Ciò che non si può dire
Il racconto del Cermis
Di
Pino Loperfido
Per gentile concessione delle Edizioni Curcu &
Genovese - Trento
Scena 1
Che strano... Non pensavo fosse tanto difficile. Sapete, sono un po’
all’antica. Prima di parlare voglio sempre essere certo di quello che sto per
dire. È per evitare le figuracce. Non per altro. Di solito conto fino a cinque
prima di proferire parola; fino a sette-otto nei casi più seri.
Non so cosa vi abbia portati fin qui: la curiosità, forse. Non sapevate come passare
la serata. Oppure siete animati da qualcosa di più profondo: una voglia
sconsiderata di sapere, di ascoltare, di capire... Ed io cercherò di non
deludere le aspettative.
Paul Newman .... Paul Newman! Io l’ho incontrato Paul Newman, non ci crederebbe
nessuno, ma una volta l’ho incontrato! Sì, proprio lui, il mio idolo. Ho
conosciuto Paul Newman. Al piccolo cinema dell’Oratorio avevo visto tutti i
suoi film: “Lassù qualcuno mi ama”, “La Stangata”, “Butch Cassidy”, “Lo
spaccone”.
“Indovina un po’ chi abbiamo oggi a bordo?”, mi fa un giorno lo chef.
E siccome conosceva la mia grande passione cinematografica, lo chef mi ha
lasciato cucinare il pranzo di Paul Newman, roba da non credere. Gli ho fatto
delle penne all’arrabbiata che devono averlo colpito. Mi ha fatto chiamare. Io
mi ero preparato carta e penna per un autografo con dedica che avrei senz’altro
mostrato a tutti a Cavalese.
“Tu bravo cuoco italiano”, mi fa.
“Sono trentino”
“Oh, trentino... trenette col pesto!”
“Sì, buona notte!”
Bisogna dirle subito le cose. Tenersele dentro è faticoso e fa male. E dovevo
dirglielo che le trenette al pesto sono genovesi e non trentine.
Paul Newman... Chi è che non ha mai sognato di fare l’attore? Da bambini si
fanno sempre pensieri strani. Anche da grandi, d’accordo... basta poco a fare
sogni di gloria grandi così. Se chiedi a un bambino, diciamo di quattro o
cinque anni...
“Eh! Bocia! Cossa te voi far da grant?”
“Miii?! ‘L pilota, no?!”
Non lo trovi mica quello che vuol fare il contadino o l’operaio. No, sono concetti
astrusi.
E io volevo fare l’attore. Volevo essere come Paul Newman.
“Cossa te piaserà de quel là. Te sarai miga ‘n recion?!”
Perché al mio papà pure ‘sto dubbio gli era venuto.
Passavo delle ore davanti allo specchio a cercare un indizio, uno straccio di
somiglianza. Facevo smorfie, pronunciavo improbabili frasi in vero inglese
della val di Fiemme. Il papà tornava dai boschi mi vedeva in quello stato e
scuoteva il capo, io gli puntavo indice e pollice tutto contento, gli urlavo
frasi da copione che non esistono: “Arrenditi, maledetto!” oppure “Sei fregato,
amico!” Lui alcune volte stava al gioco e si buttava per terra fingendosi
colpito a morte, altre volte
“Ehi! Paul Newman, ‘nem a portar su la legna!”
Scena 2
Casse da venti e anche da trenta chili, possono essere un bel peso per un
ragazzino! Ma papà non voleva sentir ragioni. Fermo come una statua, il mio
papà. Aveva nevicato da poco. Era il nove di marzo 1976. Beh, insomma, quel
pomeriggio sono là che fatico sulla legna e a un certo punto, sento un tuono.
Poggio la cassa. Mi raddrizzo. Mi volto verso papà e gli dico “Papà sarà meglio
muoversi”. Lui non dice nulla. A pensarci adesso, non si muoveva neppure.
Poi, sento l’eco. Era un tuono con l’eco. Mi sposto di qualche metro e guardo
verso il Prà dei Laresi: non si vede niente di strano. Eppure il rumore... non
vorrei sbagliarmi, ma sembrava... aspetta un momento... sembrava proprio quello
di una frusta. Sì, ecco.
“Oh, matel, desbranete con quele casete”.
Ho un presentimento. Un’angoscia profonda che mi prende dentro.
“Francesco, Francesco!”
“La mamma”. Mi sta chiamando.
Siamo abbastanza distanti da casa, eppure riesco a sentirla. Corro fino al
limitare del bosco, giro dietro all’ultimo tronco e riesco a vedere la casa.
“Francesco!”, mi richiama, “Francesco”! Questa volta sento molto meglio. E la
vedo pure, che si sbraccia come a dirmi “Vei, corri!”.
Inizio a correre. A testa bassa. Respiro con la bocca spalancata “Cosa c’è,
cosa c’è?!” E poi, siccome lei continua a gridare, comincio a farlo anch’io:
“Mammaaa, mammaaaa!” “Francesco, corri Francesco!” “Mammaaa!”
Qualcosa deve essere successo. Per forza. Non si metterebbe a urlare così, la
mia mamma. Forse è capitato qualcosa al nonno.
Ci sono, sono quasi arrivato. Ecco la mamma. Adesso le vedo la faccia. Lacrimoni
grossi così. E chi l’aveva mai vista piangere, prima?! Le piombo con violenza
tra le braccia. “Che c’è?! Che succede? Il nonno?”
Lei apre la bocca, ma proprio non ce la fa a parlare.
Alzo gli occhi e vedo il nonno affacciato al poggiolo. Con una mano tiene la
pipa, con l’altra indica un pezzetto di cielo vuoto.
“L’ei vegnuda zò!”.
Ecco cos’era quel rombo, la funivia... La funivia era precipitata.
La gente comincia a correre per le strade, urlano i nomi della Madonna e di
tutti i santi del Paradiso. intravedo il papà in fondo bosco.Incapace di
muoversi. Atterrito dalla paura. Piantato nella neve come un fantasma, come una
visione.
Le braccia della mamma mi stringono forte, mi soffocano quasi.
A volte ti insegna di più una cosa così che tanti discorsi.
9 marzo 1976.
Scena 3
Una cosa che non ho mai capito, invece, sono le coincidenze. Quelle cose che ti
capitano quando meno te l’aspetti e ti fanno dire: “Oh, ma guarda te che
coincidenza!”
Chessò, vai a Parigi e, proprio sotto alla Torre Eiffel, chi ci incontri? Il
tuo vicino di casa. Una roba pazzesca!
Oppure se andando in auto, buco una gomma - diciamo - a Predazzo, in una
determinata via di Predazzo, all’altezza del civico quaranta. Se mi succede
questa cosa qui, in virtù di tutte le leggi statistiche dell’universo, sono
sicuro che per tutto il resto della mia esistenza automobilistica mai più
forerò in quel punto. Casomai al civico quarantadue, ma non al quaranta.
È una questione di calcolo delle probabilità, di casistica.
Eppure la stessa funivia cade due volte.
Le coincidenze...
Quando una tragedia ti sfiora in maniera tanto ravvicinata, non penseresti mai
di doverci ripassare.
Ho avuto un incidente. Sul lavoro. Niente di grave. Fisicamente, almeno. Poi
dipende dai punti di vista.
Mi hanno riconosciuto l’invalidità temporanea al lavoro. Hanno detto che lo
shock da paura subito nell’ambiente di lavoro può essere considerato un
infortunio e come tale dà diritto al risarcimento da parte dell’istituto di
previdenza. Bene. È già qualcosa. Quando ti capita un fatto così in genere ti
riempiono di solidarietà, belle parole, incoraggiamenti, pacche sulla spalla.
Ma di soldi non se ne parla quasi mai.
Arrivano i giornalisti: “Ti sei fatto male? Cosa hai provato?..”, ti domandano
le cose più stupide. Tutti fanno a gara per tirarti su il morale, per aiutarti
a dimenticare.
Eh sì, però alla fine, alla sera, rimani da solo. Il campanile batte le due.
Presto batterà le tre. Poi, le quattro, le cinque. E così tutte le notti. Puoi
conoscere mille indirizzi, avere duecento amici, ma, alla sera, nel tuo
letto... è lì che ti torna in mente tutto. Ti giri e ti rigiri, disperatamente
tenti di addormentarti, ci provi in tutte le maniere, ma non dormi nemmeno se
conti tutte le pecore del mondo. E allora tutte le schifezze del mondo ti
passano per la testa.
Perché devo dimenticare? Perché dà fastidio? A chi? C’è qualcosa che non si
deve ricordare? Ciò che non si può dire...
Io l’ho vista la morte, era lì, mi ha toccato sulla spalla... ci sono talmente
tanti modi per morire. Si dice se c’è la morte non c’è la vita, e invece, io
posso provarlo, non è così. Non è così semplice. Per morire non occorre andare
al camposanto. Basta poco.
Chi non è mai stato innamorato? C’è lei, bella, la ami più di te stesso, te la
vedi già sposata, madre dei tuoi figli, e poi basta. Lei se ne va. Quando
quella ti lascia... come ti senti? Non è forse morte quella?!
O un figlio... un figlio che improvvisamente non c’è più. Fine della storia...
Per morire non occorre andare al camposanto. Basta poco. Un aereo, ad esempio.
Un aereo da guerra e una funivia.
Scena 4
Ho letto che le funivie le hanno inventate i giapponesi. Seicento anni fa un
imperatore del Sol Levante, fuggendo davanti al nemico, superò un vallone
servendosi di una specie di teleferica. Allora queste macchine erano una
questione di sopravvivenza: come li affrontavi metri di dislivello per andare a
trovare il cibo, a cacciare gli animali. Poi, quando cibo e animali li potevi
comprare in bottega, si pensò di utilizzarle per spostare materiali ed evitare
inutili sforzi alle persone.
E chi ci pensava allora di usare una teleferica per divertimento?! Solo noi. E
gli sci? A chi gli poteva venire in mente di usare gli sci nei week-end per far
colpo sulle ragazze? Solo a noi. Eh sì, perché a un certo punto, non si sa
come, un paio di questi attrezzi ginnici deve essere arrivato qui da noi.
“Varda chì che roba”.
Gli sci. Roba nuova vedrete che rivoluzione. Quanti ne arriveranno per poterli
provare. Perfino gli alberghi dovremo costruire.
“Cosa l’è?”
Come? Ma sono gli sci... In Scandinavia sono usatissimi per scendere a valle...
“Come se i dropa?”
Beh, è semplice. Ci metti i piedi su, leghi le cinghie...
“I sarà pericolosi?”
Cosa?! Ma volete scherzare. È un gioco da...
Insomma, non so se ce ne fosse davvero bisogno, ma fu presto creato un nuovo
divertimento: lo sci.
“Bello, bellissimo!”
“E mentre vieni giù, se riesci a evitare cadute, congestioni o principi di
assideramento, per rendere meno monotona la cosa, fai così. Destra e sinistra,
sinistra e destra”.
“Bello, bellissimo!”
“E quando arrivi in fondo ti metti di traverso e sollevi una nuvoletta bianca
davanti alle signorine che prendono il sole”.
“Bello, bellissimo!”
“E adesso?”
“Adesso si torna su”.
“E come si fa a tornare su?”
“Problemino tecnico”.
Problemino tecnico lo chiama ‘sto qui... Un paio di palle, problemino tecnico!
Chi se li fa mille metri di dislivello a piedi per poi poter ridiscendere?
“Mi no te porto su!”
...Ma certo, che stupido! Come ho fatto a non pensarci prima. “Hai presente la
teleferica?”
“Zerto che la g’ho presente... e alora!?”
“Prendiamo due funi d’acciaio e ci appendiamo un vagoncino, quattro pareti,
tetto, pavimento, finestre... la funivia. Sai che divertimento! E vedrai che ci
facciamo pure una barca di soldi!”
Noi fiammazzi i turisti li amiamo: portano soldi... E poi sono tanto di
compagnia.
“Ariva i foresti!”, gridava il nonno quando con lo sguardo incrociava i
torpedoni tedeschi o austriaci. “Per cossa i vegnirà tuti chì...”
“Ma, nonno, è il turismo, vengono a divertirsi, a sciare, a riposarsi”.
“Cosselo ‘sto turismo?”
“Come? Cos’è il turismo, campeggi, agritour, pensioni, alberghi, residences,
piscine, campi di pattinaggio, palazzetti dello sport. È un affare, è un
lavoro, un’attività che rende molto di più di tante altre!”
Sì, certo.
Il mio povero papà non sarebbe d’accordo.
Mi pare di vederlo quando nei giorni della festa incontrava la maestra.
Sbuffava come una locomotiva.
“Cossa la capirà quela studiada”...
E quella che si pavoneggiava, mi metteva sugli altari.
“Francesco, vieni alla lavagna, fai vedere a tuo papà come spieghi bene il
turismo della Val di Fiemme”.
La Val di Fiemme è situata nel Trentino nord-orientale, confina a nord-est con
la Val di Fassa e a sud-ovest con la Val di Cembra. È racchiusa tra la catena
del Lagorai, le Pale di San Martino, il Latemar e il Corno Nero. Ottomila anni
fa era disabitata, deserta, silenziosa. Un vero e proprio Giardino dell’Eden.
Finché un gruppo di misteriosi esseri umani cominciò a scendere dalle montagne,
dal Latemar, dal Lusia, per fare scorta di cibo e di pelli di camoscio. A un
certo punto ebbero un’idea. “Ma visto che qui è isolato e protetto, ci sono
selvaggina e acqua e a noi ci tocca scendere un giorno sì e uno no... che ne
direste di stabilirci qui una volta per tutte”?
Così, questi progenitori, presero le famiglie e fondarono i primi villaggi
fiammazzi.
Gente indipendente, noi fiammazzi. Agricoltori, boscaioli, pastori, artigiani,
minatori. Una magnifica comunità, come si dice ancora oggi. Uno dei pochi posti
dove la gente ha tutto il necessario per sopravvivere e si amministra da sola.
“Sem usadi così”, diceva il mio papà.
Una grande famiglia, noi fiammazzi. Gente forte. Abituata a far da sé, a far
fronte alle necessità, a fare tutto assieme: sopportare il dolore o gioire dei
lieti eventi, a far festa e a far le cose per i turisti.
Fu dopo la guerra che si cominciarono a vedere i primi turisti. Tedeschi,
soprattutto, ex-connazionali.
“Noi manciare...” “Scaldeghe i canederli”
“Noi dormire” “Faghe su en albergo”
“Noi sciare”... “Faghe su, faghe su... sa farghe su ancora?!’
La funivia...
Scena 5
La prima volta in funivia mi ci ha portato papà. Una mattina d’inverno.
Un freddo cane fuori dalla coperte. Appena sveglio, butto fuori una gamba, poi
la ricopro all’istante. “No, no. Io da qui sotto non mi muovo”.
“Francesco! Nem”.
“Dove?”
“Sula gabina”.
“Vuoi vedere che al papà è tornato il senso dell’umorismo?!”. Abbozzo un
sorriso.
“Francesco! Nem”.
“Dove?”
“Sula gabina”.
“Ma non vorrai mica...”
Lui fa di sì con la testa. Serio. Prendo tempo.
“Vei, te digo! Nem sula gabina”.
“Ma papà...”
“Vei, no sta a discuter con mi”!
“Ma io ho paura, sono morti in tanti lassù, mi ricordo ancora il botto. No, no
io resto qui. Vai tu. Io ho paura, non ci metterò mai piede su quell’affare.
Dillo alla mamma che forse ha voglia di venire con te.”
“Vei, Francesco. Doven farne pasar la paura...”
Così mi ha trascinato fino alla stazione di valle come un sacco di patate.
Facciamo i biglietti circondati da sci, bastoncini, berretti, occhiali da sole
e qualche essere umano. Noi non solo siamo senza sci, ma pure senza scarponi e
giacche a vento. Ci guardano come fossimo marziani. Che ci si va a fare sulle
piste di sci senza sci? Il manovratore ci ha fatto due occhi così.
“Varda che sta chì la va all’alpe” (ha detto sollevando gli occhiali sulla
fronte).
“’l so”.
“All’alpe se va a siar”.
Fermo come una statua il mio papà.
“’l so”.
Fu così che cominciò quel viaggio di iniziazione. Però il mio sospetto è che il
papà compisse quel gesto più per se stesso che per me. I grandi sono sempre
troppo orgogliosi per ammettere la paura.
Comunque. Entriamo in questa cabina assieme a tutti gli altri. Si chiudono le
porte (imita il sibilo seguito da un botto) mi sento mancare il fiato.
Clang!
Chiuso. Ci siamo. Da qui non scappa più nessuno.
(imita il rumore della cabina che sale)
“Varda lì Molina”
“Varda lì Panchià”
“Madonna che alteza, e se...”
“Coooossa! N’altra volta?! Va là, bigol!”
“E perché no?!”
“Perché per en fatto de coincidenze no la pol tornar a vegnir zò. N’altra
volta, voi dir.”
“Sì, però... a pensarghe ben...”
A metà percorso la cabina si arresta. Routine tecnica, certo. Che diamine!
Nessun pericolo.
Clang! Cabina ferma. Sospesa nell’aere della Val di Fiemme.
Io sono paralizzato. C’ho il pensiero fisso a quel pomeriggio. Quarantadue
morti, un solo superstite, una studentessa di Milano, salvata dai corpi dei
suoi compagni di classe. Il rumore del tuono.
“Rifugio Paiooon!”
Siamo in cima. Sono ancora tutto intero. La cosa non può non meravigliarmi. Io
e il papà scendiamo senza una piega, per lo meno esteriore. Tutti gli sci e i
bastoncini ci osservano immobili. Attendono. Vogliono vedere cosa diavolo ci
facciamo adesso lassù senza mezzi. Semplice! Prendiamo la corsa in discesa.
Subito. Nemmeno un bianchetto al bar si fa il papà. Giù di corsa.
E la discesa, chissà per quale strano motivo, fa meno paura della salita. La
cabina vuota, io, il papà e il manovratore che ci osserva imbarazzato.
Beh, senza quel viaggio iniziatico non avrei mai accettato il posto di
manovratore stagionale su quella stessa funivia.
Scena 6
“Ti te sghizi chì e se ghe qualcosa te ciami”.
Con questa semplice ma precisa raccomandazione comincia il mio primo giorno di
lavoro. Perché alla fine, aveva voglia la maestra a menarla con gli studi e
madonna com’ero bravo: un altro stipendio in famiglia faceva troppo comodo.
Primo viaggio: bello, bellissimo. Secondo viaggio: bello, bellissimo. Terzo
viaggio: già stufo. No. Non è quello che si dice un lavoro interessante. Cosa
vuoi? Giù e su, su e giù. Però si guadagna bene.
No. È bella la montagna, certo. Dei posti così, e dove li trovi? L’Italia come
dovrebbe essere, sicuro. Un paradiso, non c’è dubbio.
Ma un paio di mesi dopo, al bar del paese, ho conosciuto un ufficiale di marina
che era lì in vacanza con la famiglia. Aveva alzato il gomito e parlava,
parlava. Aveva girato il mondo. Era stato in posti talmente strani che era
problematico perfino immaginarli. Pesci giganteschi, terre che non trovi su
nessuna carta, uomini con le squame, donne leopardo, città senza tramonto:
l’ufficiale aveva visto di tutto.
Io lo ascoltavo. E più lo ascoltavo più non potevo fare a meno di paragonare il
suo girovagare al mio star fermo, al mio immobile su e giù e giù e su, lì al
Cermis. Bevvi anch’io. Poi gli parlai.
“Guagliò - mi disse - e perché non ti vieni a fare un giro giù dalle mie parti.
Per noi marinai è sempre un problema trovare gente disposta a navigare mesi e
mesi”.
“Ma... Non lo so. Non lo so.”
E tutti ad ascoltare, partecipi. Tutti che volevano andare a Napoli.
“Ma ero mi, quelo!”
“El gha reson”
“‘Scoltelo al Napoli”
“Se l’estate non sai cosa fare...”
“Beh, veramente”
“Daghe reta al sior!”
Tutto il bar tifava per me.
Io il mare non l’avevo mai visto.
“Ndov’è che te vai, Francesco?”
“Al mare, mama.”
“Ndo, a Jesolo? E te devi portarte drio tuta ‘sta roba?!”
“Ma no, mamma. Non vado al mare in quel senso lì. Mi imbarco. Lavorerò in
cucina. Cuoco di bordo”.
“Ma no te stevi ben chì? ‘Ntei boschi?”
“Il mare, mamma”.
“Ndov’è che te vai, ‘n Teronia?”
“Sì, beh, lì c’è l’imbarco, ma poi... si va via, in giro per il mondo.
Sull’oceano”.
Già, proprio così. Può sembrare strano che uno come me, montanaro da
generazioni, preferisca il mare, eppure è così. E il perché chi lo sa? Me lo
dicono in paese che sono strano. Il “marinaio” mi chiamano.
Una vita completamente diversa; quando sono lì, in cucina, penso che stiamo
attraversando l’Oceano Indiano e mi sembra di essere un’altra persona, quasi
che la Valle fosse abitata da un altro me, diverso, montanaro, forse più
ingenuo.
A ottobre si torna a casa. Bello abbronzato. Faccio il primo viaggio della
stagione. E stai a vedere che forse ‘sto lavoro non è poi così noioso come me
lo ricordo. Chiusura delle porte. Clang! Non mi abituo mai al rumore. Okay alla
partenza. Sganciamento freno di stazionamento. Via... Primo viaggio: bello,
bellissimo. Secondo viaggio: bello, bellissimo. Terzo viaggio: già stufo.
Scena 7
“Francesco, leva su che l’è le sette”
Solo una mamma sa svegliarti a quel modo, senza farti rizzare i capelli in
testa. Quel tono di voce riesce a non farti pesare la fine dei sogni. Il fatto
di dover abbandonare il caldo piumone invernale per tuffarsi nella neve a
portare turisti su all’alpe.
“Gh’è en sol che par istà”
“Ah. ...Sa ghelo, mama?”
“Nient, nient. Stago ben.”
“L’è per ‘1 papà? ‘L so che l’è dura, mama...”
“No l’è per quel...”
“Ma come? è dal dì che l’è mort el papà che no te fai altro che pianser. E
alora? Sa ghe?”
“Nient, nient”
“Varda che mi vago, mama”
“Ndov’è che te vai?”
“Come dove? Al lavoro... alla funivia...”
“Gh’è en sol che par istà, Francesco”
Aveva ragione. Quello era lì. Accecante e duro, ostinato, ma soprattutto pieno
di strani presagi.
E andando verso il lavoro, camminando a testa china verso l’impianto... chissà
perché, di solito non lo faccio mai. Voglio dire, di solito esco di casa e vado
dritto, guardando davanti a me, faccio un cenno di saluto ai vicini, ma non mi
volto. Quel giorno, invece, l’ho fatto. La mamma era ancora lì, sulla porta,
con il fazzoletto in mano. Lo agitava come fa quando parto per imbarcarmi, a
primavera.
Io mi fermo. La guardo. Agito la mano per salutarla un’altra volta. E più la
guardo, la mamma, più non riesco a capire se sta guardando me o quel sole
strano che sfiorava il Paion.
Scena 8
Sono entrato in cabina per la milionesima volta. Tre di febbraio.
Millenovecentonovantotto.
Chiusura delle porte. Clang! Non mi abituo mai al rumore. Okay alla partenza.
Sganciamento freno di stazionamento. Via.
Ho alzato gli occhi verso la montagna. Bella l’Alpe del Cermis. Bello. Aria
pura. Altezza. Guardali come si agitano e sculettano. Visti da qui gli sciatori
sembrano tante formiche. Non sono mai riuscito a spiegarmi che cosa diavolo ci
trovino di tanto divertente. Ma abbiamo creato il bisogno del divertimento e
adesso... Cosa vogliamo fare? Mandare tutto a remengo perché uno si è messo a
ragionare un po’ troppo?
Un sole da non credere. Un sole mai visto, un sole triste. Dieci anni, dieci
anni che faccio questo mestiere e mai visto niente di simile. Un sole così. Mai
visto.
Certe volte mi sento come l’autista dello scuolabus. Come questi pur non
essendo più giovanissimi sono ancora come i bambini. Si divertono a darsi
pizzicotti, tirarsi dietro i soprannomi, leggere le targhette della cabina:
“Portata oraria 428 persone. 306 metri di dislivello nel primo troncone.
Lunghezza 2565 metri. Velocità 10 metri al secondo. E’ severamente vietato
compiere movimenti che possano in qualsiasi modo arrecare problemi alla
stabilità della cabina”.
Loro sono fatti così. Si danno pacche, spintoni...
Ma c’è un fatto...
Accade all’incirca a metà percorso: improvvisamente, come d’incanto, avviene
qualcosa. I discorsi si spengono di colpo: una raffica di vento, uno sguardo
verso la valle, uno scossone più forte degli altri e nella cabina scende un
silenzio totale.
Stanno tutti zitti.
Come se le parole potessero in qualche maniera turbare l’equilibrio della
funivia, il miracolo meccanico.
Ma bastano pochi metri di cavo in su, ed è tutto finito. Si ricomincia a
ridere, a pensare alla discesa, alla sciolina, alla neve che “stamattina è
fantastica!”
Nel ’76, un attimo prima del fattaccio, accadde una roba del genere. Uno
scossone, un rombo. Un tedesco disse qualcosa di spiritoso, tutti i germanofoni
risero e fu l’ultima cosa che fecero nella loro vita.
Ma siccome per il discorso delle coincidenze che facevo prima un evento non può
verificarsi due volte nello stesso punto e con le stesse modalità, la nostra
cabina giunge a destinazione.
“Loro” scendono, corrono verso il divertimento con il “giornaliero” appeso al
collo e chi s’è visto s’è visto.
La corsa di ritorno a Cavalese me la faccio sempre da solo. Capita che mi
faccia compagnia uno che si è sentito male o che ha dimenticato gli scarponi in
albergo. Ma tranne la sera, quando gli “atleti” ne hanno avute abbastanza, è da
solo che vado verso la stazione di valle. Schiaccio il naso sul vetro e con lo
sguardo cerco di bere tutta la val di Fiemme.
Scena 9
No, non lo sapevo, non avevo la minima idea di cosa fosse il pericolo. Faccio
il mio mestiere così come ognuno fa il suo: senza pensare a quanto può essere
pericoloso. Un ragioniere potrebbe cadere dalla scala mentre cerca una pratica
in archivio. Eppure non ci si pensa. Ed è giusto che sia così. Altrimenti chi
guiderebbe un treno, un aereo, una nave... o una funivia, una maledetta cabina.
Sarebbe come uno che siccome sa di dover morire si rifiuta di vivere... E non è
sempre facile dargli tutti i torti.
E poi c’è la questione delle coincidenze. Volete che non sapessi cosa accadde
al Falzarego qualche anno prima?
Passo Falzarego, a Cortina, provincia di Belluno. 27 luglio 1987. Un Aermacchi
Mb-326 dell’Aeronautica militare italiana, in volo di addestramento, spezza la
fune traente da ventidue millimetri della funivia. Fortunatamente, allora, la cabina
aveva percorso solo quattrocento metri e andò a schiantarsi contro il cuscino
ammortizzatore della stazione di valle. I venticinque che erano a bordo se la
ricordano ancora, se la cavarono con ferite e molto spavento.
“Za suzedù. Za vist”
Uno che fa il mio mestiere, sente certe storie e, in un certo modo, si
tranquillizza. Per forza. Non buchi a Predazzo se l’hai già fatto una
volta.
Un aereo ha tranciato i cavi della funivia: già di per sé una cosa rarissima.
Come cadere due volte con lo stesso volo di linea. Magari alla stessa ora.
Ma no, non può capitare!
Come? Che fine hanno fatto i piloti? Quelli di Falzarego? Si sono lanciati col
paracadute, ovvio. Cosa dovevano fare, precipitare con la cabina? Dieci anni
dopo sono stati assolti in Tribunale.
“Gh’era ‘na turbolenza... Te capissi no? Avem dovù sbassarne n’cin”.
Cosa vuoi? Si può capire... o no?!
Pensa che nel ’44 un P-38 americano passò sotto i ponti di Roma. L’adrenalina
in circolo a volte fa brutti scherzi.
Scena 10
Potevano essere le tre, tre e un quarto. Ero in cabina, stavo salendo. A
prendere i “bambini” e riportarli a casa. Guardavo quel sole e più lo guardavo
più mi dicevo che non era possibile un sole così.
Era il 3 febbraio 1998.
Quante cose si possono pensare quando si è da soli in cabina. Se ne immaginano
discorsi da fare alla sera con gli amici al bar dopo una giornata passata tra
la valle e la cima, e tra la cima e la valle. Si immagina, si sogna, si annusa
il vento.
E lo avrei raccontato agli amici nel caldo del bar che avevo visto un sole
strano quel pomeriggio, un sole mai visto. Loro avrebbero riso, certo. “Va là
marinaio!” E forse mi sarebbe passato di mente. Non ci avrei pensato più.
A metà percorso, come sempre, ho incrociato quelli che scendevano a Cavalese.
Facce stanche, scottate dal sole, ma felici. Una bella giornata passata sulla
neve. Ho alzato un braccio. Mi hanno sorriso. “Beati voi che siete in
compagnia, diavolo cane, mi sono detto. Al Luigino gli ho fatto un segno col
dito, che voleva dire “ci vediamo dopo, al bar”.
Luigino lo conosco da una vita. È più grande di me, ma è come se fossimo
coetanei. Lui mi ha insegnato ad avere pazienza. Mi spiegava che la vita è come
il pane: per farlo buono devi lasciar lievitare la pasta; lo so che mentre
quella cresce bruci dalla voglia di schiaffarla in forno... Per fare bene le
cose ci vuole tempo.
“...ci vediamo dopo, al bar”, gli ho fatto segno. E lui ha sollevato il pollice
per dire che andava bene.
Forse sarebbe meglio non pensarci più...
E io invece ci penso, ci devo pensare. Che testardo, eh?! Non riesco proprio a
stare zitto. È successo quello che è successo... Va bene, oramai è andata
così... Cosa vuoi farci? Il tempo aggiusterà...
No. Il tempo non aggiusta un bel niente. Io voglio parlare, e dire ciò che non
si può dire.
Tra noi ci sono uomini che al di sopra di ogni possibile dubbio si proclamano
uomini: forti, furbi, giovani da fare invidia, sani da fare rabbia. Si credono
uomini. Poi nella loro vita interviene il caso, la stupidità. Così, un soffio
del destino... E questi uomini, guardandosi allo specchio, quel giorno, si
scoprono per quello che sono veramente: delle bestie.
Scena 11
Avis. Aviazione.
Aviano è un nome che ho sentito la prima volta quando dovevo partire militare.
Ci sono nomi di certi paesi che diventano squallidi solo perché ospitano
caserme. “Ti mandano ad Aviano” era una specie di sentenza, il peggio che
poteva capitarti se dovevi andare sotto naia. Il fatto è che il Friuli, quella
parte del Friuli, è il brodo di coltura delle forze armate: Cordenons,
Spilimbergo, Codroipo e compagnia bella. Giri per le piazze, le sale giochi, i
bar, le osterie e non vedi altro che teste rasate.
Di fronte al Bepi’s Bar sostano Cadillac lunghe come un vagone ferroviario.
Ovunque campeggiano cartelli con la scritta “We speak English” e nei ristoranti
si può pure pagare in dollari.
È dal 1955 che l’aviazione americana ha in concessione l’aeroporto di Aviano.
Novemila stranieri che tentano di trapiantare una cultura, un modo di vivere.
La maggior parte della popolazione è favorevole alla presenza americana. “I
porta tanti schei”, dicono quelli di lì. Tanto anche a volersi ribellare,
contro chi ti metti?
Aviano, aviazione. Che a pensarci bene con un nome così non si poteva farci
altro che un aeroporto.
Scena 12
Tre febbraio 1998.
Alle 14,36 un aereo del corpo dei marines degli Stati Uniti d’America di
supporto all’operazione “Deliberate Guard”. Un EA-6B, “Prowler” - il predatore
- decolla dalla base di Aviano per una missione addestrativa di navigazione a
bassa quota.
A bordo, l’equipaggio: il pilota, il navigatore - come nei rallies - e altri
due con mansioni secondarie. Quattro ragazzoni yankee cresciuti a vitamine e
corn-flakes.
Pare che tra i piloti americani che operano nelle nostre basi militari ci sia
questo modo di dire: “Sotto i cieli delle Alpi ci sono le palme”. Chiaro, no?
Sotto le loro carlinghe non c’è nulla; non abeti, non strade, non paesi, non
cavi delle funivie...
Il Prowler è un aereo piccolo, 16 metri per 18, attrezzato per la guerra
elettronica. Acceca i radar nemici con impulsi che fanno scomparire qualsiasi
segnale.
Io non ho proprio nulla contro l’America. Ce l’ho con l’imbecillità.
E l’imbecillità, oltre a non avere sesso, non ha patria.
Quando morì la nonna, i miei decisero di prendere il nonno a stare da noi. Gli
davamo ospitalità e lui ci contraccambiava con la sua compagnia. Certe storie
raccontava! Ma il nonno non si sarebbe mai sognato di fare cazzate in casa del
proprio figlio senza prima averne chiesto il permesso.
Invece io degli accordi bilaterali Italia-Usa, 1954-1956, oltre alle date e ai
nomi delle controparti non so un emerito accidente. Che Segreto di Stato
sarebbe sennò!?
“Sotto i cieli delle Alpi ci sono le palme”. Eh no! Sotto questi cieli c’è
qualche millennio di storia con la esse maiuscola!
Cosa hanno in comune un aereo che decolla da Aviano alle 14,36 e una corsa del
primo tratto della funivia del Cermis che parte attorno alle 15?
Niente.
Se solo il Prowler avesse rispettato il piano di volo, nulla. Il piano di volo
o la quota di sorvolo. Duemila piedi, seicento metri.
Una direttiva dello stato maggiore dell’Aeronautica, del 21 aprile 1997, vieta
i sorvoli al di sotto di quell’altezza. Eppure decine di voli furono
autorizzati a scendere fino a 500 piedi, cioè 150 metri. Autorizzati da chi? Da
mio padre, da mio nonno? Perché?
“Me piaseria saverlo anca mi”.
L’iter previsto è il seguente: gli americani presentano il piano di volo al
comandante italiano dell’aeroporto il quale, dopo averlo esaminato, lo inoltra
al Roc, il Regional operational command, per ottenerne il definitivo
ok. Pare che gli americani siano sempre stati contro la burocrazia. “Masa robe,
temp trat via”. Il comandante italiano? Non serve. Piano di volo direttamente
al Roc. E dal 1998 il Roc viene assorbito dal Coacom, sede Martina Franca, in
Puglia. La musica non cambia.
Ma come? No. Se c’è una successione da rispettare, la rispetti, per favore. Se
svolgi una funzione matematica non lo puoi saltare un passaggio, lo diceva la
mia maestra, non ci capisci più nulla, dopo.
Niente. Ma davvero il comandante italiano non può fare nulla? Non può dire: “Ma
veramente... a me sembrerebbe che...”? Cos’è, solo un passacarte? Stiamo
dicendo che conta come il due di coppe a briscola quando la briscola non è
nemmeno di coppe?
E se qualcuno si azzarda a protestare per un volo troppo basso ritornano loro:
gli accordi bilaterali Italia-Usa, anni Cinquanta, Segreto di Stato. Che poi
questo Segreto di Stato è come la balena di Giona, come un sacchetto di
patatine al formaggio con dentro non una sorpresa, ma due, tre, quattro...
Ustica, Ramstein, Casalecchio e adesso il Cermis.
Scena 13
Il Luigino m’ha fatto segno. Ci vediamo dopo.
(cambio luce)
(Al pubblico) Adesso, però, dimenticate di essere qui ad ascoltarmi. Immaginate
di fare parte della storia. Noi siamo la storia. Ognuno di noi è - diciamo - un
albero. Già. Uno degli alberi di quella zona vicino al Prà dei Laresi dove è
successo tutto questo macello. E gli alberi sono spettatori silenziosi,
discreti, ma attenti. Madonna se sono attenti! Le cose che vedono se le
ricordano, se le tengono scritte addosso per non dimenticarsele.
(cambio luce)
Non ho guardato l’orologio, non lo faccio quasi mai; l’ora ce l’ho nella testa,
io. Saranno state le tre, tre e un quarto, tre e venti al massimo. In funivia,
il giorno non passa mai, è per questo che una cosa del genere non puoi
dimenticarla. Se pure facessi il mestiere più divertente del mondo, non
potresti dimenticarla. Non la dimenticheresti in ogni caso. E come si fa a
togliersela dalla testa? Un rumore così, prima piccolo, dolce, quasi.
È cominciato tutto con questo strano rumore.
Tante volte ho visto, pure da casa mia, gli aerei militari.
“Ghe l’aeroporto a Cavalese?”
No. Nessun aeroporto. Eppure in certi giorni ci sono più voli che a Linate. Li
ho visti spesso, sbucare silenziosi, talmente vicini alle pareti e al
fondovalle, così bassi da permettermi di distinguere la sagoma dei distintivi
sui caschi dei piloti. Poi, all’improvviso un rumore assordante. Il muro del
suono che va in frantumi...
Una volta ho visto il Latemar, la montagna di roccia che separa la Val di
Fiemme dal passo di Carezza, ho visto questo gigante scaricare pietre sui
sentieri al passaggio di un jet che mi aveva sorpreso alle spalle.
“Za suzes. Al Falzarego, vent’ani fa. No ghe pericol”
Eh già, perché se buchi a Predazzo...
Qualcuno comincia a non poterne più e si mette a fare la voce grossa. Scrive a
Verona, al Terzo Stormo dell’Aeronautica Militare Italiana. E siccome le
lettere rimangono senza risposta, si passa al telefono.
“Pronto, sì, chiamo dalla Val di Fiemme. Guardate che qui volano bassissimi, a
velocità assurde!”
“Sì, va bene, ma che sigla avevano?”
“La sigla? La sigla, ho capito bene?!”
“Eh, ogni velivolo riporta sulla fusoliera una sigla di riconoscimento”
“Dio mio, vi sto dicendo che se uno di questi bolidi sbaglia di un metro la
rotta qua succede il finimondo”
“Senza la sigla non possiamo muovere un dito”
Ma porca miseria, non sto parlando di una Panda che non si è fermata al
rosso... Cosa prendo la targa di un aereo che va a mille all’ora?
Si racconta di evoluzioni da circo, aerei visti passare sotto ai cavi.
Addirittura qualcuno parla di un vero e proprio “Club della funivia” tra i
piloti che girano da queste parti.
Insomma, si malsopporta fino a che la Giunta provinciale non arriva a chiedere
ufficialmente al Ministro il divieto di sorvolo sulle zone abitate, il 22
agosto 1996.
“Signor Ministro, intervenga, faccia qualcosa. Qui la gente ha paura”.
Adesso siamo veramente vicini alla soluzione di tutto questo casino, si sono
mossi i politici!
L’11 dicembre arriva la risposta. Definitiva e inappellabile. “L’attività di
volo alle basse quote rappresenta una forma di addestramento di fondamentale
importanza e l’elevata densità demografica del nostro Paese rende praticamente
impossibile effettuarla senza sorvolare i centri abitati. Distinti saluti.”
Punto. E a capo.
Eh, già. La colpa è vostra, Fiammazzi testardi, che avete voluto abitare la
Valle di Fiemme. Avete voluto abitare qui, adesso non vi lamentate.
Se cade un F16, pure nel deserto, fa un casino che non ti dico. Figuriamoci se
dovesse piombare diritto sopra duemila anni di storia.
Per fortuna la direttiva dell’aprile 1997 pone il limite dei 600 metri per i
voli di addestramento.
Inoltre un telegramma dell’Aeronautica militare italiana ai comandi
dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles proibisce il volo di addestramento agli
aerei “in transito”, come il Prowler della Marina Usa, attrezzato per la guerra
elettronica.
Sotto i cieli delle Alpi ci sono le palme...
Scena 14
Erano le quindici, dodici minuti e trentadue secondi. Posso affermarlo con
certezza perché il sismografo ha registrato un violento movimento tellurico
otto secondi dopo.
Il Prowler si è infilato dove si è infilato, la fune che sosteneva il carrello
carico si trovava almeno venti metri al di sotto di quanto segnalato sulle
carte che di solito riportano solo la quota superiore dell’ostacolo.
Quell’aereo è inciampato in un filo. Poverino. Ha pure rischiato di farsi la
bua e radere al suolo le frazioni di Cavalese, ma per fortuna ha ripreso quota,
lasciando un nuvoletta bianca come biglietto da visita.
Secondo il piano di volo l’aereo avrebbe dovuto volare fino a Cortina, a 3500
piedi.
E fino a Riva del Garda la missione viene condotta come previsto dal piano di
volo. Ma poi, in direzione Marmolada, il Prowler devia di circa 9 km sulla
rotta pianificata. Passa su Mattarello. Sorvola l’autostrada del Brennero...
infine, la Valle di Fiemme...
“Cori, vei, l’aereo l’ha buttà zo la funivia!”
“Ma no, no pol eser”
“Vei te dico, movete diaolo porco!”
“Madona!”
“Nen, cori! Ciama i vigili”
“Madona, l’ei vera... Oh, Dio!”
Qualcuno lì dentro deve aver alzato gli occhi per un attimo verso l’alto, forse
ha fatto appena in tempo a intravedere la sagoma dell’aereo. Poi, una botta
tremenda, tutti che sbattono a destra e a sinistra. E l’ultimo pezzo di corsa:
la caduta. Giù.
Sbatto con la faccia sulla mia di cabina, che la mia è rimasta su. Ma come...
Da dove è venuto quel maledetto aereo?! Ha tranciato un cavo e l’altro no?! Non
l’hanno vista la funivia sulle carte? Le hanno guardate le carte? Ma poi,
Cristo santo, siamo a ottanta metri da terra, un aereo non può volare così
basso! Non è possibile! Se anche la funivia non fosse segnata, quell’aereo
americano è neanche cento metri sopra le case di un paese che esisteva prima
della scoperta dell’America.
E Luigino... No. Non me lo dire che non verrà stasera al bar. A trecento metri
dalla stazione. A trenta secondi dalla salvezza...
E quel cavo spezzato, ballerino, si prende gioco di me, danza sibilando, mi fa
segno di no, mi dice che non verrà.
Porco di un diavolo! Maledizione! Allora voi state precipitando... Ma perché
non sento nulla? E quanto ci mettete a cadere, quanto?! Cos’è questo tempo che
non passa?!
Ma come? Ancora? Un’altra funivia. Ma è già successo vent’anni fa, a Salanzada.
E poi al Falzarego, te lo ricordi?! Non puoi bucare due volte a Predazzo... me
lo avevi promesso.
Gesù Cristo, dove siete finiti?! Dove? Dove siete andati, tutti? E cos’è che
attendo, adesso? Cos’è questo presagio? Questo cuore spaccato? Dio, dio, dio,
dio, dio.
Otto secondi dopo venne uno di quei momenti in cui si desiderano le cose più
impensabili. Già, in quel preciso istante avrei voluto solo una cosa: essere
sordo. Lo schianto. Trenta quintali, cento metri di caduta libera, una velocità
enorme. Il boato, Cristo! Perché?
’Sti venti disgraziati erano lì nella cabina, tranquilli, sorridenti. Hanno
sentito un rumore. Otto secondi c’hanno messo a morire. Cosa diavolo fai in
otto secondi? Che Dio preghi? Non fai in tempo nemmeno a farti il segno della
croce. E io ero lì, appiccicato alla morte. E il rumore, mio Dio, quel
rumore...
Alle quindici e qualche minuto. Non ho visto niente. Alberi, neve e poco altro.
Dove siete? Non vi vedo, non vi vedo più. Cristo, perché? Luigino!
La cabina oscilla. Sopra di me il sole; sotto di me la neve sporca di sangue.
Mi tocco le gambe, la pancia, la faccia. Ci sono, sono tutto intero. Non ho
neppure un graffio. Dentro, però, dove gli occhi degli altri non possono
arrivare, giù nel profondo, negli abissi dell’anima mi sono spaccato. Il cuore
mi è andato in frantumi. Uno schiacciasassi sopra un calice di cristallo.
La cabina piano piano si stabilizza. Cerco con lo sguardo la bestia volante. Ed
è stata una fortuna per lei che fosse già troppo lontana: sottratta in extremis
al mio odio, all’odio che mi gonfia la faccia. Il mio odio. E si parla di
perdono in certi casi, di porgere l’altra guancia, ma in casi come questo,
quando il colpevole si porta scritta la colpa sulla fronte, è di odio che si
deve parlare, di odio e basta. Io ti odio macchina volante.
Il silenzio. Puro, immenso, incomparabile. Un silenzio di morte.
C’è un vento leggero. E il sole, quel sole strano non c’è più.
Tremo come una foglia, piango, i denti cominciano a stridere, a limarsi tra
loro, provo a calmarmi, ma non ce la faccio. Respiro a lungo, incrociando le
braccia e stringendole forte, ce la metto tutta per rimanere lucido. “Sta
calmo”, mi dico. E come faccio a stare calmo?
“Aiuto! Aiuto! Sono qui!”
Nessuno sa ancora niente, tranne me. Qualcuno avrà sentito quello schianto!
Madonna! che rumore, Signore onnipotente.
Io... io sono vivo.
Dove sono? Che ci faccio quassù?! Nei boschi il Salvanel, eccoli qui sotto gli
spettri, le streghe e i folletti. L’Ombrione e anche l’Omo de l’Erario che
minaccia i boscaioli... E il Pataù co la so cagnoleria... le tredici streghe a
cavallo di scope, gatti e rocche da filare. Tutti qui sotto. A cercare la
vendetta.
Ogni dòi dì ‘na vaca, ogni dòi dì ‘na lima.
Varda de averla pronta
che ve l’hai dito prima!
Ciao mamma! Rimboccami le coperte, per favore. Ho tanto sonno.
Ciao, Paul, com’è che dici in quel film? “C’è il buio nei miei occhi...”
Ogni dòi dì ‘na vaca, ogni dòi dì ‘na lima.
Varda de averla pronta
che ve l’hai dito prima!
( rumore delle pale di un elicottero in avvicinamento)
“Eeeeehhii!”
“Sì, sto bene, ma, Gesù Cristo, e gli altri?... L’altra cabina?... Sì, sì, son
calmo. Son calmo!”
Brava gente, quei vigili; bravi ragazzi della Valle di Fiemme...
Ho visto una mano lontana dalla cabina, la testa... e un corpo senza...
Morti. Sono morti tutti.
Scena 15
E l’aereo?
Che ne è stato del Prowler dopo l’impatto?
Innanzitutto un lungo black-out. Silenzio radar. I primi notiziari parlavano di
un aereo precipitato. La prima dichiarazione del pilota parlava di un grosso
uccello. Già, un uccello preistorico. Archeopterix contro Prowler. E poi,
l’aereo era danneggiato, bisognava fare subito ritorno a casina. Pilota,
navigatore e gli altri due sono giunti ad Aviano in pochi minuti. Atterrano.
Abbandonano il velivolo di corsa, talmente di corsa che uno dei quattro nel
saltare fuori dalla carlinga si frattura l’avambraccio.
Ma forse quei quattro non c’entrano. È stato “lui” il responsabile. Il mostro,
il predatore, non quei quattro membri dell’equipaggio. La giustizia è una cosa
seria. Ai membri dell’equipaggio c’è già chi ci pensa, e non mi riferisco certo
alla giustizia di quaggiù. Ma a qualcosa che non darà loro tregua fino alla
fine.
Colpevoli o innocenti, duecento anni di galera o un’allegra assoluzione, i
venti morti restano morti.
Non mi interessa quasi niente di quaggiù, adesso; a parte il mare, forse, mia
madre, certo.
Forse il ricordo, il desiderio di tenere viva nella mia memoria questa vicenda allucinante.
“È inevitabile” aveva detto il Ministro. La densità della popolazione è troppo
alta ed è inevitabile che i voli debbano passare di qui. È colpa nostra se
siamo fiammazzi. Adesso, però, vengano a spiegarlo a tua moglie che quei
quattro ragazzoni dovevano “inevitabilmente” fare ciò che hanno fatto. Vengano
a dirlo a tua figlia che suo papà non c’è più a causa di un “incidente”, una
guerra in tempo di pace.
Adesso me ne andrò. Via. Sul mare. Voglio navigare, vedere le città, conoscere
quanta più gente possibile, ascoltare attentamente le loro storie e dopo
raccontare a tutti loro la mia. Questa.
Bisogna dirle subito le cose. Perché qualcuno fra dieci, venti o cento anni
ancora si ricordi di quei venti nomi cancellati dall’anagrafe. E poi per tenere
vivi due concetti che non si dovrebbero dimenticare mai: la vita non insegna
nulla agli uomini che non vogliono imparare.
E, secondo, le coincidenze sono una grossa cazzata, perché se buchi una gomma a
Predazzo, ti può capitare di ribucarla a Predazzo, non una, ma dieci, cento
volte. Non sta scritto da nessuna parte che non debba essere così.
Sono stanco. Adesso.
Ciao, Luigino. Non ti preoccupare che, alla fine, ci vediamo lo stesso al
“bar”. Arrivo qualche anno dopo di te, ma alla fine ci vengo anch’io in quel
“bar”.
(Sullo sfondo vengono proiettati i nomi delle vittime del Cermis:
Marcello Vanzo, Edeltraud Zanon, Maria Steiner, Ewa Strzelczyk, Filip
Strzelczyk, Rosemarie Eyskens, Sebastian Van Den Heede, Hadewich Anthonissen,
Stefaan Vermander, Stefan Brekaert, Danielle Groenleer, Anton Voglsang, Sonja
Maria Weinhofer, Annelie Urban, Harald Urban, Michael Poetschke, Dieter Frank
Blumenfeld, Marina Renkewitz, Egon Uwe Renkewitz, Juergen Wunderlich).
fine