Appare Germana)

Germana                       - C'è un arrivo per loro da Falaise. Una cosa che...

Bouvard                        - Niente commenti. Fa' passare e sparisci. (Ger­mana alza le spalle e se ne va. Viene portata dentro una barella con sopra un forma umana coperta da un lenzuolo. Bouvard ammicca, Pécuchet è sbalordito) Non avrai mica paura?

Pécuchet                       - Be', insomma... Tu no?

Bouvard                        - Togli il lenzuolo.

Pécuchet                       - Io? Non sarà una profanazione?

Bouvard                        - Lo scienziato deve essere prima di tutto in­trepido! (Pécuchet avanza e toglie il lenzuolo. Nell'attimo in cui appare il manichino anatomico Germana, che spiava, strilla e scappa via. I due amici fremono come se il grido fosse stato lanciato dal cadavere. Bouvard si riprende subito)

Pécuchet                       - È un cadavere?

Bouvard                        - Non ha capelli. Odora di vernice. Ma non lo vedi che è un manichino anatomico? (Bouvard ride più che mai. Pécuchet fa qualche timido passo verso il manichino) L'ho noleggiato per dieci franchi il mese. Non è entusiasman­te vedere come oggi la scienza si vende a rate? (Bouvard prende il comando dell'operazione. Tirano fuori il manichino che rischia continuamente di cadere e viene sostenuto alter­nativamente dall'uno o dall'altro dei due amici. Intanto Ger­mana, agitatissima, ha chiamato gente: la guardia campestre Placquevent, il sindaco Foureau e altri. Tutti spiano con al­larmata circospezione i movimenti dei due)

Pécuchet                       - Cosa sono quelle due spugne?

Bouvard                        - I polmoni. (Un brivido tra gli astanti) E questo, che sembra un grosso uovo di struzzo         - (solleva trionfalmente il cuore) è il cuore. E questo sarà il buco di Fallopio. (I cu­riosi soffocano un'esclamazione di raccapriccio. Bouvard e Pécuchet continuano ad armeggiare) E ora attento... Dissezioniamolo! (Si accaniscono sul manichino, tra l'orrore dei pre­senti, e lo smontano pezzo per pezzo) E adesso rimettiamolo insieme. (// manichino viene rapidamente rimontato con la testa al posto di un braccio, una gamba attaccata come una coda, altri pezzi fuori posto)

Pécuchet                       - Non era proprio cosi. (// sindaco si fa avanti con la guardia campestre, fremente d'indignazione)

Foureau                         - Alto là, in nome del re.

Germana                       - Che cosa le dicevo, signor sindaco? Hanno un morto in casa e si divertono a sbranarlo.

Foureau                         - Guardia campestre, avvicinatevi e constatate. i'lacquevent Con tutto il rispetto, signor sindaco, non credo sia compito mio.

Foureau                         - Eseguite o vi farò perdere il posto! (Placquevent, molto riluttante, scruta e palpa sotto lo sguardo ironico di Bouvard) Ebbene?

Placquevent                  - Si direbbe un pupazzo. (Risate tra il pic­colo, pubblico)

Foureau                         - Placquevent, fate sgomberare!

Placquevent                  - Fuori tutti, lo spettacolo è finito.

Germana                       - Allora non li fate arrestare? (La gente sfolla lentamente)

Bouvard                        - Come vede, egregio signor sindaco, qui non c'è niente che esuli dal campo della pura ricerca scientifica.

Foureau                         - Eh, io dubito che loro due, non essendo medici, possano tenere in casa certa roba. Ci sono dei limiti. Vado a scrivere al sottoprefetto. (Si allontana seguito da Placque­vent che porta via a spalle il manichino)

Bouvard                        - Era deludente, in fondo dover sperimentare le più sublimi verità sopra un pupazzo. (Pécuchet prende un al­tro libro dal mucchio e ha una nuova illuminazione)

Pécuchet                       - La fisiologia è importante quanto e più del­l'anatomia. Nel tartaro dei denti ci sono tre specie di anima­letti. La sede del gusto è la lingua. La sensazione della fame risiede - pensa! - nello stomaco. (Bouvard è andato a prendersi qualcosa da mangiare)

Bouvard                        - Mastico con lentezza... Trituro... Insalivo... In-ghiotto...

Pécuchet                       - Fantastico!

Bouvard                        - E adesso seguirò il bolo giù per le viscere, giù giù fino alle estreme conseguenze... (Indica il percorso sul proprio corpo. Pécuchet va a prendere un secchio d'acqua. Bouvard lo imita. Si spruzzano a vicenda. Poi corrono. In­crociano la vedova Bordin con il notaio Marescot)

Marescot                       - Ma che cosa gli ha preso?

Bordin                           - Signor Bouvard! Dove corre con i vestiti ba­gnati? (Bouvard risponde sempre correndo in circolo intorno ai due mentre Pécuchet descrive un'altra orbita)

Bouvard                        - Dobbiamo sudare. Se è vero che per soddisfare la sete anziché bere, come crede il volgo, bastano applicazioni d'acqua fredda, avremo dimostrato il principio della poro­sità dell'epidermide.

Marescot                       - Che imbecilli.

Bordin                           - Peccato. Un uomo cosi interessante. (Il notaio e la vedova escono. Bouvard e Pécuchet si fermano, sternutisco-no tutti e due)

Pécuchet                       - L'udito, la fonazione, la vista: che miracoli!

Bouvard                        - Vuoi paragonarli con la riproduzione? Pensa che gli organi sessuali si dividono in due specie: maschile e fem­minile. Quello femminile... Qui non c'è bisogno del manuale, eh Pécuchet? Via, non diventare rosso. (Gli dà un blocco e una matita) Disegna a memoria l'organo sessuale femmi­nile. (Pécuchet è sui carboni ardenti) Coraggio. (Pécuchet re­sta con il blocco e la matita alzati. Poi lascia cadere le braccia)

Pécuchet                       - Devo confessarti una cosa. Molti anni fa certi amici mi trascinarono in una casa... in una casa da tè.

Bouvard                        - E tu? Immagino che avrai preso il tè.

Pécuchet                       - Sono scappato via.

Bouvard                        - Sei scappato?

Pécuchet                       - Desideravo conservarmi tutto per la donna che avrei amato. Sai, ho creduto d'incontrarla tante volte. Una che ballava sulla corda. La cognata di un architetto. Una cassiera. L'ultima è stata una stiratrice. Stavo per sposarla quando scoprii, capisci, che era incinta di un altro.

Bouvard                        - E allora?

Pécuchet                       - Cosa vuoi, è andata cosi. Un po' per timi­dezza, un po' per economia, un po' per paura delle malattie... eccomi qui, alla mia età... vergine.

Bouvard                        - Incredibile. (Guarda l'amico come un fenomeno, ma capisce il suo turbamento e cerca di consolarlo. Gli dà una pacca sulle spalle che lo fa sobbalzare) Non è mai tar­di. Ti farò un corso di educazione sessuale. Ma tu hai le lacrime agli occhi...

Pécuchet                       - Ormai non ci penso più.

Bouvard                        - Come mi piacerebbe studiare a fondo il mistero della riproduzione, creare degli ibridi... far congiungere i tori con le cavalle, i maiali con le mucche, il mastino con la scrofa... E poi passare all'uomo. (Guarda Pécuchet con occhi luc­cicanti)

Pécuchet                       - Non contare su di me per questi orribili accop­piamenti.

Bouvard                        - In natura non c'è niente di orribile. Proudhon ci insegna che le femmine egiziane si prostituivano in pub­blico ai coccodrilli.

Pécuchet                       - E come facevano?

Bouvard                        - Non riesco a immaginarlo. E poi un malato vero. Un essere umano che abbia qualche malattia da debel­lare alla luce della scienza. Qui ci sono tanti libri fatti per questo, ma finché rimangono parole stampate... Ecco per esempio il Manuale della salute di Francois Raspail. Espone una teoria semplicissima: tutte le malattie derivano dai vermi.

Pécuchet                       - Maledetti!

Bouvard                        - Tu non immagini la segreta potenza dei vermi. I vermi corrodono i denti, fanno buchi nei polmoni, ingrossano il fegato, gonfiano l'intestino... Lascia fare ai vermi e tra un secolo l'umanità sarà distrutta.

Pécuchet                       - Qui bisogna fare qualcosa.

Bouvard                        - Combattere i vermi con proiettili di canfora. È il rimedio universale e io mi impegno a sperimentarlo su larga scala. Vuoi vedere che metto insieme uno stuolo di ammalati da far crepare di invidia l'ospedale di una grande città? (Parte per la nuova impresa con passo deciso. Pécuchet lo segue con lo sguardo, un po' invidioso di tanta iniziativa, e poi cerca dì consolarsi con un libro. Entra Germana)

Germana                       - Padron Gouy è ammalato.

Pécuchet                       - È ancora qui quel tanghero?

Germana                       - Non può alzarsi. Sta molto male.

Pécuchet                       - E lo vieni a dire a me? Non vedi che sto stu­diando? "Padron Gouy sta male"... (Afferra solo adesso ciò che gli ha detto Germana) Sta male, hai detto? E cosa aspetti a farmelo vedere? (Al letto di padron Gouy, che è tutto im­bacuccato e si lamenta esageratamente) Caro padron Gouy, che piacere trovarvi a letto. Ossia, che piacere sarà farvi alzare dal letto.

Gouy                             - Ho male dappertutto.

Pécuchet                       - Vediamo, vediamo. (Ausculta, annusa il sudore dell'ammalato. Spiega a Germana) Nel gran secolo la medici­na era olfattiva. (Annusa il vaso da notte) Che cosa ha man­giato?

Germana                       - Niente. Ordine del dottor Vaucorbeil.

Pécuchet                       - Ah, si? Portategli subito del brodo e della car­ne. (Germana esegue) Via la dieta, via 1? febbre. (Fa man­giare padron Gouy per forza)

Gouy                             - Ma non ho fame.

Pécuchet                       - Questo lo credete voi.

Gouy                             - Senza più la fattoria da mandare avanti non vo­glio nemmeno vivere.

Pécuchet                       - Lasciatevi guarire da me, poi discuteremo.

Germana                       - Fa' quello che ti dice il signor Pécuchet. Vedrai che ti fa riavere il lavoro nel podere. (Gouy mangia con si­mulato appetito. Arriva Vaucorbeil)

Vaucorbeil                    - Chi ha detto di dargli da mangiare? Questo è un omicidio.

Pécuchet                       - Ha parlato lo specialista. (Vaucorbeil strappa il piatto di Gouy e lo butta)

Vaucorbeil                    - Cosi gli perforate l'intestino. Non lo sa lei che la febbre tifoidea è un'alterazione della membrana folli­colare?

Pécuchet                       - Storie. La febbre esiste in sé e per sé. (Conse­gna imperiosamente un altro piatto a Gouy, che riprende a mangiare)

Vaucorbeil                    - La febbre, signor mio, dipende dagli organi, e perciò io elimino tutto ciò che può sovraeccitarli. (Strappa il piatto e lo butta)

Pécuchet                       - Il suo digiuno indebolisce il principio vitale. (Altro piatto a Gouy)

Vaucorbeil                    - E com'è questo principio vitale, biondo o bruno? L'ha mai visto lei? Del resto, basta interrogare il ma­lato. Avete appetito, padron Gouy? (// malato fa per negare, poi guarda Germana e Pécuchet e non risponde)

Pécuchet                       - Lui non lo sa, ma ha bisogno di nutrirsi. Vero, padron Gouy? (Nessuna risposta) Penso che avrete bisogno di tutte le vostre forze per riprendere il lavoro in fattoria. (Gouy si mette a mangiare con ostentata ingordigia)

Vaucorbeil                    - Alle corte, chi di noi due scegliete come medico? (// malato si ferma con il cucchiaio a mezz'aria e non risponde) Scegliete voi, Germana.

Germana                       - Io non saprei. Certo lei è un bravo dottore... Ma se lui avesse un segreto? eh?

Vaucorbeil                    - Di bene in meglio. Visto che qui si esita fra un professionista insignito di diploma...

Pécuchet                       - Sappiamo come li danno, quei diplomi. (Tira fuori di tasca delle ricette, legge) Sciatica curata come mal di gola... Clisteri somministrati in un attacco di appendicite... Bagni bollenti per il mal di cuore...

Vaucorbeil                    - Come ha avuto le mie ricette? Io la denuncio per esercizio abusivo della medicina!

Pécuchet                       - È lei che ha tradito il giuramento di Esculapio! (È interrotto dall'arrivo di Bouvard in camice bianco alla te­sta d'una schiera di ammalati. Ci sono il gobbo Romiche, la Bordin, Marescot, Heurteaux, la moglie di Vaucorbeil ormai di otto mesi e altri. C'è anche la Castejon, una campagnola proprietaria di mezza età. Bouvard ha il tono del grande pri­mario)

Bouvard                        - Avanti, venire avanti senza paura, uno alla volta. Mettersi in fila, prima le signore e i casi gravi.

Vaucorbeil                    - Emma! Tu quoque!

Signora Vaucorbeil       - Scusami Carlo, ma è così interes­sante!

Bouvard                        - Ho garantito a sua moglie che in occasione del lieto evento noi contiamo di impratichirci come ostetrici. (Alla Signora Vaucorbeil) Sa, adesso affittano certi mezzi corpi in pelle, da qua in giù, assai usati nelle scuole per levatrici.

Pécuchet                       - E stia tranquillo. Se il suo feto si presenta ma­le, com'è probabile, saprò rigirarlo io dalla parte giusta.

Vaucorbeil                    - Lei non rigirerà un bel niente! Signora

Vaucorbeil                    - Ma Carlo, se davvero questi fossero i metodi moderni...

Romiche                        - E da me cosa volete? Io sto benissimo come sono, lasciatemi andar via.

Bouvard                        - Osi dire che sei felice con quella gobba?

Romiche                        - Piaccio proprio per questa.

Bouvard                        - Ora te la frizioneremo con grasso alla canfora, poi ci metteremo su un bell'impiastro di senape. Allegro, che in poche settimane ti facciamo ridiventare dritto! (Bouvard si accinge a fare le applicazioni. Pécuchet si avvicina alla Bordin)

Pécuchet                       - Lei è qui, immagino, per questa brutta macchia sulla guancia.

Bordin                           - Io voglio essere curata dal dottor Bouvard. (Bou­vard fa cenno a Pécuchet, un po' offeso, di passare al gobbo. Si avvicina alla Bordin)

Bouvard                        - Vediamo, signora Bordin. (La fa sedere, lei si slaccia il corpetto e gli'porge la guancia)

Bordin                           - Faccia quello che vuole. (Bouvard è leggermente imbarazzato. Pécuchet intanto soffrega la schiena del gobbo)

Bouvard                        - Per principio sono contrario al mercurio, ma nel suo caso userò una pomata al calomelano. (Le dà una sca­toletta. La Bordin comincia a impiastricciarsi la faccia)

Heurtaux                       - Ma queste gocce che lei mi ha dato contro la stitichezza sono amare.

Bouvard                        - Lo credo bene, è aloe allo stato puro. (Heurtaux assaggia timoroso qualche goccia)

Vaucorbeil                    - Io trasecolo. Mi meraviglio di lei. E di lei, signor notaio.

Marescot                       - Se ce l'avesse lei il mio mal di schiena...

Bouvard                        - Il signor Marescot ha bisogno di una speciale ginnastica orientale. Cosi! (Mette Marescot in una posizione assurda, strappandogli un grido) Due ore al giorno, tutti i giorni... Così!

Marescot                       - Non resisto!

Bouvard                        - Per guarire bisogna soffrire! Avanti il prossimo! (Passa alla Castejon, la fa sedere sopra un seggiolone) Attento, Pécuchet questo è un sospetto caso di meningite. Bisogna diminuire il calore per fermare le flemmasie. Appendiamola al soffitto. (Pécuchet fa sfregare il gobbo dalla signora Vau­corbeil e passa ad aiutare Bouvard: con una corda sospendo­no la sedia a dodolo al soffitto) E ora facciamola dondolare, cosi. (Fanno dondolare la Castejon. Pécuchet si rivolge alla signora Vaucorbeil)

Pécuchet                       - Sfreghi, signora, sfreghi con forza!

Bouvard                        - Avanti, signora Bordin, col calomelano!

Pécuchet                       - Capitano Heurtaux, giù le gocce!

Bouvard                        - Dondoli, signora Castejon, dondoli!

Pécuchet                       - E voi mangiate, padron Gouy, mangiate! (Tutti eseguono con impegno. Arriva feufroy)

Jeufroy                          - È uno scandalo! Fra i miei parrocchiani voi ave­te imposto la pratica nefasta di introdurre il termometro nel­le parti posteriori.

Bouvard                        - Mi consigli lei un altro modo per misurare la temperatura rettale.

Jeufroy                          - Ma voi trasformate Chavignolles in Sodoma.

Vaucorbeil                    - Per una volta sono d'accordo con lei.

Bouvard                        - E io dico a tutti e due che non riuscirete ad ar­restare l'avanzata della scienza.

Hertaux                         - Queste gocce mi han fatto venire le emor­roidi! (Spula)

Castejon                        - Fatemi scendere!

Bordin                           - La mia guancia brucia!

Romiche                        - Lasci stare la mia gobba! è mia! (Da uno spintone alla signora Vaucorbeil, che cade tra le braccia del ma­rito)

Signora Vacourbeil       - Salvami, Carlo, salvami!

Marescot                       - Non posso rimettermi in piedi!

Gouy                             - Ho le budella in fiamme! Muoio! Voglio il prete!

Vaucorbeil                    - Basta, basta!

Jeufroy                          - Tutti a casa, pecorelle del Signore! Tutti a ca­sa!

(La Castejon salta giù dal seggiolone, Gouy scende dal letto per correre da Jeufroy, Romiche fugge, Marescot fa inutili sforzi per risollevarsi, la Bordin si sventola il fazzolet­to sulle guance paonazze, Vaucorbeil inveisce con la moglie fra le braccia. Tutti se ne vanno gridando e protestando. I due amici si visitano a vicenda)

Bouvard                        - Fa' vedere la lingua. (Pécuchet gliela mostra) Mi­ca bella. Eh, no. Direi proprio brutta.

Pécuchet                       - E tu fammi sentire il polso... Ahi, ahi.

Bouvard                        - Non hai nemmeno una bella cera.

Pécuchet                       - Ti ci vorrebbe una purga.

Bouvard                        - E a te un clistere.

Pécuchet                       - Bada a non prendere freddo.

Bouvard                        - Sei troppo vestito. (Si toglie il camice) Ma che cos'è la salute? che cos'è la malattia? Tutto quello che ti propinano i manuali sono descrizioni di sintomi.

Pécuchet                       - La salute dipende soprattutto da quello che si mangia.

Bouvard                        - Un gentiluomo veneziano del Cinquecento, Al­vise Cornaro, visse fino a cent'anni e oltre perché si nutrì sempre assecondando il cervello e non la gola.

Pécuchet                       - Cosi faremo anche noi. (Arriva la Germana)

Germana                       - Non so più cosa mettere in pentola, parola mia. Mi dicano loro: vogliono un po' di selvaggina?

Pécuchet                       - È un cibo refrattario.

Germana                       - Meglio un pesce?

Pécuchet                       - Grosso o piccolo?

Germana                       - Grosso, grosso.

Pécuchet                       - Più il pesce è grosso, più gelatina contiene e più è pesante da digerire.

Germana                       - Intanto che decidono metto a bollire le cipolle per la zuppa.

Pécuchet                       - Le cipolle fanno acidità.

Germana                       - Un bel piatto di maccheroni?

Pécuchet                       - Il sistema per far brutti sogni.

Bouvard                        - Propongo, se ti vanno, una cena di formaggi.

Pécuchet                       - Morin afferma che sono di piombo.

Germana                       - Un'insalata?

Pécuchet                       - Antigienica.

Germana                       - Degli insaccati misti?

Pécuchet                       - Pericolosissimi. Dice Morin...

Bouvard                        - Morin, sempre il tuo Morin! Stava per farci morire di fame!

Pécuchet                       - E sarebbe stato meglio!

Bouvard                        - Il nuovo manuale di dietetica quello di Becque­rel, ci insegnò subito che il maiale, in sé e per sé, è un buon alimento. (Con la Germana) Germana, porta subito un piatto di insaccati misti.

Germana                       - Ma non dicevano che sono pericolosissimi?

Bouvard                        - Obbedisci senza discutere. E già che ci sei fai una bella zuppa di cipolle, che purga il pancreas come scrive il dottor Decker. (Germana si avvia e lui le grida dietro) E porta una buona bottiglia di vino, ho letto che dopo la zup­pa fa bene allo stomaco.

Pécuchet                       - Veramente, secondo Levy, il vino corrode i denti.

Bouvard                        - Dietologi, igienisti... Non ce n'è due che vadano d'accordo. Verità da questa parte dei Pirenei, menzogna dal­l'altra. (Arriva Melia con i salumi. Torna Germana con la zuppiera fumante)

Bouvard                        - Senti, Pécuchet, dobbiamo rischiare. Del resto che cos'è la dietetica? E l'igiene che cos'è?

Pécuchet                       - Molti sospettano che non sia una vera scienza.

Bouvard                        - Non è una scienza? Allora sarebbe indegno di noi farcene schiavi. Ostriche! Un'anatra. Del maiale con i cavoli. Della maionese.

Pécuchet                       - E il dolce, già che ci siete. (Germana e Melia portano tutto. Bouvard e Pécuchet mangiano)

Bouvard                        - E ora una bottiglia di champagne!

Melia                             - Vogliono quello fatto in casa? (Offre due bottiglie, una casalinga e una di marca)

Bouvard                        - Sei matta? Champagne di marca. (Salta il tap­po) Io brindo alla faccia di quello là... come si chiama?... Alvise Cornaro!

Pécuchet                       - Non pensare mai ad altro che a prolungarsi la vita che bassezza!

Bouvard                        - La vita è bella se uno se la gode. Ancora un po'?

Pécuchet                       - Volentieri.

Bouvard                        - Alla tua salute.

Pécuchet                       - Alla tua.

 6.

L'astronomia, la cosmologia, la geologia,  la paleontologia, l'archeologia.

Con le coppe in mano, i due amici sul poggio del giardino sotto un cielo pieno di stelle. Bouvard si guarda in giro sod­disfatto.

Bouvard                        - Come si sta bene. E che notte stupenda... Guar­da lassù quante stelle. Un mare azzurro con gli arcipelaghi e le isole.

Pécuchet                       - Non le vediamo certo tutte. Dietro la via Lat­tea ci sono le nebulose; e aldilà delle nebulose, altre stelle ancora... L'astronomia! Pensa, la stella più vicina dista dal no­stro giardino 300 bilioni di chilometri...

Bouvard                        - Tu pensi che le stelle siano abitate?

Pécuchet                       - Perché no? Guarda le stelle filanti! Zzzzzzz... Zzzzzzz... Passano in un attimo e sono mondi che scompa­iono... Se il nostro mondo, a sua volta, facesse la capriola, gli abitanti delle stelle non sarebbero più emozionati di quanto lo siamo noi in questo momento. E quale sarà lo scopo?

Bouvard                        - Lo scopo di che?

Pécuchet                       - Di tutto.

Bouvard                        - Mah. Può darsi che non ci sia nessuno scopo.

Pécuchet                       - Eppure... Eppure, io vorrei proprio sapere come si è creato l'universo. Se potessimo almeno conoscere il pas­sato del nostro pianeta. (Hanno già dimenticato il cielo e le stelle)

Bouvard                        - Proverò a descrivertelo come l'ho studiato nei libri. Immagina un'immensa distesa d'acqua dalla quale emer­gono degli scogli costellati di licheni. Senti qualcosa?

Pécuchet                       - Infatti sul nostro pianeta non c'è ancora nes­suna forma di vita. Il mondo è silenzioso, immobile, nudo. Fine del primo quadro.

Pécuchet                       - Al secondo!

Bouvard                        - Immagina di essere in una stanza da bagno pie­na di vapore. Un astro rosso fuoco surriscalda l'atmosfera umida... Qualcosa certo sta per accadere ed ecco infatti... Bang! Bang?

Pécuchet                       - Che succede?

Bouvard                        - I vulcani scoppiano l'uno dopo l'altro. Bang! Bang! Bang! Cosi su tutta la terra. Torrenti di fuoco si ro­vesciano dalle montagne e si solidificano in rocce.

Pécuchet                       - Che spettacolo! Che spettacolo! Peccato non es­serci stati!

Bouvard                        - Terzo quadro. Dal fondo del mare affiorano de­gli isolotti. Qua è là vediamo qualche ciuffo di vegetazione... E quella che cos'è? La ruota di un carro? No, è soltanto una conchiglia gigante. Attento! Un serpente con le ali si alza in volo... Mandrie di mammouth pascolano il bassopiano che sarà l'Oceano Atlantico... Il paleoterio, mezzo cavallo e mezzo tapiro, ficca il muso nei formicai sulla collina di Montmartre... _ E fra un'epoca e l'altra immani cataclismi di cui il più vicino a noi, ma non certo l'ultimo, è stato il di­luvio universale.

Pécuchet                       - Formidabile! (Si sono infilati degli zaini, hanno preso martelli e altri strumenti idonei. Cominciano a cercare per terra. Arriva Jeufroy)

Jeufroy                          - Hanno perduto qualcosa?

Pécuchet                       - No ricostruiamo il passato del mondo. Lo ri­costruiamo sui fossili.

Jeufroy                          - Meno male che sono passati a una scienza buo­na. Fornendo le prove del diluvio universale la geologia con­ferma la verità delle Scritture. (Bouvard gli mette un sasso sotto il naso)

Bouvard                        - Ha visto, reverendo? Questo potrebbe essere un coprolite.

Jeufroy                          - Interessante. E sarebbe?

Bouvard                        - Un escremento animale pietrificato. (Jeufroy si ritrae istintivamente. Ma si domina)

Pécuchet                       - È una bella confusione, reverendo. Cosa non darei per trovare una vertebra di ittiosauro! Ma la stessa spe­cie si estingue prima in un posto, poi in un altro. Terreni della stessa epoca contengono fossili diversi. Lei deve am­mettere che non è stato un capolavoro d'ordine...

Jeufroy                          - Che cosa?

Pécuchet                       - La creazione. (Sono arrivati altri personaggi tra i quali Heurtaux, Foureau, Hurel) Era un pezzo, a proposito, che volevo chiederle qualche spiegazione sulla Genesi. Che co­sa vuol dire "l'abisso si ruppe"?

Bouvard                        - Un abisso non si rompe.

Pécuchet                       - E quando dice "le cateratte del cielo"?

Bouvard                        - Il cielo non ha cateratte.

Heurtaux                       - Bisogna distinguere...

Pécuchet                       - Lasci rispondere il reverendo.

Jeufroy                          - Anche se Mosè, o chi per lui, ha esagerato un po', è stato senza dubbio per imporre un terrore salutare al suo popolo. Non sono argomenti da profani.

Bouvard                        - Eh, no. Permetta. Come ingegneri geologi il si­gnor Pécuchet e io...

Jeufroy                          - Piano, piano. Si ricordino il detto: un po' di scienza ci allontana da Dio, molta ci congiunge a lui.

Pécuchet                       - Nella Genesi c'è anche scritto che la luce fu creata prima del sole.

Bouvard                        - Ma non è il sole la fonte della luce?

Pécuchet                       - E l'apparizione dell'uomo? Come può essere ap­parso l'uomo sulla terra da un momento all'altro? (// parro­co pensa di non dover neppure rispondere) Gliela dò io la risposta. L'uomo discende dalla scimmia. (Tutti sono in­dignati)

Foureau                         - Che schiocchezze.

Heurtaux                       - E noi stiamo qui a sentire?

Pécuchet                       - Io vado oltre e vi dico che l'uomo discende dai pesci. Il Taliamed, un libro arabo. (Sbalordimento generale, che si scioglie in una risata di scherno)

Jeufroy                          - I nostri amici hanno deciso di farci divertire... Andiamo, signori, andiamo alla riunione della parrocchia. (Tutti li abbandonano ridendo. Il parroco si volta da lon­tano) Tornerete alle Sacre Scritture. Ci tornerete, credete a me. (Pécuchet getta a terra lo zaino)

Pécuchet                       - A cosa serve la geologia se non basta neppure a mettere nel sacco un parroco di campagna.

Bouvard                        - E il fondo degli oceani, chi arriverà mai a scan­dagliarlo? Ogni scienza riguarda solo uno spicchio della real­tà e magari non va bene per tutto il resto. (Butta lo zaino an­che lui) È grande il gusto, ma è grande anche il disgusto della scienza. Però se non è possibile rivivere il passato geolo­gico, si potrebbe tentare di ricostruire il passato storico. Si, la vita che è esistita prima di noi.

Pécuchet                       - E come? La storia antica rimane oscura per mancanza di documenti, quella moderna perché ce n'è trop­pi.

Bouvard                        - Teniamoci ai segni concreti di tutto ciò che è stato: reliquie, ruderi, vestigia... gli umanisti facevano cosi. (Appare il conte Faverges, accompagnato da Hurel) Sono lieto che lei, signor conte, abbia voluto visitare la nostra rac­colta. Abbiamo cercato di ricomporre la storia del dipartimen­to indagando, riportando alla luce, restaurando... La trave del soffitto, che lei vede lassù, non è altro che la antica forca di Falaise.

hAvERGES                  - Interessante.

Hurel                             - Chi vi assicura che è proprio quella?

Bouvard                        - Il falegname che ce l'ha venduta.

Hurel                             - E a lui chi lo ha detto?

Bouvard                        - Suo nonno. (Hurel ammicca, Faverges racco­glie senza farsi notare) Ecco delle monete di rame... Ce n'è an­che una d'argento... Ed ecco un'ascia celtica per i sacrifici umani. Ce l'ha procurata Gorju, il reduce.

Hurel                             - Quel tipaccio? Io non me ne fiderei in caso di sommossa. (Pécuchet, che era uscito per portare via gli zaini, appare con in testa un elmo di ferro con le corna. Hurel sob­balza) Gli stanno proprio bene a quello là un paio di corna in testa.

Pécuchet                       - È un elmo vikingo.

Bouvard                        - E questa è un'alabarda svizzera. (Si produce in un esercizio con l'alabarda per dimostrare come veniva usata negli assalti e contro la cavalleria. Alla fine batte i tacchi e si mette nella posizione di riposò)

Faverges                        - Bravo, bravi tutti e due. Qui sembra di veder risorgere l'era del rispetto e dei valori assoluti. Non che io au­spichi un ritorno al Medioevo, si intende: eppure a toccare con mano certi ricordi...

Pécuchet                       - Abbiamo pure degli antichissimi simboli fallici. Se il signor conte vuole...

Faverges                        - Un'altra volta. Davvero qui da loro sembra di stare in un museo... E magari anche a teatro. (Faverges e Hurel se ne vanno)

7.

Il teatro.

Pécuchet                       - A teatro. Cosa avrà voluto dire?

Bouvard                        - Forse che la storia è monca senza la fantasia. Certo rispetto a un museo, rispetto a tutte le scienze morte, il teatro...

Pécuchet                       - Il teatro...?

Bouvard                        - È un'arte viva. Più del romanzo, più della poesia. Se scrivessimo una commedia?

Pécuchet                       - O una tragedia. Ma in prosa o in versi? E lo stile? In che consiste lo stile letterario? Dal Littré si ricava che le regole di grammatica sono variabili: "Un mucchio di legna secco"...

Bouvard                        - Eh, no. "Un mucchio di legna secca".

Pécuchet                       - Lo vedi? La sintassi è un'illusione e l'ortografia è soggettiva. E poi, una commedia su quale argomento?

Bouvard                        - Aspetta. Ho sentito un brivido. Come il vento di un'idea. Maledizione, al momento di afferrarla è scom­parsa.

Pécuchet                       - Peccato.

Bouvard                        - L'importante è avere un titolo, l'argomento viene da sé. Prendiamo un proverbio come titolo: la commedia si incarica di dimostrarlo. O pigliamo un romanzo famoso: ci mettiamo in due e ne facciamo una riduzione.

Pécuchet                       - Cosi i critici diranno che non è teatro.

Bouvard                        - La critica oltraggia le cose serie e fa la riverenza alle banalità. I critici che passano per autorevoli sono asini, quelli considerati spiritosi sono soltanto stupidi.

Pécuchet                       - Meglio, tu dici, lasciarsi guidare dal gusto del pubblico? Ma com'è, allora che certe porcherie hanno suc­cesso e certi ottimi spettacoli vengono fischiati o disertati?

Bouvard                        - Eppure senza il pubblico, senza gli applausi il teatro non sarebbe il teatro...

Pécuchet                       - Essere recitati a Parigi!

Bouvard                        - Recitare noi alla Comédie! (Si mette a declama­re)

"Si, prence, io per Teseo

d'amor mi struggo. Avea

la tua chioma, il tuo viso...

 

(Prende Pécuchet per il mento e lo sistema di profilo. Entra la Bordin e li guarda sbalordita)

...Lo sguardo tuo, la voce, il portamento,

e questo stesso nobile pallore

coloria le tue guance..."

Pécuchet                       - "Giusti numi che ascolto. Hai tu scordato che Teseo il padre mio, ch'egli è tuo sposo?"         - (Vedono la Bordin e si interrompono)

Bordin                           - Non volevo interromperli. Seguitino, seguitino pu­re.

Bouvard                        - Sciocchezzuole. Esperimenti.

Bordin                           - Facciano come se io non ci fossi.

Bouvard                        - Era un brano della "Fedra". Lui è Ippolito.

Bordin                           - Chi è questa Federa?

Bouvard                        - Sarà meglio che le recitiamo la scena madre del "Tartufo", Si metta qui... (Fa sedere con galanteria la Bordin sul divano come davanti a un improvvisato palcoscenico)

Pécuchet                       - Lei deve sapere che Tartufo è...

Bordin                           - Grazie, fino a sapere che cos'è un tartufo ci ar­rivo.

Pécuchet                       - Non posso. La scena esige un abito da donna per Elmira.

Bouvard                        - E non l'abbiamo qui viva fra noi? (Si siede sul divano accanto alla Bordin) Io faccio l'azione con lei e tu leggi le battute di Elmira. (Pécuchet si accinge alla recita poco convinto) "...Signora, il mio fervore è tale..." (Prende la mano della Bordin-Elmira e le stringe le dita, secondo la di­dascalia di Molière. La Bordin, emozionata e divertita, non sa che fare. Pécuchet legge con ostentata monotonia)

Pécuchet                       - "Oh, mi stringete troppo!"

Bouvard                        - "Per eccesso di zelo. Giammai desiderai di farvi male alcuno. Voglio invece..." (Posa la mano sulle ginocchia della donna)

Pécuchet                       - "Che fa costi la vostra mano?"

Bordin                           - Si, cosa fa con quella mano?

Bouvard                        - "Palpo il vostro vestito: la stoffa è cosi mor­bida".

Pécuchet                       - "Ah, vi prego, lasciatemi, soffro molto il sol­letico...” (Alla Bordin) E si allontana da lui. (Bouvard gli dà un'occhiataccia: come Tartufo, smette di fìngere e si dichia­ra)

Bouvard                        - "In voi è la mia speme, il ben, la pace in voi, da voi dipende il mio dolore o la mia gioia; e voi potete farmi a vostra bella posta, felice o infelice, con la vostra risposta". (Pécuchet, seccato, chiude il libro con rabbia) E non mi ha sentito quando recito Victor Hugo, l’"Ernani"...

"Cantami una canzone, come talvolta a sera

cantavi: e avevi il pianto sulla pupilla nera..."

Bordin                           - Io! Sono io, stampata!

Bouvard                        - "Deh, lasciami posare, sognare sul tuo cuore, donna, sole, bellezza, mio sovrano amore!"

Pécuchet                       - A questo punto suona il vespro e un montanaro li interrompe. (Bouvard gli dà un'altra occhiataccia)

Bordin                           - Per fortuna, se no...

Bouvard                        - Se no...?

Bordin                           - Ma che ora abbiamo fatto? È già buio, devo an­dare!

Bouvard                        - Di già?

Bordin                           - La faggeta è umida per la pioggia, forse farei me­glio a tornare per i campi.

Bouvard                        - L'accompagno.

Bordin                           - Grazie. (Fa un mezzo inchino a Pécuchet che ri­sponde appena)

Pécuchet                       - Sta' attento a non bagnarti i piedi tu. (La Bor­din e Bouvard, soli, camminano all'aperto)

Bordin                           - Lei è cosi un bravo attore...

Bouvard                        - Per il talento non so, ma quanto al fuoco che ho dentro...

Bordin                           - Si vede... Si vede che lei deve avere amato molto, in passato.

Bouvard                        - Solo in passato?

Bordin                           - L'erba è umida, passiamo sotto i salici. (Ri­pete il verso di Hugo) "Donna, sole, bellezza..."

Bouvard                        - "...mio sovrano amore!"

Bordin                           - Deve far piacere sentirsele dire sul serio certe cose.

Bouvard                        - Non ha che da permettermelo.

Bordin                           - Lei a me?

Bouvard                        - Sì, io a lei.

Bordin                           - Lei scherza?

Bouvard                        - Niente affatto. (La allaccia alla vita, dopo aver guardato se in giro non c'è nessuno, e le stampa un bacio sul­la nuca. La Bordin chiude e riapre gli occhi)

Bordin                           - Passato. (Raccoglie la gonna per saltare un riga­gnolo)

Bouvard                        - Vuole che l'aiuti?

Bordin                           - No, no.

Bouvard                        - Mi sfugge?

Bordin                           - Lei è un uomo troppo pericoloso. (Bouvard l'af­ferra per un braccio)

Bouvard                        - Signora Bordin, che giorno è oggi?

Bordin                           - Il 24. Perché?

Bouvard                        - È un giorno degno di passare alla storia; 24 feb­braio 1848. (Tenta di baciarla sulla bocca, lei gli sfugge e sal­ta il rigagnolo lasciando scorgere il bianco delle calze. Si al­lontana con un gesto di saluto. Nella solitudine dei campi, Bouvard respira a pieni polmoni e si mette da solo a cantare la prima cosa che gli viene in mente e cioè la "Marsigliese". Un coro disordinato gli risponde dal buio tutto intorno. Bou­vard si guarda in giro stupito. Il coro cresce d'intensità)

8.

1848

La scena s'illumina scoprendo i popolani del paese che si av­venturano sui mobili di scena e se ne servono per erigere bar­ricate. Pécuchet è accanto a un pioppo ornato di nastri.

Pécuchet                       - Cittadino Bouvard, vieni anche tu sotto l'albe­ro della libertà. (Bouvard si compiace dell'albero, dà la mano a Gorju e ad altri, si lascia appuntare la coccarda an­che lui; e da ultimo abbraccia Pécuchet) La politica supera le esperienze individuali, Bouvard... (Si sente da fuori un rul­lo di tamburo) È entusiasmante vivere un momento storico co­me questo, la caduta di una monarchia, il ritorno alla repub­blica.

Gorju                             - Viva la repubblica! (Tutti inneggiano. Guidato dal tamburo appare il corteo, come una processione. Preceduto dalla croce d'argento e da due ceri, Jeufroy ha la stola, la cappa e il tricorno; è seguito da un chierichetto che porta il secchiello con l'acqua benedetta. Al seguito, nei vestiti della festa, tutti i notabili del paese, compresi quelli che non ab­biamo ancora visto, come l'albergatore Beljambe. Gorju grida dall'alto di una barricata) Viva l'albero della libertà! (Applau­si. Jeufroy con un sorriso benevolo reclama il silenzio. Si avanza fin sotto l'albero e fa per parlare) Viva la repubblica! (Altro applauso, qualche grido risponde. Bouvard e Pécuchet si uniscono al corteo. Jeufroy chiede di nuovo il silenzio)

Jeufroy                          - Si, gregge diletto. Viva la repubblica. Non si dice forse repubblica delle lettere? Non si dice repubblica cristia­na? La religione ci mostra ancora una volta la strada: questo albero del popolo è di legno, un pioppo, dal latino populus, come la croce. Ma perché la religione produca i suoi frutti ha bisogno della carità. E in nome della carità, con il cuore pieno di giubilo, vi invito a rientrare in pace nelle vostre case. (Fa un cenno al ragazzino con l'acqua benedetta e asperge l'albe­ro. Il gesto provoca consensi, il conte e i notabili sì congra­tulano)

Bouvard                        - Per essere quello che è non ha neanche parla­to male.

Pécuchet                       - Si però che l'albero l'avevamo donato noi po­teva ricordarlo.

Bouvard                        - Che importanza vuoi che abbia una cosa simile in un momento come questo? (Commenti nel gruppo dei notabili)

Foureau                         - Si comincia col rizzare gli alberi della libertà e si finisce con la ghigliottina. Ce ne ricorderemo, del '48.

Faverges                        - In ogni caso gli Orléans sono spacciati. È il mo­mento di andare verso il popolo. In Francia e in tutta l'Eu­ropa.

Foureau                         - Badi a non lasciarsi trasportare, signor conte.

Vaucorbeil                    - Ma lei, caro sindaco, ha una faccia stamatti­na... Eppure l'albero è stato piantato per una delibera del consiglio comunale.

Foureau                         - Se a Parigi li piantano, perché no a Chavignol-les? Noi non siamo secondi a nessuno.

Faverges                        - Senza contare che il governo provvisorio ha ricevuto l'adesione della Corte di Cassazione, della Corte di Appello, della Corte dei Conti, del Tribunale di Commer­cio, dell'Ordine degli Avvocati, dell'Università...

Marescot                       - Lei dimentica la Camera dei Notai.

Heurtaux                       - E l'esercito? Dove lo mette l'esercito?

Jeufroy                          - Intoniamo un Te Deum. (Lo intona lui e la pro­cessione si avvia con in testa Placquevent che porta il tri­colore)

Gorju                             - Fermi tutti! Che cos'è questa roba?

Placquevent                  - È la bandiera, Gorju, non la vedi?

Gorju                             - No! La bandiera della nuova Francia dev'essere la bandiera rossa. (Arriva una bandiera rossa. Entusiasmo del popolo e turbamento fra i notabili. Bouvard e Pécuchet, sempre al centro della scena, seguono gli eventi)

Foureau                         - Perché non volete più il tricolore? È il simbolo della prima repubblica, sorta dalla rivoluzione. (Interviene il maestro Petit dalla cima di un'altra barricata)

Petit                              - Quel simbolo è stato infangato da Luigi Filippo. Nelle sue pieghe si è nascosta la grossa borghesia per ar­ricchirsi indisturbata.

Foureau                         - Ci si mette anche lei, maestro Petit?

Petit                              - Adesso è cambiato tutto e...

Gorju                             - Adesso è il popolo che è sovrano! E il colore della porpora regale dev'essere il simbolo della nazione.

Voci                              - Si! Si! Bandiera rossa!

Marescot                       - Si, signori miei, sì, dieci volte sì col cuore. Ma con la ragione venti volte no. Tutta l'Europa ci guarda. Que­sta provocazione inutile può portare a una coalizione delle monarchie capitanata dalla Russia.

Pécuchet                       - (a Bouvard) Fra un po' dirà che i cosacchi so­no alle porte.

Bouvard                        - (a Pécuchet) Ma se i troni vacillano dappertut­to.

Faverges                        - E poi, amici miei, monarchia o repubblica, l'importante è che sul trono siedano la giustizia e la fratellan­za. Ben venga il rosso dunque, perché rossa è la toga dei giu­dici, e rosso è il colore simbolico dell'amore... Foureau       - (a Hurel) Cosa dice? è impazzito?

Hurel                             - Il signor conte sa quello che fa.

Faverges                        - Ma proprio voi non vorrete sopprimere il bian­co, amici, simbolo della vostra purezza di cuore. Quanto al blu, che rappresenta una storia gloriosa patrimonio co­mune di ogni francese, conserviamolo, sia pure retroceden­dolo al posto che spetta al passato, cioè dalla parte dell'asta. E al suo posto garrisca il rosso, offerto al vento dell'avvenire, a ricordo perenne di questo ultimo atto della rivoluzione po­polare.

Voci                              - Viva il tricolore! Viva! (Le bandiere tricolori ven­gono girate. La bandiera rossa è portata via)

Foureau                         - Bravo signor conte.

Faverges                        - Sperando che sia davvero l'ultimo atto.

Jeufroy                          - Intoniamo il Te Deum. (La processione si avvia cantando)

Gorju                             - Alt.

Foureau                         - Che cosa c'è ancora?

Gorju                             - In nome del popolo reclamo le armi.

Foureau                         - Questa è una sommossa.

Gorju                             - No, cittadino sindaco. Io reclamo le armi in do­tazione al municipio.

Placquevent                  - I fucili dei pompieri?

Gorju                             - Proprio. I fucili dei pompieri devono diventare le armi della Guardia Nazionale di cui sono stato nominato istruttore.

Foureau                         - Nominato da chi?

Gorju                             - Dal popolo sovrano. Scheda e fucile! Cittadini can­tiamo la "Marsigliese"! (Consensi fra i seguaci di Gorju. Foureau si consulta con il conte e gli altri, a occhiate, e ca­pisce di dover cedere. Vengono distribuiti a tutti i fucili dei pompieri, le esercitazioni cominciano. Anche Bouvard e Pécu-chet, di buon grado, si mettono in fila con tutti gli altri e obbediscono a Gorju che li fa marciare) Sinist' dest' sinist' dest'... tieni il passo, cittadino dottore... Per fila dest' mars'... Vi faccio schiattare vi faccio... Dietro front dietro front die­tro front dietro front... (Pécuchet si imbroglia e marcia nel senso contrario) Cittadino Pécuchet, cerca di fare come gli al­tri! Facciamo vedere al mondo chi siamo... Alt. Fronte a me, front. Dentro la pancia, cittadino Bouvard. In Algeria vi avrebbero radiati dall'esercito. (Li passa in rassegna) Su con la vita, uii bel sorriso, cittadino Faverges.

Hurel                             - Come ti permetti, villanzone?

Fverges                         - Calma, Hurel, nella Guardia Nazionale non ci sono titoli né differenze di classe. Siamo tutti figli del popolo.

Gorju                             - Cosi si parla, cittadino Faverges.

Faverges                        - Ed è come amico del popolo, se mi onorate di questo nome, che vi offro un bicchiere alla salute della Re­pubblica. (Immediatamente le file si sciolgono, tutti i popo­lani vanno a bere portando in trionfo Gorju. In primo piano il gruppo dei notabili)

Hurel                             - Non dia troppa corda a Gorju, signor conte. Quelli là sono capaci di portarlo candidato all'Assemblea.

Faverges                        - Lei crede che al momento opportuno non si tro­verà niente di meglio? Qui ci sono persone di ben altra qua­lità. (Tutti sono solleticati dall'idea di candidarsi)

Vaucorbeil                    - Candidato all'Assemblea? E perché no? Chi ha detto che devo finire i miei giorni curando le indigestio­ni e i reumi a Chavignolles?

Heurtaux                       - Ho servito la patria dove si rischiava la vita, posso ben farlo anche nell'aula del parlamento.

Petit                              - Finalmente è venuta l'ora di valorizzare gli intel­lettuali. Largo alle capacità.

Foureau                         - Ma che siano autentiche.

Beljambe                       - Ci vuole un uomo di commercio, che faccia quadrare il bilancio.

Marescot                       - O un uomo di legge, che conosca i codici.

Jeufroy                          - O un uomo di fede.

Faverges                        - Peccato che Monsignor Vescovo non le per­metterebbe mai di candidarsi. (Il parroco si rivolge a Hurel)

Jeufroy                          - Al signor conte non conviene bruciarsi in una elezione dalle prospettive dubbie.

Marescot                       - Quanto a lei, maestro Petit, se perde le elezio­ni perde anche il posto alla scuola.

Petit                              - E lei abbandonerebbe il suo studio notarile? O il signor Beljambe la sua bottega?

Heurtaux                       - È lo stesso per il dottore: perderebbe la clien­tela.

Vaucorbeil                    - Lei parla, ma non ha seguito in paese.

Heurtaux                       - Lo dice lei. Tra gente in divisa ci s'intende, vero guardia campestre?

Placquevent                  - Io obbedisco al signor sindaco. (Pécuchet si rivolge a Bouvard)

Pécuchet                       - Perché non ti fai avanti tu? Con la tua voce, la tua presenza, sei un candidato ideale.

Bouvard                        - No, no. Tu caso mai, che hai più cultura. (A tutti) Io propongo Pécuchet.

Pécuchet                       - E io Bouvard.

Foureau                         - Cosi avrete un voto a testa. (Una folla di ope­rai arriva minacciosa, l'uno a braccio dell'altro, gridando rit­micamente: "ou, oul". Costernazione fra il gruppo dei nota­bili, che si ritira dalla parte opposta della scena) Gorju          - (si presenta ai notabili con le sue richieste) Cit­tadini! (Un ruggito minaccioso dalla folla) Vogliamo pane! (Altro ruggito) Vogliamo lavoro! (Ruggito più lungo)

Marescot                       - Il Consiglio comunale si riunisce immediata­mente. (Mentre Gorju indietreggia di qualche passo, i notabili al Consiglio comunale si stringono in circolo per decidere. Bel­jambe e Marescot sono i due assessori che assistono il sin­daco)

Foureau                         - È proprio la rivoluzione. È un altro '89. Lo di­cevo io.

Beljambe                       - Troppi scioperi tollerati, troppe promesse.

Marescot                       - A Parigi il governo fa della demagogia.

Foureau                         - E intanto noi qui dobbiamo fronteggiare la ca­naglia. (Gorju e la folla gridano)

Gorju                             - Pane! Lavoro!

 Beljambe                      - Bisogna dargli qualcosa da fare, a questi qua.

Marescot                       - Facciamogli cavar pietre.

Faverges                        - Gli si può far costruire una strada.

Foureau                         - Ma dove?

Faverges                        - Il posto si trova. Intanto, che qualcuno vada a tenerli calmi. Dite che si sta provvedendo. (// notaio Ma­rescot va dai dimostranti)

Marescot                       - Amici operai! (// solito ruggito) Stiamo venen­do incontro ai vostri legittimi desideri. Il Consiglio comunale studia la realizzazione di lavori pubblici a scopo assistenziale!

Gorju                             - Niente beneficienze! Vogliamo il diritto al lavoro! E gli aristocratici... i possidenti... la gente ben vestita... alla lan­terna! (Un fremito fra i notabili, Marescot fugge. Anche Bou­vard e Pécuchet sono impressionati e si consultano rapida­mente. Pécuchet decide di arringare la folla)

Pécuchet                       - Cittadini! (Dalle due parti lo si guarda con cu­riosità)

Gorju                             - Chi sei?

Pécuchet                       - Ma sono Pécuchet, Gorju. Non mi riconosci? 11 cittadino Pécuchet.

Gorju                             - Dico socialmente: chi sei? Sei un operaio?

Pécuchet                       - No.

Gorju                             - Sei un padrone, allora?

Pécuchet                       - Nemmeno.

Gorju                             - E allora non sei nessuno. Vattene via, va' all'in­ferno. (Tra i fischi Pécuchet si ritira. Hurel viene a portare le decisioni del Consiglio comunale ai dimostranti)

Hurel                             - Operai! Il Consiglio comunale vi comunica le sue decisioni. Avrete il lavoro. (Applausi) La strada provinciale avrà una deviazione che condurrà al castello di Faverges... È un sacrificio che il comune si impone nell'interesse del popo­lo lavoratore.

Bouvard                        - Direi piuttosto nell'interesse del conte.

Pécuchet                       - Gli fanno a spese pubbliche la strada per an­dare a casa sua. (La notizia è accolta senza troppi commenti. I comizianti cominciano a disperdersi. Gorju cerca inutil­mente solidarietà fra i compagni)

Gorju                             - Cittadini, questa è una trappola. È un modo per farci star buoni. Non ve ne andate, è adesso che non biso­gna mollare... (Nessuno gli dà retta, Gorju sbatte a terra il berretto e se ne va. Nel gruppo dei notabili c'è di nuovo del fermento)

Foureau                         - Signori, notizie gravi da Parigi. La città è in tumulto.

Hurel                             - Gli operai sono in rivolta. Barricate ovunque.

Marescot                       - Tutto perché hanno sospeso i lavori di benefi­cenza.

Foureau                         - Li abbiamo sospesi anche qui, non servivano a niente.

Faverges                        - Faccio notare che io ero contrario. La strada si poteva anche finirla.

Marescot                       - Gli imprenditori chiudono i cantieri, i capitali emigrano!

Jeufroy                          - A Parigi, addosso a un operaio, hanno trovato questo biglietto: buono per tre dame dell'alta società.

Heurtaux                       - Il potere ai militari! Solo il ministro della guerra saprà domare la plebaglia. E quanto a noi, concittadini, il nostro motto sia uno solo: volare al soccorso della capitale. (Approvazioni)

Foureau                         - Sono assolutamente favorevole. Peccato che non posso lasciare il comune.

Marescot                       - Né io il sigillo notarile.

Hurel                             - Né il signor conte la mietitura.

Vaucorbeil                    - I malati prima di tutto.

Beljambe                       - Io sto riorganizzando la Guardia Nazionale e non posso lasciarla. (Bouvard e Pécuchet hanno ascoltato in disparte)

Bouvard                        - Pécuchet, io vado,

Pécuchet                       - Non ti lascio partire.

Bouvard                        - È uno di quei momenti della storia in cui cia­scuno deve prendersi le proprie responsabilità. Vado a Pa­rigi.

Pécuchet                       - Bouvard, ma a favore di chi andresti a com­battere? Della rivoluzione o dell'ordine? (Perplessità dei due)

Beljambe                       - A me signori, riprendiamo le esercitazioni. Ades­so la Guardia Nazionale la comando io in nome della piccola ma onorata borghesia. Attenti! Uno, due... Uno due... (Sotto il comando di Beljambe riprendono stancamente le esercita­zioni. Marciano anche Bouvard e Pécuchet. Esercitazioni su e giù. A un tratto Bouvard intravede qualcosa)

Bouvard                        - Alto là! Qualcuno che si nasconde.

Placquevent                  - Fermo, in nome del re... Voglio dire: in no­me della legge!

Hurel                             - Arrenditi o sei morto! (Tutti si precipitano con i fucili in pugno sopra lo sconosciuto, che è Gorju)

Bouvard                        - Gorju!

Hurel                             - Sei tornato, figlio di un cane!

 

Marescot                       - Dove sei stato?

Hurel                             - Dov'eri nascosto?

Gorju                             - Ero nascosto in cima a una barricata al centro di Parigi, in piedi, dove nessuno di voi avrebbe avuto il corag­gio di mostrare la punta del naso... Le palle fischiavano, i dragoni venivano all'assalto con la sciabola sguainata. E noi a urlare "Pane o piombo! piombo o lavoro!" Ho visto i mili­tari che uccidevano donne e bambini.

Pécuchet                       - È orribile!

Heurtaux                       - Tutta propaganda.

Faverges                        - Arrestatelo.

Gorju                             - Ma si, arrestatemi. Tanto è finita. Non c'è più rivoluzione, non c'è più niente... Presto non ci sarà neanche più la repubblica.

Beljambe                       - Ti dichiaro in arresto, Gorju, per delitto di parola...

Foureau                         - ...Tendente al rovesciamento della società.

Bouvard                        - Un momento! Arrestate per un delitto di paro­la?

Marescot                       - Quando la parola porta al delitto...

Pécuchet                       - Ma chi determina il confine tra le parole in­nocenti e quelle colpevoli? La frase proibita oggi magari do­mani sarà applaudita. (Mentre mettono le manette a Gorju il conte commenta)

Faverges                        - Certi valori, per la verità, si sono un po' persi per la strada. Ed è tempo che si dia vita con regolari elezioni a un partito dell'ordine. (Tutti si sono messi in fila diretti a un seggio elettorale. Votano uno per uno)

Jeufroy                          - A un grande partito dell'ordine.

Marescot                       - Basta con le piazzate.

Beljambe                       - Con i governi che durano una settimana.

Hurel                             - C'è bisogno di un nome nuovo.

Foureau                         - Di una mano forte!

Vaucorbeil                    - (trattenendo il maestro Petit che vorrebbe strac­ciare la scheda) Ma si, un po' di stabilità non farà male a nessuno. (Placquevent allontana un popolano che voleva vota­re anche lui)

Placquevent                  - Chi non paga tasse non vota.

Heurtaux                       - Votiamo il nome che già fece tremare il mon­do. Votiamo il nome che ci fece rispettati all'estero. Votiamo Napoleone!

Gouy                             - Allora non era morto? Allora era vero che sareb­be ritornato?

Bouvard                        - Ma non è Napoleone quello vero. È soltanto Luigi Napoleone, quel suo nipote figlio dell'ex-re d'Olanda. Gli elettori non sono mica stupidi. (La battuta ironica. La guardia campestre apostrofa i due)

Placquvent                    - Loro due, signori... Non facciamo tanto gli spiritosi, trattengano un po' la lingua.

Bouvard                        - Ma noi...

Placquevent                  - A buon intenditor. (Tutti hanno votato. Le urne vengono aperte e il sindaco s'infila la sciarpa tricolore)

Foureau                         - Luigi Napoleone è nominato presidente della repubblica con sei milioni di voti! (Viene tirato giù l'albe­ro della libertà)

Bouvard                        - Ehi, il nostro albero!

Pécuchet                       - Lascia stare, non vedi quello che succede? Sei milioni di voti.

Bouvard                        - Ma qui... qui c'è stato un broglio elettorale da mettere tutti i funzionari sotto inchiesta!

Pécuchet                       - Il tuo suffragio universale! Mette le schede in mano alla massa, alla gente che corre dietro agli avvisi: comperate questa crema, usate quest'altro profumo... Cosi si manovra la massa elettorale e noi subiamo le volontà del più forte.

Bouvard                        - Povera repubblica.

Faverges                        - Signori, l'importante è che ci sia concordia. La forma di governo importa poco.

Bouvard                        - Ma importa la libertà.

Foureau                         - Una persona per bene non ne ha bisogno.

Marescot                       - Quando l'autorità è discussa, avvizzisce e muo­re.

Jeufroy                          - Non c'è che il diritto divino. Il potere, signori miei, viene dall'alto.

Beljambe                       - Salute, democratici. (Bouvard e Pécuchet resta­no isolati al centro della scena)

Pécuchet                       - Scioglimento della camera, deputati in galera, Napoleone fa sparare sui boulevards, ancora morti. Plebiscito nazionale, rispondere si o no.

Bouvard                        - E gli operai? Cosa fanno gli operai? Un po' di prosperità ha addormentato tutti?

Pécuchet                       - Quanti erano prima i francesi che hanno vo­tato per Napoleone presidente? Sei milioni? Adesso sono otto milioni di si che istituiscono l'impero ereditario per Na­poleone III.

Bouvard                        - Come sembra lontano il '48...

Pécuchet                       - Vuoi sapere la mia opinione? Se i borghesi sono feroci, gli operai invidiosi, i preti infidi... Se il popolo accetta tutti i tiranni pur che gli si lasci il muso nella man­giatoia... Napoleone ha fatto bene, si! Che ci imbavagli, che ci pigli a calci, che ci stermini!

Bouvard                        - La politica, che porcheria... E il progresso, che beffa...

Pécuchet                       - Però scusa... Se io traccio una linea ondulata, cosi... (Accenna la linea col gesto) Quelli che la percorrono, tutte le volte che la linea si abbassa non vedono più l'oriz­zonte... La linea però torna ad alzarsi, nonostante le sue on­dulazioni, e ci riporta in cima... Che sia cosi anche il pro­gresso? (Parlando Pécuchet ha seguito la sua linea ideale ar­rivando fino ai fianchi di Melia, la servotta, che sta tirando su la secchia dal pozzo. È la prima volta che Pécuchet mo­stra attenzione a una donna. Intanto Bouvard è in contem­plazione della vedova Bordin alle prese con i suoi fiori. I due amici sono presi da preoccupazioni insolite)

Bouvard                        - Eh? Come hai detto?

Secondo tempo

9.

 L'amore.

Bouvard si guarda allo specchio, canterella piuttosto soddi­sfatto di sé. È azzimato, pronto per uscire.

Bouvard                        -... Il colorito è fresco come quando avevo vent'anni... I capelli, beh, non faccio per vantarmi... e quanto ai denti non ne ho perso uno... (Pécuchet ha un'idea in mente e interpella Bouvard con aria falsamente disinteres­sata)

Pécuchet                       -Sai,Bouvard,misonosemprechiestocome fanno i conquistatori per sedurre le donne. (Bouvard s'è dato un contegno, non voleva essere sorpreso allo specchio)

Bouvard                        -Be', si comincia con qualche regalo. (Pécuchet tasta un pacco che nasconde dietro la schiena)

Pécuchet                       -E poi? Come fa uno a capire...

Bouvard                        -Ah,lasciafarea loro.Certefingonodisve­nireper farsi portare sulcanapé.Altre lascianocadere il fazzoletto. Dipende dal tipo. Le migliori sono quelle che ti danno un appuntamentosenza tantestorie.In ogni donna dorme unaMessalina, basta saperla svegliare.Faccia tosta, coraggio. (Si accinge a uscire)

Pécuchet                       -Staraifuori molto?

Bouvard                        -Vado in paese. Le tasse. Ciao. (Se ne va can­terellando. Pécuchet si guarda anche lui allo specchio)

Pécuchet                       -... Coraggio... (Facile a dirsi, con quei capelli radi e appiccicati al cranio, con quel torace asfittico, due ca­nini in meno... E cos'è quell'aria truce? Si prepara un bel sorriso e va dalla Melia che sta cucendo accanto alla fi­nestra) Che fai di bello, Melia?

Melia                             -Rammendo, signor Pécuchet. (Spezza il filo con i dentini candidi)

Pécuchet                       -Come ti senti?

Melia                             -Bene. (Pécuchetle gira attorno)

Pécuchet                       -Tu non svieni mai accanto al canapé?

Melia                             -No, mai.

Pécuchet                       -E il fazzoletto? Non ti cade mai di mano?

Melia                             -Non ce l'ho. (Infila l'ago strizzando le palpebre e sporgendo la bocca a cuore)

Pécuchet                       -Dove sei nata, Melia?

Melia                             -In Alsazia.

Pécuchet                       -E la tua famiglia?

Melia                             -Non ce l'ho.

Pécuchet                       -Dove lavoravi prima?

Melia                             -Ho fatto la sguattera al castello. Poi dalla signora Castejon, dove c'era Gorju.

Pécuchet                       -E con gli uomini? (La ragazza fa spallucce) Avrai pure l'innamorato. (La ragazza nega con la testa) Ne avrai avuti però.

Melia                             -Mai. (Pécuchet non sa se esserne contento o preoc­cupato)

Pécuchet                       -Ma quale sarebbe il tuo tipo? Un po' come il signor Bouvard, per esempio?

Melia                             -Neanche per sogno. Mi piacciono i magri, si fi­guri. (Pécuchet è ringalluzzito ma sempre timoroso)

Pécuchet                       -Allora questosarebbe unpacco...Inquesto pacco ci sarebbe un paio di... (Mostra il pacco che aveva tenuto dietro la schiena)

Melia                             -Oh grazie! grazie! (Posa il lavoro, afferra il pac­co, estrae un paio di stivaletti nuovi fiammanti) Che belli! (Pécuchet le dà un bacio sul mento che la ragazza gli rende subito. Vuole provarsi gli stivaletti)

Pécuchet                       -Lascia. Io. Voglio fare io. (Si inginocchia e glieli calza)

(Nella casa della Bordin, Bouvard è accanto alla vedova in de­colleté su un divano)

Bouvard                        -Io l'a... io l'a... io Va... io l'amo! Sposiamoci. (La Bordin respira forte)

Bordin                           -Lei scherza.Sarebbeda ridere, saremmo la fa­vola del paese. (Bouvard le siede accanto)

Bouvard                        -Non abbiamo bisogno del consenso di nessuno, siamo vedovi e liberi.

Bordin                           -Stia buono e prenda il suo caffè che si raffredda. (Bouvard ubbidisce)

Bouvard                        -Ma che cosa la trattiene? Forse il corredo? Le nostre biancherie sono marcate tutt'e con la B, fonderemo le nostre iniziali. (La vedova ride)        - (Pécuchet e la Melia in un posto semibuio)

Melia                             -Che cosa ci siamo venuti a fare qui in cantina, signor Pécuchet?

Pécuchet                       -Perché, non cammini bene con i tuoi stivaletti nuovi?

Melia                             -Benissimo... Ma adesso... (Si avvia)

Pécuchet                       -Aspetta. Devi contare le bottiglie di vino.

Melia                             -Adesso?

Pécuchet                       -Sì, adesso o mai più, adesso o la morte.

Melia                             -Non voglio che lei muoia per le bottiglie, signor Pécuchet. Due, quattro, otto e otto sedici. (Si avvia di nuovo)

Pécuchet                       -Aspetta. C'è anche da spillare il vino.

Melia                             -Ah. (Gli sta dritta davanti nella luce della fine­strella, le palpebre abbassate, gli angoli della bocca all'insù)          - (Siamo nel salotto della vedova)

Bordin                           -Esattore, si, era esattore del tribunale. Un uomo d'oro. Lei ora sa tutto di me, è riuscito a farmi raccontare tante cose mie, e io di lei so cosi poco, neppure, per dire, quali interessi lei ha in comune col suo amico.

Bouvard                        -A parte l'agricoltura... ci siamo interessati di me­dicina, di storia, di antiquariato, di geologia... di teatro...

Bordin                           -Teatro galeotto... Ma quello che mi incuriosisce è la vostra società, la vostra, per dire, combinazione econo­mica.

Bouvard                        -Il padrone di tutto sono io, lui è un ospite. An­che se si può dire che abbia contribuito all'acquisto del po­dere, con una miseria. (In cantina)

Pécuchet                       -Mi ami?

Melia                             -Non lo so.

Pécuchet                       -Come padrone?

Melia                             -No.

Pécuchet                       -Come uomo? (La ragazza sbatte le palpebre) E allora, dimostramelo! (La allaccia col braccio sinistro e con l'altra mano le sbottona il corsetto)

Melia                             -Non mi farà male?

Pécuchet                       -No, angioletto mio, sei cosi inesperta... Non avere paura.

Melia                             -Ah! (Indietreggiando è caduta su un mucchio di fascine, la testa arrovesciata. Si nasconde la faccia sotto un braccio e sta li, coi piccoli seni fuori dalla camicetta)   - (Nel salotto, in piedi dietro la Bordin, Bouvard fa scorrere le sue mani lungo le bianche braccia nude della vedova)

Bordin                           -Sia bravo, non mi faccia arrabbiare... Guardi, co­minciano ad aprirsi le gemme. (Gli offre delle violette)

Bouvard                        -Che profumo fresco... Le conserverò per sem­pre in un libro che sto leggendo adesso per miei studi scien­tifici.

Bordin                           -Che uomo colto è lei, e mai in ozio. C'è da invi­diare la futura signora Bouvard.

Bouvard                        -Lo dice sul serio?

Bordin                           -Debbo avvertirla che presto le chiederò un favore.

Bouvard                        -Faccia conto che sia già accordato. Che fa­vore è?

Bordin                           -No, adesso no. Diciamo fra otto giorni, giovedì prossimo. Incontriamoci dal notaio. (In cantina Pécuchet sta anfanando tra le fascine)

Melia                             -Se lo sapesse il signor Bouvard...

Pécuchet                       -Che c'entra lui? Non gli faremo capire niente al pancione! (Nel salotto)

Bordin                           -E nessuno deve sapere di questo appuntamento. Ne va della mia reputazione. Neppure...

Bouvard                        -Non è il mio tutore! Non ha nessun diritto su di me!

Bordin                           -Fra otto giorni.

Bouvard                        -Ma intanto... posso sperare?

Bordin                           -Dal notaio...

(Bouvard se ne va con gli occhi al cielo e canticchiando. A casa è accolto dalla solita mensa apparecchiata alla meglio, uno squallido contrasto con la casa ordinatissima della Bor­din. Non c'è nessuno)

Bouvard                        -Germana! Melia! Dove diavolo siete! (Pécuchet si solleva dal mucchio di fascine e lo raggiunge mentre la Melia si eclissa verso la cucina. Si finge distratto)

Pécuchet                       -Sei qua.

Bouvard                        -Dove s'è ficcata la vecchia?

Pécuchet                       -L'ho licenziata! Era più sporca e più disordina­ta del solito.

Bouvard                        -In questa casa ci sarebbe proprio bisogno di un po' d'ordine e di pulizia. (Arriva la Melia con la zuppa, an­cora scarmigliata) E guarda quest'altra, sembra una zingara! (Pécuchet invece di difendere la ragazza affonda vigliacca­mente la testa nel piatto. Melia fa per servire anche Bouvard) Ho già mangiato.

Pécuchet                       -Dove?

Bouvard                        -Sarò padrone di fare uno spuntino in compa­gnia più allegra, una volta tanto? (Si versa da bere. Pécuchet mangia. Ognuno dei due formula a voce alta i suoi pensieri, non uditi dall'altro) La camera matrimoniale la faccio dov'è adesso il museo...

Pécuchet                       -... Scapperemoinsieme.

Bouvard                        -... E se lui si oppone lo pianto e me ne vado a stare da mia moglie...

Pécuchet                       -... In Algeria, dove tutto costa di meno...

Bouvard                        -... Sarò servito come un pascià... mentre tu affon­derai nel tuo disordine... (Fissa Pécuchet con malanimo. Pé­cuchet lo guarda male anche lui)

Pécuchet                       -... Tu che mi credi un essere anonimo e spen­to... Si, io ho suscitato una passione... Io!... (Si allontanano via via uno dall'altro)

Bouvard                        -La mia vita cambierà... (Canticchia)

Pécuchet                       -...Conoscerò l'imprevisto, l'avventura... (Cantic­chia anche lui)

(Scoppia di nuovo la lite nel granaio)

Pécuchet                       -Colle violette andavi in giro! con le violette.

Bouvard                        -E tu, che affondavi la testa nel piatto senza dire una parola? Me lo ricordo bene, va'!

Pécuchet                       -Eri semplicemente ridicolo, se vuoi saperlo, coi tuoi grandi amori segreti!

Bouvard                        -Ridicolo io? Guarda, se parliamo di ridicolo ti conviene stare zitto!

Pécuchet                       -La mia diventò una tragedia, una vera trage­dia!

Bouvard                        -Si, solo che invece del morto... lasciamo stare! E comunque io mi sono confessato per primo!

Pécuchet                       -Sfido! ti era rimasto solo il mazzo di violette... (Qui riprende l'azione)

Bouvard                        - (scaraventando via le violette) Maledetta fem­mina!

Pécuchet                       - (storcendo le gambe) Chi? (Bouvard sbatte via il cappello)

Bouvard                        -Se non ne parlo scoppio. Senti:cosa penseresti di me, se io avessi pensato di... (S'interrompe) Ma cos'hai?

Pécuchet                       -Sono un po' preoccupato per la mia salute.

Bouvard                        -Effettivamente mi sembri giallo. Cosa ti senti, stai male?

Pécuchet                       -Ho paura di aver preso... una malattia del be­stiame.

Bouvard                        -De! bestiame?

Pécuchet                       -Si, non c'è niente di strano. Posso averla presa dai polli, da un cane, da un pappagallo.

Bouvard                        -Quale pappagallo? Se non ne abbiamo. Mettiti a letto e chiamiamo il dottore.

Pécuchet                       -No! Non c'è n'è bisogno. Cosa volevi dirmi? Che femmina?

Bouvard                        -Sono un verme, Pécuchet. Torno adesso dal notaio. La Bordin mi aveva dato appuntamento là. Io.., si, le ho fatto un po' di corte in questo periodo: voglio essere sin­cero con te. Bene. Trovo Marescot da solo che mi accoglie con ogni premura e fa un gran preludio...

 

 (Appare il notaio Marescot nel suo studio)

Marescot                       -La mia cliente, forse perché lei le incute una certa soggezione, non si dispiacerà se sono io ad anticiparle una richiesta molto importante per entrambi loro. (Bouvard si rivolge al notaio)

Bouvard                        -Soggezione? Dica, dica...

Marescot                       -Ecco. La signora desidera entrare in un de­terminato rapporto con lei. Sì, un rapporto che ci si augura sia di reciproca soddisfazione.

Bouvard                        -Quale rapporto? (A Pécuchet che ascolta sba­lordito) Perché ero stato io a parlarle di matrimonio.

Pécuchet                       -Matrimonio? e io?

Bouvard                        -Aspetta.

Marescot                       -Penso che lei abbia già capito.

Bouvard                        -Io immagino, io intuisco. Certo avrei preferito che al momento decisivo la signora si aprisse direttamente con me. Forse sarò un sentimentale...

Marescot                       -Andiamo, signor Bouvard, si tratta per lei di un peso morto.

Bouvard                        -In che senso?

Marescot                       -Il suo attaccamento al podere del torrente è ben noto, ma...

Pécuchet                       -Il podere? Che c'entra il podere?

Bouvard                        -È quello che gli ho chiesto io.

Marescot                       - Lasignora lodesiderada leiindonazione limitata e perpetua all'atto stesso di stipulare il contratto di nozze, in modo da portarlo in dote... S'intende che lei si impegna a svincolarlo da ogni e qualsiasi pretesa altrui... E lei che cosa risponde?

Pécuchet                       -E tu che cos'hai risposto?

Bouvard                        -Non faccio neppure in tempo a riprendere fiato che entra lei, in gran tenuta... (Entra la vedova: scialle di chachemir, cappello, guanti di pelle)

Bordin                           -Scusate il ritardo! Il signor Bouvard è un tale gentiluomo che non me ne vorrà. Intanto vi sarete parlati.

Marescot                       - Molto sulle generali. (Il notaio le offre da sedere)

Bouvard                        -Come si aggiusta la gonna sulla sedia, in modo che senza parere spunta tanto cosi di piede! E il profumo!

Bordin                           -Io per le cose d'interesse sono sempre un po' nel­la luna, lei lo sa signor Marescot... Se il signor Bouvard non me lo avesse promesso... (77 notaio è pronto con un documen­to da firmare)

Bouvard                        -Era quello il favore che s'era fatta promettere, capisci? il podere, di cui neppure posso disporre avendolo pagato in parte coi soldi di un altro!

Pécuchet                       -Effettivamente!

Bouvard                        -Lei insisteva, io mi sono ostinato. (Alla Bordin) No, no e no. Se lei mi ama... come mi ha fatto credere, come mi ha fatto sperare, signor notaio... è lei che deve cedere. (La Bordin si rivolge al notaio)

Bordin                           -È lui che ha fatto il primo passo, che mi ha cor­teggiata... Eh, stupida io, che l'ho ricevuto in casa mia.,.

Pécuchet                       -Messalina!

Bouvard                        -Ma io non avrei mai pensato,.. Credevo di pia­cerle!

Bordin                           -Piacere? Lui a me? Lo giuro sulla memoria del mio povero marito, fosse qui presente, che neanche col pensiero... E poi, mi faccia il favore, con quella pancia... (Bouvard chiama a testimone Pécuchet)

Bouvard                        -La pancia, capisci? L'ha scoperta quando ha capito che non mollavo il podere, la pancia! E poi quale pancia? (Si mette di profilo e si considera. Sparisce lo studio del notaio) Pécuchet, sono un verme. Sputami in faccia. (Pé­cuchet non risponde) Perché non mi rispondi? Perché non mi sputi in faccia?

Pécuchet                       -Perché... Perché ho paura di contagiarti. Ho scoperto di avere... una malattia inconfessabile.

Bouvard                        -Tu? Complimenti! (Ride)

Pécuchet                       -Alla mia età! È... è lugubre.

Bouvard                        -E chi t'ha fatto il regalo? (Pécuchet arrossisce di più e abbassa ulteriormente la voce)Chi?

Pécuchet                       -Non può essere stata... che la Melia.

Bouvard                        -Eh? Cosi, sotto il mio stesso tetto...

Pécuchet                       -Volevamo fuggire insieme.

Bouvard                        -E io?           - (Pécuchet è distrutto)Senti, per prima cosabisogna licenziarla. Etu devi curarti.Ci penserò io: limone con polvere di zolfo. Al dottor Vaucorbeil chiede­remo solo una cura ricostituente.

Pécuchet                       -Ma perché mi avrà fatto questo?

Bouvard                        -Si vede che le piacevi.

Pécuchet                       -Avrebbe dovuto avvertirmi.

Bouvard                        -Conlapassione nonsiragiona.Guarda me. Eccoperchésifermavasempreallafattoria,colnotaio! Tante manovre per un pezzo di terra! £ avara, ecco la spie­gazione di tutto! Avara!

Pécuchet                       -Le donne...

Bouvard                        -Strano bisogno, se è un bisogno. Spingono al­l'eroismo e al delitto. Il paradiso in un bacio, l'inferno sotto una gonnella. Tubare di tortorelle e grinfie di gatto. E dire che per loro eravamo pronti a tradire la nostra amicizia.

Pécuchet                       -Mi metti anche il rimorso.

Bouvard                        -E io allora? Mai più donne?

Pécuchet                       -Maipiù! (Siabbraccianocommossi.Poisi staccano, si siedono)

10.

La filosofia.

Passano dei mesi. Bouvard è abbattuto, Pécuchet sprofondato nei libri. Bouvard attacca discorso.

Bouvard                        -Consolati, consolati con la filosofia.

Pécuchet                       -ComeBoezioincarcere,sicuro.ComeSo­crate condannato alla cicuta. Come Giordano Bruno ai piedi del rogo. Potrei farti una lista lunga cosi.

Bouvard                        -Di liste lunghe cosi ne ho già abbastanza. (Le brandisce) Quella del droghiere... quella del vinaio... il cal­zolaio... il sarto... ci siamo pure fatti dei vestiti apposta... ab­biamo debiti per quasi mille franchi.

Pécuchet                       -Inezie. Futilità. Leggi Platone. (Gli allunga un libro. Bouvard alza le spalle)

Bouvard                        -Se lo vuoi sapere, dubito assai che le tue orge di filosofia ti possano far dimenticare le cosce della Melia.

Pécuchet                       -Avoltelerimpiango.Masonosullabuona strada.

Bouvard                        -Forse sei incapace d'amare, tu. (Si affaccia il dottor Vaucorbeil)

Vaucorbeil                    - Eccomi qua dal mio paziente particolare. (Vi­sita sommariamente Pécuchet, che non smette di leggere. Canterella:) "...Con l'amore non si scherza..." Prende lo scirop­po iodurato? Ha fatto i bagni mercuriali?

Pécuchet                       -A che prò? Un giorno o l'altro l'apparenza fì­sica perirà. È l'essenza che non può perire. I nostri rapporti sono scambi di messaggi fra essenze. Fra monadi, secondo Leibniz. Chi è lei, dottore? Il suo corpo mi impedisce la vista della sua anima. È solo un abito mal tagliato, una maschera rozza.

Vaucorbeil                    - Allora la sua maschera se la curi un po' da sé. (Andandosene incrocia il notaio)

Marescot                       - Buone notizie, signor Bouvard. Lei mi aveva chiesto di trovare qualcuno disposto a farle un prestito ga­rantito da una ipoteca sulla fattoria. Ebbene, questo qualcuno c'è. Una persona del luogo, per ora non posso dire di più. Il prestito ipotecario è di 5000 franchi. Naturalmente ci sono delle condizioni. Per concedere il prestito, la persona chiede che lei venda la parte della sua proprietà che dà sul torrente. L'offerta è di 1500 franchi. Non dica che è poco, considerata la situazione. Ho con me il denaro del prestito e l'atto di compravendita. Metta una firma qui... E un'altra qui... Ecco 5000 franchi in contanti, il resto a registrazione avvenuta. (Bouvard firma i due atti)

Bouvard                        -Chi è la persona? Adesso può dirmelo.

Marescot                       -La nostracomuneamica,lasignoraBordin. (Se ne va lasciando Bouvard umiliato con i soldi in mano. Pécuchet storna lo sguardo)

Bouvard                        -Almeno potremo pagare tutti i conti. (Entra pa-dron Gouy)

Gouy                             -Disastro, signor padrone! Disastro! Non hanno sentito il temporale stanotte? Su quel terreno disgraziato io ci rimetto anche il sudore delle braccia! Che temporale! Fra il carpentiere, il muratore e il conciatetti ci vorranno 2500 fran­chi. (Gli ha preso i soldi di mano, si è contato 2500 franchi) Poi le mando i conti. (Nell'uscire) E ho sentito dire che lei vuole vendere il podere del torrente, l'unico che rende! Disa­stro!

Bouvard                        -Abbiamo intaccato il capitale, il prestito è già ridotto a metà e quella malafemmina è padrona in casa mia.

Pécuchet                       -Tu sei troppo immerso nella materia.

Bouvard                        -È la materia che mi sommerge.

Pécuchet                       -Fai come me che non l'ammetto. Per un filo­sofo moderno esiste solo lo spirito.

Bouvard                        -I tuoi spiritualisti non mi convincono, da Pla­tone in giù.

Pécuchet                       -E da dove ci viene, allora, l'idea del giusto? Del bello? Dell'infinito? Dal mondo esterno? No!

Bouvard                        -Sono qualità della materia e basta. Tu ammetti il peso? Dunque, se la materia per sua natura può cadere, potrà anche pensare.

Pécuchet                       -Lafatesemplice,voimaterialisti.Eppurelo spettacolo dell'universo denota un'intenzione, un piano che ci trascendono. Una causa prima spirituale.

Bouvard                        -Dio? Ma se Dio avesse una volontà, un fine, se agisse per una causa, avrebbe un bisogno, gli manchereb­be una perfezione, non sarebbe Dio.

Pécuchet                       -E questo dove l'hai trovato?

Bouvard                        -Lo dice Spinoza.

Pécuchet                       -Ma Tommaso d'Aquino, Cartesio, Kant, tutti provano l'esistenza di Dio.

Bouvard                        -Si, con delle prove che non sono affatto le stesse e anzi si distruggono a vicenda.

Pécuchet                       -Il dubbio, eh? Tu vuoi insinuarmi il demone del dubbio. Ma io sai cosa faccio a questo punto? mi butto in braccio a Hegel. Per lui tutte le contraddizioni si risolvono nell'assoluto: soggetto e oggetto, natura e idea, paganesimo e cristianesimo non sono che momenti dello spirito assoluto. A è uguale a non-A. Capisci la dialettica?

Bouvard                        -Certo. È come dire che senza l'ombra non c'è la luce. Che il caffè e il latte sono momenti del caffelatte. Io l'ho sempre pensato.

Pécuchet                       -Eri hegeliano senza saperlo!

Bouvard                        -Quel tedesco li è un altro che pretende di spiega­re delle cose che già si capiscono poco con delle parole che non si capiscono affatto. (Escono a passeggio) Per parte mia mi sto convincendo che niente esiste davvero. Non solo la ma­teria, nemmeno lo spirito.

Pécuchet                       - (per un attimo, nella situazione della lite) È cosi che siamo caduti nell'abisso pauroso dello scetticismo.

Bouvard                        -Pauroso solo per i cervelli deboli. (Sono ar­rivati al caffè. Ai tavoli il sindaco Foureau, il capitano Heur-taux, l'intendente Hurel. Il commerciante Beljambe è sulla porta della sua bottega, dove Gorju serve come garzone. Il ca­meriere del ca,ji'. gobbo Romiche)

Heurtaux                       - Avete saputo signori? finalmente si può dor­mire tranquilli, lo hanno tolto dalla circolazione!

Foureau                         -Lo hanno arrestato ieri!

Bouvard                        -Chi, Napoleone III? (Disagio)

Foureau                         -Sempreoriginaleilsignor Bouvard.Touache, Touache:il forzato evaso che vagabondava nei dintorni.

Hurel                             - Che grinta. Un mostro. (/ due si sono seduti)

Bouvard                        -Perché mostro?

Hurel                             - Unocapace diuccidere unvetturale per svali­giare una diligenza, lei come lo definisce?

Bouvard                        -Uno che ha dei cattivi istinti. (Sensazione)

Heurtaux                       - I cattivi istinti si vincono con la virtù.

Bouvard                        -E se di virtù uno non ne ha?

Beljambe                       -C'è la galera, per fortuna.

Heurtaux                       - La ghigliottina.

Foureau                         -La società si difende.

Bouvard                        -Alloratagliamolatestaallagrandinecheci ha rovinati stanotte.

Hurel                             - Che c'entra la grandine?

Bouvard                        -Vizi e virtù sono fenomeni naturali né più né meno delle tempeste e dei terremoti. Un bandito non può fare a meno di seguire i suoi istinti come un galantuomo segue la ragione.

Beljambe                       -Se capisco bene il signor Bouvard nega il libero arbitrio.

Bouvard                        -Signor Beljambe, come mai non distribuisce ai poveri il contenuto del suo negozio e tutto quello che pos­siede? Me lo spieghi un po'.

Beljambe                       -Non sono mica matto. La roba mia me la tengo, oh bella.

Bouvard                        -Ma se fosse Francesco d'Assisi agirebbe diver­samente perché avrebbe un altro carattere. Lei obbedisce al suo carattere, dunque non è libero. Come Touache il forzato, tale e quale. O come una servotta che si prostituisce.

Beljambe                       -È un gioco di parole.

Foureau                         -Una sciarada.

Hurel                             - Sono assurdità.

Bouvard                        -No, assurdo è voler vedere del disordine nella nascita di un cieco, di un idiota, di un omicida, come se la natura agisse secondo un fine.

Heurtaux                       - Allora lei osa negare anche la divina provvi­denza?

Bouvard                        -Si nega da sé. Epidemie, massacri, povertà... E intanto la loro provvidenza si dà pensiero degli uccellini nel nido, fa rispuntare le branche ai gamberi! Andiamo!

Foureau                         -Ci sono pur sempre dei principi.

Bouvard                        -Tutti i principi non sono altro che pregiudizi. (Gli astanti si allontanano dal caffè parlottando)

Beljambe                       -Avete sentito?

Heurtaux                       - Chi sostiene delle tesi immorali non può che essere immorale lui stesso.

Foureau                         -Due uomini soli... sempre insieme... inseparabili...

Beljambe                       -Ah?

Hurel                             - Lei dice?

Foureau                         -Non dico niente. Constato. Inseparabili.

Beljambe                       -Èpropriogenteda non frequentare. (I due sono rimasti soli al caffè)

Bouvard                        -Se penso che anche agli antipodi ci sono dei Beljambe, degli Heurtaux, dei Foureau che dicono le stesse stupidaggini al caffè con le stesse facce soddisfatte, mi sento pesare addosso tutta l'imbecillità della terra. (Si alza. Pé­cuchet lo imita) Andiamocene per i campi. È meglio.

11.

Il disgusto, la solitudine.

Passeggiata nella calura.

Bouvard                        -Ti ricordi quando eravamo felici? Dove sono i giorni che giravamo di fattoria in fattoria curiosando dapper­tutto? Come mai non seguiamo più i mietitori? Quelle ore che volavano cosi liete, niente le farà mai più tornare. È successo qualcosa, qualcosa di irreparabile... (L'altro tira su col naso) Sei commosso?

Pécuchet                       -È che sento un gran puzzo. (Bouvard annusa con una smorfia) Li, vicino al ruscello...

Bouvard                        -Caronia canis. La carogna di un cane. (Si avvi­cinano loro malgrado alla carogna coi fazzoletti al naso) Gli intestini pare che respirino... è il brulicare dei vermi e delle mosche... che groviglio immondo... Quelle ossa erano il mu­so... Un giorno tutti saremo cosi... Anche noi... (Tornano ver­so casa, scossi e contriti) Non se ne parla mai, eppure la mor­te esiste. (Ci ripensa) E invece no, a ben guardare. La morte non esiste. Te ne vai nella rugiada, nella linfa degli alberi, nelle piume degli uccelli. Restituisci alla natura quello che la natura ti ha dato, anzi prestato soltanto. Il nulla che ti sta davanti dopo la morte non deve farti più paura del nulla che ti sta dietro prima della nascita.

Pécuchet                       -E allora, Bouvard, perché non farla finita su­bito?

Bouvard                        -Cosa vuoi dire?

Pécuchet                       -L'hai capito benissimo. Un suicidio a due per ragioni filosofiche sarebbe degno di Catone. (Hanno ripreso a camminare e arrivano a casa)

Bouvard                        -Per me, se vuoi... Ma che genere di suicidio? Le scelta del mezzo ha la sua importanza.

Pécuchet                       -Ti piacerebbe il veleno?

Bouvard                        -Ho letto che fa soffrire.

Pécuchet                       -Ci tagliamo la gola.

Bouvard                        -Può tremare la mano.

Pécuchet                       -La pistola.

Bouvard                        -È romantica. Mica siamo dei Giovani Wer­ther.

Pécuchet                       -Buttiamoci nel fiume.

Bouvard                        -C'è sempre un cretino che ti salva.

Pécuchet                       -Ho trovato! Nel granaio... due corde e... (Fa un gesto con le mani a pera, come dire " appesi") Che te ne pa­re?

Bouvard                        -Perfetto.., nel suo genere.

Pécuchet                       -Ci pensi che impressione farà nel circondario, quando ci scopriranno... (Gesto delle mani a pera)

Bouvard                        -Resteranno di stucco! Ci rimpiangeranno. Qual­cuno se ne accorgerà, chi ha perduto. Troppo tardi!

Pécuchet                       -Loro là, involtolati nelle loro piccinerie, nelle loro invidie... e noi intanto... (Gesto delle mani a pera. Chiac­chierandosonotornatiacasaquasisenzaaccorgersene. Anche l'idea del suicidio sta diventando un'abitudine)

Bouvard                        -Sarà bello buttar via con un gesto insolente ciò a cui gli uomini tengono di più, ciò per cui sono pronti alle peggiori bassezze. Sarà bello!

Pécuchet                       -Sarà stupendo! A due       -La vita, puah!

(Finisce l'estate. Autunno. Pécuchet prende un libro e Bou­vard un giornale. I loro gesti dicono, chiari come battute, la  rassegnazione e il disagio di vivere di noia. Pecuchet apre il libro: "A che scopo?" Lo chiude e lo posa. Bouvard volta e rivolta il giornale. "Solo guerre catastrofi e menzogne". Po­sa il giornale. Si alza, prende un rastrello e l'innaffiatoio. "Dopo un quarto d'ora mi stufo". Infila il rastrello nell'in­naffiatoio e lo posa. Pecuchet si rimbocca le maniche e fa per spazzare la casa. "Tanto poi si sporca di nuovo". Lascia ca­dere la scopa)

(Inverno. Rabbrividiscono. Si mettono la vestaglia come all'inizio. Si sbadigliano in faccia)

Bouvard                        -24 dicembre. Vigilia di Natale. (Pecuchet rispon­de con uno sbadiglio) Si gela. Metti della legna nella stufa.

Pecuchet                       -Lo sai che non ce n'è. Germana, la cena!

Bouvard                        -Staràgiàinchiesaaspettandolamezzanotte quella... bigotta. Da quando non la paghiamo fa il comodo suo. (E sbadiglia)

Pecuchet                       -Io ho i crampi allo stomaco. Faccio il tè sul fornelletto a petrolio. (Esce)

Bouvard                        -Con questo freddo è igienico bere un goccio. (Bouvard beve da una bottiglia di acquavite. La pendola suo­na le undici e mezzo. Raffiche di vento. Rientra Pecuchet por­tando il tagliere a guisa di vassoio con su la roba per il tè. Pecuchet deposita il vassoio su un mobile traballante. Nel versare il tè rovescia dell'acqua sul pavimento. Bouvard scat­ta) Sta' attento!

Pecuchet                       -Mi trema la mano dalla fame. (Bouvard assag­gia il tè. Smorfia)

Bouvard                        -Cos'è questa roba?

Pecuchet                       -È il tè. Il miglior tè che m'è riuscito di fare con quello che c'è rimasto in questa casa.

Bouvard                        -È acqua tiepida.

Pecuchet                       -Per il signore roba a 40 gradi, anzi a 75! (In­dica la bottiglia di acquavite di Bouvard)

Bouvard                        -Fa bene, tira su. (Ne beve un lungo sorso poi fa l'atto di aggiungere tè nel bricco. È debole. Pecuchet gli ferma la mano)

Pecuchet                       -Diventerà imbevibile.

Bouvard                        -Niente affatto. (Lottano per impadronirsi della scatola. Una tazzina cade e va in pezzi) Seguita, saccheggia, non avere riguardi!

Pecuchet                       -Gran peccato per una tazzina.

Bouvard                        -Era un ricordo di mio padre!

Pecuchet                       -Naturale.

Bouvard                        -Mi insulti anche?

Pecuchet                       -È naturale, dicevo, che uno come te se la pren­da per un coccio. Se capissi che tutto è nebbia... illusione... (Bouvard insorge)

Bouvard                        -Maledizione!Non basta la tristezza della notte e dei pensieri, ci vogliono anche le tue geremiadi!

Pecuchet                       -Chi ha insinuato nella mia mente il tarlo del dubbio per distruggermi?

Bouvard                        -Ma uno reagisce, uno si distrae! Noi invece non usciamo più, non riceviamo più, nessuno più ci saluta.

Pecuchet                       -Il prossimo mi interessa sempre meno.

Bouvard                        -Cosi arriva la notte di Natale ed eccoci qua come due cani randagi.

Pecuchet                       -Lo so che la mia compagnia non ti basta più! (Gridano insieme per la fame e l'alcool. Le raffiche aumenta­no) Volevi sposarti e magari confinarmi nella tomba etni­sca!

Bouvard                        -Perché, tu non eri pronto a piantarmi in asso per scappare in Africa con una sgualdrinella impestata? Dopo la vita da pascià che ti ho sempre fatto fare!

Pecuchet                       -Ecco quello che pensi, che io ti sfrutto. Ba­sta! È troppo!... Addio! (Scappa via con la candela lasciando Bouvard al buio)

Bouvard                        -Dove vai, bestia? Pecuchet... Pecuchet... (Raffi­che di vento sempre più forti. Bouvard cerca Pecuchet nel buio della casa, da una stanza all'altra e anche all'aperto. Sen­so di solitudine) Pecuchet... non lasciarmi solo!

12.

Le corde.

Li troviamo nel granaio come nel primo episodio. Il vento è cessato. La candela è agli sgoccioli. Le corde pendono sul oro capo. I due hanno le lacrime agli occhi.

Bouvard                        -Seilbilancioèquesto...Un'esperienzadopo 'altra...

Pecuchet                       -...Una sconfitta dopo l'altra...

Bouvard                        -Meglio...

Pecuchet                       -...Meglio davvero... (Gesto delle mani a pera.

Salgono sugli sgabelli. Si infilano i cappi. Si guardano)

Pecuchet                       -Addio, Bouvard. è stato bello finché è durato.

Bouvard                        -Senza rancore. Addio, Pecuchet. (Guardano fìs-

 so davanti a sé e stanno per calciare via gli sgabelli. Un suono improvviso di campane. I due con le corde al collo si guar­dano)

Pecuchet                       -È la messa "di mezzanotte... Ci vanno tutti... tanti lumini sulla neve. (Campane) Che strano. Non senti quasi... si, quasi una gran calma... dopo tanti ricordi tempe­stosi? (Bouvard scende anche lui e va a vedere)

Bouvard                        -Ci deve essere un bel tepore in chiesa. Sono tutti là, i vecchi e i bambini, i contadini, i pastori, le fattores-se con le cuffie alte...

Pecuchet                       -Che ne diresti... anche solo per scaldarci?

Bouvard                        -Perché no?In fondo è Natale. (Ancora cam­pane. Si tolgono le corde, scendono dagli sgabelli ed escono insieme)

13.

La religione.

In una luce di vespro primaverile appare il sagrato del­la chiesa dopo la funzione. Dal portale escono i fedeli. I no­tabili ossequiano il parroco Jeufroy che troneggia in mezzo allo spiazzo. Passeggio. Scampanio. Da qui in poi non siamo più nella memoria ma nel presente vissuto.

Jeufroy                          - Da due mesi non mancano a una funzione... Di­cono che è un voto, che il cielo li ha salvati da morte certa, ma non vogliono aggiungere altro. Le vie dell'Altissimo sono davvero infinite.

Beliambe                       - E dire che li ho sentiti io negare la divina prov­videnza.

La Castejon                   - È vero che sono andati in pellegrinaggio?

Jeufroy                          - Si, a Nostra Signora del Soccorso. E hanno scam­biato gli oggetti profani del loro museo con una bella rac­colta di oggetti sacri. (In un altro gruppo)

Germana                       - Croci, medaglie, rosari, un altarino smontabi­le, un Giovan Battista di cera, un presepe di sughero... Quel­lo magro sono sicura che porta il cilicio. La Castejon        - Il cilicio?

Germana                       - Sì. E si frusta di nascosto per penitenza. A se­dere nudo. (Ammirazione generale) (Altro gruppo attorno alla vedova Bordin)

Bordin                           - E della conversione del signor Bouvard cosa si sa?

Signora  Vaucorbeil      - Lo hanno sentito dire che ammira la Chiesa per la sua magnificenza, e che se fosse vissuto nel medioevo avrebbe voluto essere cardinale.

Bordin                           - Certo sarebbe stato imponente vestito di porpo­ra... (Il prete parla col sindaco)

Jeufroy                          - Ora che i due parigini hanno messo giudizio, resta soltanto una pecora infetta, quella però che può conta­giare le pecorelle più tenere.

Foureau                         - Il dottor Vaucorbeil?

Jeufroy                          - No, lui non conta. (// maestro Petit passa chiac­chierando col dottor Vaucorbeil)

Foureau                         - Ah... il maestro...

Jeufroy                          - Ma confidiamo. Confidiamo. Dio può toccare il cuore anche a lui.

Foureau                         - Dio, o la nuova legge sulla scuola.

Bordin                           - Eccoli. Eccoli.

(Bouvard e Pecuchet stanno uscen­do dal portale. Pecuchet è vestito col saio dei penitenti. Han­no tutti e due l'aria compunta, portano i libri di devozione fra le mani giunte. Si girano verso la chiesa a fare l'ultimo piegamento di ginocchi. Scendono. Tutti li salutano molto cordialmente come due esemplari di figliol prodigo. I due ricambiano con aria dolce e si avvicinano al parroco. Gli par­lano a gara. La loro sincerità è evidente)

 

Pécuchet                       - Padre... Ah... (Un movimento brusco gli procu­ra una smorfia di gaudio)

Germana                       - Visto? È il cilicio.

Pécuchet                       - Padre, quando lei ha raccomandato ai ragazzi della prima comunione di conservare sempre immacolata la veste dell'innocenza... io ho rimpianto tanto di aver mac­chiato la mia.

Jeufroy                          - Legga la giovinezza di sant'Ignazio.

Bouvard                        - Come si fa a ottenere la vera fede, padre?

Jeufroy                          - Come avete fatto voi: incominciando a seguire le pratiche del culto.

Bouvard                        - Mi avevano detto che la mensa eucaristica mi avrebbe trasformato... Spio dentro di me i segni del rinnova­mento, ma non ne scorgo alcuno.

Jeufroy                          - Si rassicuri e legga il catechismo.

Bouvard                        - L'ho letto.

Jeufroy                          - Lo rilegga.

Pécuchet                       - Vorrei la castità, e sono assalito da pensieri-pensieri...

Jeufroy                          - Accenda dei ceri a sant'Antonio, che ha vinto ben altre tentazioni.

Pécuchet                       - ...Vorrei l'umiltà, e ho ancora certi scatti di collera...

Jeufroy                          - Beva l'acqua della Santa Salute. Adesso mi per­mettano. (Si libera dei due neofiti troppo zelanti andando a ossequiare il conte e la conlessa Faverges. Pécuchet vede i due liberi pensatori e piomba su di loro)

Pécuchet                       - Dottore, dottore!

Vaucorbeil                    - Ora non ho tempo. (Al maestro) Quel matto mi vuole convertire.

Petit                              - Anche a me.

Pécuchet                       - Maestro Petit!

Petit                              - Dopo, dopo.

Pécuchet                       - Le ho portato un libro, signor maestro, che stringe il cuore e innalza lo spirito. (Glielo mette a forza tra le mani e si allontana guardandolo con aria bonaria e ga­leotta. Altra smorfia gioiosa per il cilicio)

Petit                              - "L'imitazione di Cristo"? Ora esagera! è un tartufo! (La Bordin a braccetto con la moglie del dottore passa vicino a Bouvard, gli sorride e prosegue uscendo. Bouvard è arros­sito)

La contessa

Faverges                        - Signor Pécuchet! (La matura con­tessa sorride sotto l'ombrellino. Pécuchet avvicinandosi salu­ta con un cenno del capo, le mani sempre in grembo a strin­gere il libro da messa) Lei conosce la signorina di Noares, mia dama di compagnia? (Inchini, saluti)

Faverges                        - Perché lei e il suo amico non vengono mai a trovarci? Se ne ricordino, li prego. (La signorina di Noares s'intrattiene con Pécuchet e il parroco. Bouvard non può jare a meno di dare un'occhiata dalla parte da cui è uscita la Bordin. Proprio da li compare il notaio. Anche la Bordin si ripresenta, protetta dall'ombrellino, restando da parte)

Marescot                       - Signor Bouvard, ha poi risolto le sue nuove dif­ficoltà finanziarie?

Bouvard                        - Non me ne parli. La Provvidenza in questo non...

Marescot                       - Mai disperare della salvezza. A volte ci aspetta dietro l'angolo. (La vedova Bordin fa girare l'ombrellino. La signorina di Noares racconta la sua giornata a Pécuchet)

Noares                           - ...C'è da diffondere le immagini del Sacro Cuore, da visitare i poveri e gli infermi... da far cessare lo scandalo di illeciti connubi... Io non mi annoio mai.

Marescot                       - Ha mai pensato di vendere il resto dei poderi e la casa colonica in cambio di una rendita vitalizia, per ipote­si, di 5000 franchi?

Bouvard                        - Un vitalizio... È un pegno di benevolenza del cielo... Pécuchet! (Pécuchet sta esaminando una perla d'oro che pende dalla catena dell'orologio della signorina di Noa­res)

Noares                           - ...Questa è la copia esatta della perla di Allouagne che contiene una lagrima di San Giovanni Battista.

Bouvard                        - Pécuchet!

Pécuchet                       - Sempre sia lodato. (Si congeda dalla Noares per raggiungere Bouvard e il notaio. Bouvard gli spiega la proposta. Dietro l'ombrellino la vedova Bordin aspetta con ansia e osserva il colloquio dei tre uomini. Pécuchet alza gli occhi al cielo) È certo l'effetto del pellegrinaggio! Per la se­conda volta la Provvidenza ci viene in aiuto... Ah... (Si è agitato e il cilicio lo ha inciso con delizia) Vivremo mode­stamente ma sicuramente fino alla fine dei nostri giorni... (Il notaio si schiarisce la voce)

Marescot                       - Hem. Il vitalizio s'intende solo per il signor Bouvard, titolare della proprietà.

Bouvard                        - Solo per me? Niente da fare allora. Non voglio che un giorno il mio amico Pécuchet si ritrovi senza niente in mano.

Pécuchet                       - Grazie mio caro, ma sono certo che Iddio mi chiamerà a sé per primo.

Bouvard                        - Che dici? Io ho male al fegato, mi gira la te­sta... Toccherà prima a me. No, no. La mia risposta è no.

Bordin                           - Signor Marescot! (Il notaio va da lei)

Pécuchet                       - Sempre lei.

Bouvard                        - Ne dubitavi? Ma non mi sarebbe importato, ora che ho quasi ritrovato la pace. (La Bordin parla sottovoce con Marescot)

Bordin                           - Quelle terre le voglio. Fin da ragazza mi struggo di possederle. Conosco la loro estensione, i poderi confinanti, ogni pregio e difetto. È un'ossessione che mi rode. Sono dieci anni che metto via il denaro. Il podere del torrente è solo l'inizio. Adesso tutto dipende dalla risposta di quello là. (Marescot torna dai due)

Marescot                       - Siete fortunati tutti e due. La signora Bordin che è una vera normanna, di gran cuore, ammira le premure del signor Bouvard per il suo amico, tanto che è disposta ad allargare il vitalizio a quello dei due che sopravviverà... Non importa quale... (Entusiasmo dei due) Naturalmente ritoc­cando un po' la cifra a 3000 franchi.

Pécuchet                       - Ma come si fa a vivere con tremila franchi?

Bouvard                        - Lasciate stare. Va bene cosi. (il notaio se ne va con la vedova Bordin. Bouvard li segue con gli occhi) Adesso c'è qualcuno che desidera la mia morte...

Pécuchet                       - Anche la mia, se è per quello... (Ma sono già ripresi dalla problematica religiosa. Pécuchet si riattacca al parroco che era rimasto in conversazione con la signorina di Noares) Padre! Ciò che mi ha conquistato nel Vangelo è so­prattutto l'infinito amore di Gesù per gli umili, la difesa dei poveri, degli oppressi... le ammonizioni ai potenti della ter­ra...

(Adesso sono nel giardino del castello di Faverges, finalmente ammessi nella ristretta cerchia degli invitati per il tè. Il saio francescano di Pécuchet spicca bizzarramente)

Jeufroy                          - Perfettamente, signor conte. Il potere monarchi­co emana da Dio, del quale il re è l'immagine in terra.

Foureau                         - Il re, che oggi è come dire l'imperatore, insom­ma.

Faverges                        - Purtroppo ci sono dei re indegni della loro missione. Come quel Savoia che vorrebbe strappare Roma al Papa e va sottobraccio col brigante Garibaldi. Contessa

Faverges                        - Roma non si tocca!

Pécuchet                       - Perché? Il magistero della Chiesa è troppo sublime per avere bisogno di appoggiarsi su un pezzo di terra. (Disagio generale. Faverges sottovoce a Jeufroy)

Faverges                        - Gliel'ha detto lei a quello di andare in giro ma­scherato da pezzente?

Jeufroy                          - Io? Si figuri. Dicono che è per un voto. Ma io lo sciolgo, sa? Lo sciolgo. Ci metto poco.

Faverges                        - E farà bene, perché non si viene conciati cosi al tè della contessa de Faverges.

Contessa  Faverges       - Quel Vittorio Emanuele, io gli auguro la morte!

Pécuchet                       - Ma la carità cristiana non vieta di desiderare la morte del malvagio?

Contessa  Faverges       - I piemontesi non sono dei malvagi, sono dei diavoli. Garibaldi è satanasso incarnato. (Entra la Noares con due ragazzini laceri)

Noares                           - Avanti, avanti, non abbiate paura.

Bouvard                        - Guarda quelle scarpacce... (Le ha ai piedi il maschietto) Uno zoccolo in tutto... (Ce l'ha la ragazzina) Sem­brano due bestioline spaurite.

Faverges                        - La sua ultima opera buona, immagino, signo­rina.

Noares                           - Li ho trovati stamattina sulla strada maestra. Le guardie non ne sanno nulla. Fate l'inchino al signor conte. (Faverges si volta da un'altra parte. Si fa avanti Bouvard)

Bouvard                        - Come ti chiami?

Vittorio                         - Vittorio.

Bouvard                        - E tu?

Vittorina                       - Vittorina.

Bouvard                        - Vostro padre dov'è? (Interviene la Noares)

Noares                           - È morto.

Bouvard                        - E la mamma?

Vittorina                       - Non c'è più.

Bouvard                        - E voi come vivete? (I due allungano la mano)

Noares                           - Chiedendo la carità.

Faverges                        - Alloggiateli dal guardiacaccia, sistemateli in qualche modo. Poi si vedrà.

Noares                           - Dite grazie al signor conte.

I due ragazzi                 - Grazie.

Bouvard                        - Posso vedere anch'io come li sistemano? (Esce con la signorina di Noares e i ragazzi. La conversazione ri­prende)

Contessa Faverges        - La rivoluzione, ecco la fonte di tut­te le nostre disgrazie.

Jeufroy                          - E mi scusi, signor conte, ma gli stessi nobili la  prepararono.

Pécuchet                       - Giusto, reverendo, con i loro privilegi e i loro abusi, che gridavano vendetta al cielo.

Jeufroy                          - Ma cosa dice? Atteggiandosi a liberi pensatori, invece, ad atei per seguire la moda dei filosofi illuministi.

Foureau                         - Pretendendo di educare il popolo.

Faverges                        - Fu una generosità malintesa, lo ammetto. Nel catechismo c'è tutta la scienza che serve al popolo. (Pécuchet trasecola sempre più)

Pécuchet                       - Questo è un inno all'ignoranza! Lei non può ammetterlo, reverendo.

Jeufroy                          - La vera sapienza è contentarsi del proprio stato.

Pécuchet                       - Dove sta scritto? Nel Vangelo no!

Jeufroy                          - Era più felice, si o no, questo povero popolo, sotto i nobili e sotto i vescovi?

Faverges                        - Adesso gli industriali lo sfruttano, lo riducono in schiavitù.

Foureau                         - E i demagoghi lo illudono con speranze assurde. Contessa

Faverges                        - Il regno dei cieli: ecco l'unica pro­messa che non delude, l'unica speranza degli umili. (Pécu­chet esplode)

Pécuchet                       - Eh no! no! A questi patti io mi faccio buddista! ...Ahi... (Il cilicio lo ha inciso facendogli male, stavolta. Lo scandalo di tutti i presenti non fa in tempo a manifestarsi perché torna la Noares con aria agitata e infelice) Contessa

Faverges                        - Che c'è cara? Perché è cosi tur­bata?

Noares                           - Hanno cercato di scappare. Contessa

Faverges                        - Gli orfanelli?

Noares                           - Si divincolavano come due animali, gridando cer­te brutte parole. La ragazzina mi ha morso la mano. E non è tutto...

Contessa Faverges        - Cosa c'è ancora?

Noares                           - Il ragazzo mi ha mostrato il didietro. Colpa mia, del resto. Ho mentito in nome della carità. Non è vero che quei due ragazzi sono orfani. Sono i figli di Touache, il for­zato.

Foureau                         - I figli del forzato? Contessa

Faverges                        - E adesso cosa facciamo?

Faverges                        - Dite al guardiacaccia di frustare il ragazzo sul­la parte del corpo che ha cosi sfacciatamente esibito. Poi lui andrà al correzionale e la ragazzina in un convento.

Noares                           - Ma non sono più qui. Li ha voluti portare a pas­seggio il signor Bouvard.

Contessa  Faverges       - Tutto tempo sprecato, sono due frut­ti marci.

Jeufroy                          - L'uomo è corrotto di natura?

Pécuchet                       - Ma cosa dite? La natura umana in sé è buona. Tutto dipende dall'educazione. Si può prendere il figlio di un assassino e farne un deputato.

Contessa Faverges        - Di questo proprio non mi stupirei! (Risate)

Pécuchet                       - Lasciate che i pargoli vengano a me: tutti, sen­za distinzione. (La Noares si intenerisce)

Noares                           - Un uomo che nutre questi sentimenti... degnissimi, cristiani.... se ne dovrebbe fare una sua propria di famiglia...

Pécuchet                       - Ah si? E con chi?

Noares                           - Beh... basta guardarsi intorno...

Faverges                        - Sentimenti cristiani, eh? Lei è un angelo di buo­na fede, signorina, lei non può neppure immaginare che il signor Pécuchet si è appena dichiarato... ripeta, ripeta lei stesso...

Pécuchet                       - Buddista! sissignori! buddista! A questo punto io mi faccio buddista!... Ahi! (Ancora il cilicio)

Noares                           - Aah... Che giornata! Che giornata! (Scappa via in lacrime seguita dalla contessa. Jeufroy si rivolge a Pécu­chet)

Jeufroy                          - Venga via con me che è meglio. Ne ha combina­te abbastanza. (Pécuchet va via con lui non salutato. Piove. I due procedono stretti sotto l'ombrello campagnolo del par­roco. Pécuchet, partito all'attacco, fa lui le domande e le ri­sposte. Durante la sua tirata si fermeranno, riprenderanno il cammino, a un certo punto la pioggia e il vento li costrin­geranno a sostare faccia a faccia, ventre contro ventre, tenen­do l'ombrello a quattro mani. Eccetera)

Pécuchet                       - ...E mi risparmi i buoni esempi della Bibbia sa? Giacobbe era un truffatore, Davide un assassino a paga­mento, Salomone faceva le orge... Quanto poi alla morale cristiana, lasciamo stare: gli operai dell'ultima ora sono pa­gati come quelli della prima, bisogna dare a chi ha e togliere a chi non ha, si devono prendere gli schiaffi senza restituirli. Insomma è tutto un incoraggiamento ai prepotenti! Lei mi di­rà che l'uomo vive nel mistero, che l'uomo è nulla e non sa nulla: e allora come mai lei sa, senza ombra di dubbio, che Dio nell'infinità dell'universo si è tanto occupato e continua a occuparsi di noi? Proprio di noi? L'essenziale è credere, vero?, e se io credo per me tutto è vero. Ma a lei non importa tanto che io creda quanto che io pratichi il culto e rico­nosca la sua autorità: ed è proprio per l'autorità di certi suoi ministri che si è vista la santa Chiesa allearsi a volte con i nemici del genere umano. (Sono fermi sotto l'ombrello) Sen­ta, padre. Mi sono illuso e disilluso già troppe volte. La chi­mica, la medicina, la filosofia, non sono più costanti della po­litica o dell'animo femminile. Non si può essere certi di nul­la. Con la religione era diverso. La religione è un punto fer­mo. La parola fine. La certezza, li, viene da dentro, non dai libri e neppure dai fatti. Era meraviglioso. E lei cosi rovina tutto. È lei che mi vuol far perdere la fede. Perché? Perché? Cosi la Chiesa perde un fedele. Anzi, due.

Jeufroy                          - Pòca perdita. Lei e il suo amico non hanno né la fede dei semplici, pilastro della società, né quella dei po­tenti, esempio per la società. Io lo sapevo. Tipi come loro due alla Chiesa non servono. Meglio l'ateo che il cacadubbi. (Sono arrivati alla casa del maestro Petit. Il parroco chiude l'ombrello ed entra seguito da Pécuchet. Petit è seduto al ta­volino, depresso e scontroso) Dunque, signor maestro, a che punto siamo con il nostro affaruccio di san Giuseppe?

Petit                              - Nessuno ha dato niente per la sua questua.

Jeufroy                          - Colpa sua. È stato notato che lei dedica un'ora sola al catechismo. Badi che cosi rischia di perdere i convit­tori delle Opere Pie.

Petit                              - E i miseri dieci franchi al mese che mi fruttano. Si vendichi, si vendichi pure.

Jeufroy                          - Le ricordo che la nuova legge affida al clero la sorveglianza sulla istruzione elementare.

Petit                              - Lo so, altroché se lo so! E perfino ai colonnelli della gendarmeria! Perché non alla guardia campestre? (Si affloscia sullo sgabello mordendosi il pugno. Il parroco lo tocca sulla spalla)

Jeufroy                          - Si calmi, amico mio. Si calmi. Sia un po' ragio­nevole. Io non ce l'ho con lei, io non ho mai badato a chi si lamenta perché sua moglie guadagna qualcosa lavando e sti­rando i lini della chiesa...

Petit                              - Ha fatto qualcosa di male mia moglie?

Jeufroy                          - Alle funzioni non la si vede mai. Come lei d'al­tronde.

Petit                              - Eh, non si licenzia per questo un maestro di scuo­la.

Jeufroy                          - Le famiglie potrebbero chiedere che sia trasferi­to. (Si apparta. Il maestro pensa, a testa china. Pécuchet gli si accosta)

Pécuchet                       - Bravo Petit, tenga duro. Lo chieda lei stesso il trasferimento. (Petit parla come fra sé, trasognato)

Petit                              - Sbattuti da un capo all'altro della Francia, io mia moglie la bambina e il lattante, che cosa troveremo nella nuo­va destinazione, con altri nomi? Un parroco come questo, un provveditore come questo, un prefetto come questo, tutti su su fino al ministro, gli anelli della mia catena... (Vagisce il lattante nell'altra stanza, la bambina piange, la moglie li ac­cheta con voce tossicolosa)

Jeufroy                          - Povere creature. (// maestro scoppia in singhiozzi)

Petit                              - Si, si! tutto quello che vuole! Tutto!

Jeufroy                          - Ci conto. Buonasera.

Pécuchet                       - Aspetti ho una cosa per lei            - (Fruga nel taglio del suo saio, scioglie ed estrae il cilicio. Lo porge a Jeufroy, che non gli bada e se ne va. Il maestro ha la faccia tra le mani. Arriva gioioso Bouvard con Vittorio e Vittorina rivestiti a nuovo. Vittorio gli sta cavalcioni sul collo)

Bouvard                        - Maestro Petit, le porto due nuovi allievi! Buoni, ragazzi, buoni. (/ ragazzi si fanno dispetti fra loro e Vittorina fa barcollare Bouvard sotto il suo peso. Bouvard si rivolge a Pécuchet) Sono andato in paese a mettere a nuovo questi due birbanti. Sapessi che divertimento dal mereiaio, quanta bel­la roba c'è adesso per i ragazzi... (Si accorge che l'atmosfera è piuttosto cupa) Ma cosa avete tutti e due? Pécuchet, non ti va che ci occupiamo noi di Vittorio e Vittorina? Non è giusto che vadano a scuola come gli altri, come quelli che hanno il solo merito di essere nati in famiglie benestanti?

Pécuchet                       - Guarda, Bouvard, senza offesa per il maestro qui, è meglio che ce li tiriamo su noi questi ragazzi. La scuola ormai è uno strumento nelle mani del potere.

Petit                              - Lei ha visto che non avevo scelta!

Pécuchet                       - Ho visto, ho visto. Andiamo a casa. Voglio cam­biarmi. (Si avviano con i ragazzi per mano)

Bouvard                        - In questa faccenda, sai, io ti ho sempre un po' assecondato, ma quando vedo la vecchia Germana pregare a occhi chiusi con l'aria di un fachiro in estasi, non posso fare a meno di pensare: che selvaggia.

Pécuchet                       - Ti sbagli di grosso. Forse la Germana assiste a delle cose che se potessimo vederle noi ci farebbero invidia. Ci sono due mondi del tutto distinti e uno appartiene ai cuo­ri sémplici. Il sentimento che lo ha creato è il più naturale e poetico dell'umanità. Cosa importa ciò in cui si crede? L'im­portante è credere. E beato chi può. (Esce)

 14.

La paternità.

Bouvard si dedica ai due ragazzi.

Bouvard                        - Venite, ragazzi, è l'ora di cominciare a impara­re qualcosa.

Vittorio                         - Io voglio giocare.

Bouvard                        - Dopo.

Vittorina                       - Io voglio un vestito cucito dalla sarta.

Bouvard                        - Lo avrai il giorno in cui saprai ordinarglielo tu stessa scrivendo una lettera.

Vittorio                         - Ma perché non posso giocare adesso?

Bouvard                        - Perché il lavoro viene prima del gioco. E il lavoro di due ragazzi bravi e intelligenti come voi è lo stu­dio. Adesso venite qua che vi spiego un po' di geografìa... (Vittorio si siede per terra, Vittorina lo imita. Guardano nel vuoto) Va bene, come volete. Giochiamo pure. Giochiamo... e studiamo nello stesso tempo. Se vi alzate in piedi vi farò vedere come la terra gira intorno al sole. (Anziché obbedire, Vittorio e Vittorina si stringono di più l'uno all'altra) Volete restare fermi là? E allora state fermi... ma proprio fermissimi, perchè da questo momento voi rappresentate il sole. (Vit­torio e Vittorina si guardano scettici. Bouvard è tutto infervo­rato) Il sole, fonte della luce e del calore, sta ben fermo al centro del nostro sistema planetario che si chiama appunto sistema...? Sistema solare! Vi piace farlo voi il sole? Vi di­verte? (Vittorio esita, poi alza le spalle) Benissimo! E allora la terra, che sarei io, gira intorno al sole... E come gira la terra intorno al sole? Cosi? (Gira intorno ai due ragazzi descri­vendo un'elisse e continuando sempre a guardarli) Gira cosi la terra intorno al sole, Vittorio?

Vittorio                         - Mah.

Bouvard                        - Gira cosi la terra, Vittorina?

Vittorina                       - Io non la vedo la terra che gira.

Bouvard                        - Ma vedi il giorno, vedi la notte. Vedi l'inverno e l'estate e le altre stagioni... E questo perchè la terra ha due movimenti: uno è quello che sto facendo adesso e si chiama movimento di rivoluzione... L'altro è questo... (Gira anche su se stesso) ...e si chiama movimento di rotazione. Cosi se voi due siete il sole ora mi illuminate davanti, ora di lato, ora di dietro, ora da quest'altro lato... e sopra di me, terra, c'è il giorno... la notte... di nuovo il giorno... di nuovo la notte... (Girando beato a un certo punto traballa, perde l'equilibrio e finisce per terra accanto ai ragazzi. Si alza sulle mani) Capito? Ditemi che avete capito! Che cosa siete voi due?

Vittorina                       - Il sole?

Bouvard                        - Bravissima! E io cosa sono, Vittorio?

Vittorio                         - La luna! (Rientra Pécuchet, professorale. Si è cambiato. Bouvard si alza e gli va incontro. I due ragazzi si mettono sul fondo a fare i compiti)

Bouvard                        - Sono straordinari, intelligentissimi. Dovresti sen­tire come sanno già la geografia.

Pécuchet                       - Prima di tutto bisogna che disimparino ciò che già sanno.

Bouvard                        - Ci vuole un po' di garbo, Pécuchet. Sono ragaz­zi assai sensibili, prova un po' a sentire. Vittorio! (Vittorio si alza) Leggi il tuo tema allo zio Pécuchet. (Vittorio legge il tema)

Vittorio                         - Tema: "La mia cameretta". Svolgimento: « La cameretta indove che dormo è più bella di quella che dor­mivo prima a casa indove sempre si litigavano e mio padre di notte è arrivato con le mani sporche di sangue e dopo i gendarmi lo hanno preso e la mamma ci ha portato nel bo­sco indove gli uomini che facevano zoccoli le stavano in­sieme e poi è morta cosi ci hanno portato via sul carro". (Bouvard è commosso, anche Pécuchet si soffia il naso. Bou­vard fa una carezza al ragazzo e gli fa cenno di andare)

Bouvard                        - Vittorina! (La ragazzina si avvicina) Racconta allo zio Pécuchet la favola del lupo e dell'agnello.

Vittorina                       - Un agnello beveva indove il lupo doveva bere solo lui e cosi il lupo se lo mangiò. L'ho detta giusta?

Bouvard                        - Non c'è male, davvero non c'è male.

Pécuchet                       - E qual è secondo te, Vittorina, la morale della favola? (Vittorina si attacca impaurita a Bouvard che la stringe a sé quasi riconoscente)

Bouvard                        - Come vuoi che questa creaturina sappia che co­sa significa morale?

Pécuchet                       - Insomma che cosa vuol dire questa favola che ci hai raccontato?

Vittorina                       - Che l'agnello ci dava fastidio e il lupo se lo mangiò.

Pécuchet                       - Ma fece bene il lupo?

Vittorina                       - Eh, si. L'agnello ci dava fastidio. (Bouvard guarda altrove)

Pécuchet                       - Non è cosi, Vittorina. Noi dobbiamo essere sempre giusti, buoni, generosi.,. Non come il lupo. Non dobbiamo fare il male, dobbiamo fare il bene. Lavorare. Perchè il lavoro nobilita l'uomo, e i ricchi e i potenti sono spesso in­felici.

Vittorina                       - Allora i contadini, che lavorano tutto il giorno sono nobili? (Pécuchet non sa rispondere) E il signor conte, che è tanto ricco, è infelice?

Bouvard                        - Vai, vai, Vittorina... sono problemi più grandi di te. (Vittorina va sul fondo con Vittorio) Che te ne sembra?

Pécuchet                       - Caro Bouvard, di questi due ragazzi forse po­tremo farne qualcosa. (Bouvard quasi lo abbraccia)

Bouvard                        - Lo sapevo che avresti detto cosi!

Pécuchet                       - Bisogna subito organizzare un piano di studi.

Bouvard                        - A me basta contemplarli cosi... Provo uno strug­gimento che l'amore per una donna in confronto... Non c'è niente come sentirsi il padre di qualcuno. Solo cosi si vince il tedio della vita, si supera quel senso di inutilità, l'idea del­la morte...

Pécuchet                       - Impareremo insegnando. Sveglieremo i pigri, coltiveremo i cuori aridi. Su questi due ragazzi noi possiamo costruire qualcosa che resterà dopo di noi.

Bouvard                        - Per il loro bene sperimenteremo un nuovo me­todo educativo...

Pécuchet                       - ...Che domani sarà di vantaggio all'intera co­munità.

15.

Il comizio.

I curiosi cominciano ad affollare il cortile dell'emporio di Beljambe mentre il banditore suona il tamburo. Alla conferen­za partecipano tutti i personaggi, tranne qulli che entreranno nel corso della scena come la Bordin e il conte de Faverges. Bouvard e Pécuchet arrivano in abito da cerimonia, emozio­nati ma decisi. Prendono posto su una tribuna improvvisata dietro a un tavolo con il panno verde.

Bouvard                        - Amici di Chavignolles! A più riprese io e il mio amico signor Pécuchet siamo stati accusati di essere degli uto­pisti, di ignorare l'aspetto pratico delle cose. Non è cosi. E lo prova il fatto che, partiti dall'idea di una riforma dell'insegna­mento, ci siamo ben presto resi conto che essa era impossi­bile senza una riforma completa dell'organizzazione socia­le. Una riforma semplicissima, basata su tre concetti. Primo: rimpiazzare i cognomi con un numero di matricola eliminando cosi l'eredità e il privilegio. Secondo: stabilire un gerarchia non economica ma di merito fra tutti i cittadini, salvo esami periodici per mantenere il proprio grado. Terzo: legge urba­nistica con espropriazione degli edifici insalubri. (Brusio, com­menti)

Hurel                             - Legge urbanistica, espropriazione? E lei signor Beljambe, ha affittato il suo cortile...

Beljambe                       - Il mio cortile è solo la cornice, il quadro è lo­ro.

Pécuchet                       - E allora, per dare subito un'idea del quadro, diciamo che un buon governo dovrebbe ridurre al minimo le tasse...

Hurel                             - Fin qui sono d'accordo.

Pécuchet                       - ...adottando due economie: soppressione delle spese per il culto e delle spese per le forze armate.

Jeufroy                          - Sacrilegio!

Heurtaux                       - L'esercito è l'orgoglio della nazione!

Pécuchet                       - I militari si renderebbero finalmente utili se fossero messi a coltivar patate. E quanto alla religione, noi proponiamo di abolire il celibato dei preti.

Bouvard                        - Emancipiamo la donna! Abolito il reato di adul­terio! (Rumori, commenti)

Jeufroy                          - Preoccupatevi della vostra moralità!

Noares                           - Pensate a quello che succede a casa vostra!

Hurel                             - Perché avete adottato i figli di un forzato?

Pécuchet                       - Perché crediamo nel diritto alla riabilitazione. E proprio i nostri due ragazzi ne sono la prova vivente. Ciò non toglie che l'avvenire dell'umanità io lo veda nero. L'uo­mo moderno è ammalato. Inventore delle macchine, sta diven­tando lui stesso una macchina. La pace è impossibile. Ci av­viamo alla barbarie per gli eccessi dell'egoismo e per il deli­rio della scienza. E se continueranno le convulsioni senza po­sa fra i due estremi, del capitale e del lavoro, presto non ci saranno più ideali, niente più religione, niente più morale. Solo materialismo. L'arte e la letteratura scenderanno al livel­lo delle masse gozzoviglianti. L'America avrà conquistato il mondo! Finché la vita sulla terra scomparirà per la estinzione del calore. (Dopo la tirata, Pécuchet cade a sedere. Un silen­zio preoccupato segue le sue parole. Si alza Bouvard)

Bouvard                        - Coraggio, amici. Io trovo legittime le ansie del signor Pécuchet, ma vedo invece un avvenire luminoso e quasi a portata di mano. L'Europa sarà rigenerata dall'Asia secondo il tradizionale espandersi della civiltà da oriente a occidente: è l'Asia, signori, l'Asia che ha il compito di fon­dere le due umanità. E pensate, vi prego, alle invenzioni fu­ture: viaggeremo nei cieli e sotto gli abissi, guarderemo pas­sare i pesci attraverso gli oblò-

Voci                              - Fantasie, stupidaggini.

Voci                              - Vacci tu in Cina, pancione.

Bouvard                        - Si immagazzinerà la luce per distribuirla a vo­lontà...

Vaucorbeil                    - Magari girando una chiavetta. (Risata)

Bouvard                        - Sissignore! Le strade della città saranno illumi­nate da radiazioni fosforescenti. Il male scomparirà con la mancanza del bisogno. Tra i popoli non vi saranno più fron­tiere.

Heurtaux                       - Qui si attenta ai sacri confini della patria!

Bouvard                        - Andremo negli altri pianeti e quando la terra sarà sfruttata ed esaurita emigreremo tutti verso le stelle. Non si ferma il cammino della storia! (Pécuchet stringe la mano a Bouvard complimentandosi)

Foureau                         - Ed è per favorire il cammino della storia che lei ha indirizzato, tempo fa, al consiglio comunale la richiesta di istituire a Chavignolles una casa di tolleranza? (Scandalo generale, Jeufroy ulula. Commenti)

Bouvard                        - Che c'entra? Lei non ha sempre sostenuto che non dobbiamo essere da meno di Parigi?

Foureau                         - In ogni modo c'è ben altro. Portate qui i ra­gazzini. (Placquevent porta dentro Vittorio e Vittorino, se­guiti dalla vedova Bordin, dalla Germana e da padron Gouy).

Bouvard                        - Vittorio, Vittorina, che cosa succede?

Placquevent                  - Diglielo, su, che cosa succede. (Dà una spinta a Vittorio. La vedova Bordin dà l'ombrellino nelle co­stole a Vittorina)

Bordin                           - Parla, svergognata.

Bouvard                        - Non la tocchi! Insomma, che cosa è successo?

Gouy                             - È successo che questo vagabondo è un violento e un ladro, degno figlio di suo padre.

Bordin                           - E questa innocentina promette di fare la fine di sua madre, che non si è mai saputo chi fosse, ma certo una poco di buono.

Gouy                             - Ieri mi è sparito dal cassetto dei risparmi un napo­leone d'argento, e c'era lui in giro. Allora sono andato a fru­gare nella sua camera ed ecco cosa c'era! (Mostra sulla pal­ma una moneta da venti franchi)

Pécuchet                       - Vittorio, di che non è vero... Forse te l'ho data io, quella moneta? (Il ragazzo alza le spalle con disprezzo. Pécuchet si copre il volto con le mani)

Bordin                           - E la signorinella volete sapere cos'ha fatto? Ero venuta in casa vostra a farmi dare una ricetta dalla Germa­na. Chiamava "Vittorina, Vittorina".

Germana                       - Nessuno rispondeva.

Bordin                           - Allora l'abbiamo cercata...

Germana                       - Abbiamo trovato una pianella per terra, ac­canto alla fornace...

Bordin                           - Lo sportello si è aperto quasi da solo e abbiamo visto (La Germana caccia un urlo)

Germana                       - Vittorina stava dormendo sulla paglia con Ro-miche il gobbo.

Bouvard                        - Ingrato! Avevamo anche cercato di spianargli la gobba.

Bordin                           - Mi sono subito coperta gli occhi per la vergogna. Il gobbo stringeva a sé con un braccio questa sudiciona e con l'altra mano, lunga come una zampa di scimmia, le ab­brancava un ginocchio nudo. E lei dormiva, sorridendo, con la camicetta aperta e il seno ancora arrossato dalle carezze del gobbo...

Pécuchet                       - Allora non se li è coperti subito gli occhi.

Bordin                           - Mi meraviglio che lei abbia voglia di scherzare. (Vittorina ride sfrontatamente)

Bouvard                        - E tu ridi? Vittorina...

Bordin                           - Visto?

Pécuchet                       - Lei pensi piuttosto a pagarci il vitalizio che non vediamo da tre mesi.

Bordin                           - E gli interessi dell'ipoteca? Bell'acquisto ho fatto, con due clienti come voi.

Foureau                         - Mi sembra che prima di occuparsi della pubbli­ca moralità è bene sapere ciò che accade in casa propria.

Jeufroy                          - La trave nel vostro occhio.

Hurel                             - E non è finita. (Infatti entra Gorju, che indica Bouvard a due gendarmi)

Gorju                             - È quello là, il più grasso.

Primo gendarme            - Al nominato Francesco Dionigi Barto­lomeo Bouvard si contesta di aver corrotto e contagiato una ragazza minorenne. (Emozione generale. Entra Melia con aria da vittima)

Gorju                             - La Melia, signori. Sconciata. Rovinata. Contamina­ta per lo spasso di un'ora da un vile gaudente. (La abbrac­cia con gesto protettivo)

                                      - (Melia e Gorju fra loro)

Melia                             - Ma non è lui, è quell'altro...

Gorju                             - Sta' zitta. Bisogna sempre beccare il più ricco.

Bouvard                        - Questa è la più infame calunnia che mai la malvagità umana... (Ma il suo ardore si spegne vedendo la confusione di Pécuchet che è ammutolito)

Gorju                             - Il satiro si è pubblicamente vantato al caffè della sua conquista. Ho fior di galantuomini per testimoniarlo. E la Melia è incinta.

Melia                             - Non mi sembra giusto, non è lui...

Gorju                             - Taci ti ho detto vuoi che nostro figlio nasca mise­rabile?

Foureau                         - Le esprimo, signor Gorju, i sensi del mio racca­priccio. Anche a nome della Giunta Comunale.

Primo gendarme            - Abbiamo qui un mandato d'arresto con­tro il nominato Bouvard, nonché congiuntamente contro il nominato Giustino Romano Cirilo Pécuchet per offesa alla religione e all'ordine costituito, e incitamento alla rivolta. Pos­siamo procedere?

Faverges                        - (Entra inatteso, seguito dal notaio. Sensazione) Un momento, signori, per cortesia. Signor Marescot...

Marescot                       - Anche se il signor Bouvard non intende rico­noscere espressamente nessun debito d'onore...

Gorju                             - Ah, vigliacco! (Fa per gettarsi su Bouvard ma si trattiene)

Marescot                       - Però destinerà ugualmente una parte, una buo­na parte del suo vitalizio a costituire una pensione per il fi­glio della Melia. (Porge un documento a Bouvard, che lo fir­ma senza neanche leggerlo)

Gorju                             - Fa soltanto il suo dovere. (Il notaio gli passa il documento)

Faverges                        - Quanto agli altri capi d'accusa, offesa alla reli­gione, incitamento alla rivolta, sono certo che sua eccellenza il sottoprefetto vorrà soprassedere all'arresto se i due signori si dichiareranno pentiti delle loro azioni e dei loro pensieri e firmeranno una pubblica ritrattazione. (// sindaco gli passa un documento già pronto, che il conte a sua volta passa a Hurel. L'intendente lo mette davanti ai due)

Pécuchet                       - Un'abiura? Mai.

Bouvard                        - Via, Pécuchet, a questo punto... (Firmano e ven­gono liberati)

Foureau                         - Però, a causa della loro indegnità, non potranno più avere la tutela dei due ragazzi.

Bouvard                        - No! Non ce li potete togliere.

Foureau                         - Li riprendo sotto la protezione del Comune.

Pécuchet                       - Vittorio!

Bouvard                        - Vittorina! (Vittorio è del tutto indifferente, Vit­torina ride. Poi si allontanano con il sindaco e i gendarmi. Mentre la gente sfolla, le ultime battute)

Foureau                         - Non è il caso di rinchiuderli come pazzi pe­ricolosi?

Vaucorbeil                    - Ma no, sono soltanto due maniaci inoffen­sivi.

Bordin                           - E dire, signor Bouvard, che per un momento ho potuto pensare... Addio.

16.

Ancora le corde. Il dizionario.

Tutti se ne sono andati.

Pécuchet                       - ... Chissà, forse mancavano delle cure di una madre.

Bouvard                        - E io? Non ero una madre per loro? E anche a voler far del bene agli adulti... Si vede proprio che per un uomo onesto non c'è altra soluzione che questa. (Dodici, venti cappi ballonzolano sopra le loro teste. Bouvard si accinge a impiccarsi al più vicino)

Pécuchet                       - Aspetta... Parliamo. (Bouvard sale sullo sga­bello)

Bouvard                        - Abbiamo parlato tanto. Questa è la fine di Bouvard e Pécuchet. (Prende il cappio con le mani e fa per infdarselo)

Pécuchet                       - Fermo così... Fatti guardare, Bouvard... Ti guar­do e d'improvviso ti vedo per la prima volta. Tu mi sembri un santo, Bouvard. E quella  - (indica il cappio) è l'aureola.

Bouvard                        - E invece sono un imbecille.

Pécuchet                       - Sei un santo.

Bouvard                        - Non contraddirmi in punto di morte. (Si in­fila il cappio) Ti dico che sono un imbecille.

Pécuchet                       - Va bene, allora dirò che sei un santo e un im­becille insieme. Certi santi hanno avuto una forma sublime di imbecillità. I santi che si ritirano dalle opere per conser­vare la fede. Quelli che non rinunciano a credere, ma solo a fare quello che credono. Ti vedo e vedo me stesso.

Bouvard                        - Perché anche tu saresti un imbecille... volevo dire un santo?

Pécuchet                       - Di, di pure. È la nostra forza e non ce ne era­vamo accorti. Soltanto due santi imbecilli, disperati e soli, possono denudare, violentare, saccheggiare l'imbecillità orga­nizzata e trionfante del mondo. Ecco la nostra vera missione. E non possiamo sottrarci. Vieni giù. (Bouvard non scende dal­lo sgabello)

Bouvard                        - Fammi capire bene, non mi va di ripensarci poi. Vuoi dire che noi eravamo già in partenza quello che ci siamo sforzati di diventare? Allora sono stati i libri. I libri, che secondo noi dovevano avvicinarci a ciò che volevamo essere...

Pécuchet                       - Proprio loro ce ne hanno allontanati, prescri­vendoci quello che dovevamo farei

Bouvard                        - Eppure, sai, la mia fede nella scienza resiste. È più forte di me.

Pécuchet                       - Certo. Lei ci ha traditi, abbandonati, ma noi le restiamo fedeli. Se no che santi saremmo? Eh?

Bouvard                        - Non fare più niente, insomma. Essere.

Pécuchet                       - Bravo. Scendi. (Bouvard non scende ancora)

Bouvard                        - Ma - essere cosa? Dei..,

Pécuchet                       - Dillo.

Bouvard                        - Vuoi dire che dovremmo...

Pécuchet                       - E dillo!

Bouvard                        - No. Insieme. Dovremmo... Bouvard e

Pécuchet                       - Rimetterci a copiare.

Pécuchet                       - Essere ciò che si copia. L'atto puro del co­piare. Una volta non potevamo, ricordi? Ti annoiavi, a co­piare. Smaniavi. Soffrivi.

Bouvard                        - Se è per questo adesso soffro come un cane. E tu pure.

Pécuchet                       - Chi dice che il bruco non soffre a diventare farfalla? È naturale che soffriamo a diventare noi stessi il libro. Ci faremo uno scrittoio a due piazze, e giù a copiare.

Bouvard                        - Copieremo la vita, stavolta. (Si toglie il cappio e scende) La banalità della vita. Altro che impiccarci! Im­piccheremo il mondo alla sua imbecillità! Che è il primo e ultimo nemico del genere umano.

Pécuchet                       - Quello che troviamo. Romanzi aperti a caso.

Bouvard                        - Giornali vecchi. Carte di cioccolatini.

Pécuchet                       - Compreremo dei vecchi archivi al macero.

Bouvard                        - E giù a copiare.

Pécuchet                       - Le lettere.

Bouvard                        - Le conversazioni.

Pécuchet                       - Le prediche degli anziani ai giovani.

Bouvard                        - Le sparate dei giovani contro gli anziani.

Pécuchet                       - Gli sfrondoni dei pontefici della cultura. Co­pieremo tutto, senza rifletterci.

Bouvard                        - Tanto tutto è uguale. Il bello e il brutto.

Pécuchet                       - Il bene e il male.

Bouvard                        - La farsa e il sublime. (Hanno riportato al cen­tro i loro deschi di scrivani e li hanno appaiati. Le corde sono sparite) Rifaremo a rovescio la nostra storia. Volevamo possedere tutta la scienza, tutta l'arte, tutta la filosofia. Ne raccatteremo i mozziconi nelle sputacchiere.

Pécuchet                       - Dovrà sembrare un libro serio, però.

Bouvard                        - Serissimo. Un repertorio di sentenze, di frasi chic da dire in società.

Pécuchet                       - In ordine alfabetico. L'ordine per eccellenza.

Bouvard                        - Il dizionario! L'opera d'arte assoluta, che con­tiene in se tutte le altre! Come lo chiameremo? Aspetta! Ti va "Dizionario delle idee correnti"?

Pécuchet                       - Avanti. (Sono pronti con le penne in mano) A.

Bouvard                        - "Accademia di Francia".

Pécuchet                       - Parlarne male...

Bouvard                        - ...Ma cercare a tutti i costi di farne parte. (Cominciano a scrivere)

Pécuchet                       - "Agricoltura".

Bouvard                        - Una delle mammelle dello Stato.

Pécuchet                       - Ma lo stato è di genere maschile.

Bouvard                        - Non importa, la frase è chic. "Arte".

Pécuchet                       - Conduce dritto all'ospizio. "Aspetto".

Bouvard                        - Materiale inadatto per barricate, B.

Pécuchet                       - "Bionde".

Bouvard                        - Più calde delle brune. "Brune".

Pécuchet                       - Più calde delle bionde. C.

Bouvard                        - "Celibi". (Attorno ai due appaiono gli altri perso­naggi. I due mentre copiano sembrano chiamarli in causa vendicativamente)

Bordin                           - Bisognerebbe tassarli, si preparano una triste vec­chiaia.

Pécuchet                       - "Dio",

Faverges                        - Se non esistesse bisognerebbe inventarlo.

Bouvard                        - "Doveri".

Marescot                       - Gli altri ne hanno verso di noi, ma non neces­sariamente viceversa.

Pécuchet                       - "Epoca".

Vaucorbeil                    - Lamentarsi della nostra.

Bouvard                        - "Erezione".

Teufroy                         - Da usare solo parlando di monumenti.

Bouvard                        - "Globo".

Bordin                           - Marchesa, lasciatemi baciare i vostri globi, ado­rabili.

Pécuchet                       - "Grammatica".

Petit                              - Insegnarla fin da bambini, tanto è facile. Bouvard e

Pécuchet                       - "Imbecille"!

Tutti i personaggi          - Chi non la,pensa come noi. (/ per­sonaggi girano attorno ai due, che continuano in crescendo la loro vendetta)

Bouvard                        - Avanti, che la pagina si riempia, che il monu­mento si completi! "Imperialisti".

Faverges                        - Tutte persone oneste.

Noares                           - Educate. Contessa

Faverges                        - Piacevoli.

Bouvard                        - "Introduzione".

Jeufroy                          - Da usare solo parlando di libri.

Pécuchet                       - "Italia".

Bordin                           - Andarci in viaggio di nozze.

Bouvard                        - Fino in fondo all'alfabeto, bisogna andare! "Maggioranza".

Foureau                         - Ha sempre ragione.

Pécuchet                       - "Minoranza".

Marescot                       - Ha sempre torto.

Pécuchet                       - "Operai".

Faverges                        - Trattarli educatamente appunto perché sono operai.

Pécuchet                       - "Ostilità".

Heurtaux                       - Si aprono, come le ostriche, e non resta che mettersi a tavola.

Bouvard                        - "Prostituzione". Tutti gli uomini   - Un male necessario.

Pécuchet                       - "Pudore".

Tutte le donne               - Il più bell'ornamento della donna. Bouvard e

Pécuchet                       - "Vendere".

Tutti i personaggi          - E comperare è lo scopo della vita. (Continua il carosello attorno ai due)

 

FINE