C’era una volta un boia

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C’ERA UNA VOLTA UN BOIA

Racconto radiofonico

di RENE’ LAPORTE

Versione di B.L. Randone

PERSONAGGI

LA RECITANTE

UNA VOCE

IL RE

IL PRIMO MINISTRO

IL BOIA

IL MENDICANTE

Commedia formattata da

La Recitante                 - (la cui voce, dapprima dolce, via via si irrobustisce) Questo non è che un racconto. Un racconto calmo, né gaio né triste... Gli abbisogna una scena, che lascio un po' a vostra scelta: ciascuno di voi aggiungerà l'arredamento. La storia, non avendo limiti ed essendo priva di morale, non avrà nemmeno tempo. O, se proprio vi doveste perdere, si incline­rebbe verso un vago Medio Evo. Il Medio Evo è abbastanza comodo. I bei cavalieri usciti in completa armatura dai nostri ricordi d'infanzia, pullulano in quei secoli oscuri e guizzano e luccicano come pesci del mare... Dunque inventiamo un castello più vasto di quello della Bella Dormente nel bosco, immaginiamo delle torri aguzze e quadrate, dei tappeti ai balconi, delle corti da torneo, delle cucine piene di servitorame e, su tutto, una noia solenne, pesante come il broc­cato... Allora, vi va? Sì? Ebbene, cominciamo...

Una Voce                      - (mollo bassa) C'era una volta... (Trombe lontane. Poi della musica, qualcosa come una pavana, quella di Bavel per esempio).

La Recitante                 - È un mattino senza luce. Da un estremo all'altro delle mura, attraverso la bruma, delle trombe si chiamano. Si direbbero delle bestie perdute.

Una Voce                      - Si direbbe anche che tutto cada dal sonno. Che ora può essere?

La Recitante                 - Presto sarà mezzodì. Fra poco ci sarà il gran pranzo, col grande coppiere, col grande scudiere che affetta.

Una Voce                      - Ma perché tanto silenzio?

La Recitante                 - Il re medita.

Una Voce                      - Quale re?

La Recitante                 - Uno qualunque. Un re potente-Si trova per il momento al centro del suo immenso gabinetto da lavoro e si sente solo. Da quando s'è svegliato, si rivolge delle domande, ciò che forse non gli era mai accaduto prima. E, siccome non sa tro­vare risposta ai problemi essenziali che lo agitano, interroga i ritratti dei suoi antenati.

Una Voce                      - Vi sbagliate. Questa è la grande scena del Euy Blas.

La Recitante                 - E se anche fosse? Anacronismo più, anacronismo meno.

Il Re                              - Eh sì, sono proprio io, il re. E vi guardo, monarchi antichi e dorati, immobili e ostinatamente muti. Ma se non sapete più parlare, sapete ridere. Sì, sì... vi ho visto, principe Ottone! E anche voi, Brandomarte, che il popolo chiamò teneramente lo sfortunato, senza dubbio perché non faceste mai la guerra durante il vostro governo... Potete ridere di me, voi tutti! E che fareste al mio posto? Era facile, alla vostra epoca. La terra era più piccola, gli indo­vini più furbi e gli uomini più creduli. Per infiammare il cuore dei vostri sudditi, vi bastava avanzare verso le foreste della frontiera e portarne qualche testa di barbaro. Per trovare l'amore non avevate bisogno delle parole: le donne si appagavano dei gesti. E avevate la fortuna di credere a tutto, all'invisibile, alle fate degli alberi, alle immagini portate a spasso a dorso di nuvola... Ohimè, si incontra oggi ben maggior pena a fare la felicità dei popoli: gli uomini hanno preso gusto alla scienza, essi coltivano l'esatto. È forse per questo che non conoscono più la gioia1! Dov'è l'affetto di un popolo. Bisogna punire o bisogna ridere per essere amati? Io ho molto punito e il paese è potente. Ma Bramane, per la prima volta, mi chiedo se esso è felice. Che ne pensate voi? e allora? Non mi rispondete?

Una Voce                      - (dolcemente) Gli antenati sono come le buone favole, essi non insegnano che la pazienza...

Il Re                              - (rabbioso) Non rispondete? Questo mi irrita... Chi potrebbe rispondermi?

Voce di un Usciere       - Sire, sua eccellenza il primo ministro sollecita l'onore...

Il Re                              - Che entri.

Il primo Ministro           - Sono ai piedi della maestà vostra.

Il Re                              - Alzatevi. Capitate a proposito, signore, poiché mi accade qualcosa di insolito. Non mi chie­dete che cosa?

Il primo Ministro           - Non è protocollare, sire, inter­rogare la maestà vostra.

Il Re                              - Bene, ecco qua. D'un tratto m'è balenato qualche dubbio sul mio mestiere di re. Ma anzitutto, perché proprio io, che finora supponevo tutti i pro­blemi risolti, perché proprio io debbo pormi delle domande?

Il primo Ministro           - Lo ignoro, sire. Anche questo non è protocollare.

Il Re                              - Allora voi non ammettete un simile feno­meno?

Il primo Ministro           - Non devo ammetterlo, sire. L'onnipotenza non ha il diritto di dare asilo a un dèmone interno, a un dubbio, di dondolare per un attimo solo su un piede. Gli esseri che possiedono l'onnipotenza, non sono danzatori sulla corda. Essi hanno un equilibrio tranquillo e giammai minacciato.

Il Re                              - (dopo una risatina) Siete adulatore, caro ministro, quanto il mio filosofo di servizio. Voglio dire che, come lui, ripetete bene le mie lezioni. (Pausa) Allora, molti affari per oggi?

Il primo Ministro           - Ce n'è abbastanza per turbare utilmente la maestà vostra.

Il Re                              - Cominciamo.

Il primo Ministro           - Sfogliando i rapporti, non trovo dapprima che gli spiccioli delle nostre noie. La capitaneria segnala corsari all'ingresso dei porti. Dei lupi s'aggirano attorno alle nostre città e delle aquile rapiscono i bambini.

Il Re                              - Sempre bambini di grandi famiglie?

Il primo Ministro           - Sì, sire.

Il Re                              - (ridendo) È abbastanza curioso. Si direbbe che esse scelgano sempre, come i nostri buoni uomini d'arme, a causa del prezzo del riscatto...

Il primo Ministro           - Devo parlare alla maestà vostra delle duchesse di Corte che litigano tra loro, oppure degli intendenti prevaricatori?

Il Re                              - A questo proposito, ho deciso di dare un prezzo alla testa del governatore delle provincie occidentali.

 Il primo Ministro          - Buona giustizia, dal momento che quel governatore si è ribellato.

Il Re                              - Ma è soprattutto perché ha osato offrirsi dodici cavalli bai, mentre io non ne possiedo che sei... Appena sarà preso, lo consegnerete al boia.

Il primo Ministro           - Gli è che il boia, sire...

Il Re                              - Che c'è col boia, dunque?

Il primo Ministro           - Stiamo toccando il tasto più penoso, del quale m'auguravo appunto di parlare alla maestà vostra.

Il Re                              - Mi racconterete ancora che un duca si è lagnato perché ai ricevimenti ufficiali, il boia ha la precedenza su di lui? Sapete bene che è la mia volontà, e conoscete anche le ragioni di tale ordine.

Il primo Ministro           - Ragioni sagge, sire. Ma...

Il Re                              - Ma che cosa? Parlate chiaramente.

Il primo Ministro           - Vostra maestà non è certa­mente al corrente del vero scandalo che l'esecutore di alte opere ha causato, avantieri, al ballo di corte. Dall'alto del trono, non si può veder tutto.

Il Re                              - (scherzando) Siete il mio occhialetto, una assicurazione contro la miopia. Via, dite ciò che sapete.

Il primo Ministro           - Vostra maestà ricorda il rego­lamento da vostra maestà così giudiziosamente impo­sto. Tale regolamento precisa che alle feste reali, il boia prenda il posto del re alla terza quadriglia, quella che segue immediatamente la quadriglia dei prin­cipi del sangue. (Vaga musica di fondo) Ora, quando il ballo cominciò, il boia rimase seduto al suo posto. Tentava di non entrare nella danza. L'ordine della festa è compromesso, il primo ciambellano è fuori di sé, corre dal boia, insiste. Il boia si fa pregare.

Il Re                              - Forse non stava bene.

Il primo Ministro           - Così infatti disse. Ma il ciam­bellano non ha ammesso scuse e si è mostrato così deciso che il boia ha ceduto... Ohimè, perché il cielo non ha permesso che il boia non si incaponisse nel suo rifiuto?

Il Re                              - Non vi capisco.

Il primo Ministro           - Disgraziatamente è molto semplice, sire... A tutta la corte, agli ambasciatori che ridevano sotto i baffi, alla folla che guardava dalle finestre, cui l'etichetta non impedisce di ridere se ne ha voglia, il boia ha offerto lo spettacolo della sua decadenza. Aveva il fiato grosso, lo sguardo sper­duto, le mani tremanti. Per la sua goffaggine, tutto il ballo ne ha risentito... Si rideva troppo. Ed è questo che inquieta.

Il Re                              - Adesso vi capisco. Ma a cosa attribuite questa mancanza del mio miglior servitore?

Il primo Ministro           - È invecchiato, sire.

Il Re                              - È invecchiato? È grave.

Il primo Ministro           - Certo ha ancora l'aspetto della forza. Ma per chi lo conosce bene, appare già sul suo volto, nei suoi occhi, che un lavoro sotterraneo sta compiendosi. Il tempo lo mina.

Il Re                              - (distratto) Ah! Queste notizie mi inquietano... Sì, sì... i giorni sembrano accumularsi su di noi senza portar danni... Ma la galleria viene scavata segreta­mente e un bel mattino si produce il crollo. Ancora una volta si parla di fatalità, mentre nulla è inatteso: il destino non è che un difetto di preveggenza...

Il primo Ministro           - (insistendo) Domani, fra una settimana, fra un anno, il boia andrà al suo lavoro come un lottatore fallito.

Il Re                              - Fra un anno, fra una settimana, domani... È vero, bisogna pensarci in tempo. (Forte) Fate venire il boia.

Il primo Ministro           - Ma... e il consiglio della corona?

Il Re                              - Il consiglio aspetterà. (Trombe lontane come all'inizio. Forse sono le trombe del secondo atto del Lohengrin).

Il Boia                           - Vostra maestà avrebbe bisogno dei miei servigi?

Il Re                              - Ah, eccoti qui, boia. Avvicinati, che io ti guardi. (Pausa) Non c'è dubbio, m'hai servito in modo eccellente...

Il Boia                           - (che al principio si sentirà a suo agio, corti­giano, frequentatore del gabinetto reale) Nella pena stessa del mio servizio, sire, ho trovato il mio ordine e la mia pace.

Il Re                              - Ti sollevavi sulle rovine sorridendo della violenza, poiché tu non eri violento che per disegno. La collera, la vera collera, quella dei delitti, è un errore passionale, la peggiore delle debolezze... Ma tu portavi un'uniforme, boia. Io ti fornivo una sorta di gloria. E questo, h o paura che tu l'abbia dimenticato. Il Boia    - Sarei incorso in un dispiacere per la maestà vostra ?

Il Re                              - Eppure, con te ho dei buoni ricordi...

Il Boia                           - Mia figlia e la mia casa non mi sono più care che l'esistenza della maestà vostra.

Il Re                              - I giorni di esecuzione capitale, non tardavi ad apparire davanti alla folla, sorridente, ben vestito, ben pasciuto, con le mani guantate come per un ballo. Non si resisteva alla seduzione del tuo passo ben bilanciato, alla tua armoniosa comprensione della morte. Non eri un boia, tu, ma un addormentatore, un prestidigitatore che agitava nelle maniche i sonagli dell'ai di là.

Il Boia                           - (sempre cortigiano, ma un po' familiare) Taluni, sire, ridevano di tanta pusillanimità: mi si paragonava a un manichino di moda.

Il Re                              - (ridendo) E si che moda, perbacco; una moda che non rischiava certo di passare!

Il Boia                           - C'è comunque della gente che non mi ammira, sire...

Il Re                              - Sì, lo so, certuni t'hanno accomunato nell'odio che mi portano. Ricordi la mia incoronazione?

Il Boia                           - E come dimenticare, sire, che la maestà vostra ha gloriosamente inaugurato il suo regno ordi­nando la morte di dieci gentiluomini delle Terre Basse, che avevano avuto l'insolenza di bruciare vostra maestà in effige? Quanto da fare per me quel giorno!

Il Re                              - (ridendo) I miei amici raccontano che sul luogo del supplizio, è nato un salice piangente la notte stessa che seguì l'esecuzione e l'incoronazione. Che prodigio!

Il Boia                           - Con cattiveria aggiungono che quel ridi­colo albero ha gli stessi miei modi.

 

Il Re                              - (più serio) Comune misura della gloria! Per tuo mezzo, ho potuto fare del bene. Per tuo mezzo, ho rispettato la vecchia politica degli antenati. E tutto ciò, per arrivare a che? Sì, lo so... il popolo mi ama. E ama anche te. Ti ama come il mio riflesso. Siamo associati, più attaccati l'uno all'altro che il profilo della regina e quello mio sulle monete. (Con voce grave e un po' angosciata) Se tu cambi, io cambio.

La Recitante                 - (dolcemente) Qui, per la chiarezza del racconto, mi sento obbligata ad intervenire, poiché i dialoghi non traducono mai ciò che avviene nell'interno delle anime. Così, niente trucchi di regia. Non siamo a teatro, non siamo nei libri. Siamo fra due acque: fra la vita e il sogno... Diciamo dunque le verità del di dentro, poiché ci è permesso. Diciamo, per esempio, la verità del boia. Il boia è inquieto, malgrado il suo tono spigliato. È la prima volta che il suo signore gli indirizza la parola tanto a lungo. Senza dubbio, in pubblico, il re non dimentica di sor­ridergli, tanto per far arrabbiare i gentiluomini del seguito. Ma, in privato, il re è tagliente, scortese. Condanna a morte con un cenno della testa, un gesto della mano, che il boia comprende a volo. Quando il re stringe le dita, è che ha scelto la strangolazione come supplizio; per il taglio della testa, invece, egli lancia la mano da sinistra a destra orizzontalmente; per l'impiccagione, solleva il braccio a scatti. Che vogliono dunque dire oggi queste confidenze, quando in anticamera attendono importanti ambasciatori d'Oriente? Nel sontuoso costume ornato d'ermellino e di vaio, il boia si sente malgrado tutto un povero diavolo. Tanto più che il re abbandona d'un tratto il tu, ed è cattivo segno.

Il Re                              - Andiamo, andiamo... Avvicinatevi ancora... Sì, è vero, siete invecchiato. Ma per fortuna ne sono stato avvertito. I ministri, signore, m'hanno raccontato che non ce la fate più. Essi sanno tutta l'im­portanza che concerne il mio diritto di morte, questo diritto che è la mia ragione regale.

Il Boia                           - (umile) Si tratta senza dubbio del ballo a Corte, sire?

Il Re                              - Esattamente. Avete tentato di non ballare. Non negate: ho i testimoni. E non accusatemi di puerilità.

Il Boia                           - Oh, sire!

Il Re                              - I grandi avvenimenti non hanno ragioni meno vane, quando si riferiscono alla lunghezza del naso di una Cleopatra o alla sete di viaggi d'un Attila.

Il Boia                           - La mia debolezza aveva qualche scusante... Il parere dei medici, sire...

Il Re                              - (con una risata sardonica) I medici del signore! Come potrebbe esser comico: un boia che ha bisogno di cure! Ma non ho affatto voglia di scherzare.

Il Boia                           - Mi vergogno, sire.

Il Re                              - E io? Arrossisco per voi di un'onta che rischia di colpirmi di rimando. Amavo, senza para­dossi, l'eleganza che manifestavate nell'esercizio di una professione, nella quale, a prima vista, l'eleganza sembrerebbe inutile. Ma lasciamo andare. La ragion di Stato mi forza a sospendere la discussione.

Il Boia                           - Sire, non sono che un uomo, un pover'uomo, il vostro strumento, e giustamente quello della vostra ragione. Se dovete condannarmi, accetterò senza mormorare...

Il Be                              - Non si tratta di voi... Importa poco, dopo tutto, che le mie guardie abbiano più di due metri di altezza, che i reucci dei dintorni mi regalino degli orologi a polvere e delle tazze d'oro massiccio, che i miei astronomi mi annuncino che ho la mia stella in cielo, enorme stella che porta il mio nome in mezzo agli astri minuscoli della notte. Poiché ecco qui dei materiali assai fragili per elevare il monumento alla mia memoria... Una volta chiusa la mia tomba, io resterò solo se il mio nome, il mio solo nome, potrà ancora far chinare le teste, turbare i sonni più inno­centi. Siete dunque voi, anzitutto, che siete me, dal momento che rappresentate la mia forza. Non posso sopportare che vi incurviate come gli altri uomini. Impiccare e regnare: marciavamo insieme. È questo che avreste dovuto capire in tempo. Durare, signore, bisognava durare...

Il Boia                           - Obbedirò umilmente agli ordini di vostra maestà.

Il Be                              - Ritiratevi. Il vedervi mi fa orrore e mi indebolisce! Mi forzate a pensare che un giorno scom­parirò e forse prima che la mia potenza si sia affer­mata anche al di là del regno dei morti. Voi fate crollare il mio sistema. Ciascuna delle vostre rughe va a trovare il suo posto sulle mie proprie guance. E presto avrò il flato grosso, come voi. Insomma, avete commesso un delitto di lesa maestà... Ritira­tevi, vi dico... Non mostratevi più a nessuno. Dietro alte muraglie, datevi al giardinaggio. D'ora innanzi non avrete più che fiori da tagliare... (Musica di fondo).

La Recitante                 - E il boia s'inchinò. Uscì, per l'ul­tima volta dalla porta segreta, privilegio che aveva diviso solo con le favorite e il tesoriere dei fondi speciali. (Di nuovo le trombe lontane, per sottolineare il cambiamento di scena. Successivamente, prima fur­tivo e poi avvicinantesi, un grattar di chitarra) Come l'infelice boia, per tornarsene a casa, attraversava la piazza del palazzo, un giovanotto pallidissimo, un mendicante, gli s'avvicina e gli scocca, come una freccia, un'aria di chitarra, un'aria breve, metallica, lacerante, che lo penetra dolorosamente. Il boia ha un brivido involontario, mentre il mendicante lo osserva sorridendo.

Il Boia                           - (fra i denti) Uccellacelo del malaugurio!

Il Mendicante               - (ironico) Gli uccelli non portano mai male. A proposito, sarebbe proprio ora di ria­bilitare il corvo che non è certo l'annunciatore di drammi umani, ma il veicolo della conoscenza, il corvo che può traversare i cieli plumbei di novembre per decine e decine di anni, senza mai stancarsi di guardare e d'apprendere (L'aria da chitarra continua. Si capisce che essa ritma il passo dei due uomini).

Il Boia                           - Perché mi segui? E innanzi tutto, di dove esci, miserabile'? dovresti sapere che il mio paese non ha mai tollerato gli inutili, né gli infermi, né gli affamati, marchio della debolezza di uno Stato.

 Il Mendicante              - Ti chiedi anzitutto che cosa faccia la polizia del tuo re? Essa ricerca e respinge fuor delle frontiere i professionisti del sogno, i farabutti con guance scavate dalla miseria o da una fiamma interna.

Il Boia                           - (dogmatico) Sei proprio scimunito, amico! La povertà è un esempio seccante per un popolo che serva non l'amore, non la bellezza, ma la potenza.

Il Mendicante               - Tà, ta, ta, sei proprio sicuro di ciò che stai dicendo, di ciò che stai ripetendo come una lezione mandata a mente? Guarda, ora levi la testa a guardare i templi che fiancheggiano la nostra strada. Cerchi forse un soccorso? Ebbene, ma guar­diamo insieme questi templi. Non vi si onora che un Dìo, l'uomo. Essi son vuoti d'attributi religiosi e di astratte adorazioni. Essi son destinati solo a festeggiare la creatura umana...

Il Boia                           - Perfettamente, la creatura umana, questo meraviglioso motore, che può girare senza l'aiuto di una corrente caduta dal cielo per caso o per capriccio.

Il Mendicante               - Ancora una frase del tuo re o dei suoi filosofi giurati! Spiegala dunque.

Il Boia                           - È in quelle vaste sale nude che i giovani, i più forti della nostra nazione, dimostrano con eser­cizi sportivi l'inanità dell'inquietudine metafisica; che essi salvano il loro prossimo dalle peggiori malattie morali, dalle peggiori affettazioni di sensibilità. Felice paese, credo.

Il Mendicante               - (sempre sardonico) Felice paese, è vero! Non vi si insegna ai bambini a pregare, né a rispettare la sofferenza, né a sostenere il debole. Vi sì riderebbe se un padre osasse imporre al figlio un insegnamento qualsiasi del cuore... Si riderebbe o si griderebbe allo scandalo.

Il Boia                           - (scandendo le parole) Questo popolo è assai incivilito. Non sogna. Non canta.

Il Mendicante               - Me ne dispiace per lui.

Il Boia                           - La domenica, non si intenerisce lungo i fiumi. La ricchezza brilla ovunque. È un popolo forte che condanna i viaggi di piacere, che non è corrotto dalla scolastica. Non conosce la carestia. Da set­tembre a luglio, la terra gli regala immensi raccolti.

Il Mendicante               - E basta?

Il Boia                           - Le montagne, a tempo debito, s'aprono per vomitare oro e ferro.

Il Mendicante               - E basta?

Il Boia                           - Mentre altrove, in contrade meno favo­rite, la notte genera il terrore, anime fameliche, fan­tasmi irragionevoli, qui, in questa città, il sonno ogni notte, come un immenso uragano, corica in un sol blocco gli uomini nel loro nulla, nel riposo beato in cui gli angeli guardiani non hanno niente da fare!

Il Mendicante               - Hai un bel dire, boia, ma sei terribilmente inquieto. La mia presenza t'importuna.

Il Boia                           - Oh, non più di quella di una zanzara.

Il Mendicante               - Ma pensaci. Una sola zanzara basta a rovinare tutta una lunga notte, tutto un lungo sonno.

Il Boia                           - Bah, e non sono, dopo il re, l'essere più considerato del paese?

Il Mendicante               - Al fatto, vecchio uomo. Già dimentichi che non hai più il posto?

Il Boia                           - (stupefatto) E come lo sai? Nessuno è ancora al corrente...

Il Mendicante               - So ancora molte altre cose... Lo vedrai fra poco.

Il Boia                           - Anche se tu avessi l'assurdo potere di attraversare i muri, d'integrarti nello spessore delle pietre, di respirare comodamente nel fondo dei mari, non m'impressioneresti affatto. È indubbio che domani sarò rimpiazzato. Ma, dopotutto, il re ha ragione: è meglio sparire dalla festa prima che l'atroce luce dell'alba accusi la fatica del viso... Non provo amarezza. Leggero come un'idea, continuo nel boia di domani. Tutto continua.

Il Mendicante               - Figurati, poveraccio, che potrei facilmente dimostrarti il contrario. Oggi c'è una rot­tura nel sistema, proprio oggi perché sono venuto.

Il Boia                           - Che vuol dire? Ma, anzitutto, che vuoi da me? (Aria ironica dalla chitarra) Che vuoi da me, che vuoi da me? Ho fretta.

Il Mendicante               - Fretta? È da vedersi. Si ha fretta solo quando si cerca la verità, e non mi par proprio il tuo caso, boia!... Cosa voglio? Illuminarti, solo illuminarti, liberarti un momento dal rigore che oscura la tua intelligenza. E darti anche il senso delle sfumature.

Il Boia                           - Mille grazie di tanti regali. Non so che farmene.

Il Mendicante               - Ti sei condannato a non sentir più niente del canto della vita, da quando sei il valletto della morte. Sei diventato un uomo che ha le idee nette, volentieri semplici, che vede il nero e il bianco, mai il grigio. La vera giustizia, capiscimi, è forse il colore di mezzo.

Il Boia                           - Ah! Sei la rivolta!

Il Mendicante               - Ancora un difetto di sfumatura: saprai presto chi sono. Qualcosa o qualcuno di per­fettamente ortodosso... Vengo nella tua città non per mendicare, ma al contrario, per fare la carità, per diffondere le elemosine.

Il Boia                           - (ridendo) Cencioso! Fa vedere gli scudi che hai!

Il Mendicante               - (ridendo anch'esso) Scudi, ne ho più che d'erba in un prato! Ma d'un metallo che non hai mai visto brillare... (La sua voce s'ingrandisce, s'impone, è quasi come un canto) Da domani inco­mincerà il mio daffare. Comincerò dai più deboli, le donne e i bambini. Per le donne, evocherò gli eroi, i temerari, i cercatori di talismani. Dirò alle donne che esiste il languore, la primavera, le lunghe soste sulle rive di un lago, il piacere del sacrificio e il gusto del dolore! Eh sì, cocciuto boia, il gusto del dolore! Ai bambini racconterò i miei viaggi, li farò sbarcare in quelle terre della fame e della sete dove l'uomo non ha per difesa e per promessa che la sua natura. Tutte queste anime le farò montare come il lievito. E presto anche gli uomini saranno raggiunti. Gusteranno sulle labbra delle' loro donne un profumo nuovo, più caldo, più attirante. Nelle canzoni dei loro bimbi ascolteranno parole sconosciute. Lentamente il loro sonno sarà turbato, cioè popolato di meraviglie. E succederà anche che a mezzo il giorno, senza saper perché , cominceranno a seguire il volo degli uccelli, a desiderare quella fuga a triangolo e cominceranno a detestare la loro pesantezza. Non chiamare i tuoi poliziotti. Sono prudente. Ho tempo, so aspettare. E posso anche cambiar faccia... Domani sarò forse dentro di te e tu non mi vedrai.

Il Boia                           - (turbato e insieme violento) Taci. Quel che dici è impossibile.

Il Mendicante               - (trionfando) Dì, guarda quella donna. È al tuo bell'abito, è alla mia miseria che sorride?

Una voce di Donna       - Buongiorno, straniero. Vieni a bere, se hai sete.

Il Mendicante               - E guarda quel bambino.

Una voce di Bambino   - Buongiorno, signore d'ol­tremare. Con quale nave siete venuto? Don Giovanni, quando sbarcò, portò la tempesta. Con voi, il mare è rimasto calmo.

Il Boia                           - (esasperato) Tacete tutti! (Aria di chi­tarra) E dove ti sei cacciato, mendicante? Non lo vedo più. Quel bel tipo è scomparso. Si direbbe che mi sia scivolato via dalle mani. (Oon voce poco con­vìnta) E se non fosse stato che un sogno?

La Recitante                 - (sempre più dolcemente fino alla fine) Eh, no, boia, sai bene che non hai affatto sognato... Il boia vuol ridere. Ma la sua risata manca di fran­chezza. È forse già...? Allora una grande tristezza lo invade. Questo giorno gli porta insieme la fine della sua fortuna e il fallimento dei suoi principi. È forse l'ultimo rappresentante di un mondo che per cecità era innocente? La morte non è forse più facile a dare che il sogno. In ogni caso son incomin­ciati or ora tempi difficili. Il mendicante non è una creazione dello spirito. Il mendicante esiste, cammina per la città, guarda i vivi, si fa compatire e ammirare.

Il Boia                            - Che succederà dunque a questo popolo che non è certo più protetto di altri, al centro del quale, come un verme nel frutto, la miseria può tracciarsi una strada?

La Recitante                 - Il boia sogna con amarezza che quarant'anni di buon lavoro, di incommensurabili lunghezze di corda intrecciata e centinaia di teste spiccate non hanno servito a nulla. E, disperato, tornando a casa, quella sera stessa... (Silenzio).

Una Voce                      - Quella sera stessa?

La Recitante                 - Quella sera stessa si impiccò.

La voce del Bambino di prima          - (canticchiando) Il boia s'è impiccato, ed ora è senza fiato...

La Recitante                 - Vuoi star zitto, tu? Vuoi star serio?

Una Voce                      - (molto bassa) Perché star serio? Non lo avete detto voi stessa, al principio: questo non è che un racconto... Un racconto calmo, né gaio, né triste...

 (La pavana come al principio).

FINE