Cavalieri

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CAVALIERI

CAVALIERI

Commedia di

Aristofane

(traduzione e note esplicative di Raffaele Cantarella)

PERSONAGGI

SERVO I    di Popolo(1)

SERVO II   di Pololo 

AGORACRITO   (2)  SALCICCIAIO

PAFLAGONE  (3)

CORO DI CAVALIERI

POPOLO

Personaggi muti: la Tregua.

1.Servo I e 2 portano, rispettivamente, la maschera degli strateghi Demo­stene e Nicia; Paflagone, quella di Cleone.

2.Propriamente « scelto, eletto dalla piazza ».

3.Nome di popolo barbaro dell’Asia Minore, scherzosamente connesso col verbo « paflàzo » (« gorgogliare, ribollire ») per alludere alla impetuosa eloquenza di Cleone.

La scena rappresenta la casa di Popolo.

SERVO I (esce di casa, dolendosi) — Ahi, ahi, sventure! Ah ahi! Che gli dèi distruggano malamente quella canaglia di Paflagone, comprato da poco, con tutti i suoi progetti! Da quando è entrato in questa casa, ci rovina sempre di batoste, a noi servi.

SERVO II (c. s.) — Mala sorte davvero a lui, primo fra tutti i Paflagoni, e con tutte le sue calunnie!

SERVO I— Disgraziato, come stai?

SERVO II — Male, come te.

SERVO I— E allora vieni qui e piangiamo insieme un duetto (1) su una melodia di Olimpo.

SERVO I e II — Mumù mumù — mumù mumù — mumù mu­mu.

SERVO I — Perché ci lamentiamo invano? Non converrebbe cercare una via di salvezza per noi due, e non pianger più?

SERVO II — E quale potrebbe essere?

SERVO I — Di’ tu.

SERVO II — Dimmi tu piuttosto, io non mi opporrò.

SERVO I — Per Apollo, io no. Fatti coraggio dunque e parla: poi ti dirò anch’io.

SERVO Il — Ma io non ce l’ho, questo coraggio. (Riflettendo)In qual modo mai potrei dir ciò elegantemente, alla maniera di Eu­ripide? (Con enfasi)

« Se tu dicessi quel che dir degg’io! »(2)

SERVO I — No, no, basta col cerfoglio (3)! Ma trova qualche modo per scappar via dal padrone.

SERVO Il — E allora di’ « andiam »: così, tutto d’un tratto.

SERVO I — Ecco, lo dico: « andiam ».

SERVO II— Ora, dietro ad « andiam » mettici « sba ».

SERVO I — « Sba ».

SERVOII — Molto bene. Ora, come te lo facessi in mano, di’ prima piano « andiam », poi « sba », e poi di seguito ripetendo.

SERVOI — Andiam, sba-andiam, sbandiam (4).

SERVO II— Eh, non ti piace?

SERVO I — Certo, per Zeus: però temo questo presagio sulla mia pelle.

SERVO II — E perché?

SERVO I — Perché a chi se lo fa in mano viene via la pelle.

SERVO Il — E allora il meglio per noi, in queste condizioni, è di andare a prostrarci alla statua di qualche dio.

SERVO I — Una statua, proprio! Dimmi, credi davvero agli dei (5)?

SERVO Il — Io sì.

SERVO I — E su quale prova?

SERVO II — Perché io sono in odio agli dèi. Non è una buo­na ragione?

SERVO I — Mi convinci davvero. Ma bisogna considerare la faccenda da qualche altra parte: vuoi che io la spieghi agli spetta­tori?

SERVO II— Non è una cattiva idea. Ma chiediamogli questo  soltanto: di mostrarci chiaramente con i loro volti se si divertono alle nostre parole e all’argomento.

SERVO I — Parlerò, allora. (Verso gli spettatori) Noi dun­que abbiamo un padrone rustico di carattere, un mangiafave ira­scibile, Popolo di Pnice (6), un vecchietto difficile e sordastro. Egli, a l’altra luna nuova, si comprò uno schiavo, il conciapelli Paflago­ne, quanto c’è di più astuto e calunnioso. Costui, questo cuoiaio di Paflagone, quando ebbe capito l’indole del vecchio, prostrandosi ai piedi del padrone si diede a carezzano, lusingare, adulare, ingannare con fior di cianciafruscole, dicendo così: « Popolo, anzitutto lavati, dopo aver giudicato solo una causa (7), e metti qualcosa sotto i denti, trangugia, divora: eccoti i tre soldi. Vuoi che ti serva la cena? » E allora, arraffando qualunque cosa uno di noi aveva preparato per il padrone, Paflagone — ecco — gliela regala. E proprio l’altro ieri, che io avevo impastato a Pilo una schiacciata laconica (8), non so come ingannandomi furbissimamente me la strappò e l’imban­dì lui, quella che avevo impastato io. E ci tiene lontani e non per­mette che altri abbia cura del padrone: ma, mentre lui mangia, pian­tato lì con una sferza di cuoio (9), mette in fuga gli oratori. E poi declama oracoli: e il vecchio delira come una sibilla. E lui, quando lo vede ben rincitrullito, mette in opera la sua arte: contro quelli di casa si dà a spacciar calunnie; e così noi ci prendiamo le sferzate. E Paflagone, correndo in mezzo ai servi, chiede, atterrisce, prende mance e dice così: « Avete visto Ilas, che è stato flagellato per ope­ra mia? Se non mi obbedite, morrete oggi stesso ». E noi, mollia­mo: se no, pestati dal vecchio, cachiamo otto volte tanto. (A ServoII ) Ora dunque, mio caro, decidiamoci a considerare per quale via volgerci ed a chi.

SERVO II — La via migliore, caro mio, sarebbe quella tale « andiam ».

SERVO I — Ma niente può sfuggire a questo Paflagone: lui vede tutto, e ha un piede a Pilo e l’altro all’assemblea. E con uno scoscio di tale misura, il sedere si trova giustappunto fra gli Aper­ti, le mani fra i Petenti (10) e la mente in Ladronìa.

SERVO II — Allora è meglio morire, per noi.

SERVO I — Ma pensa in qual modo potremo morire valoro­sissimamente.

SERVO II — E come, come si potrebbe valorosissimamente?

Il modo migliore per noi sarebbe di bere sangue di toro (11): la morte di Temistocle (12) è la più preferibile.

SERVO I — Per Zeus, meglio vino puro, in onore del Buon Genio (13) Forse escogiteremmo qualche cosa di buono.

SERVO II — Vino, ecco: secondo te, si tratta di bere! Ma co­me mai un uomo ubriaco potrebbe escogitare qualche cosa di buono?

SERVO I — Davvero, ohi tu? Sei un orcio riempito.., a una fontana di chiacchiere. E tu osi oltraggiare il vino come mezzo inven­tivo! E sapresti trovare qualche cosa di più attivo del vino? Quando gli uomini bevono — vedi —, allora arricchiscono, fanno affari, vincono cause, son felici, aiutano gli amici. Portami subito dunque un boccale di vino, che io innaffi lo spirito e dica qualche cosa di saggio.

SERVO II — Ahimè, che ci combinerai con questo tuo bere?

SERVO I — Cose buone. Porta dunque: io vado a sdraiarmi.

(Servo II entra in casa.) E quando sarò ebbro, aspergerò tutti que­sti (accenna agli spettatori) di consiglietti e sentenzine e ideuzze (14).

SERVO II — (uscendo di casa, con una brocca di vino e una

coppa) — Meno male che non mi hanno sorpreso a rubare il vino

in casa!

SERVO I — Dimmi, e Paflagone che fa?

SERVO II — Dopo aver leccato delle focacce al miele, roba confiscata, il maligno russa ubriaco, supino sulle pelli.

SERVO I — Suvvia, fammi gorgogliar giù molto vino schietto,per la libazione.

SERVO II(porgendo) — Tieni, e liba al Buon Genio.

SERVO I — Tira, tira giù la libazione al Genio... di Pramno(15).

O Buon Genio, tuo è il consiglio, non mio. (Beve,’ poi fa il gesto di chi ha un’idea improvvisa.)

SERVO II(vedendo) — Di’, ti prego, che c’è?

SERVO I­_ Presto, va’ dentro, ruba gli oracoli di Paflagone e portali qui, fin che dorme.

SERVO II_ Va bene: ma il tuo Genio, ho paura di trovarlo un cattivo genio. (Entra in casa.)

SERVO I — Orsù, da me stesso mi porterò il boccale alle lab­bra, che io innaffi lo spirito e dica qualcosa di saggio.

SERVO II (uscendo di casa, con una cassetta) — Come spetezza e russa forte il Paflagone! Senza che se n’accorgesse gli ho preso l’oracolo sacro, quello che più custodiva.

SERVO I — Bravissimo! Dammelo, ch’io legga. (Servo II gli por­ge, dalla cassetta, un rotolo di papiro.) E versami da bere, sbrigati. (Servo II esegue.)

Vediamo (svolgendo il rotolo) che c’è dunque, qui dentro. O vaticini! (A Servo II) Dammi, dammi subito la coppa.

SERVO II (esegue) — Ecco. Che dice l’oracolo?

SERVO I — Versamene un’altra.

SERVO II — Nei vaticini c’è scritto « versamene un’altra »? (Esegue.)

SERVO I — O Bacide (16)!

SERVO II — Che c’è?

SERVO I — Dammi la coppa, presto.

SERVO II (esegue) — Questo Bacide la usava molto, la coppa!

SERVO I (dopo aver letto) — Scellerato Paflagone! perciò sta­vi in guardia da tempo! Avevi paura dell’oracolo che ti riguardava.

SERVO II — Cosa?

SERVO I — Qui c’è scritto quale fine deve fare.

SERVO II — E come?

SERVO I — Come? L’oracolo dice chiaro che anzitutto verrà un mercante di stoppa (17) e sarà il primo nel governo della città.

SERVO II — E uno, il mercante. E poi, di’?

SERVO I — Dopo costui, poi, il secondo sarà un mercante di pecore (18).

SERVO II — E fanno due mercanti. E a lui che cosa capiterà?

SERVO I — Comandare, finché arrivi un altro più svergognato di lui: dopo di che, per lui è finita, perché arriva il Paflagone mer­cante di pelli, rapace, schiamazzatore, con una voce da Cicloboro (19).

SERVO II — Il mercante di pecore deve dunque finire per ma­no del mercante di pelli?

SERVO I — Certo, per Zeus.

SERVO II — Ahi, misero! E donde verrà ancora un mercante,uno solo?

SERVO I—Ce n’è ancora uno,che ha un’arte straordinaria.

SERVO II — Dimmi, ti supplico, e chi è?

SERVO I — Lo devo dire?

SERVO II — Certo, per Zeus!

SERVO I — Un salsicciaio sarà, a distruggerlo.

SERVO II— Salsicciaio? Che mestiere, per Poseidon! E dove lo scoveremo, costui?

SERVO I — Cerchiamolo. (Entra in scena un misero venditore ambulante, reggendo sulla testa un panchetto pieno di /rattaglie.) Ma eccolo che arriva, come per volere di un dio, in piazza. (Con en!asi, al Salsicciaio) O Beato Salsicciaio, vieni vieni qui, o caris­simo; avanza, tu che appari salvatore alla città e a noi!

SALSICCIAIO (stupito) — Che c’è? Perché mi chiamate?

SERVO I — Vieni qui, che tu sappia come fortunato sei e gran­demente felice.

SERVO II — Su, sbarazzalo del suo tagliere: e spiegagli l’ora­colo del dio, come dice. (Rientrando in casa) Io, vado a tener d’oc­chio Paflagone.

SERVO I — Orsù, anzitutto deponi a terra i tuoi arnesi: poi, adora la terra e gli dèi.

SALSICCIAIO (esegue) — Ecco fatto. Che c’è?

SERVO I — O beato, o ricco, o tu che ora sei niente e domani grandissimo, o duce della fortunata Atene!

SALSICCIAIO — E perché, brav’uomo, non mi lasci lavar le mie trippe e vendere le mie salsicce, ma mi prendi in giro?

SERVO I — O sciocco, che trippe? Guarda qui (accennando agli spettatori): vedi tu queste file di popolo?

SALSICCIAIO — Vedo.

SERVO I — Di tutti questi tu sarai il capo, e della piazza e dei porti e dell’assemblea. E calpesterai il Consiglio e umilierai gli stra­teghi, metterai in catene, imprigionerai e nel Pritaneo... ti farai (20) fottere.

SALSICCIAIO (incredulo) — Io?

SERVO I — Tu, proprio: e ancora non hai visto tutto. Ma monta sul panchetto e guarda giù tutte le isole in giro.

SALSICCIAIO (montando) — Vedo.

SERVO I — Che cosa? I mercati e le navi da carico?

SALSICCIAIO — Certo.

SERVO I — E come dunque non sarai molto felice? E ora volgi un occhio, il destro, verso la Caria e l’altro verso Cartagine (21)

SALSICCIAIO — E sarò felice se mi storcerò gli occhi?

SERVO I — No, ma di tutta questa roba tu puoi far traffico. E diventi, come dice quest’oracolo, uomo grandissimo.

SALSICCIAIO — E dimmi, come mai io, che sono un salsic­ciaio, diventerò un uomo importante?

SERVO I — Precisamente per questo tu diventi grande: perché sei un miserabile, uno della piazza e per giunta sfacciato.

SALSICCIAIO — Io non mi credo degno di tanta potenza.

SERVO I — Ahimè, che ragione c’è perché tu non ti ritenga degno? Mi pare che tu abbia una gran bella coscienza. Sei forse nato da gente per bene?

SALSICCIALO — Per gli dèi, da miserabili, veramente.

SERVO I — O beato per la tua sorte! Quale vantaggio hai, per governare!

SALSICCIAIO — Ma, buonuomo io non ho alcuna istruzione se non leggere e scrivere, e per giunta piuttosto male (22).

SERVO I — Questo è l’unico inconveniente, quel « piuttosto male ». Perché la demagogia non è affare da uomo istruito e di one­sti costumi, ma è roba per ignoranti e svergognati. Dunque, non tra­scurare ciò che gli dèi ti concedono, secondo questi vaticini.

SALSICCIAIO — Che dice dunque l’oracolo?

SERVO I — Bene, per gli dèi, con parole ornate e con sapienti allusioni: (recitando)

« Quando aquila-cuoiaio artigliadunca ghermisca

col rostro il serpente balordo bevitore di sangue,

allora, ecco, è finita l’agliata per i Paflagoni:

e gloria grande invero il dio largisce ai trippai,

se pur non preferiscano piuttosto vender salsicce »(22)

SALSICCIAIO — E come mi riguarda, questa roba? Spiegami.

SERVO I — L’aquila-cuoiaio è il Paflagone qui presente.

SALSICCIAIO — E perché è « artigliadunca »?

SERVO I — Dice press’a poco questo, che con le mani adunche arraffa e porta via.

SALSICCIAIO — E il serpente, perché?

SERVO I — Questo è evidentissimo. Il serpente è un coso lungo, e anche la salsiccia è una cosa lunga: e « bevisangue » è tan­to la salsiccia quanto il serpente. Dice dunque l’oracolo che il ser­pente trionferà sull’aquila-cuoiaio, a meno che non si lasci scaldar dalle chiacchiere.

SALSICCIAIO — Questo vaticinio mi lusinga: ma pure, mi stupisce che io sia capace di amministrare il popolo.

SERVO I — È roba da nulla. Continua a fare quel che fai: rimescola e insacca insieme gli affàri pubblici 24 d’ogni genere e gua­dàgnati sempre il popolo, addolcendolo con paroline da bravo cuo­co. Tutti gli altri requisiti da demagogo, ce l’hai: voce terribile, bas­sa estrazione, maniere da piazza; hai tutto quel che ci vuole per governare. E gli oracoli concordano col responso della Pitia: co­rònati di fiori, dunque, e liba al Gran Baggiano (25) e bada a tene­re a posto colui.

SALSICCIAIO — E chi sarà mio alleato? I ricchi, lo temono; e il popolo povero, spetezza.

SERVO I — Ma ci sono i Cavalieri, mille valorosi che lo odia­no, i quali ti aiuteranno; e quanti cittadini sono per bene, e fra gli spettatori chiunque è assennato, e io con loro: il dio ci assisterà. E non temere,non è somigliante al vero: per la paura, nessun ma­scheraio ha voluto raffigurarlo. Comunque, però, lo riconosceranno: il pubblico è intelligente.

SERVO Il (di dentro) — Ahi povero me, viene fuori il Pa­flagone (26)!

PAFLAGONE (uscendo dalla casa di Popolo, minaccioso) — No, per i dodici dèi (27) non ve la godrete di aver da tempo congiurato contro il popolo. Che fa qui questa coppa calcidica (28)? Non c’è dub­bio che voi state istigando i Calcidesi alla defezione: perirete, mo­rirete, scelleratissimi!

SERVO i (al Salsicciaio) — Ohi tu, perché fuggi? Resta qui. O nobile salsicciaio, non tradire il nostro progetto! (Rumore di gen­te che arriva di corsa.)

—Valorosi Cavalieri, accorrete! Questo è il momento. O Simone, o Panezio (29),incalzate verso l’ala destra! I compagni son vicini: re­sisti e volgiti contro di lui. La polvere indica che stanno per arrivare in gruppo. Resisti e inseguilo e volgilo in fuga.

CORIFEO (arrivando sulla scena) — Dagli, dagli al furfante che scompiglia le schiere dei Cavalieri, al gabelliere, all’abisso e Ca­niddi di rapina, al furfante e ancora furfante; e lo dirò tante volte, perché costui fu un furfante molte volte al giorno. Dagli dunque e insegui e scompiglia e sconvolgi e schifalo — come anche noi — e grida nel dargli addosso. E bada che non ti scappi: lui conosce le vie, per le quali Èucrate (30) fuggì diritto.., nella crusca.

PAFLAGONE (verso il pubblico) — O anziani eliasti, confratel­li nei tre soldi (31), voi che io nutro gridando a dritto e a rovescio, ac­correte in mio aiuto: i congiurati me le danno!

CORIFEO — E giustamente, perché tu divori il pubblico dena­ro prima che sia diviso a sorte, e palpi e maltratti come fichi i magi­strati che rendono i conti, per vedere chi di loro è acerbo o matu­ro o vicino a maturare. E poi guardi fra i cittadini chi è un sem­pliciotto, ricco e non malvagio e timido negli affari: e se ne vedi uno che se ne sta per i fatti suoi e a bocc’aperta, fattolo venire dal Chersoneso (32), tu lo stringi fra le braccia, gli dai lo sgambetto, gli torci la spalla.., ed eccolo fottuto.

PAFLAGONE — E mi assalite anche voi? Ma io, o cittadini, per causa vostra le prendo, perché stavo per proporre che è giusto in­nalzare sull’acropoli un monumento al vostro valore (33).

CORIFEO — Che impostore, che furbacchione! Hai visto co­me va insinuando? Ci abbindola come fossimo vecchioni. Ma se in questo modo vuol vincere, (minacciandolo) così sarà percosso: e se si tira indietro, urterà qui contro la mia gamba.

PAFLAGONE — O città, o popolo, quali belve mi percuotono nel ventre!

CORIFEO — E tu strilli, allo stesso modo che metti sempre a soqquadro la città.

PAFLAGONE — Ma io con queste urla ti volgerò subito in fuga.

CORIFEO (al Salsicciaio) — Ebbene, se tu lo vinci con le tue grida, urràh per te! (a Paflagone) Ma se lui ti supera in impuden­za, la torta (34) è nostra.

PAFLAGONE (indicando il Salsicciaio) — Quest’uomo, io lo denunzio e affermo che esporta... canapi di salsicce per le triremi dei Peloponnesi.

SALSICCIAIO — E anch’io, per Zeus, denunzio lui, perché a pancia vuota corre nel Pritaneo, e poi viene fuori con la pancia piena.

SERVO I — È vero, per Zeus, ed esporta le merci proibite, pa­ne e carne e tranci di pesci, roba di cui non fu mai onorato Pericle.

PAFLAGONE (con crescendo) — Voi due morrete immediata­mente.

SALSICCIAIO (c. s.) — Io urlerò tre volte più forte di te.

PAFLAGONE — Vincerò le tue grida con le mie.

SALSICCIAIO — Vincerò i tuoi urli con i miei urli.

PAFLAGONE — Ti diffamerò, se sarai stratego.

SALSICCIAIO — Ti scuoierò il dorso, come un cane.

PAFLAGONE — Ti abbatterò con le imposture.

SALSICCIAIO — Ti taglierò tutte le vie.

PAFLAGONE — Guardami senza batter ciglio.

SALSICCIAIO (eseguendo) — Anch’io son cresciuto nella piazza.

PAFLAGONE — Ti farò a pezzi, se grugnisci qualcosa.

SALSICCIAIO — Ti coprirò di merda, se parli.

 PAFLAGONE — Io confesso d’essere un ladro: ma tu no.

SALSICCIAIO — Sì, per Ermes dei bottegai (36).

PAFLAGONE — E io spergiuro, anche quando mi vedono.

 SALSICCIAIO — Allora escogiti le arti degli altri.

PAFLAGONE — E io vado a denunziarti ai Pritani, perché de­tieni, senza aver pagato la decima, le trippe dovute agli dèi.

CORO —

O scellerato infame strillone, della tua audacia

tutto il paese èpieno e tutta l’assemblea e il governo

e gli uffici e i tribunali, o mestafango

che sconvolgi tutta la nostra città,

tu che hai assordato la nostra Atene con le tue grida,

e in cima alle rocce  (37)fai la spia ai tributi come ai tonni.

PAFLAGONE — Lo so io, come ha intrigato questa faccenda da

tempo.

SALSICCIAIO — Se tu non ti intendi di intrighi, neppur io di

salsicce: tu che assottigliando di frodo il cuoio di un bue di scarto lo rifilavi destramente ai contadini, da farlo parer grosso: e prima di averlo portato un giorno, era due palmi più lungo.

SERVO I — Per Zeus, anche a me mi ha fatto lo stesso, da co­prirmi di ridicolo dinanzi ai paesani e agli amici: e prima d’esser arrivato a Pergase (38), nuotavo nelle scarpe.

CORO —Non mostrasti forse fin dal principio l’impudenza

che sola assiste i politicanti?

Fidando nella quale mungi i forestieri pingui,

tu, il primo della città: e il figlio di Ippòdamo (39) si scioglie in lacrime a guardare.

Ma è apparso un altro, un uomo

molto più scellerato di te — per la mia gioia —

il quale te la farà smettere e ti sorpasserà senz’altro

— è chiaro — in perversità

e in audacia e in marioleria.

(Al Salsicciaio) Tu dunque, che fosti allevato donde escono gli uo­mini di oggi, mostra adesso che non conta nulla una buona educa­zione.

SALSICCIAIO — Ebbene, state a sentire che razza di cittadino è costui (40).

PAFLAGONE — Lasciami parlare, allora.

SALSICCIAIO — No, per Zeus, perché anch’io sono un misera­bile.

CORIFEO — E se non cede a questo argomento, aggiungi « e figlio di  miserabili “.

PAFLAGONE — Lasciami parlare, allora.

SALSICCIAIO — No, per Zeus.

PAFLAGONE — Sì, per Zeus.

SALSICCIAIO — Per Poseidon, ma io mi batterò per essere il primo a parlare.

PAFLAGONE — Ahimè, creperò.

SALSICCIAIO — E io non ti lascerò...

CORIFEO (interrompendo) — Lascia, per gli dèi, lascialo cre­pare!

PAFLAGONE — In che cosa fidi, per crederti capace di contrad­dirmi?

SALSICCIAIO — Perché sono anch’io abile a parlare e far in­tingoli.

PAFLAGONE — Ecco, a parlare. Certo, se ti capita un affare crudo e a brani, tu sapresti afferrano e maneggiano a dovere. Ma sai tu cosa mi pare che ti capiti? Lo stesso che a tanta gente. Se per ca­so hai difeso bene una causetta contro un meteco, biascicando tutta la notte e parlando fra dite per la strada e bevendo acqua e tormen­tando gli amici col recitargliela, ti credi d’esser abile a parlare. O sciocco, che stoltezza!

SERVO I — E cosa bevi tu per aver ridotto solo solo — come

ora — la città al silenzio, con i tuoi schiamazzi?

PAFLAGONE — E chi sei stato capace di oppormi? Io, subito dopo aver divorato tranci di tonno caldi e poi averci bevuto su un boccale di vino puro, mi fotto gli strateghi a Pilo.

SALSICCIAIO — E io, dopo aver trangugiato un budello di bue e una trippa di porco e poi averci bevuto su il brodo, senza nemme­no nettarmi, ti strangolo i politicanti e atternisco Nicia.

SERVO I — Tutto il resto che hai detto mi piace: ma una co­sa non mi va, che da solo vuoi trangugiare il brodo... degli affari.

PAFLAGONE — Non col divorare lupi marini scompiglierai i Milesi.

SALSICCIAIO — Ma io, dopo aver mangiato costolette di man­zo, comprerò delle miniere.

PAFLAGONE — E io facendo irruzione nel Consiglio, lo metterò a soqquadro.

SALSICCIAIO — E io ti fotterò insaccandoti il culo come un budello.

PAFLAGONE — E io ti caccerò fuor dalla porta per le natiche, a testa bassa.

SERVO I — Per Poseidon, anche a me allora, se riesci .a tirar via costui.

PAFLAGONE (con crescendo) — Come ti legherò alla gogna!

SALSICCIAIO (c. s.) — Ti accuserò di vigliaccheria.

PAFLAGONE — Le tue cuoia saranno stese sul cavalletto.

SALSICCIAIO — Ti scuoierò per farne un sacco... da ladri.

PAFLAGONE — Sarai inchiodato a terra in croce.

SALSICCIAIO — Ti farò a pezzettini.

PAFLAGONE — Ti spelerò le ciglia.

SALSICCIAIO — Ti estirperò il gozzo.

SERVO I — E poi, per Zeus, cacciandogli un chiodo in bocca, alla maniera dei cuochi, e tirandogli fuori la lingua mentre sta a bocca aperta, gli esamineremo per bene e gagliardamente... il cu­lo (41) se è panicato.

CORO —Certo, si sono altre cose più scottanti dei fuoco

e discorsi ancor più impudenti dei discorsi che si fanno in città.

E per vero l’impresa non era dappoco. Avanti dunque

e torcilo e non farlo per poco: eccolo preso in  intura.

E se ora al primo assalto lo ammollisci,

lo troverai vigliacco: conosco il suo carattere.

SERVO I — Ma pure, costui, rimanendo tale per tutta la sua vita, èriuscito poi a sembrare un uomo, mietendo la messe altrui. E ora quelle spighe, che ha portato di là, legate con vimini, le ha seccate (42) e le vuoi vendere.

PAFLAGONE — Non ho paura di voi, finché è vivo il Consiglio

e ci sta in seduta Popolo, con quella faccia di fesso.

CORO —Oh, come è svergognato in ogni cosa

e non cambia il suo solito colore!

Se non è vero che ti odio, possa io diventare

una pelle di capra nel letto di Cratino (43),

e imparare a cantare nelle tragedie di Morsimo!

O tu, che in ogni circostanza e per ogni affare

ti posi su fiori di... regali,

che tu possa malamente, come l’hai trovato, sputar fuori il boccone!

Io allora canterei soltanto:

« bevi, bevi al lieto evento! »(44)

E credo che il figlio di Ulio (46), il vecchio fornitore di grano, per la gioia canterebbe « iè Peàn » e « Bacco, Bacco »!

PAFLAGONE — Per Poseidon, voi giammai mi supererete in impudenza, o che io non mi accosti più alle trippe  (46) di  Zeus Agoraios!­

SALSICCIAIO — E io, per i cazzotti che molti e per molte ra­gioni presi da fanciullo e per i colpi di trinciante, io credo che ti vin­cerò in questo genere di cose: o che invano, nutrito con rimasugli di pane, io sia cresciuto così grosso!

PAFLAGONE — Con rimasugli (47) di pane, come un cane? O mi­serabilissimo! E come, dunque, tu che fosti nutrito con un cibo da cane, vuoi combattere con un testa-di-ca. ..ne (48)?

SALSICCIAIO — Per Zeus, io conosco ben altre mariolerie, fin da bambino. Per esempio, facevo fessi i cuochi dicendo così: « Guar­date, ragazzi, o non vedete? È primavera: ecco la rondine ». E quel­li guardavano e io intanto rubavo un pezzo di carne.

SERVO I — Oh, che abile pezzo di... carne! Saggiamente dav­vero provvedevi! Così, per mangiare le ortiche tenere, le rubavi pri­ma che arrivassero le rondini!

SALSICCIAIO — E mentre facevo così, nessuno se ne accor­geva. E se poi qualcuno mi vedeva, nascondevo la roba fra le chiap­pe e giuravo sugli dèi. Cosicché un uomo politico, a vedermi far questo, esclamò: « Non c’è dubbio: questo ragazzo governerà il po­polo! ».

SERVO I — Ben s’appose. Ed è chiaro da che cosa lo capì: per­ché, dopo aver rubato, tu spergiuravi; e intanto il sedere teneva la carne.

PAFLAGONE — Ma io farò cessare la tua audacia: anzi, direi, di voi due. Ecco, mi scaglierò su di te precipitandomi gagliardo e possente, e a casaccio sconvolgerò terra e mare insieme.

SALSICCIAIO — E io, ammainando le... salsicce, mi affiderò all’onda favorevole, augurandoti... tante lacrime.

SERVO I— E io, se mai la nave fa acqua, terrò d’occhio la sentina.

PAFLAGONE — Ma no, per Demetra, non la farai franca, do­po aver rubato tanto danaro agli Ateniesi.

SERVO I — Attenzione, e molla la scotta: costui già spira ven­to di levante e di... delazione.

SALSICCIAIO — E io so bene che tu tieni dieci milioni, presi a Potidea (50)

PAFLAGONE — E poi? (Sottovoce) Vuoi prenderne uno e starzitto?

SERVO I — Lui, volentieri lo prenderebbe. (Al Salsicciaio)

Molla il canapo di cima: il vento cala.

PAFLAGONE — Tu avrai quattro processi, ciascuno per cento milioni.

SALSICCIAIO — E tu venti per renitenza alla leva e più di mille per furto.

PAFLAGONE — Io affermo che tu discendi da quegli empi (51)contro la dea.

SALSICCIAIO — Io affermo che tuo nonno faceva parte dei mazzieri (52).

PAFLAGONE — Quali? Spiegati.

SALSICCIAIO — Quelli di Cuoina, la moglie di Ippia (53)

PAFLAGONE — Furbo sei.

SALSICCIAIO — Furfante sei.

SERVO i (al Salsicciaio) — Dagli forte.

PAFLAGONE (sotto i colpi) — Ahi, ahi, i congiurati mi percuo­tono!

SERVO I — Dagli fortissimamente, nel ventre, con le tue trip­pe e i tuoi budelli: bada a punirlo. (Paflagone sviene.)

CORIFEO (al Salsicciaio) — O nobilissima carne, o il più valoro­so fra tutti per l’anima, tu che sei apparso salvatore alla città e a noi cittadini! Come bene e abilmente lo ingannasti con le parole! Potrò mai lodarti tanto, quanto ci godetti?

PAFLAGONE (riavendosi) — No, per Demetra, non mi era sfug­gita questa faccenda che architettavate: e sapevo come tutto ciò

era inchiodato e saldato.

SALSICCIAIO — E a me, allora, non sfugge quel che stai com­binando ad Argo: (agli spettatori) col pretesto di farci amici gli Argivi, si incontra là in privato con i Lacedemoni.

SERVO I (al Salsicciaio) — Ahimè, e tu non dici nulla che sia degno di un carraio?

SALSICCIAIO — E io so per quale scopo soffiano i mantici: si lavora alla fucina per i prigionieri.

SERVO I — Bene, bene davvero! E tu forgia, mentre gli al­tri saldano.

SALSICCIAIO — E altra gente poi di là batte lo stesso ferro.E questo, né con argento né con oro né mandando i tuoi amici a pregarmi, mi persuaderai che io non lo riveli agli Ateniesi.

PAFLAGONE — Ma io vado immediatamente al Consiglio a ri­velare le congiure di voi tutti, e i conciliaboli notturni in città e tut­to ciò che cospirate con i Medi e col Gran Re e tutti i vostri.., for­maggi (54) con i Beoti.

SALSICCIAIO (ironico) — E in Beozia, a quanto va il formag­gio?

PAFLAGONE — Io, per Eracle, ti stenderò. (Esce.)

SERVO I — Orsù dunque, questo è il momento di mostrarci qual senno e qual giudizio hai, se è vero che una volta, come tu stes­so dici, nascondevi la carne fra le chiappe. Devi dunque slanciarti di corsa al Consiglio, poiché costui si sta precipitando li a calunniar tutti noi e leverà alte grida.

SALSICCIAIO — Vado: ma prima, come mi trovo, voglio de­porre qui le trippe e i trincianti. (Esegue.)

SERVO i (porgendo gli un’ampolla d’olio) — Tieni, ungiti il collo con questo, per potertene scivolare di sotto alle sue calunnie.

SALSICCIAIO — Dici bene davvero e proprio da maestro di pa­lestra.

SERVO I (porgendo gli una treccia di agli) — Tieni, prendi que­sti e inghiotti.

SALSICCIAIO — Perché?

SERVO I — Perché, mio caro, dopo aver mangiato l’aglio (55)combatterai più valorosamente. E sbrigati, presto.

SALSICCIAIO Ecco fatto. (Esce.)

SERVO I — E ricordati di mordere, calunniare, rosicchiargli i cimieri: e torna qui, dopo avergli mangiato i bargigli. (Esce.)

CORIFEO — Va’ dunque, e buona fortuna (56) . Che tu possa riu­scire secondo la mia intenzione: e ti protegga Zeus Agoraios. E vit­torioso tu possa tornare a noi di là, coperto di corone. (Al pubblico) E fate attenzione a questi nostri anapesti, voi che già, da voi stessi, v’intendete d’ogni sorta di poesia.

Se qualcuno (57)degli antichi poeti comici avesse voluto costrin­gerci a sfilare dinanzi al pubblico recitando i suoi versi, non facil­mente l’avrebbe ottenuto. Ma ora questo poeta ne è degno, perché odia quelli stessi che noi odiamo ed ha il coraggio di dire il giusto e valorosamente avanza contro Tifone e contro l’uragano. E quanto poi al fatto che molti di voi — dice — andando da lui si maravi­gliavano e gli domandavano come mai da tempo non chiedesse il coro in proprio nome, egli ci ha incaricato di spiegarvelo. Dice, dun­que, che non per stoltezza gli accadeva di indugiare così, ma perché riteneva che il metter su una commedia è l’impresa più difficile fra tutte: e dei molti che la tentarono, solo a pochi essa compiacque; e poi, perché conosceva da tempo che voi mutate natura ad ogni an­no e che, quando son vecchi, abbandonate gli antichi poeti. Sapeva infatti quel che capitò a Magnete man mano che gli venivano i ca­pelli bianchi, lui che pur tanti trofei di vittoria aveva innalzato sui cori degli avversari, dopo aver dato fuori tutte le sue voci danzan­do e svolazzando e facendo il Lidio e il moscone e tingendosi di verde come una rana. Ma alla fine non ce la fece più e, giunto alla vecchiaia, da vecchio fu ripudiato — ma non in giovinezza —, per­ché gli era venuto a mancare il motteggio. — E poi, si ricordava di Cratino, il quale un tempo, gonfio di molta lode, si precipitava per i lisci piani e strappandole dal suolo trascinava querce e platani e nemici schiantati dalle radici. E nei conviti non si cantava altro che « o Dorò(58) dai calzari di... delatore », e « artefici di inni ben co­strutti »: così egli fioriva. E ora, che lo vedete delirare, voi non ave­te pietà di lui, che gli cadono i bischeri della lira e le corde s’allen­tano e le commessure non tengono: ma vecchio va errando come Con­na (59), con in testa una corona secca e morto di sete, lui che per le

antiche vittorie meritava di... trincare nel Pritaneo, e non di delira­re sul teatro ma di starsene fra gli spettatori, bello florido, accan­to alla statua di Dioniso. E si ricordava di quante collere e quante male azioni Cratete ebbe a sopportare da voi, lui che con piccola spesa vi rimandava a casa dopo avervi offerto una colazione, dalla bocca delicatissima preparandovi i più fini pensieri: e anche lui è il solo che resista, a volte cadendo e a volte no. — Temendo ciò il no­stro poeta indugiava sempre: e inoltre diceva che bisogna fare il rematore prima di metter mano al timone, e poi fare il secondo e osservare i venti, e poi fare il capitano per conto proprio. Per tut­te queste ragioni, dunque, perché è stato saggio e non si è preci­pitato stoltamente a spacciar frottole, levate a lui molto plauso, ac­compagnatelo con undici remi (60), con fausto clamore Leneo, affin­ché il poeta se ne vada contento di esser riuscito secondo la sua in­tenzione, splendente nella lucida fronte.

PRIMO SEMICORO —

O Poseidon (61) equestre signore,

cui il bronzeo strepito dei cavalli

piace e il nitrito,

e le veloci, dal ceruleo rostro,

mercenarie triremi;

e dei giovani le gare,

superbi dei carri

pei quali si rovinano:

vieni qui al nostro coro, o tu dall’aureo tridente,

o dio del Sunio signore dei delfini,

o Gerestio figlio di Crono,

 carissimo a Formione

e fra tutti gli altri dèi agli Ateniesi,

 nel tempo presente.

CORIFEO — Noi vogliamo celebrare i nostri padri, perché fu­rono uomini degni di questa terra e del peplo d’Atena (62) essi che nelle campagne terrestri e nelle battaglie navali dovunque vinci­tori sempre illustrarono la nostra patria. E nessuno mai di loro, vedendo i nemici, stette a contarli, ma il coraggio era il loro difen­sore: e se mai, in qualche scontro, cadevano sulle spalle, si ripu­livano e dicevano di non esser caduti, ma tornavano ancora a lot­tare. E nessuno, essendo stratego, prima d’ora avrebbe chiesto a Cleéneto (63) d’essere nutrito a spese pubbliche: mentre adesso, se non ottengono la proedria e il vitto gratuito, non vogliono saperne di combattere. Noi invece crediamo doveroso che per la città e per gli dèi indigeti si combatta gratis, valorosamente. E inoltre nulla chiediamo, se non questo soltanto: se mai venga la pace e abbiamo tregua dai guai, non invidiateci le nostre chiome e le membra ben raschiate.

SECONDO SEMICORO —

O Pallade (64) protettrice della città,

 tu che su questa santissima

terra regni

fra tutte eccellente per la guerra,

per i poeti, per la potenza:

vieni qui con colei

che nelle spedizioni e nelle battaglie

 fu nostra alleata,

Nike amica ai nostri cori,

che con noi contro i nemici insorge.

 Ora dunque qui appari:

bisogna che tu a questi uomini

 a qualunque patto dia vittoria,

 se mai altra volta anche ora.

CORIFEO — Per quel che sappiamo dei nostri cavalli (65) noi li vogliamo lodare. E son degni d’essere encomiati: molte imprese in­fatti condussero a termine con noi, assalti e battaglie. Ma ciò che essi fecero in terra non tanto ammiriamo, come quando balzarono virilmente sulle navi da trasporto, dopo aver comprato le gavette, ed alcuni anche agli e cipolle; poi, impugnati i remi come noi uo­mini, vi si gettarono su nitrendo forte: « O-òp, chi remerà? Bisogna far più forza. Che facciamo? Voga dunque, o Sànforas (66)! » — E d’un balzo scesero a Corinto: e poi i più giovani con gli zoccoli si scavarono le lettiere e andarono in cerca di strame. E invece di erba medica mangiavano granchi, catturando quelli che strisciavan fuo­ri dalla tana e anche dal fondo. Tanto che Teoro riferì che un gran­chio (67) corinzio avrebbe detto: « E una cosa terribile, o Poseidon, che neppur in fondo — né in terra né in mare — io possa scampa­re ai Cavalieri! »

(Al Salsicciaio che torna sulla scena) — O il più caro fra gli uomi­ni e il più baldanzoso, quanto pensiero ci desti, per la tua assenza! E ora, che sei tornato salvo, raccontaci come conducesti la lotta.

SALSICCIAIO — E che altro, se non ch’io divenni Vinciconsi­glio?

CORO —Ora dunque conviene che tutti levino grida gioiose.

O tu, che liete cose riferisci  e migliori ancora di quelle dette

hai compiuto, deh!, raccontaci tutto esattamente!

 Per me, credo che farei pur lunga strada per udirti.

 Perciò, o eccellente uomo, fatti coraggio e parla:

noi tutti ci rallegriamo teco.

SALSICCIAIO — Certo, vai la pena di sentire la cosa. Subito fuori di qui, gli andai dietro: e lui, là dentro, scagliava parole di tuono, spacciando frottole contro i Cavalieri, e, appoggiandoci pa­roloni, li chiamava congiurati, in maniera molto persuasiva. E tut­to il Consiglio, ascoltando, fu riempito da lui di menzogne grosse come bietoloni, e guardava aspro come senape e aggrondava la fron­te. Io allora, quando mi accorsi che abboccava alle parole, inganna­to dalle sue imposture: « Orsù, o Malvagità e Impostura — mi dis­si — e Babbuaggine e Marioleria e Insolenza, e tu, o Piazza nella quale fanciullo fui allevato, ora datemi ardire e lingua pronta e vo­ce impudente! ». Mentre così pensavo, da destra spetezzò (68) un fi­nocchio. E io adorai: poi, con un colpo di chiappe, spezzai i cancelli e a bocca spalancata gridai: « O consiglieri, buone novelle re­co e voglio per primo annunziarle felicemente a voi: da quando ci è scoppiata questa guerra, non vidi mai le alici (69) a più buon mer­cato ». E subito quelli rasserenarono le fronti: poi, mi decretaro­no una corona per la buona novella. E io, facendo brevi parole, ri­velai loro un segreto: per poter comprare molte alici con un soldo, incettassero i vasi dai fabbricanti. E quelli applaudirono, guardan­domi a bocca aperta. Ma il Paflagone, preoccupato e conoscendo bene, per giunta, le parole che più piacciono al Consiglio, fece que­sta proposta: « Signori, in occasione di questi fausti eventi annun­ziati, io propongo di sacrificare cento buoi alla Dea (70) per la buona novella ». Il Consiglio, questa volta, fu d’accordo con lui: e io al­lora, quando mi vidi vinto dal fimo, lo sorpassai, con duecento gio­venche; e poi proposi di far voto alla Cacciatrice (71)di mille capre l’indomani, se le sardelle arrivassero a cento un soldo. E di nuo­vo tutto il Consiglio guardava verso di me. E lui, a sentir ciò, ac­cusò il colpo e cominciò a dir corbellerie: allora i pritani e le guar­die lo trascinarono fuori, mentre i consiglieri, in piedi, schiamaz­zavano per le alici. E lui supplicò che aspettassero un momento:

« Ascoltate — disse — ciò che annunzia l’araldo giunto da Lace­demone: è venuto per trattar la tregua ». E quelli, tutti a una voce, gridarono: « La tregua, ora? Quando hanno sentito, mio caro, che da noi le alici vanno a buon mercato? Non abbiamo bisogno di tre­gua: la guerra continui! ». E gridarono ai pritani di toglier la se­duta: e poi, da tutte le parti, scavalcarono d’un salto i cancelli. Ma io corsi di nascosto a comprare tutto il coriandolo e lo scalogno che c’era sul mercato: poi, quando non sapevano come fare, glielo diedi gratis per condire le alici, e me li ingraziai. E quelli mi colmarono di lodi e di acclamazioni, tutti, cosicché mi assicurai l’intero Consi­glio con un soldo di coriandolo: e me ne sono venuto.

CORO —Tutto, invero, hai fatto come conviene ad uomo fortunato;

il ribaldo trovò un altro, adorno di ribalderie molto maggiori

e di inganni vari e di parole astute.

 Ma bada a continuare bravamente

la lotta: tu sai da tempo

 che noi ti siamo alleati fedeli.

SALSICCIAIO (mentre arriva Paflagone) — Ed ecco che arri­va qui il Paflagone in persona, incalzando come un’onda sorda e sconvolgendo e agitando, come per inghiottirmi: oh, che ardire!

PAFLAGONE — Se non ti distruggo, per poco che mi resti del­le mie menzogne, che io crepi in ogni modo!

SALSICCIAIO — Mi rallegro delle minacce, rido alle spacconate, ballo il trescone, e faccio « chicchirichì »!

PAFLAGONE — No, per Demetra, che io non viva un momen­to di più, se da questa terra non ti... divoro (72)!

SALSICCIAIO — Se non mi divori? E io, se non ti inghiotto, possa crepare dopo averti trangugiato.

PAFLAGONE — Io ti sterminerò, per la proedria (73) di Pilo!

SALSICCIAIO — Giusto, la proedria! Come ti voglio vedere, dalla tua poedria, nell’ultima fila di spettatori!

PAFLAGONE — Per il cielo, ti legherò alla gogna!

SALSICCIAIO — Come sei irascibile! Su, (ironico) che ti darò da trangugiare? Che cosa mangeresti più volentieri? Una.., borsa?

PAFLAGONE (/ uor di sé) — Ti strapperà le budella con le un­ghie!

SALSICCIAIO — Con le unghie ti porterò via il vitto del Prita­neo!

PAFLAGONE — Ti trascinerò dinanzi al popolo, perché tu me la paghi!

SALSICCIAIO — E anche io ti trascinerò: e ti calunnierò peg­gio ancora!

PAFLAGONE — Ma, o miserabile, il popolo non ti crede affatto: e io mi rido di lui come voglio.

SALSICCIAIO — Troppo sei convinto che il popolo sia cosa tua.

PAFLAGONE — Perché io so come imboccano.

SALSICCIAIO — E poi, come le nutrici, lo alimenti male: do­po aver masticato il suo cibo gliene imbocchi un poco; e tu, per parte tua, ne hai inghiottito tre volte tanto.

PAFLAGONE — Certo, per Zeus, con la mia abilità io posso (74) fare il popolo largo o stretto

SALSICCIAIO — Una cosa simile l’ha escogitata anche il mio sedere.

PAFLAGONE — No, mio caro, non crederai di avermi maltrat­tato in Consiglio: andiamo dinanzi al popolo.

SALSICCIAIO — Niente in contrario. Su, cammina: nulla ci

trattenga. (Vanno verso la casa di Popolo.)

PAFLAGONE (bussando) — Popolo, vieni qui fuori!

SALSICCIAIO — Per Zeus, o padre, vieni qui fuori, Popoluc­cio, carissimo; vieni fuori, a vedere come sono oltraggiato!

POPOLO (uscendo sulla porta di casa) — Chi sono costoro che gridano? Andatevene da questa porta. Mi avete rovinato le mie rame d’ulivo (75)!(Riconoscendo Paflagone) Chi ti fa ingiuria, o Pa­flagone?

PAFLAGONE — A causa tua le prendo da costui e da questi ra­gazzini.

POPOLO — E perché?

PAFLAGONE — Perché ti voglio bene, o Popolo, e sono inna­morato di te.

POPOLO (al Salsicciaio) — E tu poi chi sei, propriamente?

SALSICCIAIO — Rivale di costui in amore: da lungo tempo ti amo e voglio farti del bene, io e molta altra gente onesta. Ma non ci riusciamo, a causa di lui. Tu infatti sei come i fanciulli che si la­sciano amare: la gente per bene, non l’accogli; e ti concedi invece a mercanti di lucerne, a ciabattini, a calzolai e a cuoiai.

PAFLAGONE — Perché io faccio bene a Popolo.

SALSICCIAIO — Dimmi dunque, e che fai?

PAFLAGONE — Che faccio? Quando gli strateghi scapparono da Pilo, io navigai là e ne niportai prigionieri i Laconi.

SALSICCIAIO — E io passeggiando, da una bottega, mentre uno

faceva bollir la sua pentola, gliela rubai.

PAFLAGONE — E allora, o Popolo, tieni subito un’assemblea, per sapere quale di noi due ti è più devoto, e decidi: e a lui accor­da il tuo amore.

SALSICCIAIO — Certo, certo, decidi dunque: tranne che nel­la Pnice.

POPOLO — Io non potrei sedere in altro posto. Avanti dun­que! Bisogna venire alla Pnice. (Va a sedere su una specie di tribu­na, collocata nell’orchestra.)

SALSICCIAIO — Ahi me misero sono rovinato! Il vecchio, a casa sua, è il più intelligente degli uomini: ma quando siede su que­sta pietra, se ne sta a bocca aperta, come uno che ingoia fichi sec­chi (76)

PRIMO SEMICORO (al Salsicciaio) —Ora dunque tu devi mollare tutte le tue scotte e assumere ardore impetuoso e ragioni imbattibili, per superare costui. Poiché l’uomo è astuto ed è abile nel trovare scappatoie anche dalle difficoltà. Perciò, muovi contro di lui, valido e possente.

CORIFEO — Ma sta’ in guardia. E prima ch’egli t’incalzi, tu is­sa i delfini e accostati di bordo (77)

.

PAFLAGONE — Alla possente Atena, patrona della città, io prego: se per il popolo ateniese son divenuto il cittadino più bene­merito, dopo Lisicle e... Cinna e Salabaccò (78), — che io, senza aver fatto nulla, come ora, possa pranzare nel Pritaneo! Ma se è vero che ti odio e non combatterò per te opponendomi da solo, possa io mo­rire ed esser fatto a pezzi e ridotto a cinghie!

SALSICCIAIO — E io, o Popolo, se non è vero che ti amo e che ti voglio bene, possa esser tagliato a pezzettini e cotto a lesso. E se non credi a queste parole, su questo tagliere io possa esser grat­tugiato in un pesto col formaggio, e trascinato per i coglioni con un uncino fino al Ceramico (79).

PAFLAGONE — E come potrebbe esserci, o Popolo, un cittadino che ti ami più di me? Io prima, quando ero consigliere, mol­te ricchezze ti procacciai per l’erario, alcuni angariando, altri stroz­zando, ad altri chiedendo, senza curarmi di alcun privato pur di farti cosa grata.

SALSICCIA1O — In ciò, o Popolo, non c’è nulla di straordina­rio, e anche io farò per te lo stesso: ruberò il pane agli altri e te lo servirò. Ma prima ti devo dimostrare proprio questo: che lui non ti ama e non ti è devoto, se non proprio perché... profitta della tua brace. E di te, che a Maratona impugnasti la spada contro i Medi per questa terra, e con la tua vittoria ci permettesti di menare gran vanto, di te non si cura, che sei seduto così sul duro su queste pie­tre: mentre io ti ho fatto cucire questo (porgendogli un cuscino), e te l’ho portato. Alzati dunque: e poi siedi mollemente per non con­sumare... quelle chiappe che furono a Salamina (80).

POPOLO (sedendo, soddisfatto) — E tu, chi sei? Forse un discen­dente di quella illustre stirpe di Armodio? Questa tua azione è ve­ramente nobile e amica del popolo.

PAFLAGONE — Con quali meschine lusinghe ti vai procurando la sua benevolenza!

SALSICCIAIO — Ma anche tu lo hai preso con esche molto più misere!

PAFLAGONE — Ebbene, se ci fu mai un uomo che più abbia lot­tato per il popolo o che ti ami più di me, voglio scommettere la testa.

SALSICCIAIO — E come lo ami tu, che, vedendolo abitare da sette anni in queste giare e tane e catapecchie (81) non ne hai pie­tà ma lo chiudi dentro e lo soffochi col fumo? E quando Archeptò­lemo portava la pace, la soffiasti via; e ora rimandi dalla città a cal­ci nel sedere le ambascerie che offrono la tregua.

PAFLAGONE — Affinché egli imperi su tutti gli Elleni. E’ det­to nei vaticini che un giorno dovrà essere giudice in Arcadia a cin­que soldi (82) il giorno.., purché abbia pazienza. Ad ogni modo, lo nutrirò e lo curerò, scovando, con le buone o con le cattive, donde egli possa avere i tre soldi.

SALSICCIAIO — No, per Zeus, non perché ti dia pensiero che egli imperi in Arcadia, ma perché tu possa arraffare ancor più e prender doni dalle città; e perché il popolo, a causa della guerra e della nebbia, non veda i tuoi imbrogli: ma per la necessità e per il bisogno e per il salario guardi verso dite a bocca aperta. Ma se mai un giorno, tornato ai campi, egli possa vivere in pace e ricrearsi mangiando spighe tenere e dirsela con la sansa, si accorgerà di quali beni lo hai defraudato per un misero salario; e verrà, violento e sel­vatico, contro di te, braccandoti col suo voto. E tu, che lo sai, lo inganni e gli vai spacciando sogni sul tuo conto.

PAFLAGONE — Ma non è una cosa indegna, che tu dica di me questa roba e diffami, dinanzi agli Ateniesi e al popolo, me che ho già fatto bene a questa città — per Demetra —, molto più di Te­mistocle?

SALSICCIAIO — « Popolo d’Argo, quel ch’ei dice ascolta » (83), E tu ti paragoni a Temistocle, che, avendo trovato la nostra città sotto l’orlo, la fece colma rasa e inoltre per colazione le impastò il Pireo, e, senza toglierle nulla di quelli di una volta, le imbandì nuo­vi pesci? Tu invece cercasti di rimpicciolire la città degli Ateniesi, dividendoli con mura e cantando loro oracoli, tu che ti paragoni a Temistocle (84)! E lui, fu bandito dal paese; mentre tu ti pulisci le dita con mollica di panini al latte!

PAFLAGONE — Non è terribile, o Popolo, che io debba udir questa roba da costui, per il fatto che ti amo?

POPOLO (al Salsicciaio) — O tu, smettila e non oltraggiarlo ma­lamente. Troppo a lungo e anche ora mi sono sfuggite le tue occulte manovre.

SALSICCIAIO — È un grande scellerato, o Popoluccio, e ha fatto molte bricconate: (animato) mentre tu stai a bocca aperta, lui monda i magistrati che rendono i conti e ne trangugia il meglio, e a due mani scava nel danaro pubblico.

PAFLAGONE — Hai poco da stare allegro: ti mostrerò reo di aver rubato trentamila dracme.

SALSICCIAIO — Perché ti agiti e schiamazzi tu che sei il più scellerato verso il popolo degli Ateniesi? E io, per Demetra, dimo­strerò — o ch’io muoia! — che tu hai preso in regalo da Mitilene (85) più di quaranta milioni.

SECONDO SEMICORO (al Salsicciaio) —

O tu, che a tutti sei apparso grandissimo beneficio,

ti invidio per la tua facondia! E se tu continui ad attaccare così

sarai il più grande degli Elleni

e solo governerai lo stato

e impererai sugli alleati impugnando il tridente,

col quale scuotendo e sconvolgendo, farai un mucchio di quattrini.

CORIFEO — E non mollarlo, ora che ti ha dato la presa: con quei fianchi, facilmente ci riuscirai.

PAFLAGONE — No, buona gente, non siamo ancora a questo, per Poseidon! C’è anche un’altra impresa che io ho compiuto, tale da tappare la bocca a tutti i miei nemici insieme, fin quando riman­ga qualche cosa degli scudi presi a Pilo.

SALSICCIAIO — Fermati, su questi scudi: ecco che mi hai dato la presa. Tu dunque non dovevi, se è vero che ami il popolo, deliberatamente permettere a costoro di dedicare gli scudi con tut­te le cinghie (86). Ma questa, o Popolo, è un’astuzia perché, se mai tu voglia punirlo, non ti sia possibile. Tu vedi infatti qual ressa egli ha intorno di giovani mercanti di cuoio; e attorno a costoro stan­no i mercanti di miele e di formaggio. E tutto cospira a una cosa sola: cosicché, se tu brontolassi e meditassi di giocare « al coc­cio » (87) di notte correrebbero a rubare gli scudi e ad occupare gli accessi ai nostri granai.

POPOLO — Ahi, me misero! Hanno dunque le cinghie? (A Paflagone) O miserabile, da quanto tempo mi ingannavi, imbro­gliando il popolo!

PAFLAGONE — Buonuomo, non fidarti delle sue parole e non credere che potrai mai trovare un amico migliore di me, che da solo ho fatto cessar le congiure: e nulla mi sfugge di ciò che si trama in città, ma subito lo vado gridando.

SALSICCIAIO — Già, tu fai proprio come i pescatori di an­guille: quando la palude è calma, non prendono nulla; ma se rimestano (88) sossopra il fango, fanno buona pesca. E anche tu prendi, se metti a soqquadro la città. Ma rispondimi solo a questo: tu, che vendi tante pelli, desti mai a costui, tu che dici d’amarlo, tanto del tuo cuoio da rattopparsi le scarpe?

POPOLO — No certo, per Apollo.

SALSICCIAIO (al Popolo) — Lo capisci dunque, ora, che tipo è? Io invece ho comprato per te questo paio di scarpe e (porgendo)te le do da portarle.

POPOLO (calzandole, soddisfatto) — Per quanto io so, ti giu­dico il migliore verso il popolo e il più devoto alla città... e anche alle dita di questi piedi.

PAFLAGONE (rodendosi) — Ma non è dunque una cosa tre­menda, che un paio di scarpe possa tanto e che tu non serbi ricor­do di me, per quanto ti ho fatto? Fui io che la feci smettere alle checche, cancellando Gritto dalle liste dei cittadini.

SALSICCIAIO — Non è dunque una cosa tremenda, che tu va­da ispezionando deretani e la faccia smettere alle checche? E non c’è caso che tu le abbia fatte smettere per invidia, perché non di­ventassero uomini politici? Ma vedendo costui, alla sua età, senza mantello, giammai stimasti Popolo degno di una tunica con le mani­che, ora che è inverno. Io invece, (togliendosi il mantello e porgen­dolo a Popolo) ti regalo questo.

POPOLO (commosso) — Una cosa simile, non la pensò nemmeno Temistocle! Certo, quel porto del Pireo era una cosa saggia: ma pure, per me, non mi sembra una trovata migliore di questo man­tello.

PAFLAGONE — Ahi, me infelice, con quali arti da scimia mi raggiri!

SALSICCIAIO — No, faccio come uno che ha bevuto, quando abbia un grosso bisogno: uso le tue arti invece delle mie, come pan­tofole.

PAFLAGONE — Ma tu non mi sorpasserai in adulazioni: (to­gliendosi il mantello fa per metterlo addosso a Popolo) io gli metto questo addosso. (Al Salsicciaio) E tu piangi, miserabile!

POPOLO (respingendo, disgustato) — Puah!, va’ alla malora, col tuo orribile fetore di cuoio.

SALSICCIAIO — E apposta te lo mise addosso, per soffocarti: già da tempo tramava contro di te. Ti ricordi quei gambi di silfio (89) tanto a buon mercato?

POPOLO — Certo, mi ricordo.

SALSICCIAIO — Lui a bella posta si diede da fare che andasse­ro a buon mercato, perché voi li compraste e li mangiaste: e così i giudici nell’Eliea si asfissiassero l’un l’altro trullando.

POPOLO — Per Poseidon anche uno di Merdaio me l’aveva detto.

SALSICCIAIO — Non fu forse allora che voi, a furia di scorreg­ge, diventaste gialli?

POPOLO — Per Zeus, fu proprio una trovata del Rosso .(90)

PAFLAGONE — Con quali ribalderie, o furfante, mi sconvolgi!

SALSICCIAIO — La dea mi ordinò di vincerti in millanteria.

PAPLAGONE (deciso) — Ma non vincerai. Io prometto, o Popolo, di darti da trangugiare, senza che tu faccia nulla, una scodella di...salario.

SALSICCIAIO (eseguendo) — E io ti do un vasetto di balsamo per ungerti le ulcere delle gambe.

PAFLAGONE — E io, strappandoti i capelli bianchi, ti farò giovane.

SALSICCIAIO (porgendo) — Tieni, eccoti una coda di lepre per tergerti gli occhiuzzi.

PAFLAGONE (porgendo il capo) — Soffiati il naso, o Popolo, e pulisciti le dita sul mio capo.

SALSICCIAIO (prevenendolo) — Sul mio, piuttosto.

PAFLAGONE — Sul mio piuttosto. (Al Salsicciaio) E ti farò no­minare trierarco                     (91) a tue spese, di una vecchia nave, che non finirai mai di spendere a rattopparla: e mi darò da fare perché tu abbia una vela fradicia.

SALSICCIAIO — Costui ribolle: calma, calma, ecco che viene fuori. Bisogna togliergli di sotto un po’ di tizzoni e schiumar le mi­nacce (prende un randello) con questo.

PAPLAGONE — Me la pagherai a dovere, quando sarai schiaccia­to sotto le imposte di guerra: mi darò da fare perché tu sia censito fra i ricchi.

SALSICCIAIO — Per me, non ti minaccio nulla; ma faccio per te questo voto: la tua padella di calamaretti stia a friggere; e tu, volendo fare una proposta riguardo ai Milesi e guadagnarci un mi­lione, se ti riesce bene, ti affretti a rimpinzarti di calamaretti per arrivare ancora in tempo all’assemblea; e allora, prima che tu fi­nisca di mangiare, uno ti venga a chiamare; e tu, volendo guada­gnare il tuo milione, mentre mangi... ti possa strozzare!

CORIFEO — Molto bene, per Zeus e per Apollo e per Deme­tra (92)

POPOLO — È anche la mia opinione. E poi, mi par davvero un eccellente cittadino, quale nessuno mai finora, verso questa gente da molti a un soldo. Tu invece, o Paflagone, che dicevi di amarmi, mi hai esasperato. E ora rendimi il mio anello, perché non sarai più il mio amministratore.

PAFLAGONE (esegue, a malincuore) — Tieni. Ma sappi questo:se non mi lascerai amministrare, verrà fuori qualche altro ancora più furfante di me.

POPOLO (osservando l’anello) — Quest’anello non può essere il mio: il sigillo sembra un altro, se ci vedo bene.

SALSICCIAIO — Fa’ vedere: qual era il tuo sigillo?

POPOLO — Un involtino di grasso di bue (93) arrostito.

SALSICCIAIO (guardando l’anello) — Questo non c’è.

POPOLO — Non c’è l’involtino? E che c’è?

SALSICCIAIO — Uno smergo a bocca aperta, che arringa su uno scoglio.

POPOLO — Ahi, me infelice!

SALSICCIAIO — Che c’è?

POPOLO — Portamelo fuor dai piedi. Non è il mio che aveva, ma quello di Cleonimo (94) (Porgendo al Salsicciaio un altro anello)Tieni questo e amministra per me.

PAFLAGONE — No, non ancora, padrone, ti scongiuro, prima che tu abbia udito i miei oracoli!

SALSICCIAIO — E anche i miei, allora.

PAFLAGONE — Se stai a sentirlo, diventerai un otre floscio.

SALSICCIAIO — E se stai a sentire lui, diventerai sprepuziato fino all’anguinaia.

PAFLAGONE — Ma i miei oracoli dicono che devi comandare su tutta la terra, coronato di rose.

SALSICCIAIO — E i miei dicono, ancora, che tu, con un man­to di porpora trapunto e una corona, su un carro d’oro... farai cau­sa a Smìcita (95) e al suo patrono.

POPOLO (al Salsicciaio) — Ebbene, va e portali, che lui ti senta.

SALSICCIAIO — Per l’appunto.

POPOLO (a Pallagone) — E anche tu porta i tuoi.

PAFLAGONE (entrando in casa di Popolo) — Ecco.

SALSICCIAIO (uscendo di scena) — Ecco, per Zeus, nulla lo im­pedisce.

CORO —Dolcissima la luce del giorno

sarà e per i qui presenti

e per chi arriva di fuori, se Cleone sarà spacciato.

E pure, ho udito ribattere

alcuni fra gli anziani i più noiosi,

all’esposizione…. dei processi,

che se costui non fosse divenuto

potente in città, non esisterebbero

due arnesi utili: pestello e mestolo.

—Ma anche questo io ammiro

della sua educazione da maiale:

dicono infatti coloro, che fanciulli

andavano a scuola con lui,

che solo nell’armonia dorica (96)

accordava spesso la lira,

e altra non voleva imparare. E allora il maestro

sdegnato lo faceva buttar fuori,

perché il fanciullo nessun’armonia

poteva imparare se non quella d’or.. .ica.(96)

PAFLAGONE (uscendo di casa con un gran lascio di papiri) —Ecco, guarda: e non li ho portati tutti.

SALSICCIAIO (tornando sulla scena, con un lascio più grosso)

—Ahi, che voglia di cacare: e non li ho portati tutti.

POPOLO (a Paflagone) — E che roba è questa?

PAFLAGONE — Vaticini.

POPOLO — Tutti?

PAFLAGONE — E ti meravigli? Per Zeus, ne ho ancora una cas­sa piena.

SALSICCIAIO — E io un solaio e due casamenti.

POPOLO — Vediamo: di chi mai sono questi oracoli?

PAFLAGONE — I miei sono di Bacide (97).

POPOLO (al Salsicciaio) — E i tuoi, di chi?

SALSICCIAIO — Di Glanide, il fratello maggiore di Bacide.

POPOLO — E riguardo a che?

PAFLAGONE — Riguardo ad Atene, a Pilo, a te, a me e ad ogni cosa.

POPOLO (al Salsicciaio) — E i tuoi?

SALSICCIAIO — Riguardo ad Atene, alla polenta, ai Lacedemo­ni, agli sgombri freschi, a quelli che al mercato misurano di frodo la farina, a te, a me. E lui (verso Paflagone), si morda.., il bischero.

POPOLO — Orsù dunque, badate a leggermi questi oracoli, e specialmente quello che mi riguarda, e che mi piace: come « fra le nubi io sarò aquila ».

PAFLAGONE — Ascolta dunque e porgimi attenzione: (recita solenne)

« Medita, o Eretteide, degli oracoli il senso che Apollo per te pronunziò dall’adito, dal tripode molto onorato: il sacro cane consèrvati dai denti bene affilati,

che a tua difesa latrando e terribilmente abbaiando

ti procuri il salario; e morrà, ove tu ciò non faccia:

ché molte cornacchie per odio gracchiano contro di lui ».

POPOLO — Questa roba, per Demetra, non capisco che vuoi dire: che c’è di comune fra Erettèo e le cornacchie e il cane?

PAFLAGONE — Il cane, sono io: e abbaio per te. E Febo ti ordina di tenerti me, che sono il cane.

SALSICCIAIO — Non dice così l’oracolo: ma questo cane qui (verso Paflagone) rosicchia oracoli (98) come fossero la tua porta.

L’oracolo esatto, riguardo a questo cane, ce l’ho io.

POPOLO — Dillo, allora: ma prima voglio prendere una pietra,perché non mi morda l’oracolo riguardo a questo cane.

SALSICCIAIO (recitando solenne) —« Guardati, o Eretteide, da Cerbero, cane schiavista che a te scodinzolando, quando tu pranzi, spia per divorare il tuo cibo, mentre sei intento altrove: e penetrando in cucina furtivo, col fare dei cani,

ti leccherà, di notte, i piatti e... le isole ancora ».

POPOLO — Per Poseidon, questo è molto migliore, o Glanide.

PAFLAGONE — Ma ascolta, o caro, e poi giudica, solo allora: (solenne, recitando)« Partorirà una donna nella sacra Atene un leone,

che contro molte zanzare per Popolo combatterà

come a difesa dei cuccioli: e tu per custodirlo

costruisci un muro di legno e torrioni di ferro ».

(A Popolo) Sai questo che vuoi dire?

POPOLO — Io no, per Apollo.

PAFLAGONE — Il dio ti avverte chiaramente di tenermi con te: io faccio per te le veci del leone.

POPOLO — E come mai, senza che me ne accorgessi, mi sei divenuto Vice-leone (99).

SALSICCIAIO — Ma una cosa, dei vaticini, il dio non ti spie­ga, a bella posta:  che c’è un solo muro di ferro e un legno, coi quale Loxia ti ha ordinato di custodirlo.

POPOLO — Come dunque ha detto, per questo, il dio?

SALSICCIAIO — Ti ordinò di legano su un legno.., a cinque buchi(100).

POPOLO — Mi pare che questo oracolo oramai si compia.

PAFLAGONE — Non gli credere: invidiose gracchiano le cor­nacchie. Ma tu ama lo sparviero, ricordandoti nel tuo cuore che egli ti portò qui tutti legati insieme quei corbacci di Lacedemoni.

SALSICCIAIO — Certo. Paflagone era ubriaco quando vi si ar­rischiò. O Cecropide mal consigliato, perché la ritieni una grande impresa? Anche una donna può portare un peso, se un uomo glielo alzi in collo (101). Ma non potrebbe combattere: se la farebbe addos­so, facendosi sotto.

PAFLAGONE — Ma pensa a quello che ti diceva l’oracolo: «Pilo dinanzi a Pilo ». (Recitando) « Dinanzi a Pilo è Pilo... ».

POPOLO — Che vuoi dire «Dinanzi a Pilo »?

SALSICCIAIO — Vuoi dire che nel bagno occuperà le... pile.

POPOLO — E io oggi rimarrò senza bagno?

SALSICCIAIO — Perché lui ha rubato le nostre pile. Ma eccoti ora l’oracolo riguardo alla flotta: devi starci bene attento.

POPOLO — Sono attento: e tu leggi, in qual modo anzitutto sarà pagato il soldo ai miei marinai.

SALSICCIAIO (recitando) —«Dal cane volpino ti guarda, Egeide, che non t’inganni, perfido, celeripede, furba volpe dai molti maneggi ».

(A Popolo) Sai che è questo?

POPOLO — Quel cane volpino di Filòstrato(102)

SALSICCIAIO — Non questo vuoi dire: ma le navi celeri per raccogliere le imposte(103) che lui ti chiede ogni volta, il Loxia ti vie­ta di dargliele.

POPOLO — E come mai una trireme è un cane volpino?

SALSICCIAIO — Come? Perché la trireme, come il cane, è

una cosa veloce.

POPOLO — E come, poi, la volpe è stata aggiunta al cane?

SALSICCIAIO — Egli rassomigliò i soldati ai volpicini, perché mangiano i grappoli nelle terre.

POPOLO — Bene. E il soldo per questi volpicini, dov’è?

SALSICCIAIO — Te lo procurerò io, ed entro tre giorni. Ma ascolta anche quest’oracolo, nel quale il figlio di Latona ti racco­manda di evitare la Cava, perché non ti inganni.

POPOLO — Quale cava?

SALSICCIAIO_Giustamente raffigura la mano di costui co­me la Cava, perché dice « versa nella mano concava » (104)

PAFLAGONE — Non dice giusto: con “ la Cava “,Febo allude propriamente alla mano di Diopìte. Ma anche io ho, riguardo a te, un oracolo alato: tu diventerai aquila e regnerai su tutta la terra.

SALSICCIAIO — Anch’io ce l’ho: e sulla terra e sul mar Ros­so (105); e amministrerai la giustizia in Ecbatana, leccando focacce al miele.

PAFLAGONE — Ma io ho visto un sogno: e mi parve che la dea in persona versasse sul popolo, da una brocca, salute e ricchezza.

SALSICCIAIO — Per Zeus, anch’io: e mi parve che la dea in persona scendesse dall’Acropoli, con la civetta appollaiata addosso, e sulle teste vi versasse, da un fiasco, a te ambrosia e su costui... agliata.

POPOLO — Ah, ah, davvero non c e nessuno più sapiente di Glanide! Ecco, io mi affido a te: tu abbi cura della mia vecchiaia e rieducami a nuovo (106).

PAFLAGONE — Non ancora, ti supplico, aspetta: io ti procac­cerò orzo e sostentamento ogni giorno.

POPOLO — Non posso sentir parlare di orzo: troppo spesso fui ingannato da te e da Teofane (107).

PAFLAGONE — Ma io ti procurerò poi farina bell’e pronta.

SALSICCIAIO — E io focaccine ben impastate e manicaretti cotti a puntino: non avrai che da mangiare.

POPOLO — Sbrigatevi dunque per quel che volete fare: e io, a chi di voi due mi avrà trattato meglio, a quello affiderò le redini della Pnice.

PAFLAGONE (entrando in casa) — Io corro dentro per primo.

SALSICCIAIO (uscendo di scena) — No, io.

CORO —

O Popolo, hai davvero un bel potere,

dato che tutti gli uomini

ti temono come un tiranno!

Ma tu sei credulone

e ci godi a essere adulato

e menato pel naso,

e stai sempre a bocc’aperta a sentire

chi parla; e il senno, che hai, se ne va via (108).

POPOLO —Sotto le vostre zazzere (109) non c’è senno,

se voi credete che io

non sia saggio;

ma apposta faccio il fesso.

E così me la godo

a trincare ogni giorno.

E sono io, che voglio allevarmi un ladro per ministro:

poi, quando s’è rimpinzato, lo prendo e gliele do.

CORO —E certo, faresti bene così,

se, come dici, vi è fior di senno

in questo tuo comportamento:

quando a bella posta

allevi costoro nella Pnice

come pubbliche vittime; e poi

quando, in mancanza di altra vivanda,

sacrifichi il più grasso di loro, e ci banchetti.

POPOLO —Considerate ora se sono bravo

a raggirarli, costoro

che credono di essere astuti e di menarmi pel naso.

E io sto a spiarli,

facendo finta di non vedere

ogni volta che rubano: e poi li costringo

a vomitar fuori quanto mi abbiano rubato,

usando come specillo il coperchio dell’urna per i voti.

Esce di casa Paflagone con una sedia e una grossa cesta: Salsicciaio

torna sulla scena, anche lui con una grossa cesta.

PAFLAGONE (cacciando via Salsicciaio) — Vattene alla malora

fuor dei piedi.

SALSICCIAIO (spingendo Pa!lagone) — Tu piuttosto, o disgra­zia.

PAFLAGONE — O Popolo, io da molto lungo tempo son qui pronto, desideroso di esserti utile.

SALSICCIAIO — E io da dieci e da dodici e da infinite volte lungo lungo lungo tempo.

POPOLO — E io da tre volte infinito tempo vi sto aspettando e mi fate schifo tutt’e due, da lungo lungo lungo tempo.

SALSICCIAIO (a Popolo) — Sai dunque che c’è da fare?

POPOLO — No, e spiegamelo tu.

SALSICCIAIO — Lascia partire me e lui dalla linea a parità di condizioni per servirti bene.

POPOLO — Così va fatto. Partite.

SALSICCIAIO e PAFLAGONE (allineati, per la partenza) — Ecco.

POPOLO (dando il via) — Correte dunque.

SALSICCIAIO (a Pa.flagone) — Non permetto che tu mi tagli la strada.

POPOLO (soddisfatto, fra di sé) — Oggi, certo, questi miei ado­ratori mi faranno molto felice, per Zeus, se non faccio lo schizzi­noso.

PAFLAGONE (precipitandosi verso Popolo) — Vedi? Sono io

che ti porto per primo un seggio.

SALSICCIAIO (c. s., offrendogli il suo panchetto) — Ma non la tavola: sono io più primo.

PAFLAGONE — Ecco, io ti porto questa focaccina impastata con l’orzo di Pilo(110)

SALSICCIAIO — E io queste « conchiglie », cavate dalla dea (111)con la sua mano d avorio.

POPOLO — Che dita grandi avevi, o Regina!

PAFLAGONE — E io, una polenta di piselli, buona e di bel colore: la rimescolò Pallade in persona, la combattente di Pilo (112).

SALSICCIAIO (protendendo sul capo di Popolo una marmitta,

a mo’ di scudo) — O Popolo, è evidente che la dea ti protegge: an­che ora protende su di te una marmitta piena di brodo.

POPOLO — Credi tu che questa nostra città sarebbe ancora abitata, se lei non protendesse manifestamente su di noi la pen­tola (113)?

PAFLAGONE (a Popolo, offrendo) — Questi tranci di pesci te

Li regala la dea « Terror degli eserciti »(114).

SALSICCIAIO — E la « Figlia del possente Padre » ti regala questa carne cotta nel brodo, e un pezzo di budello, di molletta e di trippa.

POPOLO (soddisfatto) — Ha fatto bene, ricordandosi del peplo.

PAFLAGONE — La dea «dall’elmo di Gorgona » ti prega di mangiare questo sfilatino, perché filino bene le navi.

SALSICCIAIO — Ma prendi anche questa roba.

POPOLO — E che me ne faccio, di queste budella?

SALSICCIAIO — A bella posta la dea ti inviò le coste per le triremi: manifestamente ella protegge la nostra flotta. (Offrendogli una         coppa) Tieni, e bevi anche questa mescolanza « tre e due » (115).

POPOLO (bevendo) — Come è soave, per Zeus! E come porta

bene quel « tre »!

SALSICCIAIO — Fu proprio la Tritogènia a interzarlo.

PAFLAGONE (porgendo a Popolo) — Prendi dunque da me una fetta di torta grassa.

SALSICCIAIO — E da me, invece, tutta questa torta intera.

PAFLAGONE (offrendo al Popolo un piatto colmo: verso il Sal­sicciaio) — Ma tu non hai da offrirgli carne di lepre: io sì.

SALSICCIAIO (disperato, fra sé) — Ahimè, donde potrò avere la carne di lepre? (Con enfasi)« Trovami, o cuor, qualche ribalderia! » (116)

PAFLAGONE (mostrando il piatto d’intingolo a Salsicciaio) — Lo

vedi questo, disgraziato?

SALSICCIAIO — Poco m’importa: (guardando lontano) ecco

che arrivano verso di me certi ambasciatori con borse piene di da­naro.

PAFLAGONE (de ponendo il piatto e precipitandosi) — Dove, dove?

SALSICCIAIO — Che te ne importa? Lascia stare gli stranieri!

(Afferra il piatto di Paf lagone e lo offre a Popolo.) O Popoluccio,

vedi la lepre che ti porto?

PAFLAGONE (protestando) — Ahi, me misero, iniquamente car­pisti la mia roba!

SALSICCIAIO — Già, per Poseidon, e tu i prigionieri di Pilo.

POPOLO (a Salsicciaio, compiaciuto) — Dimmi, ti prego, come escogitasti il ratto?

SALSICCIAIO (modesto, recitando) —« Della dea fu il pensier, ma il furto è mio »(117) Io l’arrischiai.

PAFLAGONE — Ma io l’avevo cotta.

POPOLO (a Paflagone) — Vattene, io sono grato a chi me l’ha imbandita.

PAFLAGONE (scoraggiato) — Ahi, me disgraziato, esser vinto in impudenza!

SALSICCIAIO (a Popolo) — Perché dunque, o Popolo, non sce­gli quale di noi due è più benemerito verso di te e il tuo stomaco?

POPOLO — E su quale prova io dovrei decidere fra di voi in modo che sembri ben fatto agli spettatori?

SALSICCIAIO — Te lo dirò io: va’, prendi la mia sporta zitto zitto e controlla quel che c’è dentro; e poi, quella di Paflagone. E certamente giudicherai bene.

POPOLO — Orsù, vediamo, che c’è qui dentro? (Prende la ce­sta di Salsicciaio.)

SALSICCIAIO (sicuro) — Non vedi che è vuota, nonnino? Io ho raccolto tutto per te.

POPOLO — Questa è davvero una sporta che pensa al popolo.

SALSICCIAIO — Ora vieni qui, a quella di Paflagone. (Scopren­dola) Vedi?

POPOLO — Ahi, ahimè, di quanta roba è colma! Che bella tor­ta si era messo da parte! E per me, ne tagliò solo un tantino e me lo dette.

SALSICCIAIO — Anche prima ti trattava così: di quel che pren­deva, ti dava solo una piccola parte, e il più lo teneva per se stesso.

POPOLO (a Paflagone) — Scellerato, così mi ingannavi ruban­do!

« Ed io, che serti t’offerivo e doni! » (118)

PAFLAGONE (confuso) — Ma io rubavo per lo Stato, a fin di bene.

POPOLO (sdegnato) — Posa subito quella corona, che io ne cinga lui.

SALSICCIAIO (incalzando) — Posala subito, canaglia!

PAFLAGONE — No, certo: io ho un oracolo pitico, che indica colui che solo potrà vincermi.

SALSICCIAIO — E indica proprio il mio nome, e molto chia­ramente.

PAFLAGONE — Ebbene, voglio convincerti con una prova se a te si adattano i responsi del dio. E anzitutto, riguardo a te, voglio saper questo: bambino, da quale maestro andavi?

SALSICCIAIO — Nei forni fui aggiustato a forza di sgrugnate.

PAFLAGONE — Che dicesti? Come l’oracolo tocca il mio cuore!

Bene: e dal maestro di ginnastica quale esercizio imparasti?

SALSICCIAIO — A rubare, spergiurando e guardando in faccia.

PAFLAGONE — « O Febo Apollo Licio, che vuoi farmi? » (119) E quale arte avevi, divenuto uomo?

SALSICCIAIO — Vendevo salsicce... e mi facevo inculare qual­che poco.

PAFLAGONE (costernato, con enfasi tragica) —

« Ahi, me infelice! Ecco, per me è finita.

Come lieve è la speme che mi regge! ».

Ma dimmi ancora questo: le salsicce, le vendevi proprio al mercato, o dinanzi alle porte?

SALSICCIAIO — Dinanzi alle porte, dove si vendono i salumi.

PAPLAGONE (c. s.) —« Ahimè, del dio l’oracolo è compiuto! » (120)

Tirate dentro questo disgraziato. (Togliendosi la corona)

« Addio, corona: come a malincuore

ti lascio! E un altro ti possederà,

non più ladro ma forse fortunato! ».

SALSICCIAIO (prima di cingere la corona, levandola in alto) « O Zeus Ellenio, questo trionfo è tuo! » (121)

SERVO I — Salve, o glorioso vincitore! Ricordati che per opera mia sei diventato un pezzo grosso! E ti chiedo una piccola cosa: di essere il tuo Fanòs (122) , segretario dei processi.

POPOLO (a Salsicciaio)_Ma dimmi qual è il tuo nome.

SALSICCIAIO- Agoracrito, perché fui scelto ed allevato in piazza.

POPOLO_ Ad Agoracrito dunque affido me stesso e consegno, ecco, Paflagone.

SALSICCIAIO- E io, o popolo, ti curerò bene: dovrai confessare di non aver mai visto un uomo più benemerito di me verso la città dei….Boccaperti (123).

(Entrano tutti in casa di Popolo.)

CORO- Qual cosa più bella, in principio

O in fine dell’opera,

che gli agitatori di veloci cavalle cantare, senza recar dolore a Lisistrato

né a Teomànti (124) il senza-focolare, ben volentieri?

Poiché costui, o diletto Apollo, sempre è affamato , e con lacrime fiorenti

si attacca alla tua faretra in Pito divina, per sfuggire alla mala miseria..

- Prendersela con i cattivi non è cosa biasimevole, ma è un riguardo verso i buoni, per chi capisce. Se dunque l’uomo, che ha da sentirsene dire di molto brutte, fosse noto di per sé, non starei a ricordare il nome di un amico. Ora, non c’è nessuno che non conosca Arignòto fra quanti sanno distinguere il bianco dal nero e la melodia acuta: ma egli ha un fratello, che per i costumi non gli è nulla, l’infame Arìfrade (125).   E proprio questo vuole: poiché non solo è un depravato_ e non me ne sarei nemmeno accorto_ e un depravatissimo, ma ha fatto anche una certa invenzione. Egli cioè insozza la sua lingua in turpi voluttà, nei bordelli leccando l’immondo umore, e si insudicia la barba e mette in fregola le fiche; e per giunta, facendosela con Oionico (126) e componendo roba degna di Polimnèsto. Colui dunque, che non abbia molto schifo di un tale individuo, non berrà mai con me alla stessa coppa.

—Spesso, in notturni (127)

 pensieri occupato,

mi domandavo donde mai Cleonimo si procuri da mangiare così tristamente.

     e dicono che una volta, divorando gli averi dei ricchi,

     non veniva più fuori dalla mangiatoia. E quelli invano a pregarlo:

«Suvvia, signore, per le tue ginocchia, vieni fuori e ri­sparmia la nostra mensa! »

— Dicono che una volta le triremi venissero a discorso e una di loro, che era la più anziana, abbia detto: « Non avete udito, ragazze, quel che accade in città?        (128) Dicono che un tale abbia richiesto cen­to di noi per una spedizione contro Cartagine, un cattivo cittadino, Iperbolo l’Aceto ». La cosa parve loro terribile e intollerabile; e una, che mai si era accostata ad uomo, disse: « O dio protettore, costui giammai comanderà su di me; ma, se proprio sarà necessario, voglio piuttosto invecchiare qui, marcita di tarli ». « E neppure —disse un’altra — su Naufante, la figlia di Nausòne, comandi, o dèi, se è vero che anch’io sono fatta di pino e di legno. Se poi così deci­dano gli Ateniesi, io propongo di veleggiare a rifugiarci nel tempio di Teseo o in quello delle Dee Venerande. Così egli non si farà bef­fe della città, comandando su di noi: ma navighi lui solo alla malora, se gli piace, tirando a mare., le ceste, nelle quali andava vendendo le sue lucerne. »

SALSICCIAIO- (uscendo di casa con aria trionfante; solenne)_ Fate silenzio e tappate la bocca e basta coi testimoni e chiudete i tribunali, che sono la delizia di questa città: e il pubblico intoni un peana per le nuove fortune.

CORIFEO- O tu, luce alla sacra Atene e soccorritore alle isole, qual buona novella arrechi per cui le vie odoreranno del fumo della vittime (129)?

SALSICCIAIO- Vi ho ricucinato Popolo e l’ho fatto bello da brutto (130) che era.

CORIFEO- E dov’è ora, o tu che hai escogitato mirabili invenzioni?

SALSICCIAIO-Abita nell’antica Atene coronata di viole.

CORIFEO- Potremo vederlo? Come è abbigliato? Come è divenuto?

SALSICCIAIO- Come una volta, quando sedeva a tavola con Aristìde e Milzìade. Lo vedrete: si sente già il rumore dei Propilèi che si aprono. Acclamate dunque all’antica Atene che appare, mirabile e molto celebrata negl’inni, dove abita l’inclito Popolo.

CORIFEO- O fulgida e cinta di viole (131) e molto invidiata Atene, presentaci il sovrano di questa terra e dell’Ellade intera!

Esce di casa Popolo , ringiovanito e felice, nell’antico splendido costume.

SALSICCIAIO- Eccolo qui, vedetelo: le cicale d’oro nei capelli (132), splendido nell’antico costume, olezzante di pace e non di suffragi, profumato di mirra.

CORIFEO- Salve, o re degli Elleni, noi ci rallegriamo teco: la tua sorte è degna di questa città e del trofeo di Maratona.

POPOLO — O il più caro fra gli uomini, vieni qui, Agoracrito:quanto bene mi facesti ricuocendomi!

SALSICCIAI0 — Io? Ma tu non sai, mio caro, quale eri prima e che cosa facevi: mi stimeresti un dio.

POPOLO — E che facevo prima, dimmi; e com’ero?

SALSICCIAIO — Anzitutto, quando uno nell’assemblea diceva:

«Popolo, sono innamorato di te e ti amo, e io solo mi curo di te e

ti consiglio per il tuo bene » —; quando uno ricorreva a questo e­sordio, tu ringalluzzivi e drizzavi la cresta.

POPOLO — Io?

SALSICCIAIO — E lui in cambio di questo, ti faceva fesso e se ne andava.

POPOLO — Che dici? Questo mi facevano, e io non me ne ac­corgevo?

SALSICCIAIO — Perché le tue orecchie, per Zeus, si aprivano come un parasole e poi si richiudevano.

POPOLO — Così minchione e vecchio ero divenuto?

SALSICCIAIO — Certo, per Zeus: e se due uomini politici pro­ponevano, l’uno di costruire navi da guerra e l’altro di spender la somma in salari, quello che parlava di salario finiva col lasciarsi die­tro dalle navi. (Popolo, confuso, fa per andarsene.) Ohi tu, perché chini la testa? Resta al tuo posto.

POPOLO — Mi vergogno davvero delle mie colpe di una volta.

SALSICCIAIO — Ma il colpevole di ciò — non preoccuparti —non eri tu, ma quelli che così t’ingannavano. E ora, rispondi. Se un qualche buffone d’avvocato dicesse: « Per voi giudici non c’è farina, se non condannate in questa causa », tu, dimmi, che cosa farai a que­sto avvocato?

POPOLO — Lo alzo per aria e te lo sbatto nel Baratro (133) con

Iperbolo appeso al collo.

SALSICCIAIO — Ora dici davvero bene e da senno. E per il resto, vediamo, come governerai? Parla.

POPOLO — In primo luogo, a tutti i rematori delle navi da guer­ra, quando saranno tornati in porto, pagherò l’intero salario.

SALSICCIAIO — Fai cosa grata a molte natiche logore.

POPOLO — Poi, nessuno, iscritto sulle liste di leva come oplita,

potrà essere trasferito in un altro ruolo per intrighi, ma rimarrà

iscritto dov’era.

SALSICCIAIO — Questo è un danno per lo scudo di Cleonimo (134)!

POPOLO — E gli sbarbati non concioneranno in piazza.

SALSICCIAIO — E allora, dove concioneranno Clistene e Stra­tone (135)?

POPOLO — Parlo proprio di questi giovincelli, che se la passano nelle profumerie, e se ne stanno seduti a cianciar roba di questo ge­nere: « Bravo quel Feace, e come abilmente sfuggì alla morte! Ma è sintetico e dialettico e sentenziatico e chiaro e conturbatico e bloc­catico ottimamente di ogni tumultuatico »(136)

SALSICCIAIO — Anche tu tastatico di tal ciarletico?

POPOLO — Ma, per Zeus, saprò costringere io tutti questi ad

andare a caccia(137) e a smetterla con i decreti.

SALSICCIAIO — A questo patto, prendi questo sgabello, e un giovanotto con tanto di coglioni, che te lo porti: e, se mai ti piace,...fanne sgabello.

POPOLO (sedendosi) — Oh me beato, ritornato nell’antica con­dizione!

SALSICCIAIO — Aspetta a dirlo davvero, quando ti avrò conse­gnato la tregua trentennale. Vieni qui, Tregua, presto.

Appare Tregua, in aspetto di bellissima fanciulla.

POPOLO — O Zeus molto onorato, come è bella! (Tastandola)Per gli dèi, si può... trentennarla? Dove l’hai presa, per favore?

SALSICCIAIO — E Paflagone non se la teneva nascosta in ca­sa, perché tu non l’avessi? Ora, ecco, io te la consegno: e tu vattene in campagna con lei.

POPOLO — E dimmi, a Paflagone, che ha fatto questo, quale castigo darai?

SALSICCIAIO — Nulla di grave, se non che farà il mio mestie­re: e andrà da solo, vendendo salsicce dinanzi alle porte, miscelan­do carne di cane con carne d’asino; e ubriaco ingiurierà le puttane e berrà l’acqua sporca dei bagni.

POPOLO — Bravo, hai escogitato proprio quel che si merIta: fare a chi più grida con puttane e bagnini. E in cambio, io ti invito al pritaneo, al seggio dove se ne stava quel delinquente. Prendi dun­que (porgendo) questo vestito verde-rana (138) e seguimi: e lui, qual­cuno se lo porti via al suo mestiere, perché lo vedano i forestieri, che egli maltrattava.

Mentre Paflagone è trascinato via, Popolo esce dalla sinistra, seguito

dal Salsicciaio e dal Coro che acclamano.


1.un duetto: con un « duo » di auli (specie di flauto), di cui si serviva, per le sue composizioni religiose di tono piuttosto lamentoso, il frigio Olimpo, disce. polo del sileno Marsia; un altro Olimpo, più recente, non è che uno sdoppia­mento del precedente. Sotto, vengono imitate scherzosamente tali arie.

2.« Se tu... degg’io »: parole di Fedra alla nutrice, nell’Ippolito (v. 345) euripideo.

3.basta col cer!oglio: la solita allusione maligna al mestiere della madre di Euripide.

4.Andiam... : tento di rendere un intraducibile gioco di parole: in greco, propriamente, mòlomen vuoi dire « andiamo », auto-moldmen vale « disertiamo ».

5.credi davvero agli dèi?: Euripide, come i suoi amici Socrate e Anassagora, passava per ateo.

6.Come se Pnice, sede dell’Assemblea, fosse il luogo di nascita.

7.giudicato solo una causa: senza stancarti, cioè. — L’anno precedente Cleo­ne aveva aumentato da due a tre soldi per seduta la paga istituita da Pericle per i giudici.

8.schiacciata laconica; cioè la vittoria di Pilo sugli Spartani,

9. La sferza di cuoio invece di un cacciamosche, che di solito era un ramo di mirto.

10.Aperti ... Petenti. . . Ladronìa: giuochi di parole, resi approssimativa­mente.

11.Il modo. . . toro: parodia di Sofocle.

12.Temistocle, il vincitore di Salamina, ostracizzato da Atene si rifugiò in

ultimo alla corte persiana e morì, intorno al 461, di malattia. Il suicidio col

sangue di toro (che era il mezzo usato dai Persiani per i condannati a morte) e

riferito da Cicerone.

13.Al levar delle mense si libava in onore del Buon Genio, che era identifi­cato (anche) con Dioniso.

14.consiglietti ecc.: alla maniera di Euripide, naturalmente.

15.        Il vino di Pramno (in Icaria, piccola isola delle Sporadi) era molto pre­(cfr. Omero, Iliade XI, 639, ecc.): onde qui è sostituito al Buon Genio.

16.I Greci conoscevano tre Bacidi (il nome è generico e sembra significhi appunto «vate, indovino »), di cui il più antico e famoso era beota, citato gi~ da Erodoto. Ve n’era poi uno arcade e uno attico: qui sembra si tratti di quest’ultimo.

17mercante di stoppa: Eucrate, avversario di Cleone, dopo la morte di Pericle.

18.mercante di pecore: Lisicle, che dopo la morte di Pericle sposò Aspasia:

oratore ed uomo politico.

19.Cicloboro: un torrente molto impetuoso e scrosciante, presso Atene.

20.ti /arai /ottere: invece di « banchetterai ».

21.La Caria e Cartagine erano ai due estremi, orientale e occidentale, della zona di influenza politica e commerciale di Atene. Dopo la Sicilia, nei sogni degli imperialisti più accesi, c’era la conquista di Cartagine: cfr. Plutarco, Alcibiade 22.piuttosto male: espressione proverbiale per dire « alla men peggio ». Meglio — ribatte il Servo — sarebbe stato non aver nemmeno quel poco.

23.Tutta la scena imita, anche nel metro, lo stile ampolloso ed ambiguo degli oracoli: motivo che sarà ripreso a p. 6i. Il primo si ispira alla lotta fra l’aquila e il serpente, descritto da Omero, Iliade XII 200-7.

24.rimescola. . . pubblici: parodia euripidea.

25.Gran Baggiano è il dèmone della commedia: se non è anche un’allusione al «Popolo ». La parola Koàlemos, apparentata a kòbalos (= «folletto », e quindi <‘briccone »~ è non-greca, forse tracofrigia. Il verso è parodia tragica.

26.Il Servo IT, che stava a spiare, dopo aver dato la voce di dietro la scena, esce ora in veste di Paflagone.

27.per i dodici dèi: formola attica, anche in iscrizioni del tempo, indicante le divinità principali.

28.Calcide, nell’Eubea, era famosa per il vasellame d’argento: secondo Pa­flagone, i servi erano stati corrotti dai Calcidesi. I quali realmente, nel 445, si erano, con i beoti. ribellati ad Atene.

29.Simone e Panezio erano in quell’anno i due ipparchi, cioè comandanti della cavalleria.

30.Per Eucrate cfr. nota r~: pare che egli si sia ritirato dalla politica, di­nanzi a Cleone, per darsi interamente al commercio.

31.Per tre soldi cfr. nota 7.

32.Il Chersoneso Tracio (Penisola di Gallipoli) era il granaio d’Atene: vi andava, quindi, gente arricchitasi nel commercio e che badava ai fatti propri. — Le espressioni che seguono (tranne l’ultima, invece di « eccotelo a terra ») sono tolte dal linguaggio tecnico della palestra.

33.Con la battuta di Pafiagone si allude — ironicamente — al fatto d’armi di Soligea (a circa tre km dal porto orientale di Corinto), col quale Nicia volle prendersi una rivincita sul successo riportato da Cleone a Pilo. Su una squadra di 8o navi, nel 425, egli imbarcò 2000 opliti e 200 cavalieri col proposito di occupare Corinto: Argo avrebbe dovuto dare man forte. Ma le trattative condot­te (forse con poca lealtà) da Cleone non ebbero esito, e Argo, anzi, avverti Corinto del pericolo. Mancata la sorpresa, Nicia, sbarcato, si trovò di fronte a forze nemi­che preponderanti, collocatesi sulle colline di Soligea: e, dopo aver dato batta­glia, fu costretto a imbarcarsi. Il fatto fu presentato e celebrato come una vitto­ria, attestata dalle molto maggiori perdite corinzie di fronte a quelle degli Ate­niesi e dal fatto che i corpi dei caduti ateniesi erano stati tutti raccolti, ossia che gli Ateniesi sarebbero rimasti padroni del campo: ma fu, in realtà, un insuc­cesso (cfr. Tucidide IV 42-44).

34.na torta con miele si dava a coloro fra i convitati che riuscivano a restare in piedi, bevendo, fino all’alba.

35.canapi di salsicce è tradizione approssimativa: la parola greca zomèumata (< brodetto, sugo ») ricorda hypozòmata (< fasciatura, canapi a protezione della chiglia »). Se non è proprio da tradurre alla lettera, intendendo che contrab­bandava viveri al nemico.

36.Nel mezzo dell’agorà (piazza e mercato) c’era una statua di Ermes, detto perciò agoràios: ma la parola vale anche « bottegaio, trafflcante », come intende appunto il Salsicciaio.

37.L’i cima alle rocce: sulla collina rocciosa dove sedeva l’Assemblea: e i tributi degli alleati, come i tonni, arrivavano dal mare.

38.Pergase, poco lontano da Atene.

39.Archeptolemo, figlio di Ippodamo, è qui addotto come esempio di buon cittadino, che soffre nel veder la città in mano di gente senza scrupoli. Ricco pro­prietario terriero, e oligarchico, era fautore della pace, e a questo scopo, dopo la vittoria di Sfacteria (425) sugli Spartani, aveva condotto una ambasceria a Sparta: ma le trattative furono mandate a monte da Cleone.

40.Cioè Paflagone-Cleone.

41.il culo invece di: la gola.

42.Le spighe seccate sono i prigionieri fatti a Pilo (per tale vittoria cfr. la premessa) e messi a un regime di fame, per ottenere un più forte riscatto dai parenti.

43.Cratino, a dire di Aristofane, amava oltre modo il vino: e le conse­guenze le pagava il letto. Per difendersi appunto da questa accusa, il vecchio poeta compose La damigiana. Quanto a Morsimo, infelice poeta tragico, cfr.

Rane pag. 352.

44.« bevi, bevi al lieto evento » è il principio di un’ode di Simonide.

45Il figlio di Ulio, altrimenti ignoto, aveva forse avuto da dire con Cleone e quindi avrebbe gioito.

46.alle trippe: cioè alla divisione delle carni delle vittime sacrificate a Zeus Agoràios, protettore delle assemblee.

47.rimasugli: propriamente « mollica di pane »: che era usata per pulirsi le mani e poi gettata ai cani.

48.testa-di-ca...ne: traduzione approssimativa: il greco « cinocefalo » è pro­priamente una specie di scimpanzè: ma la parola è variata in modo da ricordare il membro.

49.vento di levante: noi diremmo appunto « grecale »: ma la parola greca ricorda anche « malvagità ».

50. Potidea, città della Calcidica alleata di Atene, aveva defezionato nel 432, ma dopo un terribile assedio di due anni fu costretta alla resa nel 430:

sull’episodio relativo a Cleone, nulla sappiamo da altre fonti.

51. quegli empi: Cilone, Eupàtride, aveva depredato il tempio di Atena, per procurarsi — pare — i mezzi a conquistare la tirannide. Sorpreso, riuscì a fuggire col fratello; e i suoi seguaci si rifugiarono presso l’altare di Atena, dove, per dirit­to di asilo, divenivano sacri alla dea. L’arconte Megacle, capo della stirpe degli Alcmeonidi, fece loro promettere salva la vita, se si fossero arresi: ma, contro la promessa, i prigionieri furono trucidati; onde egli e tutti i suoi discendenti furono dichiarati maledetti ed empi contro la dea. Il ricordo di così grave empietà, pur lontana oramai (dell’anno 632?) ed espiata da un rito di purificazione, rimase vivissimo in Atene.

52.I mazzieri costituivano la guardia del corpo di Pisistrato, per mezzo della quale egli si impadronì del potere.

53. La moglie di Ippia, figlio di Pisistrato, aveva nome Mirrina: ma Ari­stofane la chiama «Byrsina », con allusione al mestiere di Cleone.

54.formaggi: pasticci, intrighi, cioè, poiché la Beozia era grande produt­trice di formaggi.

55.aglio: si rimpinzavano d’aglio i galli, per prepararli al combattimento:

cfr. Senofonte, Con vito 4, 9.

56. Va’... fortuna: parodia di Sofocle.

57. Se qualcuno... : questo luogo è particolarmente importante per la sto­ria della commedia attica e per la posizione di Aristofane di fronte agli altri grandi comici del tempo. Magnete, Cratino e Cratete furono i maggiori poeti comici prima di Aristofane: l’ordine è cronologico. Magnete compose, appunto, Lidi, Mosconi e Rane.

58. Dorò (da ddron « regalo ») era un personaggio (femminile) di Cratino, per simboleggiare la corruzione; e i « calzari di fico » (in greco sycopedilo) ricor­davano « sicof ante ». Anche la citazione seguente è da Cratino, ma ci sfugge l’allusione.

59.Connas, maestro di musica di Socrate, era stato famoso: ma poi, com­pletamente dimenticato, era caduto in miseria e perciò dileggiato da Cratino, che ora viene da Aristofane ripagato con la stessa moneta. — Al centro dell’or­chestra nel teatro era l’altare (thymele) con la statua di Dioniso.

6o.Gli undici remi sarebbero le dieci dita, cioè le mani, e la lingua: dun­que, applausi e grida.

61.Poseidon (cui erano dedicati due famosi santuari: sul capo Sunio, oggi « ~po Colonne » dai resti del tempio, a 62 km da Atene, all’estremità orientale dell’Attica; e sul promontorio Gerestio, all’estremità meridionale dell’Eubea) èqui invocato come protettore delle regate di triremi (che lo stato noleggiava ai concorrenti) nella rada del Sunio, e delle gare ippiche che avevano luogo, le une e le altre, ogni quattro anni, in occasione delle grandi Panatenee, la festa nazio­nale di Atene. E, oltre che in generale, come dio del mare, sul quale si affermava la potenza ateniese, egli è caro e propizio a Formione, vincitore nel 492 sulla flotta corinzia a Naupatto: il trionfatore offrì a Poseidon una delle navi nemiche catturate.

62.Le Panatenee culminavano nella cerimonia dell’offerta del peplo, ricaL mato dalle ranciulle ateniesi e recato sull’Acropoli, alla statua della dea, da un solenne corteo, che fu ritratto da Fidia e dai suoi collaboratori nel fregio del Par­tenone, a simbolo della gloria e della pietà di Atene.

63.Cleeneto era il padre di Cleone e non aveva alcuna autorità in Atene. La proedria era il diritto di sedere a teatro nella prima fila, insieme con le auto­rità religiose e civili e con gli ospiti di riguardo, accordato a cittadini benemeriti.

64.0 Pallade. . . : inno a Pallade Atena, patrona e protettrice della città, che il poeta associa nella preghiera a Poseidon, perché entrambi veglino su Atene.

65.dei nostri cavalli: per non lodare se stesso, il Coro, composto di Cava­lieri, loda i propri cavalli, a proposito del fatto d’arme ricordato a pagina 33 (vedi nota 33).

66.S~ìnforas era detto il cavallo marcato col sigma.

67.Granchio era forse un soprannome dei Corinzi, gente di mare.

68.spetezzò invece di « starnutì »: lo starnuto da destra era ritenuto di buon augurio: cfr. Senofonte, Anabasi III 2, 9; Catullo ~ ~.

69.alici: più esattamente, qui e altrove, vale « minutaglia di pesce ».

70.La dea Atena, naturalmente.

71.La Cacciatrice è Artemis.

72.divoro invece di « sbatto fuori ».

73.proedria: queste di Aristofane circa la proedria e il vitto nel Pritaneo sono le uniche testimonianze sugli onori accordati a Cleone dopo la famosa vit­toria di Pilo: e non c’è motivo di metterle in dubbio. Ché anzi, se non fossero vere, l’allusione non avrebbe valore.

74.largo o stretto: per grasso e magro, ricco e povero.

75.rame d’ulivo: lX< iresione », fasciata di bende di lana e adorna dei frutti di stagione (castagne, noci), che in ottobre-novembre un coro di fanciulli recava in offerta agli dèi; l’iresione si appendeva anche alla porta di casa, dove restava fino all’anno seguente.

76. ingoia fichi secchi: il significato dell’espressione era incerto e discusso già per gli antichi commentatori: una delle spiegazioni più attendibili allude a un gioco di ragazzi, consistente nel lanciare per aria un fico e acchiapparlo in bocca.

77.accostati di bordo: appunto per lasciar cadere di colpo, dall’alto di ap­positi bracci, i delfini (grossi blocchi di ferro o di piombo, detti così dalla forma) sulla nave avversaria.

78.Cinna e Salabaccò erano due note prostitute.

79.Nel Ceramico (quartiere dei vasai) interno, in città, sorgevano le tombe e i monumenti dei morti in guerra; quello esterno era invece luogo di donne di malaffare. E quindi si riferisce a quest’ultimo.

8o.che furono a Salamina, e che tanto si logorarono sugli scanni delle navi nella famosa battaglia del 28 settembre 480.

81.giare, tane, catapecchie: dal principio della guerra, in seguito alle an­nuali invasioni degli Spartani, i profughi dalle campagne, rifugiati in Atene, abi­tavano in condizioni miserevoli: cfr. Tucidide 11 17 e 52.

82.a cinque soldi: quando sarà padrone di tutto il Peloponneso, al centro del quale era l’Arcadia. Ad Atene, pigliava solo tre soldi per seduta: cfr. no­ta ~‘.

83.« Popolo d’Argo.. »: parodia di Euripide (Tele fo).

84. Per Temistocle cfr. sopra, nota i~ qui ricorda, scherzosamente, le bene­merenze di lui verso Atene e particolarmente la costruzione (vedi le astuzie da lui usate per ingannare gli Spartani, nel racconto di Tucidide I 90 sgg.) delle «Grandi mura» che collegavano ad Atene al suo porto. — Dividendoli con mura non è da prendere alla lettera, ma è metaforico per dire « distruggendo la loro concordia », rendendoli nemici l’uno contro l’altro.

85.in regalo da Mitilene: nel 428, Lesbo, alleata di Atene, era passata a Sparta. L’anno dopo, ridotta all’obbedienza dalla flotta ateniese la città ribelle, Cleone ne propose la completa distruzione e l’uccisione di tutti i cittadini. Ma finì per prevalere il partito più moderato (relativamente: uccisi più di mille prigionieri, abbattute le mura, prese le navi, diviso il territorio fra i coloni ate­niesi e infine un grosso tributo: cfr. Tucidide III so), al quale Cleone, non ancora abbastanza forte, dové cedere. Aristofane insinua che egli sarebbe stato, invece, corrotto.

86.gli scudi con tutte le cinghie: pronti per essere imbracciati e usati da gente sediziosa. Questi scudi erano stati appesi nel Portico Pecile, dove, sei secoli dopo, li vide ancora Pausania (I is).

87.giocare « al coccio »: cioè mandano in esilio con l’ostracismo.

88.rimestano: anche Aristotele (Storia degli animali VIII 2, s) afferma che le anguille muoiono nell’acqua torbida e perciò i pescatori, per prenderle, rime­stano il fondo.

89.Il silfio, forse la Feruda Tingitana L., nasceva spontaneo in Cirenaica, di cui costituiva la principale esportazione: Cleone, quindi, avrebbe promosso rap­porti commerciali con quella regione. La pianta, usata in medicina e per condi­mento, produceva diarrea e fiatulenza.

90.Rosso: Cleone, che, a quanto pare, era rosso di pelo.

91.La trierarchia era una prestazione molto gravosa, che, per questo mo­tivo, gli strateghi appioppavano talvolta a cittadini cui volevano rendere un cat­tivo servizio.

92.per Zeus. . . : formola ateniese di giuramento solenne, ripetuta qui tal quale, fuori metro.

93.grasso di bue: intraducibile gioco di parola fra démos (« popolo ») e demòs (« grasso di bue »).

94.Cleonimo era spendaccione, gaudente, delatore, ladro, ecc.: cfr. 72, 75, e nota 134.

95,Era un uomo, Smicito, di cui Aristofane volge il nome al femminile, per bollarne i sozzi costumi; e il patrono (di cui Smicito aveva bisogno in quanto privo, come donna, di capacità giuridica) era degno di lui.

96.L’armonia dorica era grave e solenne: ma a Cleone piaceva solo per la ragione adombrata nel seguente gioco di parole, tradotto alla meglio.

97.Per Bacide cfr. nota i6. Glanide è inventato per l’occasione e per l’as­sonanza: era un pesce.

98. rosicchja oracoli: secondo lo scoliasta, i cani, chiusi fuor di casa, rosic­

chiano la porta per entrare: ma forse il testo è corrotto.

99. Vice-leone: di questo Antilèon lo scoliasta dice che era uomo malvagio

e faccendiere. — Il muro di legno e il baluardo di ferro sano le navi e le armi, secondo un oracolo simile che fu già dato al tempo di Salamina e che Temistocle così interpretò.

100. Il legno a cinque buchi, uno per il collo e quattro per gli arti, era la gogna.

101. Anche una donna.. . in collo: verso desunto dalla Piccola Iliade, dove una fanciulla celebrava il valore di Aiace (Nicia) come superiore a quello di Odisseo (Cleone). Più sotto c’è un gioco di parole, che in greco è molto più efficace, fra chesazto (cacaret) e machèsaito (pugnaret). Tradotto alla meglio èanche il gioco di parole che segue fra Pylos (Pio) e pyelos (< tinozza da bagno »).

Il verso « Dinanzi a Pilo... » è un oracolo popolare, che giocava sul fatto di tre città, aventi lo stesso nome Pila, di cui due nell’Elide e una in Messenia.

102. Filostrato era il padrone di un bordello in Atene: cfr. Lisistrata nota 86, dove e indicato col solo soprannome.

103. Nei momenti di bisogno, Atene inviava navi ad esigere dai federati tributi ordinari e straordinari: e gli esattori guadagnavano molto per proprio conto.

104. « versa. . . concava »: si traduce alla meglio un gioco di parole, piutto­sto insipido anche nel testo, fra Kyllène (città in Arcadia) e kyllè (sottinteso

« mano »), cioè la mano « cava » di chi chiede l’elemosina. Diopite, uomo vorace e amico di Nicia, vuoi dire «obbediente a Zeus ».

105. Il Mar Rosso, parte dell’Oceano Indiano, formava il Golfo Arabico, il Golfo Persico e i Golfi di Barigaza e di Barace sulla costa occidentale dell’India:dunque fino agli estremi confini orientali sarebbe giunta la potenza d’Atene. Ecba­tana era una città di favolose ricchezze, per i Greci.

106. tu... nuovo: il verso è parodiato dal Peleo di Sofocle.

107. Teofane: era, a quanto pare, una specie di segretario di Cleone: e co­munque, suo degno compare.

108. e stai.., va via: già Salone aveva detto qualche cosa di simile agli Ateniesi.

109. zazzere: i Cavalieri portavano i capelli lunghi, per snob.

110. Ecco, io ti porto... : ciascuno dei due contendenti serve qui a Popolo, rispettivamente, la lista completa di un lauta pranzo ateniese. Paflagone: polenta di piselli (che si mangiava con gallette d’orzo cavate a forma di cucchiaio), pesce, focaccia, torta grassa; Salsicciaio: brodo (con gallette c. s.), carne lessa, frattaglie, vino, torta al formaggio, lepre (che serviva da dessert).

111.dalla dea: l’Atena crisoelefantina di Fidia, nel Partenone.

112. La combattente di Pila (Pylaimàchos) è rifatta allusivamente su Prò­machos (« la Protettrice »), che era epiteto solito di Atena.

113. Credi tu... : parodia dell’inizio di una famosa elegia di Salone.

114. « Terror degli eserciti », come i due seguenti, sana epiteti di Atena.

I 15. «tre e due »: due parti di vino e tre di acqua era la mescolanza miglio­re fra quelle usate dai Greci, richieste dai densi e generosi vini del paese.

116. « Trovami . . . »: parodia tragica.

117. « Della dea !u... »: parodia tragica.

118. «Ed io. . . »: parole di ignoto poeta, forse lirico, in dialetto dorico.

119. «0 Febo Apollo... »: versa del solito Tele fo euripideo. Anche i due versi che seguano sono parodia tragica.

120. « Ahimè, del dio. . . »: verso di fattura tragica. Il seguente è del Bellero fonte di Euripide. E i versi seguenti fanno parodia del famosa addio di Alcesti al talamo nuziale.

121. « O Zeus Ellenio ... »: verso di stile tragica.

122. Fanòs: «delatore », secondo l’etimologia; era segretaria di Cleone.

123. Boccaperti: gli Ateniesi: cfr. nata io8.

124. Lisistrato e Teornanti erano due poveri diavoli.

125. Arignato era un buon citaredo, molta noto. Il fratello Arifrade, forse poeta comica, era nato invece per tutt’altro motivo.

126. Oionico era, secondo lo scoliasta, uno svergognato della stessa risma.

Palimnesto di Colofone, vissuto intorno al 650 a.C., fu uno dei fondatori della

citarodia ionica e autore anche di fornai e di elegie, ricordato da Alcmane, Pindaro e Cratino. Che egli fosse autore di canti licenziosi non risulta, ed è forse confu­sione dello scoliasta.

127. li versa è parodia di Euripide, Ippolito 375.

128. «Non avete udito. . . in città »: versa dell’Alcmeone di Euripide.

Iperbolo mercante di lucerne, qui detto Aceto, per il sua carattere acido e aggressivo, era un demagogo, guerrafondaio carne Cleone.

129. Del fumo delle vittime bruciate sugli altari.

130. l’ho fatto bello da brutto: per magia, come aveva fatta Medea per ringiovanire Esane, padre di Giasone, e come aveva consigliato, per vendetta, alle figlie di Pelia di fare con il loro padre.

131. 0 fulgida e cinta di viole: l’epiteto, già di Afrodite e delle Muse, èdato da Pindara in un ditirambo ad Atene: « O splendida e cinta di viole e celebrata nei canti, baluardo de l’Ellade, inclita Atene, città divina ».

132. Per il costume ateniese di ornare i capelli con cicale d’ora, cfr. Tuci­dide I 6, 3.

133. li Baratro era una voragine fuori della città, fra la porta del Pireo e le Lunghe Mura (sembra), nella quale erano gettati i condannati a marte.

134. Cleonimo era anche un vigliacco scappata in battaglia gettando via lo scudo.

135. Ciistene e Stratane erano due noti cinedi, spessa perciò ricordati insieme.

136. « Bravo quel Feace... »: imita scherzosamente la parlata dei giovanotti alla moda, allievi dei sofisti, che abusavano degli aggettivi terminanti in -ico per sembrate persone colte (cfr. Senofonte, Memorabili I i, ~ III i, 6): e Feace, ricordata anche da Eupali, era uno di questi.

137. andare a caccia: la caccia è considerata anche da Senofonte (Cinegetico, cap. XIII) efficace rimedio contro l’insegnamento sofistico.

138. vestito verde-rana: un vestito verde, ricamato, per le solennità.