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Cleopatra

Cleopatra

Di Giambattista Giraldi Cinzio

LE PERSONE CHE PARLANO.

Cleopatra, Reina.

Ottavio.

Nutrice di Cleopatra.

Agrippa.

Famigliar di Cleopatra.

Mecenate.

Capitano di Marco Antonio.

Alfier del General di Ottavio.

Marco Antonio.

Olimpo, medico di Cleopatra.

Servo di Marco Antonio.

Servo di Marco Antonio.

Cameriera di Cleopatra.

Gallo.

Eunuco di Cleopatra.

Proculeio.

Coro.

Sacerdote di Cleopatra.

Segretario di Cleopatra.

Il Coro è di donne della corte di Cleopatra.

ALL'ILLUSTRISSIMO ET ECCELLENTISSIMO SIGNOR ET PATRON

mio sempre colendissimo Il Signor Don Giovanni Andrea d'Oria. Sì come sono alcuni affetti cotanto nei corpi umani agglutinati, che non solo in quelli tenacemente si serbano, mentre che i corpi aura vitale spirano; ma anco dai generanti ne' generati successivamente si transfondono, così e non altrimenti mi credo, che siano alcuni altri affetti cotanto negli animi umani inviscerati, che dai padri nei figli si vadino propagando; poscia che quello intimo amore, e riverenza grande, ch'era in Messer Giovambattistamio padre verso Vostra Eccellenza Illustrissima in me transfusa inviolabilmente si mantiene. Onde uscendo fuori le tragedie di esso mio padre, mi è parso ragionevole di ciò darlene qualche segnale; e rivolgendo nell'animo mio quale tragedia più a lei convenesse, non ho potuto altre trovarne, che meglio se le accommodasse di Cleopatra, in cui si narra la memorabile attiaca vittoria navale del fortunatissimo Augusto contra Messer Antonio, e Cleopatra amanti. Percioché ella sino dalla fanciullezza, che fu l'anno ottavo della sua età consegnò le sue allora tenere membra al servigio della gran maestà del Re Catolico, e conseguentemente alla gloria della nostra religione, e alla commune salvezza; sofferendo con mirabile pacienza in quei tanto teneri anni i disagi militari, quasi che a lei fossero gioiose feste gl'incommodi delle navigationi, i pericoli dei flutti marini, e le sanguinose navali battaglie; e crescendo con gli anni il giudizio, e 'l sapere, cominciò giovanetto ad avere onoratissimi carichi; e meglio conosciuto di giorno in giorno il suo valore da quel saggio re, generalati importantissimi, da cui ella poi n'ha riportato, e ne riporta ogni ora tante onorate vittorie, e tanti vittoriosi onori, com'è palese a tutto il mondo. Dunque Cleopatra Tragedia via più di tutte l'altre sue sorelle a Vostra Eccellenza Illustrissima se le deve. Perché si deve a vittorioso duce, vittoriosa tragedia, a gran duce navale gran vittoria navale. Benché infiniti saggi ella abbia dato di non esser men valoroso guerriero di terra, che di mare, ma la chiamo più tosto gran duce navale, perché la destinò il suo prudentissimo re più tosto alla perigliosa marina guerra, che alla terrestre. E sì come la fenice doppo lunghissima vita si forma un rogo d'odorati legni, in cui ardendo ringiovenisce; così Vostra Eccellenza Illustrissima si va accumulando un rogo di vittorie, come di tanti legni odorati, con cui doppo questa terrena morte eternamente viverà; ma sì come la stessa fenice per lungo tempo vive, così ogni buono, e ogni fedele le desidera vita per molti anni (poiché eterna non la compatisce l'inferma nostra umanità) e ripiena di tutte quelle prosperità, ch'a nobilissimo e valorosissimo cavaliere, e duce cristiano convengono. Con che umilissimamente le bacio la mano. Di Ferrara il primo d'Ottobre MDLXXXIII. Di Vostra Eccellenza Illustrissima e Eccellentissima umilissimo e devotissimo servitore Celso Giraldi

ARGOMENTO

ll'Egitto accoglie Marco Antonio mentre egli è in guerra con Ottavio, e lo prende per marito. Mentre sono in mischia i due nemici in battaglia navale, Cleopatra, tocca da feminil paura, si dà a fuggire, onde riman vincitore Ottavio. Ella teme che il marito non stimi lei essere cagione dell'infelice avenimento, con averlo tradito, per certificarsi dell'animo suo, finge di essersi uccisa. Il che inteso Marco Antonio, se stesso uccide. Teme Cleopatra, che Ottaviola conduca in trionfo a Roma, e per fuggir sì grave scorno si dà morte. La scena è in Alessandria città d'Egitto.

PROLOGO

Fra le cose trovate da gli antichi

Per insegnare i buon costumi al mondo,

Nulla ve n'ha, che più diletti, e giovi,

Che le favole, ben condutte in scena;

E benché d'esse sian varie le sorti,

Fra quelle nondimen di maggior loda

Ottiene la tragedia il primo luoco,

Siasi ella di fin mesto, o di fin lieto,

Come poema, che in gravità avanza

Onde compassion ne nasca, e orrore,

Purga da' vizi gli animi mortali,

E lor face bramar sol la virtute,

Veggendo che fin facciano coloro,

Che in tutto buon non sono, o in tutto rei.

Il che quantunque malagevol sia,

Ai più chiari, e più nobili intelletti,

Nondimeno ha voluto oggi il Poeta

(Quanto meglio ha potuto) addurre in scena

Ad utile comun, nuova tragedia,

Che in sé contiene il fin di Cleopatra,

A cui sopposto fu tutto l'Egitto,

E parimente il fin di Marco Antonio,

Che l'armi aveva contra Ottavioprese,

Per sopporre al suo imperio il mondo tutto.

Quindi vedrete, spettatori, quanto

Poco giovin gli imperi, e i tesori,

E le potenze, e l'altre doti umane

Quando il piacere a la virtù prevale,

Piacer che tragga l'uom fuor di se stesso,

E che guerra maggior fanno agli imperi

Le delizie, e i diletti, che son fuori

De l'ordine comun de la ragione,

Che molte squadre de' nemici armati.

E che puote regnar sol lungamente

Chi, preso il lume de la ragion per guida,

Sa comandare a sé, regger se stesso.

Questa è Alessandria, e quel, ch'è là è l'Egitto

Che sì fertile fan l'onde del Nilo.

Qui il caso avien, di cui parlato ho dianzi,

Che a molti potrà dar salubri essempi.

Più volea dir, ma veggo Cleopatra,

Che vuole uscir, e mio debito è darle

Luoco. Però mi basterà, per ora,

L'avervi mostro, che soggetto debba

Aver questa tragedia. Ora, nel fine

Di questo mio ragionamento, udienza

Grata vi cheggio, a nome del Poeta,

Il quale altro non pensa, altro non cura

Che porgervi, giovando, quel diletto

Che si conviene a favola reale.

Però vi prego, ch'ascoltiate attenti

Questo grave successo. Così mai

Van disio non vi tocchi, ma vi regga

La ragione in tal guisa, che la vita

Sempre abbiate felice, e il fin lieto,

E ve ne segua eterna gloria al mondo.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Cleopatra

Lassa, dove più mai debbo piegare

L'afflitta mente mia? mi trovo tanto

Da la Fortuna combattuta, ch'io

Non so a che più sperare in cosa alcuna.

Nutrice

Reina mia, queste mortali cose

Non rimangono sempre in uno stato,

Ma di dì in dì si mutan, d'ora, in ora,

E come chi è felice temer deve,

Che l'allegrezza non si muti in pianto'

Così chi miser' è deve sperare

Che la miseria si converta in gioia.

Però, se bene una, e due volte trista

Avete avuta la Fortuna, lieta

Vi devete sperar di averla ancora.

Cleopatra

Così seconda un lungo tempo sempre

Avuta l'ho, così felice, ch'io

Dubito ch'ella inacerbir si voglia,

E quanto mi alzò al sommo de la ruota,

Tanto mi cacci indegnamente al fondo.

Nutrice

E che cosa è, ch' ora temer vi faccia,

Che vi sia sì nimica la Fortuna?

Cleopatra

Ohimé, dapoi che Marco Antonio, e Ottavio

Vennero a la battaglia con le navi,

Et io, da feminil paura spinta

(Ché soffrir non potei sì fiero assalto)

A fuggir cominciai, quando vittoria

Devea sperare, e Marco Antonio astratto

Dal singolare amor che mi portava

Si diè a seguirmi, e ad Ottavio in preda

Lasciò l'armata, onde vittoria ottenne,

Sempre avuto ho in memoria le parole,

Ch' uno dei maghi miei disse ad Antonio,

Che, mentre egli sol' era, avea fortuna,

Illustre, eccelsa, ma ad Ottavio giunto

Vile tosto veniva, oscura, e bassa.

Il che vero ho veduto insino ad ora,

Ché mai sempre rimaso è in ogni guerra

Vincitor contra Marco Antonio Ottavio.

E temer ciò mi fa, ch'al fin l'Egitto

Resti in forza ad Ottavio, e che scacciata

Io sia del regno, e così io venga preda

Del vincitor romano, et in trionfo

Condutta sia, come vil serva a Roma.

Ma prima cacciar vo' del corpo l'alma,

Ch'a vergogna sì vil condotta io sia.

Nutrice

Che stran pensier vi turba, ohimé, la mente?

Sete come colui, che in campo viene

Per far battaglia, e trema anzi la tromba.

Sapete pur, che in Alessandria accolte

Le genti contra Ottavio ha Marco Antonio

E deono venir' oggi a guerra insieme,

E forse, insino ad or, vi son venuti.

E perché non potrebbe esser, ch'Ottavio

Ne la battaglia perditor restasse?

Stabile, e ferma veritade quello

Non è, ch'avenir deve, e non più questo

Esser può, che quell'altro. In man di Dio

Il futuro è, Reina, e poco saggio,

Esser possendo l'uno, e l'altro, è quegli,

Che sperar non vuol ben, temere il male.

Però, senza più affliggervi, vi piaccia

Voler veder de la battaglia il fine.

Cleopatra

Non può quegli sperar lieto successo,

Che si vede Fortuna ognor contraria,

E come i casi lieti dan speranza

Così la levan gli infelici a fatto.

Ho già veduto io, che fin debba avere

Questa battaglia. Se fu Marco Antonio

(Quando scemate non erano punto

Le forze sue) perdente, che sperare

Debb' io che queste sue reliquie estreme

Abbian ne la battaglia oggi vittoria?

L'aver perduto una, e due volte, e avere

L'eccidio suo, la sua ruina innanzi

Spesso è cagion, che quel, che non potero

Molti soldati fare, il fanno pochi.

Nutrice

Rimaner vi dee pur, Reina, a mente

Quel, ch'udito da lui più volte avete

Che fra' Parti fu già da Faraote

Condutto Marco Antonio a stato tale,

Ch'ei, per non esser del nemico preda,

A Ranno, servo suo, commesso avea,

Che l'uccidesse, e gli togliesse il capo

Dal collo, acciò che il suo crudel nemico

Conoscerlo fra i morti non potesse.

E nondimen rimase il Parto vinto

Dal vostro Marco Antonio in quella guerra.

Egli è, Reina, quel capitano ora,

Ch'era a quel tempo, anzi più esperto assai.

E s'allor vinse, perche non debbiamo

Pensar che vincitore ora anche resti?

Cleopatra

De la perdita, ohimé, mi dier gli Dei

Cara nutrice, allora indizio espresso

Ch'egli l'armata contra Ottavio mosse.

Nutrice

E ch'indizio fu quel, ch'or sì v'affligge?

Cleopatra

Aveano alcune rondinelle il nido

Per molti giorni fatto in quella nave,

Che nome avea da Marco Antonio, Antonia,

E prima che venesser con le navi

Ottavio e Marco Antonio a la battaglia

Ve ne venner di nove, e a guerra insieme

Venute essendo, fuor scacciar le prime,

E il nido tolser loro, il che mi mostra,

Nutrice mia, ch'al fin sarà scacciato

Di questo regno, chi or possiede il regno.

Nutrice

Se i regni si perdessero ogni volta,

Che fan guerra fra lor gli augei, Reina,

Sarebbe sempre sottosopra il mondo.

Ma, quando avesser pur le rondinelle

Portato augurio alcuno, volea forse

Mostrar, che vincitor deveva Ottavio

Esser, come fu allor. Ma ora è finito

Questo sospetto, e fia gran senno omai

Ad altro dare il cor, ch'a le querele.

Cleopatra

Forza è, ch'al lamentar si dia colei,

Che non si vede innanzi altro che pianto,

Né prometter si può se non dolore.

Ma chi è costui, che sì maninconioso

Sen vien verso la corte? Egli è un de' miei

Famigliari, nutrice; e in atto mostra

Esser più d'ognun tristo. Or da costui

Udrai s' avrò cagion di pianger sempre.

Vo' che qui l'aspettiam.

Nutrice

Come vi piace.

E prego Dio, che questo timor vostro

Abbia tal fin, che ne restiate lieta.

Cleopatra

Come esser puote ciò, se congiurate

Sono contra di me nel ciel le stelle?

SCENA SECONDA

Famigliare

Miser colui, cui la Fortuna volta

Le spalle, e gli si mostra aspra nemica,

Può ben ei dir d'esser rimaso senza

Presidio, e il vede or Marco Antonio in fatto,

Né liberalità vi giova, o indizio

Che si mostri ad altrui d'animo grato,

Perché mantenga la giurata fede.

Ieri, perché un soldato alto valore

Contra il nemico avea mostrato, in campo,

Per più animarlo, Marco Antonio, doni

Singolari gli diede, e Cleopatra.

E l'infedel la notte ito è ad Ottavio,

Et oggi preso ha contra Marco Antonio

(Nulla curando i doni, e la fé nulla)

Sì alto benefattor suo, l'arme in mano,

Testimon dando, ch 'animo al mal vòlto

Non si puote mutar per benefici,

Ma con l'ingratitudine compensa

I benefici, e de la fede manca.

Pur che gli si offra cosa, onde servirsi

Possa, ad utile suo, con l'altrui danno,

E che se ben qualche desio d'onore

Talor lo sprona a qualche bella impresa,

D'ogni cosa al fin può più la Natura,

Avezza al male et al mancar di fede,

Né basta a tal esser malvagio, e reo

Ma spessissime volte seco tira

Molti altri, e molti a le scelerate opre,

Il che si vede chiaro in questa guerra.

Cleopatra

Molto afflitto si mostra questi in atto,

Né altro aspettar da lui posso ch'affanno.

Famigliare

Col mal officio, ch'ha fatto costui,

A la ruina nato de l'Egitto,

Ch'espor devea per Marco Antonio l'alma,

Indutti ha quei, che mille volte, e mille

Giurato a Marco Antonio han servar fede,

Ch' ora tradito l'hanno, e si son dati

Tutti ad Ottavio, e per lui prese han l'arme

Contra il lor capitan malignamente.

E vero, è vero quel, che si suol dire,

Che chiunque possiede maggior gente

E' più d'ognun da' suoi nemici involto.

Gran ventura ben fu, che Marco Antonio

Si ridusse a quel colle, per vedere

Con ch'animo assaliano i suoi soldati

Ottavio, e ch'egli indi sperar devesse,

Che, se ne la battaglia si trovava,

Il davano al nemico ne le mani,

Or l'essercito ha vòlto con l'armata

Contra AlessandriaOttavio, e a la reina

Nostra, e al regno porta ultimo eccidio.

Cleopatra

Veggo, nutrice mia, quanto infelice

Novella apporta questi.

Famigliare

O poverella,

O poverella Cleopatra, a che ora

Condutta sei? Oh quanto fu infelice

Per te quel dì, che con la nave d'oro

E coi remi d'argento, e con le vele

Di porpora n'andasti a Marco Antonio,

Ornata sì, che simigliavi proprio

Vener, che Bacco a ritrovare andasse.

Allor, misera te, fu la ruina

De te medesmo, e del tuo regno espressa.

Cleopatra

Starai a veder, che Marco Antonio in questa

Battaglia è stato vinto, e preso, e morto.

Nutrice

Forse che no.

Cleopatra

Io veggo bene quanto

Dolente vien costui verso la corte.

Famigliare

Ma vedi com'a un tratto, avrà perduto

Questa reina Marco Antonio e il regno.

Che così tosto ch'egli vide andare

L'armata et i soldati da la parte

Del suo nemico, si pensò che fusse

Cleopatra cagion del tradimento.

Cleopatra

Io non posso soffrir tanta dimora,

Andiamo a lui, nutrice. Che novella

Porti dal campo?

Famigliare

La peggior, Reina,

Che si possa portare a real donna.

L'armata, et i soldati hanno tradito

Il vostro Marco Antonio, et il nemico

Vincitor vien verso la terra armato,

Per far preda di voi.

Cleopatra

Ohimé dolente,

Bene il cor mi dicea, che ciò sarebbe,

Ché sapeva io ch'ove fortuna manca,

Fede non è in alcuno, e tanto amici

Ha l'uom, quanto è felice, ma se viene

Meno la sorte buona, ei riman solo.

Ma, dimmi, è vivo Marco Antonio? o morto?

Famigliare

Egli vivo è ma sciocchezza è che in lui

Poniate alcuna speme.

Cleopatra

Ch'è egli forse

Ne le mani di Ottavio?

Famigliare

Egli è pur salvo.

Cleopatra

Ma perché in lui non debb'io por più speme,

S'egli salvo è?

Famigliare

Perché per capitale

Nemica vi ha.

Cleopatra

Per capital nemica

Mi ha Marco Antonio? che ne sai tu?

Famigliare

Tosto

Che si vide tradir da' suoi soldati

Diede la colpa a voi del tradimento,

Dicendo: Ovunque vado, o Cleopatra,

Provo, a ruina mia, l'insidie tue.

Ne la battaglia de le navi in preda

Mi lasciati ad Ottavio, indi fuggendo,

Et ora contra me fatt' hai voltare

Tutta la gente, che mi avevi data,

Perch' io rimanga del nemico preda.

Nutrice

Che strano guiderdon del vostro amore

Avete, ohimè, Reina.

Cleopatra

Questo a punto

Nutrice è la mercede, che la ria

SCENA QUINTA

Marco Antonio, Servo, Capitano.

Marco Antonio

Io non voglio,

Fedel mio, andar in man d'Ottavio vivo,

E come sicur ciò possa schivare,

Cassio già me 'l mostrò, me 'l mostrò

Bruto.

Capitano

Ne vo' che morte anche vi diate, questi

Non son pensier, Signor, degni di voi.

Vo', che pensiam di ricovrare il regno,

E non di gire indegnamente a morte,

E che non goda Ottavio di vedere,

Che noi ci diamo, da noi stessi, morte.

Marco Antonio

Ahi fedel mio, quanto sarei sciocco ora,

S'io pensassi poter ricuperare

Quel, ch'ha dato Fortuna al mio nemico,

Facendomi tradire a que' soldati,

Con cui sperava aver certa vittoria.

E più sciocco sarei, se non essendo

Quel, che dianzi era, avessi il viver caro.

Morir vo' adunque, e con la morte mia

Omai por fine a le miserie gravi.

Et a trastull' esser de la ria Fortuna,

Che contra me s'è per Ottavio armata.

Capitano

Signor, sì come non si inalza il saggio

Per le felicità più che convenga

A la prudenza, così egli non lascia,

Che caso averso il suo valore opprima.

Avenga ciò che vuole, egli è quel sempre,

Ch'egli era prima, e pur non muta il viso,

Non che sommetta l'animo al dolore,

Però, benché crudelmente vi assaglia

Or la Fortuna, e ogni sua forza adopre,

Per farvi il più infelice uomo del mondo,

Non devete lasciar l'animo vostro.

Io voglio che pensiam, che esser non possa

Perdita, ovunque è Marco Antonio salvo;

E che, col valor vostro, anche potreste

Ottavio indurre a battersi la guancia.

Marco Antonio

Sciocco colui, che nel fondo del mare

Si trova nudo, e d'ogni forza privo,

E poter spera andare al lito salvo;

E che giunto a l'estremo de la vita,

Pensa di ricovrar la sua salute.

Capitano

Prego, Signore, che per certo abbiate,

Che insin che voi non perderete voi,

Dir non porà di avere Ottavio vinto.

La Fortuna talor preme i felici,

Per inalzarli poscia a maggior grado.

Non vi sta a mente, che dapoi che Mario

Al tempo di Sulpizio, fu da Scilla

Vinto, et egli fuggì senza presidio,

E dopo duri, e vari casi, preso

Da' Minturnesi, et al fin dato in guardia

A Fania sua nemica, onde aspettava

Di dì in dì, d'or in or morte crudele,

Egli servò però tanto di Mario,

In quell'estremo caso, che il Francioso,

Ch'ito era a torgli il capo, con la voce

Spaventosa, e terribil, di timore

Empì di modo, ch'ei si diè fuggire,

E del carcer lasciò la porta aperta,

Onde se n'uscì Mario incontinente,

E contra Scilla anche sen venne a Roma,

E molti, e molti de' nemici uccise:

E consule al fin fatto, uscì di vita.

Sprezzato non è mai, chi sé non sprezza,

Ma chi in cor serba un generoso ardore

Si acquista pregio anche ne' casi estremi,

Malgrado che se n'abbia la Fortuna.

Marco Antonio

Avuto ho del futur io chiaro segno,

Insino nel principio de la guerra,

Sognandomi, ch'un fier fulmine acceso

Mi avea percossa la mia destra mano.

Ma assai più leggermente si conosce

La sorte rea, ch'ella schivar si possa.

Appresso i suoni, che s'udiro, e i canti

Ieri di notte uscir fuor de la porta,

Mi fecero conoscer, che il dio Bacco,

Sotto il favor del qual son visso sempre,

Mi abbandonava, e Cleopatra istessa

Nemica mi è. Però più non avendo

Presidio alcun divin, presidio umano,

Che debbo io altro bramar, che morir tosto?

Capitano

Questa non è, Signor, la prima volta,

Che dato vi ha crudel Fortuna assalto,

Ch'avete più di una fiata seco

Già combattuto, e la vittoria avuta,

Ella vinta si rende, Signor mio,

Quando altri contra lei si mostra ardito.

Io prego, che non vi esca de la mente,

Che in quel misero tempo ch'Irzio,ePansa,

A Modena ebber rotto il vostro campo,

E in Italia avevate già perduto

Ogni speme d'aiuto, voi, voi stesso

Servando invitto contra il suo furore,

(Superati disagi mille, e mille)

Passaste l'Alpe valorosamente,

Pensando aver da Lepido soccorso,

E mostrato vi s'è esso aspro nemico,

Voi debole, et afflitto superaste

Ogni suo sforzo. Onde sentendo Ottavio,

Ch' avevate il camin vòlto a l'Italia,

Ebbe a gran grazia di venirvi amico.

E l'imperio con voi partì del mondo;

Che s'aveste, com' ora fate, voi

Posto in oblio, rimanevate morto.

Signore, insin che questa mano è salva,

E questo core il suo valor mantiene,

Come usato è, io fermo creder voglio

(Faccia quanto può far l'aspra Fortuna)

Che vi sia speme ancor de la vittoria.

E (quando pur perder bisogni) fate,

Che chi veduto vi ha pregiato, e grande

Mentre eravate vivo, in stato eccelso,

Vi vegga anche pregiato e grande morto,

In questa indignità de la fortuna.

Marco Antonio

Non so, non so, come ciò far si possa.

Capitano

Stringianci insieme a l'ultimo bisogno,

Signore invitto, e con la spada in mano

(Facendo valorosamente strazio

Di chi verrà contra di noi) moriamo

Da valorosi tal, che se ben morti

Ne vedrà Ottavio, non ne vegga vinti.

Facciamo che le piaghe nostre onore

Versino più, che non faranno sangue.

Giudico meglio assai, che combattendo,

In messo a' corpi de' nemici un cada,

Ch'egli, venendo a se stesso nemico,

Con la sua propria man se stesso uccida.

Vergogna a Cassio fu, vergogna a Bruto,

Che morisser da sé, come moriro.

Pare a voi, che venisse da gran core

Quell'atto, et a me par, che da viltade

Venisse ciò, l'animo lor non dando

(Versando il sangue de' nemici in terra

Come versar ben ve 'l poteano entrambi),

Morir, con l'arme in man, da coraggiosi.

Però Signor, serviamo questa destra,

Destra di valor pegno, e di fortezza,

A far del sangue ostil l'erbe vermiglie.

Servo

Signor, ben vi consiglia il Capitano,

E quantunque io sia servo, e molto toglia

L'infima sorte a la mia parola,

Pur vi prego ancor io, per quella fede,

Con cui servito vi ho sempre di core,

E per quello immenso animo, che sempre

Bramoso mostro vi ha d'onor, di pregio,

Che lasciate or questo disio di morte,

E vi accostiate al suo fedel consiglio.

Marco Antonio

In tanto dubbio son di me medesmo,

Che meglio del morir non so vedere.

Ma la nutrice uscir di Cleopatra

Veggo, tutta dolente, e tutta mesta,

E lacrimando, lacerarsi il petto.

Qualche cosa sinistra ne la corte

Avenut'è, creduto averò in vano,

Che mi abbia Cleopatra al fin tradito.

Però che, se venisse Ottavio a lei,

Come amico, saria la corte tutta

In allegrezza: ora attendiamo insieme,

Che novelle ci apporta questa vecchia.

Capitano

Dio voglia, che non sia la secure

Che gli levi dal collo, a un colpo, il capo,

Togliendogli del core ogni pensiero,

Degno non pur d'imperador, ma d'uomo.

SCENA SESTA

Nutrice

Ahi quanto invidiosa è la Fortuna

De le allegrezze umane! Quanto fele

Pone costei ne le dolcezze altrui!

Marco Antonio

Ahi che mal m'indovino.

Nutrice

O Cleopatra,

Or dove son le tue virtuti? Or dove

E' quella altezza, onde n'andavi sopra

Qualunque altra reina? Ov'è quel fiore

Di beltà così rara? A un'ora, a un'ora

Misera me, dolente me, averai

Il tuo regno perduto, e te con lui.

O Marco Antonio, come fu crudele

Quella tua voce! come mai potesti

Dir, che ti aver colei tradito, a cui

Eri più a cor, che la sua propria vita?

Marco Antonio

Io mi sento uscir fuor del corpo l'alma,

Io vo' saper, che lamentare è questo,

Poi che par, che costei di me si doglia.

Nutrice

Oh dolorosa me, quanto infelice,

Quanto calamitoso questo giorno

E' stato a questa corte, a questo regno!

Marco Antonio

Che vi è nutrice ?

Nutrice

Ahi Signor mio, vi è il fine

D'ogni nostra allegrezza, e d'ogni bene.

Marco Antonio

E che?

Nutrice

Io aver non posso, Signor mio,

Tanto spirto a la voce, ch'io ve 'l narri.

Marco Antonio

Perché? Fate ch'io il sappia.

Nutrice

Perché omai

Ci è tolta ogni speranza di salute.

Capitano

Perché? perché temete Ottavio? Questi

Sol basta a far che siamo salvi tutti!

Sono a la porta buon presidi, e prima

Ch'egli ispugnati gli abbia, in luogo forte

Ci ridurremo, e non avrà vittoria

Di noi, ché potrebbe egli esser perdente:

Salvo il nostro signor siam salvi tutti.

Nutrice

Non bramiam più salvezza, anzi a gran grazia

Fia a tutti noi la morte, poi che morto

Ci è quanto ben noi avevamo al mondo.

Marco Antonio

Che dite voi di morte?

Nutrice

Io dico: Ahi lassa,

Ch'ogni gioia mi è affanno, e che la vita

Mi è morte espressa, poscia che mi è tolta

Chi mi fea l'amar dolce, e il tristo lieto.

Marco Antonio

E chi?

Nutrice

Signor, colei che la vita era

Di questo impero, et era anche la vostra,

E la nostra salute. Ohimé, Reina,

Reina, ohimè, ohimé, ove vi ha condutta

Rispetto altrui?

Marco Antonio

Piangete Cleopatra

A quel ch'io veggo.

Nutrice

Io piango lei Signore,

Lei piango sol, sol lei, né più mi spero

Cosa lieta veder, mentre ch'io viva.

Marco Antonio

E che non vive Cleopatra? Ahi lasso,

Non vive Cleopatra?

Nutrice

No, Signore,

Che vivere non volle in ira a voi;

Ma volle la infelice farvi chiaro,

Col suo morir, che non vi avea tradito.

Marco Antonio

Ohimé.

Nutrice

Come mai foste, alto Signore,

Dubbioso sì di lei, che la chiamaste

Disleale, infedele, e traditrice?

Ohimé infelice, ahi trista me, che senza

Il vostro amor viver non ha voluto.

Marco Antonio

Dunque è solo per me Cleopatra morta?

Nutrice

Per voi, Signor. Tantosto ch'ella udìo,

Che l'amor vostro avea perduto, un grido

Grande alzò al cielo, e disse : Ver non fia

Che in ira a Marco Antonio io resti viva.

E detto ciò, prese un coltello in mano,

E disse: "Il sangue mio testimon fia

De la innocenza mia, de la mia fede

E questo detto: "Oh misera, oh infelice,

Oh dolorosa me", si passò il core,

E cadeo morta.

Marco Antonio

O Cleopatra, adunque

Viver poss' io, sapendo esser te morta?

E morta, ohimé, solo per mia cagione?

Ahi, Cleopatra mia, dove sei gita?

Ma data morte ti ha, non la tua mano,

Ma la mia, ahi lasso, e la mia anche a me stesso,

O Cleopatra mia, darà la morte.

Ahi fedel servo, ahi Capitan fedele,

Perché non mi lasciaste a morte gire

Dianzi, ch'udir avrei schivata questa

Novella, a me più che la morte amara?

Veggo ben 'io, ch'un infelice, ohimé

Vivendo, si conserva a mille angoscie,

Mostro mi hai dunque Cleopatra, come

Si dee far fine a le miserie umane.

Capitano

Signore, vane son queste querele,

E a voi disconvenevoli, a salvarsi.

Pensar bisogna, e a ricovrar l'Impero,

E non pensar di voler darvi morte,

Perch' una feminuccia si sia uccisa.

Fuss'ella morta pure, ha già dieci anni,

Che per lei, voi potete dir d'avere

Perduto il vostro Impero; che vi ha fatta

Ella, co' modi suoi, guerra maggiore,

Che non fé mai con le sue forze Ottavio.

Ricovrate voi dunque, e siavi a grado

Che la calamità vostra sia morta.

Marco Antonio

Or taci, e fa', se mi ami, che più mai

Io non oda da te queste parole.

Valeva più costei, che tutto il mondo.

Capitano

Ben avea questa un animo romano

Tutto in sua forza.

Nutrice

Io me ne maraviglio.

Marco Antonio

Nutrice, io verrei dentro a veder quella

Morta, che viva era la vita mia,

Se non che so, che a quella beata alma

Grave sarebbe, ch'io vedessi ahi lasso,

Quel corpo, a cui già dava ella la vita,

Solo, per colpa mia, di vita privo.

Però, nutrice, voi l'estremo ufficio

Farete verso lei.

Nutrice

Non mancheremo,

Signor, del nostro debito, quantunque

Miserabil ne sia vederla tale.

Marco Antonio

Entriamo in casa, et ivi a le mie angoscie

Con la morte darò dicevol fine.

SCENA SETTIMA

Nutrice

Sì misera veggo or la mia reina,

E sì intenta la sorte ai danni suoi,

Ch'io temo molto che mentre mi ha fatto

Con finti pianti, e con mentite grida,

Mostrar, ch'ella sia morta, a Marco Antonio,

Non gli abbia procacciata ella la morte.

Il che se fia, sé avrà la mia reina

Uccisa, e Marco Antonio. Ahi questo è duro,

Quando la sorte al fianco, è a l'uom col peggio

Scerner poter il meglio. Ir vo' al sepolcro,

Per dirle questo, acciò che se parralle,

Faccia sapere a Marco Antonio, ch'ella

E' viva. Perché lui può, a questo modo,

Scampare, e lei da l'imminente morte.

SCENA OTTAVA

Cleopatra

In dubbio son di me medesma, insino

Che novella non ho da la nutrice,

Di ch'animo ver me sia Marco Antonio.

Va tu a trovarla, e di', ch'ella s'affretti,

Che giù l'attendo.

Cameriera

Io vado.

Cleopatra

Piaccia al Cielo,

Che tal risposta abbia, dal signor mio,

Che in questo mar de le miserie gravi,

Mi sia come un sereno, e chiaro lume,

Ond' io possa sperar di avere il porto,

Porto non già così sicuro, ch'io

Non tema gravi, e perigliose angoscie,

Ma porto tal, che in queste mortali onde

Nel mar de' miei dolor, non sia sommerso,

Con ogni mia felicità, l'amore

Di Marco Antonio.

Cameriera

La reina

Vi aspetta.

Nutrice

A lei veniva,

Senza che mi chiamassi, a lunghi passi.

Cleopatra

Or ecco la nutrice.

Nutrice

Io mi credea

Trovarvi entro al sepolcro, e però i' era

Per la porta di dietro entrata.

Cleopatra

Ohimé

Ch'uscita sono, per veder tornarti.

Dimmi, cara nutrice, che novella

Porti da Marco Antonio?

Nutrice

Che mai sdegno

Non spegne ardente amore. Il signor vostro

E' più vostro che mai, più che mai vi ama.

Cleopatra

E questo è ver?

Nutrice

Ver è, Reina.

Cleopatra

Mi hai

Data la vita.

Nutrice

Se questa novella

A voi data ha la vita, io temo molto,

Che la novella de la morte vostra

A lui non sia cagion di darsi morte,

Tanto turbato il vidi, et aver tanto

Sé, inteso morta voi, la vita a noia.

Cleopatra

Ahi che mi dici?

Nutrice

Certo io gli avrei

Scoperto il ver, s'io non avessi avuto

Timor di errare.

Cleopatra

Ohimé cara nutrice:

Ch'aspra novella a questo?

Nutrice

E' di bisogno,

(Che il lamentarsi qui nulla rileva)

Che cerchi a provedergli, co 'l mostrargli

La vita vostra.

Cleopatra

Vien tu eunuco fuori,

E vanne a Marco Antonio, e digli ch'io

Son viva, e ch'io mi aveva finta morta,

Per saper s'era forse ei meco in ira,

Per volermi morir, s'egli mi odiava,

Ma, poiché certa son de l'amor suo,

Io me ne voglio rimanere in vita,

Sol per poterlo amar, perch'egli m'ami.

Pregalo poi, per lo commune amore,

Ch'egli a me venga, acciò che o lieta, o mesta

Che sia la nostra vita, ambi commune

L'abbiamo, e la compiamo ambiduo insieme.

Eunuco

Io vo, Reina.

Cleopatra

Io qui nel mio sepolcro

Ti aspetto, e voglia Dio, che tu mi porti

Novella tal, che in parte il duol mi lievi.

Eunuco

Userò ogni mio ingegno, per addurvi

Cosa, Reina mia, che vi consoli.

SCENA NONA

Capitano

Quant'è mal consigliato uomo, che tutto

Si ponga in podestà di donna ch'ami,

E gli si faccia sì soggetto, ch'egli

A voglia sua mover non sappia un passo!

Questo gran capitan, poi che si diede

Tutto in arbitrio a Cleopatra, venne

Di coraggioso, come un servo vile,

Tremando, a un guardo sol, di questa donna,

Come tremar suol il fanciul per verga,

Et ora, ch'intes' ha, ch'ella si è uccisa,

(Laqual cosa non cred' io, a dire il vero,

Che so, quant'ella sia fallace, e scaltra)

Venuto è in guisa fuor di sè, ch'io stimo,

Che tener no 'l potrem, che non si uccida.

Par proprio un toro, che muggendo vada,

Poi che squarciata vede la giuvenca

Da fier leone, o ver da tigre irata.

Conforto più non può, non può ragione,

Non puote essempio addutto ritornarlo

In se medesmo sì, che si conosca

Che quantunque sia morta Cleopatra,

(Se pure ella mort'è) non è rimaso

Il miser signor mio dal nodo sciolto,

Ond'ella lo si avea fatto prigione.

Anzi con la catena, ond'era preso

Così morta, com' è, il trarrà a la morte.

Ben fu crudo l'influsso de la stella

(Se stella fu, ch'a ciò mai l'inducesse,

O non fusse Tisifone, o Megera)

Che in Egitto il condusse a Cleopatra,

Se viva, e morta gli devea far guerra.

CORO

L'alto, eterno Motore,

Che far l'uomo dispose

Sovra ogn'altro animal, saggio, e gentile,

Tal diede a lui valore,

Che chiaro appar, che pose

Nulla di basso in lui, nulla di vile,

Ma che gli diè un sottile,

E prudente discorso,

Ond'egli il bene, e il male,

In questa vita frale,

Scorger potesse, e porre un duro morso

Al desir, che il piegasse

A non lecite imprese, o ad'opre basse.

E perchè ei solo avesse

L'onore, e la mercede

Di ciò, ch'oprasse virtuosamente,

Chi liber farlo elesse,

Per don raro, gli diede

Tosto che nato fu, il don de la mente

Acciò che con l'ardente

Lume de la ragione

Il suo meglio seguisse,

E ciò, ch'è reo, fuggisse.

Ché s'egli fusse, senza elezione,

A questo, o a quello astretto,

Non avria biasmo, o loda alcun suo affetto.

E che post'abbia Dio

L'uom tutto in suo potere,

Il mostra il variar de l'opre sue.

Ché non poria il desio

D'oprar sì vario avere,

S'ad un' opra nascesse, o vero a due:

Ma perchè fatto fue

A oprar, non per natura,

Come in sorte è avenuto

Ad ogni animal brutto,

Che per natural corso sol procura

Far quella cosa, o questa,

Né libero volere ad altro il desta.

Non legò Dio la voglia

De l'uom, ma il fé signore,

Con vera libertà, de l'opre sue.

E pur ch'egli in sé accoglia

Il suo liber volere,

Et il don, che Dio gli ha dato, al ben adopre,

Fra gli altri egli si scuopre

Come un lucente sole.

Ma, se servo ei si face

Del van desio fallace,

Resta soggetto, e se poscia sen duole

N'have il Signor pietade,

E ricovra al ben far la libertade.

Ma s'egli volontario

Stringe fuori di modo

Il laccio, onde il desir pregione il mena

Et al suo ben contrario,

Più di servitù il modo

Brama, che vita libera, e serena,

Lega di tal catena

La sua libera voglia,

Che manca ogni virtute,

Che gli può dar salute,

E de la dignità natia si spoglia,

Onde compagno ha poi

Grave, e lungo martir, per gli error suoi,

E per ch'han scelto per lor meglio il peggio,

Doglia crudele, et atra

Affligge or Marco Antonio, e Cleopatra.

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Eunuco

Ahi potenza d'Amor, quanto sei grande,

Poi che colui, che mai non han potuto

Le cose averse, o gli infortuni gravi

Indurre a darsi morte, or lo vi ha indutto

Voce finta di morte di colei

Cui egli più, che sé, mostrava amare.

Oh come rimaner vuol la reina

Stordita a tal novella!

Cleopatra

Par ch'indugi

Molto a venir l'eunuco; io temo molto,

Che qualche caso stran non lo trattenga,

Ond' io n'abbia cagion di maggior doglia.

Nutrice

Io da questo tardar vo' sperar bene.

Cleopatra

Oda chi regge il ciel le tue parole.

Ma veggo la miseria mia sì grande,

Ch'ogni mal temo, e ben nessuno spero.

Eunuco

Io non so come volterò la lingua

A darle così dura, e ria novella,

Voluto ha il mio destin, che quegli io sia,

Che con spiegarle ciò le passi il core.

Veggola.

Cleopatra

Ecco l'eunuco, ecco che porta

Nel viso aperto il suo dolore interno.

Del mio male sarò stata presaga.

Sono stata costretta a venir fuori

Dal desir, che mi preme di sapere

Che sia di Marco Antonio. Che novella

Mi apporti tu?

Eunuco

Reina, io vorrei

Esser senz'occhi, e senza lingua nato,

Per non aver veduto, e per non dirvi

Di Marco Antonio, quel che dir vi debbo.

Cleopatra

Ohimé, che stran principio.

Eunuco

Egli, Reina,

E' poco men che morto.

Cleopatra

Ahi sorte iniqua

Sorte crudele, ohimé, spietata sorte,

Con ogni spezie di dolor pur vuoi

Farmi la più dolente, ch'oggi viva:

E per ch'have sì presso, ohimé, la morte?

Eunuco

Perch'egli con la spada ha sé percosso

Di sì grave percossa, e tanto sangue

Uscito gli è fuor de la piaga, ch'egli

Puote lo spirto a gran fatica avere.

Cleopatra

Ahi Cleopatra, ahi misera Cleopatra,

Questo colpo medesmo anche ha te uccisa.

Fammi sapere il tutto.

Eunuco

Egli sì tosto

Che da me intese, ch'eravate viva,

alquanto ricovrossi, e lieto disse:

Esser più non mi può grave la morte.

Cleopatra

Ahi lassa, ben fia a me grave la vita,

Se vita si può dir ch' abbia colei,

Che ir oda a morte chi era la sua vita.

Eunuco

Poi replicò, Non mi è grave la morte

Poi che colei, per cui mi son trafisso,

E' viva, e posso ancor l'ultimo fiato

Spirar ne le sue braccia. E questo detto

Levato si è con gran fatica, e vuole

Essere a voi condutto.

Cleopatra

Ahi, Cleopatra,

Mentre dubitato hai di Marco Antonio,

E col fingerti morta, cercato hai

Di assicurarti, a lui data hai la morte.

Nutrice

Il vidi, ahi lassa, e se mi aveste detto,

Ch'allor scoperto io gli avessi il vero,

S'io il ritrovava a voi, qual prima, amico,

Ciò non saria svenuto.

Cleopatra

Tu di' vero,

Ma fuggir non si può quel che il ciel vuole.

Ma molto non andrà, che la vendetta

Farò in me stessa, del commesso errore.

Se scioccamente errai, con pensier saggio

L'error corregerò con le mie mani.

Eunuco

Ecco, Reina, che si fa condurre

Da' suoi soldati a la presenza vostra.

Cleopatra

Ahi Marco Antonio, ahi Marco Antonio mio,

Come si incalza ogn'or più la Fortuna

Questa miseria n'apportò quel giorno,

Che col marital nodo ci congiunse,

E il destin fiero a' nostri danni intento.

Lieve mi fora aver perduto il regno,

S'io non avessi voi, Signor, perduto,

Solo sostengo a la mia fragil vita.

Ohimé, perché non può la mano vostra

Percuoter me, di sì gagliardo colpo,

Ché, come viva fai congiunta a voi,

Congiunta anche con voi restassi morta?

Ma molto non andrà, che quel, che voi

Far non potete con la mano vostra,

Io stessa il compirò, con la mia propria.

CORO.

Ahi voglia Dio, che questo non avenga,

Che ciò sarebbe una crudel secure,

Che a tutte il capo ci torria dal collo.

Marco Antonio

Reina, io voglio che restiate viva,

Acciò che, quando pur io esca di vita,

Io me ne vada almen di ciò contento,

Che ne la più fedel, ne la più bella

Donna, ch'ad uomo mai fusse congiunta

Per matrimonio, si rimanga viva

Di me memoria. Prego per l'amore,

Che ci congiunse, e per la ferma fede,

Che in voi vist'ho, mentre con voi son stato,

Che sovrastar vi piaccia in questa vita

Acciò che viva Marco Antonio in voi.

Questo vi cheggio, per l'ultimo dono,

Per lo più caro pegno, che possiate

Darmi, per testimon di quell'amore,

Che conosciuto ho singolare in voi,

Mentre Fortuna e il ciel non ci ebbe a sdegno.

Cleopatra

Ohimé non so, non so come esser possa,

Ch'essendo voi, Signor, l'anima mia,

Possa restar, se voi morrete, viva.

Cleopatra, Signor, viver non vuole,

Visto morto colui, ch'è la sua vita.

Marco Antonio

Entriamo, anima mia, ch'ivi averemo

Agio di dir ciò, che bisogna fia,

O vivo, o morto, che rimaner debba

Tratto, che de la piega io mi avrò fuori

Questa spada, and'io mi ho traffisso il fianco.

Cleopatra

Entriam Signor, ch'io vo' morir con voi.

CORO.

Ohimé, s'è Dio nel ciel, che tenga cura

Dei regni, degli imperi, e di chi regge

Le signorie, che son fra noi mortali,

Pregol, con tutto il cor, che ci riguardi

Con pietoso occhio, e servi la reina

Al regno nostro, e servi il regno a lei.

SCENA SECONDA

Eunuco

Il pensar d'esser lieto sempre in terra,

E di passar la vita senza angoscie,

E' pensiero di tal che non conosca

Qual la natura sia del viver nostro.

Il qual se ne sta esposta a la Fortuna,

E provarla convienci or lieta, or mesta,

Ch'ella non lascia, che senza il suo fele

Gustar l'uom possa mai dolcezza alcuna;

Né gli alti stati, né i superbi regni

Alcun mortale assicurar si ponno,

Ch'egli anche non sia segno a' strali suoi.

Visto ho sovente, in questa vita breve,

Che quanto più Fortuna al sommo estolle

Alcun, su il sommo de l'instabil ruota,

Tanto più indegnamente il fa cadere,

E ne dà chiaro essempio or la reina

Nostra d'Egitto, e Marco Antonio a Roma.

Ahi quanto è ver, che non è alcun beato

Mentre egli vive, e che il dì estremo è quello,

Che felice l'uom mostra, o il mostra tristo.

Cameriera

Ahi povera reina, che pietade

E' vederla sì afflitta!

Eunuco

Costei duolsi

Di quel, ch'io ragionava or ora meco.

Cameriera

Chi pensato avria mai vederla tanto

Per Marco Antonio gravemente afflitta,

Per cui si tenne già tanto felice.

Eunuco

Che piagni?

Cameriera

Io piango la sciagura nostra,

Misera me.

Eunuco

Qual gran sciagura e questa?

Cameriera

Nel trar fuor de la piaga a Marco Antonio

La spada, uscita gli è col sangue l'alma,

Onde morto è.

Eunuco

Deh fusse egli pur morto

Il primo dì, ch'ei venne in questo regno,

Ché involti non saressimo nei mali,

In ch'ora siamo la reina, e noi.

Cameriera

O povera reina, ella ben mostra

Quanto amato abbia Marco Antonio vivo,

Ora che morto l'ha dinanzi agli occhi,

Che così dolorosamente sopra

Gli si è gitata, e con sì smorto viso,

Che malagevol è conoscer chiaro

Qual sia il morto di loro, e qual sia il vivo.

O povera reina, quanto oltraggio

Fa con le mani a le real chiome,

Al suo petto reale, al real viso!

E temo assai, che con l'istessa spada

Levata che si sia di sopra il corpo

Del suo morto signor, non si dia morte.

Eunuco

Eccola ch'esce fuor, noi ritirianci,

Acciò che da sé sola lagrimando

Ammolisca il gran duol, che la traffigge.

SCENA TERZA

Cleopatra

Ahi Cleopatra, ahi misera Cleopatra,

E' giunto pur quell'infelice giorno

Che in grazia ti seria trovarti morte,

Per non aver colui morto veduto,

Che' era fido sostengo a la tua vita,

Anzi l'anima sua, la vita istessa.

Né solamente averlo visto morto,

Che grave ti saria mai sempre stato,

Ma morto di tua man, per tua cagione,

Dir puoi, misera te, di avergli porta

Misera te, la spada a la sua morte.

Ohimé dolente, ohimé, ben veggo chiaro,

Ch'al voltar, che Fortuna fa le spalle

A color, che mirò con lieto viso,

Assalto danno lor tutte le angoscie.

Mentre temuto hai, Cleopatra, l'odio

Del tuo marito, e ti sei finta morta,

Egli mostro ha l'amor, che ti portava

Col vero, e miser fin de la sua vita.

E, morto lui, tu puoi vivere ancora

Cleopatra infelice?

Eunuco

Creder voglio,

Che queste grida, e questo lagrimare

Scemerà a la reina in parte il duolo.

Cameriera

Anch'io così m'istimo.

Cleopatra

E mirar puoi,

Morto il tuo Marco Antonio, ancora il sole?

Questo non fia, non fia questo giamai.

Tu, Marco Antonio eri la vita mia,

Mentre vivo eri, e tu la mia morte anco

Ahi lassa me, sarai, poi che sei morto.

Et vo' che quella spada, che il camino

Aperse a l'alma tua, l'apra a la mia,

Per congiungermi teco. Tu crudele,

Tu fiera spada, che passasti il fianco

à mio signore, ora sarai pietosa

In trappassarmi il core! Il Ciel ben prego

Che come del commune sangue tinta

Misera me, sarai, come fra l'ombre.

Cameriera

Ohimé che veggo? Ohimé, si vuol dar morte

La reina.

Eunuco

Corriamo ad impedire,

Che non si passi il core.

Cleopatra

Così ancora

Tanto pietoso il Ciel ci sia, che i corpi

Nostri sian giunti in un sepolcro insieme.

Cameriera

Ahi Reina,

Eunuco

Ahi Reina, a che vi mena

Troppo dolor, troppo desio di morte?

Vi prego pur, morendo Marco Antonio,

(E voi gliel prometteste) che la vita

Vostra servaste, acciò che si vivesse

In voi l'anima sua, la sua memoria.

Però per quell'amor, che gli portaste,

Per l'ombra sua, per voi, cara Reina,

Per noi dolenti, e per lo stato vostro,

Per quella fé, ch'ancor vi tien congiunta

A l'anima del vostro Marco Antonio,

Vi prego, a lasciar or questo pensiero,

Et ad uso miglior servarvi viva.

Cleopatra

Viver non posso, morto il signor mio.

Egli era la mia vita, e senza lui

Questa vita mi è morte. E mi fia vita

La morte, poi che giungerammi a lui.

Però, se voi mi amate, e se fedeli

Servi mi sete, e se il mio ben vi è caro,

Lasciate, prego, ohimé, che se ne vada

Là, ove brama di gir la mia stanca alma.

Eunuco

Non si conviene a una reina tale,

Qual sete voi, sì miserabil fine.

E se il saggio discorso avrà il suo luoco,

Vedrete quanto sconvenevol sia,

Questo pensier, ch'ora vi sprona a morte.

Cleopatra

Differir ben potete il fine mio,

Ma non già far, ch'egli non abbia effetto,

Ché, se ben questa spada non sia molle

Del sangue mio, come volea che fusse,

L'angoscia grave, e il fier dolore interno,

Che mi traffigge il cor, con mille punte,

Caccierà fuor di questo corpo l'alma.

Eunuco

Entrate alta Reina, e ricovrate

Il core invitto a le terrene tutte,

Ché, se voi tornerete in voi medesma,

Vincerete il dolore, e la Fortuna

Vinta si rimarrà dal senno vostro.

Cleopatra

Non può più senno in me, non può consiglio,

Né posso più non rimaner sommersa

Nel mortal golfo degli affanni miei.

Eunuco

Chi volesse apparar di aver pietade

A le miserie altrui, mirasse questa

Incredibile angoscia, ch' ora preme

La mia infelice, e misera reina,

Ché se duro via più d'ogni diamante

Avesse o più d'ogn'orso fiero il core,

Non poria non dolersi ora con lei,

Ché la sua avanza ogni miseria umana.

Prima perduto ha la meschina il regno,

Il quale il più bell'è de l'universo.

Dopo il regno perduto ella ha il marito,

Che sperava veder signor di quanto

Scalda coi raggi il sole, e bagna il mare.

I figliuoli prigioni ha in man di Ottavio,

Che l'è quel fiero, e quel crudel nemico,

Che questa guerra vuol, ch'egli le sia.

E fra queste gran perdite, e sì gravi,

Si può dir, che perduta ella ha se stessa,

Ché tanto è il gran dolor, ch'ora l'affligge,

Che non credo, che mai durar vi possa;

E se il dolor può non le darà morte,

Ella la si darà con la sua mano,

Come ora volea far con questa spada,

Ché, per non si veder serva d'Ottavio,

Desterà la sua altiera, e real mente,

E con l'uscir di vita sottrerassi

(E non farà altrimente) al servil giogo.

Ahi quanto son fondate sovra il vento

Tutte le altezze, e signorie mortali!

Chi creduto avria mai, che da sì lieto,

Da sì felice, e da sì eccelso stato

Dovesse esser caduta in così trista

Fortuna, e in stato tal la mia reina,

Che il suo rifugio esser devesse morte.

SCENA QUARTA

Secretario

Se l'infelicità dei regni umani

Avesser corpo, e tutte insieme a questi

Apparesser, che braman sovrastare

Coi regni, e con gli imperi a tutti gli altri,

Credo, che porrian lor cotanto orrore,

Che fuggirian dai regni, e dagli imperi,

Come da cose a l'uman stuol mortali.

Ma lasciamo ire i tradimenti, i grandi

Sospetti di venen, ch'hanno e d'insidie,

L'inconstanza mortal così travaglia

Questi, che tengon signoria nel mondo,

Che, quando non vi fusse altro di reo,

A fargli miser sempre, ella sol basta,

Che non son tanto conquassate l'onde,

Quando il mar Borea impetuoso volve,

Quanto rivolti son gli imperi, e i regni,

Da l'assidua inconstanza de le cose.

Et io veduto ho in questo regno tanta

Mutazion, tanto aspro mar di doglie,

Poi che l'ha retto Cleopatra, ch'io

Non vi ho trovato altro, che angoscia, e affanno.

E se vi è stata contentezza alcuna,

L'angoscia stata vi è sotto nascosta,

Come nascoso è in verde prato l'angue.

Ora data ella s'era a Marco Antonio,

Che l'imperio tenea di mezzo il mondo,

Parendole, che questo esser sostengo

Devesse più di qualunque altro fermo.

E voluto ha la sorte, che mai tanto

Non adoprò il poter suo l'inconstanza,

Quanto adoprato l'ha, poi che ciò avenne.

Ma di quanti dolori ella ha sofferti,

E mentre sola ella reggea l'Egitto,

E mentre moglie è stata a Marco Antonio,

Non ve n'ha alcun, che comparar si possa

Al dolor, ch'ora la tormenta, e l'ange,

Poi che ella ha innanzi Marco Antonio morto,

E Ottavio se ne vien verso Alessandria.

Ella commesso mi ha, ch'io trovi Olimpo

Medico suo fidele, e diligente,

E gli commetta che sen venga a lei

Quanto più tosto, perché dia rimedio

A la gran passion, che il cor le preme;

Poscia ch'io spii, con ogni diligenza,

Ciò che fa Ottavio. Ma già il veggo giunto

Armato qui. Gliene vo' dare aviso,

Perch'ella non sia accolta sproveduta,

E poi me n'anderò a trovare Olimpo,

Poi che qui, ov'io credea, non l'ho trovato.

SCENA QUINTA

Ottavio

Poi che ridutto ho Marco Antonio a tale

Che difesa non ha, non ha rifugio,

Per uscirmi di man, perché più mai

Conciti le provincie, e i Romani

A farmi guerra, e a disturbar la pace,

La qual tante fiate egli ha già rotta,

Penso che megliofia torlo dal mondo.

Ma perché da me sol deliberare

Cosa non voglio d'importanza tale,

Essendomi amendue voi que' fedeli,

cari amici, che mi sete, e vaghi

Non men del bene mio, ch'io proprio sia,

Io voglio udir in ciò il giudicio vostro.

Che parti Agrippa?

Agrippa

Parmi, Signor mio,

Che levar la cagion di aver travaglio

Ufficio sia d'uomo prudente, e saggio.

E perciò parmi il parer vostro buono,

Né senza gran cagion così mi pare.

Perché quando stat'è d'auttoritade

Un ne la sua republica, et i cori

Ha mossi de le genti a le sue voglie,

Ancor che venga ad infima fortuna,

Scolpito resta ne le menti loro.

E se lor si offre occasion di fare

Qualche tumulto, il suo nome sol puote,

Non che il parlar, non che la sua presenza,

L'arme porre, in un tratto, a mille in mano.

Perché i soldati, il popolo, la plebe

Aman le novitadi, et i tumulti,

Parendo lor, che, col mutar signore,

Debbian mutar fortuna. Ma se morti

Veggon color, che lor dieder cagione

Di prender l'arme, il simil temon tutti,

E non avendo chi lor dia favore,

Non ardiscono più di alzar la testa.

Onde mi par, che poi ch' avete visto,

Che cosa alcuna mai non ha potuto

Vincer la mente del nemico vostro,

E che, dopo le paci, e le concordie,

Che con lui tante volte avete fatto,

Egli rivolto ha sottosopra il mondo,

E più fier sempre contra voi si è mostro,

Debbiate pensar anco, che il medesmo

Farà s'ei vive, e però parmi (e credo

Che d'un parer sia Mecenate meco)

Che la quiete, et il riposo vostro

Sia, che non resti Marco Antonio vivo.

Ottavio

Che parti Mecenate?

Mecenate

Ancor che saggio

Agrippa sia, Signore, e a me amico,

Per le qualità sue, non vo' tacere

Quel che mi par che il vostro meglio sia,

Lasciando poscia a voi l'arbitrio intiero

Di far quel, che terrete essere il meglio,

E se parravi il mio parer contrario

A quel, che voi proposto ora ci avete,

Pregovi che crediate, che non altro,

Che desio de l'onore, e del ben vostro,

Ora dir mi farà quanto dirovvi.

Ottavio

Io così credo, Mecenate, e s'io

Non avessi voluto il parer vostro,

Chiesto non l'averei. Ma perché il buono

E il vero ragionando, et adducendo

Ragioni in mezzo, si conosce aperto,

Ho voluto il parer d'ambidue voi.

Però di' pur ciò, che ti pare, e pensa,

Ché ciò, che tu dirai mi sarà grato.

Mecenate

Io saprei confortare ogni signore,

Ancor che manifestamente offeso,

Ch' avesse in suo potere il suo nimico,

Che non lasciasse, che disdegno, od ira,

Od appetito di vendetta il fesse

Bagnarsi nel civil sangue le mani.

Et, se compiutamente perdonare

on otesse la pena a chi la merta,

Cercasse almen di temperarla in parte,

Per mostrar, che non ira, né disdegno,

Ma una mite giustizia a ciò l'induce.

E deve esser più mite ne l'ingiurie,

Che riceve ei, che ne le fatte ad altri.

Cosa non è più generosa, e degna

Più di gran prence, che donar perdono

A chi disposto si è di fargli offesa.

Ché si sa, che un gran prence, che in sua mano

Abbia il nemico suo, può dargli morte,

Et in ciò poco onore egli si acquista;

Ma quegli è degno ben di eterno nome,

Che, potendolo uccider, gli perdona,

E col perdonar mostra al suo nemico

Quanto egli il vinca, e quanto gli sia sopra,

E se de la civil corona è degno

Chi salva un cittadin ne la battaglia,

Chi tal corona più meritar deve

Di un re, che servi con la sua clemenza

Quel cittadin da morte, ch'esso stesso,

Procacciata si avea la morte, avendo

La maestà del suo signore offesa?

Romano è Marco Antonio, e voi romano,

Però, Signor, poi che questa vittoria

Esser vi ha fatto imperador del mondo,

Non potete, con più efficace modo

Mostrarvi degno di grandezza tale,

Che perdonar l'offesa a Marco Antonio.

Ottavio

Parriati dunque, che dopo sì gravi,

E sì crudeli ingiurie ricevute,

Devessi perdonare a Marco Antonio?

E' cosa dura, più, che tu non credi,

Perdonare a colui, che mi s'è mostro,

Senza rispetto alcun, sempre nemico,

E mi ha condutto spesse volte a rischio,

Dopo le paci, e i parentadi fatti,

Di perder, con l'imperio, anche la vita!

Mecenate

Questa, Signor, (e vi cheggio licenza,

Di dir da fedel servo in questa parte

Quel che vuol la mia fé, ch'io non vi taccia)

Voce non è del cor vostro, del vostro

Invitto animo degna. Ché volere

Uccidere il nemico, per la tema,

Ch'abbia altri, ch'egli non gli faccia offesa,

Non conviene al valor, né a la fortezza

Di magnanimo cor: qual è il cor vostro.

Se non vi avesse offeso Marco Antonio,

Avuta non avreste voi materia

Di mostrar la bontà vostra natia.

Sarà questa cagion, che si conosca,

Che clemente non men sete, che forte.

Anzi, quanto maggiore è la sua colpa,

Tanto a voi maggior loda è il perdonargli.

Oltra di questo, io vo' dirvi Signore,

(Benché so, che il sapete) che se due

D'ugual potenza fanno insieme guerra,

Aver ciascun di lor vuol la vittoria,

Ché questo è il fin di tutte le battaglie.

E se mentre i soldati armati sono,

E l'ira bolle, e sono in mischia armati

I capitani lor, con ogni ingegno

Cercano che 'l nemico o perda, o mora,

E' cosa convenevole a quel tempo,

E gli è d'onor la perdita, o la morte

Del suo nemico. Ma se vincitore

Uno di lor rimanga, e resti l'altro

Sì oppresso, e sì d'ogni soccorso privo,

Che più non abbia and'aver speme alcuna,

E resti preso a l'aversario in mano,

Atto non è di generoso core,

Ma sì bene da barbaro inumano,

L'usar contra di lui spada, o secure.

Stato è vostro nemico Marco Antonio,

Mercè de le civili empie discordie,

Perché cercava, come voi, di avere

L'impero in suo poter de l'universo.

Ora ha la virtù vostra il tutto vinto,

E lui condutto a così estrema sorte,

Ch'a qualunque bass' uom può invidia avere.

E s'è così, come cert'è, che pregio

Vi può dar la sua morte? Fia creduto,

Che il vostro generoso invitto core,

Che non temette unqua il nemico armato,

Ora il tema condutto a estrema sorte.

Il che, come già ho detto, molto poco

Convenevol mi pare a l'onor vostro.

Lodò Ciro Crisanta, ch'avendo egli

Nudo ne la battaglia il ferro in mano,

Per percuoter a morte un cavalliero,

Che preso avea de la contraria parte,

Udito che sonar facea a raccolta

Ciro, e il nemico, il fier colpo ratenne,

Parendo, che cessando la battaglia,

Non gli fusse più lecito dar morte

A chi la spada avea quasi su il collo.

E se il soldato fu degno di loda,

Per salvar vivo un cavalier privato,

Quanta sarà, Signor, la vostra laude,

Se poi ch'estinta in tutto è questa guerra,

Per bontà vostra, serverete vivo

Chi a parte era con voi di tutto il mondo?

E se rotte altre volte egli ha le paci,

Fu perch'era possente, et era a parte

De l'imperio con voi, e sempre gente

Armate ebbe, e gran re, che il favorirno,

Quanto poteron più. Ma or si ritrova

(Come voi nel principio ci diceste)

Da ognun sì abbandonato, e in stato tale,

Che pericol non è ch'alzi la testa

Contra voi, solo imperador del mondo.

Agrippa

Se bene a Marco Antonio in stato umile,

Senza regno, et impero, e abbandonato,

Da chi il favoria prima, Mecenate,

I regni non gli son tolti dal core.

E uomo avezzo a sovrastare a gli altri,

Ancor che sia depresso, mai non lassa

Quell'animo real, per sorte aversa.

Però vo' che crediate, che sì tosto

Che gli si offrisse occasione, come

Molte potriano, e molte ancora offrirsi,

Di por l'impero tutto sottosopra,

Faria vedere, a manifesta prova,

Se fusse abietto, o pur s'anche serbasse

Animo di gran re, d'imperadore.

Et a schivar, che questo non avenga,

Altro modo non è, che morte dargli,

Sian quali esser si voglian le ragioni,

Che voi avete, Mecenate, addutte.

Mecenate

Uccidendo uno un re, minaccia molti,

Ché come con timor di ognun dal cielo

I fulmini discendon, benché pochi

Offesi sian dal lor furor, così anco

Non può l'ira d'un re mostrarsi fuore

Vers'un, che non spaventi tutti gli altri.

Né cosa è di gran re più indegna, ch'egli

Cerchi d'esser temuto più, che amato.

E la vendetta dei principi l'odio

Di pochi estingue, ma n'infiamma mille

Contra di lor: il che quanto ad Ottavio

Essere utile possa in questo primo

Ingresso de l'impero, io vo' lasciarlo

A la maturità del suo giudicio.

Io dirò bene, e credo dire il vero,

Che chi la sua potenza con modestia

E con pietà ministra, espresso indicio

Ad ognun dà, che sia d'imperio degno.

Oltra di questo: se ben similmente

Avesse, Agrippa, egli ora è tanto afflitto,

Che i suoi pensier si solveriano in vento.

Credete voi, che quando quello insano

Seco deliberò ferire il sole,

Per copia di saette che scoccasse,

Fra tante, e tante, che ne mandò al cielo,

Restasse il sol da alcuna d'esse offeso?

Agrippa

No 'l cred' io già, ma ben sciocco mi parve,

Chi si diede a tentare opra sì vana.

Mecenate

Or questo essempio puo mostrarvi chiaro,

Quanto si ponno aver color per pazzi,

Ch'umili, e bassi essendo, a' re possenti

Cercan di nuocer con le forze loro.

E quanto poco un re deve stimare

Impeto tale, essendo la sua altezza

Tanto sublime, che non può arrivarle

Impeto d'uom, che sia vile, et abietto,

Più che potesse il sol quei con gli strali.

Agrippa

Mecenate, io non voglio addurvi essempi

Contra gli addutti, ancor che poria dirvi,

Che la zanzara, ch'è animal sì vile,

Al leone, ch'è il re de l'altre fiere,

Fa guerra tale, che l'induce spesso,

Ad ire ad affogarsi in mezzo l'onde.

I' dirò sol, che poscia che Dio ha data,

Ai re con la potenza in man la spada,

Che la deono adoprar contra i nemici.

E se non usa il re l'arme in tal caso,

Mi par che non conosca la sua forza,

E se mal glien' avien poscia, se 'l merta.

Ottavio

Questa Mecenate è ragion, che puote

Farti veder quel, che in ciò far mi debba.

Mecenate

Signore, se mi lece conferire

L'umili cose a le sublime, e eccelse,

Parmi poter mostrar, che la natura

Istessa insegni ai re d'esser clementi.

Fra gli animali, che nel mondo sono,

Non ve n'ha alcuno al guerreggiar più pronto,.

Che sian le pecchie, e la natura a tutte

Ha dato l'ago al guerreggiare, e solo

Il signor fatto ha inerme, perché senza

Vendetta sia, senz'ira, e con quiete

Regga la moltitudine, ch'ei regge,

Il medesmo dee far, chi tiene impero,

Ché i re con detti de le patrie padri

Per dar loro a veder, ch'esser benigni

Deono, e non crudi, e come un padre saggio

Non vuol veder la morte de' suoi figli,

Quantunque in parte sia da loro offeso,

Così non deono i re voler la morte,

Quantunque in parte sian da loro offesi,

Di quei, che contra lor si sono armati,

Per quel, per cui si è Marco Antonio armato.

E se il re ciò non face, è di bisogno,

Che quanto temuto è, tant'egli tema.

E perché Agrippa dice, che la spada

Dio post'ha in mano a chi è signore in terra,

Perché l'adopri, dico ch'adoprare

La de' a diffesa de le gente sue.

E aver non la de' in man per dar lor morte.

E chi ciò fa, fa ch'i sudditi a lui

Lo guardan con quel cor, con quell'affetto,

Che Dio riguardarebber, se fra loro

In forma umana, discendesse in terra,

E per dar fine al mio raggionamento,

Io vi dico, Signor, ch'esser dee tale

Un re verso color, che l'hanno offeso,

Quale egli vuol, che Dio sia verso lui.

Agrippa

Et io dico: Signor, che troppo mite

Mecenate ha la mente, e che se vivo

Marco Antonio riman, potrete dire

Di aver a temer sempre, e che inquieto

Basta egli solo a far l'impero tutto.

E se si adopran l'arme, per avere

Quiete, e pace, che sciocchezza fora

(Potendolo levar) servar chi possa

Mover nove battaglie, e nove risse?

Però egli è giusto, e ragionevol molto,

Che Marco Antonio muoia, e che rimanga,

Per la morte di un solo ognuno in pace.

Ma chi è costui, che di qua vien, sì in fretta?

Egli è l'alfier del generale. Udiamo

Che novella ei ci apporta.

Alfiere

Il generale

Saper vi fa, Signor, che tutto il campo

Si è sollevato, per volere a ruba

Porre Alessandria, il ch'è contrario a quello,

Che ordinato avevate, e perché vede,

Che non vi è modo alcun di schivar questo,

Se non con la presenza vostra, tosto

Mandato mi ha, perché, senza dimora,

Vi piaccia di venir, per impedire

Disordine sì grave.

Ottavio

Andiamo, e poi

Che sete di parer fra voi contrario,

In quel che si dee far di Marco Antonio,

Ritornerete a ragionare insieme,

Ché so, che alcun di voi non fia sì intento

A voler mantenere il suo parere,

Che non possa più il vero in ambidue.

E mi riferirete poscia quello,

Che conchiuso averete, perché noi

Scegliamo quel, che ci parerà il meglio.

CORO

Io creder più non vo', che il saper nostro

Regga le cose umane,

Perché chiaro mi è mostro,

Che il muovere del cielo, e de le stelle

Sia quel, che il mondo aggiri,

E le nostre virtù faccia esser vane,

E che pianti, e sospiri

A l 'uomo apportano elle,

Se gli sono ribelle

Quand'è produtto in luce.

All'or non giova, ch'altri lunge miri,

Od abbia accorto duce,

Per ischivare aspre venture, e felle.

E fermamente credo,

(Per quanto provo, e vedo)

Che s'egli nasce sotto stelle amiche,

Mai non le abbia nemiche,

Ma sempre con lor giri

Gli appartien lieta sorte,

Sì che insino a la morte,

Senza sentir giamai doglie, o martiri,

Se ne viva contento.

Felici sol quei son, ch'al nascimento

Han le stelle benigne,

Ma vive con tormento

Chi le have aspre, e maligne,

Né vi val buon discorso,

Perché si solve ogni consiglio in vento,

Ché quel celeste corso,

A cui sapere uman non pone morso,

Fa vano, in un momento,

Tutto quel, ch'a suo bene altri ha discorso;

Ché se fusse possente

Antiveder prudente

Di opporsi a stelle rie,

In tante parti è corso,

Tentate ha tante vie

L'ingegno de la mia cara reina,

Che con la saggia mente

Avrebbe a sé, e a l'impero suo soccorso,

Et ischifata avria questa ruina.

Ma rivolto ha in niente

Il tutto il ciel, che morte le destina,

E la vuol far rapina

De la romana gente.

E sol perché destin tal ebbe in fasce,

Per far chiaro, ed aperto,

Che in questo ermo diserto,

Sua ventura ha ciascun dal dì che nasce.

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Olimpo

Poscia che il segretario a la reina,

Condutto mi ebbe, e ch'io la vidi afflitta

Più, che mai fusse sconsolata donna,

Non perché il regno suo perduto avesse,

Ma perché l'era Marco Antonio morto,

Io come quei, che ne l'infermitadi

Del corpo l'ho curata fedelmente,

Pensai di poterle anche tor dal core,

Con parole efficaci, quello affanno,

Che la traffigge con coltello acuto.

Et l'ho pregata a non voler patire,

Che mora il regno e lei, con Marco Antonio,

E che noi tutti andiamo a fil di spada.

E che per questo ella devria ridursi

In luoco forte, come ve n'ha molti,

Ove col vincitor ella potesse

Pigliar qualche partito a sua salute,

Ma l'ho trovata sì fuor di se stessa,

Che non pur non ha dato al parlar mio

Orecchio, come dar ben gli devea,

Ma chiesto mi ha che le apparecchi un tosco,

Onde senza dolore ella si muoia.

E perché ho detto, che servar la vita

E' del medico ufficio, non di torla,

E che più tosto ucciderei me stesso,

Che lei, che sovent'ho tolta a la morte,

Venuta è in tanta rabbia, che scacciato

Mi ha da sé, con parole aspre, e crudeli,

Come se tolto io gli avess'il regno,

O morte avessi dato a Marco Antonio,

E se ne sta sì priva di consiglio,

Ch'ella ha posto in oblio quanto gran danno

Le apporti questo giorno. Et per seguire

L'ombra di Marco Antonio, par che brami,

Che cada al suo cader la terra, e il cielo.

Veggo uscir la nutrice, ella saprammi

Dir, se pensier mutato ha la reina.

SCENA SECONDA

Olimpo

Che ci è nutrice?

Nutrice

Ci è, che la reina

Vi prega, che vogliate a lei venire,

E non vi avere a mal, ne avere a sdegno

Quanto ella detto vi ha, dal dolor vinta.

Olimpo

So che mutazioni, in picciol tempo,

Si veggono in un core addolorato.

Quel che prima aggradia, gli viene in oDio,

E quel ch'odiava gli vien grato, e caro,

E però ufficio è d'animo gentile

Non si pigliare a mal cosa, che dica

Il suo signor ver lui, massimamente

Quand'ira o gran dolor l'occupa l'alma,

E però tanto men mi ho preso a sdegno

Cosa che detta m'abbia, quanto ho visto,

Ch'a dirmi ciò grave dolor l'ha indutta.

Nutrice

Mostrate ben, Signor d'esser quel vero

Servitor, che vi vidi esser mai sempre

A la reina nostra. Entriamo adunque,

Che in lei mi par veder scemare il duolo,

Tosto che vi vedrà.

Olimpo

Deh voglia Dio,

Ch'io trovi modo di piegarla tanto,

Ch'ella dia in parte luoco a la ragione,

E il suo procacci, e insieme il nostro scampo.

SCENA TERZA

Mecenate

Agrippa, non bisogna in questo caso,

Solo considerar, che Marco Antonio

Pres' abbia contra Ottavio in mano l'arme,

E che perciò paia di pena degno;

Ma bisogna veder quel, che d'onore

Esser debba ad Ottavio, et atto a fare,

Ch'egli mantenga questo grande impero,

Che nel più bel fiorir degli anni suoi

Si ha guadagnato con sì chiara gloria,

Perché un gran regno via più agevolmente

Perder si vede, ch'egli non si acquista.

Sarei contento, per dir vero anch'io,

Che nel grave conflitto de la guerra

Fusse rimaso Marco Antonio morto,

Perché ciò senza biasmo esser potea,

Ma poi che salvo egli è rimaso ancora

Che far possa di lui quel, che gli piace

Ottavio, io tengo, che non debba mai

Venire ad atto così sozzo, ch'egli

Uccider faccia, per temer di lui,

Un cittadin romano, un suo parente,

Un che dapoi che Cesare fu morto

L'imperio gli servò, che saria stato

E da Brutto, e da Cassio, e dai seguaci

Occupato talmente, che più mai

Parte non ve n'avrebbe Ottavio avuta.

E veggo, come s'io l'avessi inanzi,

Che s'ei facesse uccider Marco Antonio,

Impiagherebbe con quel colpo istesso

A mille, e a mille cittadini il core.

Et, ove crederebbe, che la morte

Del suo nemico, assecurar devesse

L'imperio suo, tutto il porria in scompiglio.

Si pensò Cassio, e Brutto che tornare

Devesse a la republica l'impero,

Morto che fusse Cesare, e il contrario

Avenne, ch'essi andaro a miser fine,

E l'imperio è rimano al fine a Ottavio.

Sì che io stimo, Agrippa, ch'astenersi

Da uccider Marco Antonio Ottavio debba,

Per l'onore non men, che per l'impero.

E credo, che se voi con la prudenza

Vostra andarete discorrendo il tutto,

Non sia per dispiacervi il parer mio.

Agrippa

L'esser contrario a la sentenza vostra,

Mecenate, mi par cosa assai dura.

E le ragioni dianzi addutte a Ottavio,

E quelle, ch' avete anche ora a me addutte,

Esser mi potrian far del parer vostro.

Ma il saper, che inconstante animo sempre

Marco Antonio ebbe, e in ogni cosa sempre

Piegata ha la sua mente a le discordie,

E quando la republica era in fiore,

E poi che morto fu Cesare, e poi

Che fra Lepido, e Ottavio, e lui diviso

L'imperio fu del mondo, e dapoi anche

Che accordo fero egli, e Ottavio insieme,

Pensar mi fa, ch'ovunque fia costui,

Esser vi debban controversie, e risse,

Ond'avenir porian nove battaglie,

Che por porian (come ad Ottavio dissi)

L'imperio tutto un'altra volta in dubbio.

Io fermo sono nel parer di prima.

E se ben, poi che fu Cesare morto

Sorser degli altri a guerreggiar, costui

Ora in stato non è, che la sua morte

Possa mover tumulto.

Mecenate

E questo a punto

Può mostrar anche, che non pòn tumulti

Da costui nascer, poscia che il piè fermo

Ne l'imperio avrà Ottavio, rimanendo

Privato Marco Antonio di ciò, ch'uopo

E' a tentar grande impresa. Ma se pure

Vi è di tanto timor costui, dal quale

(Per mio parer) non si dee temer nulla,

Non lo potrà tenere in Roma Ottavio

(Com'ora Lepido è) così demesso,

Ch'egli non possa pure alzare un dito,

Senza il voler di chi terrà l'impero?

E se bisogno fia, non porà Ottavio

Porlo in custodia tal, ch'egli non possa

Pur sospirar, non che destar discordie?

Agrippa

Una prigion perpetua, Mecenate,

A liber uom, più dura è che la morte,

E così proveder, altro non fora

Che dargli morte, e mantenerlo in vita,

Perché vivendo, egli morisse sempre.

Mecenate

Siane ciò, ch'esser possa, in questa guisa

Ottavio non si tingeria le mani

Nel civil sangue, dopo la vittoria,

E via meno spiacevole, e men grave

Al popolo saria, ch'egli restasse

Prigion, che morto. Ma chi fia costui,

Che de la corte vien di Cleopatra,

Con quella spada sanguinosa in mano,

Così dolente, e conturbato in vista?

Agrippa

Egli è un de' capitan di Marco Antonio.

Mecenate

Qualche stran caso ivi sarà avenuto,

Stiamo a veder ciò, che di novo apporta.

SCENA QUARTA

Capitano

Gli avenimenti della guerra sono

In guisa dubbi, che non puote alcuno

Aver nulla di certo ne la pugna,

Ché avengon cose tali, in un momento,

Che non ponno capire in uman senso.

Ma, fra le strane cose, che giamai

Avenissero in guerra, così strane

Avenute ne sono a Marco Antonio,

Ch'io credo, che Fortuna se 'l prendesse,

Nel cominciar di questa aspra battaglia,

Per aver del suo mal giuoco, e trastullo.

Mecenate

Certo che dice il vero.

Agrippa

è meglio ch'egli

Si dolga, ch'a doler ci abbiamo noi.

Mecenate

Sí veramente.

Capitano

E, per mostrar ben questa

Nemica de' felici avenimenti,

Qual sia la forza sua fra noi mortali,

Fatt' ha, che questo capitano eccelso,

Ch'invitto si mostrò sempre in battaglia,

Si è dato in guisa in forza a Cleopatra,

Ch'egli, che fra le lance, e fra le spade

Sicuro è gito da costei, ch'amava

Via più che gli occhi suoi, più che la vita

Dopo la vile, e biasimevol fuga,

Avuta ha la cagion de la sua morte.

Mecenate

Per quel, ch'intendo, Marco Antonio è morto.

Me increscerebbe assai.

Agrippa

è morto certo.

Meglio è che noi facciam ch'Ottavio il sappia.

Mecenate

Egli è pur meglio ch'intendiamo certa

La cosa prima.

Agrippa

Che lamento è questo?

Ch'importa questa spada, Capitano?

Mecenate

Di qual sangue è ella tinta, od ove andate?

Capitano

Ahi, Signor Mecenate, questa spada,

Questa tagliente spada aperta ha il fianco

Al signor nostro, e n'è rimaso estinto.

Mecenate

E perchè questo?

Capitano

Sol per Cleopatra.

Agrippa

Perchè per Cleopatra?

Capitano

S'era finta

Morta essere ella, e per non sovrastare

Egli a la moglie sua, con questa spada

Si ha dato morte. E portola ad Ottavio,

Perch'egli sappia, ch'ha fine la guerra,

Ch'avea con Marco Antonio, e per avere

Per me perdono, e per quegli altri insieme,

Che fedeli son stati al signor nostro.

E se non potrò aver da lui perdono,

Con questa spada dar mi faccia morte,

Ché caro avrò a morir, per la mia fede,

Con quella spada, onde il signor mio è morto.

Mecenate

Io credo, che perdon da Ottavio avrete,

E che vi loderà de la fé vostra.

Andiamo, e siate può d'animo buono,

Che costume è di Ottavio di deporre

Con l'arme l'odio.

Agrippa

E noi vi aiuteremo,

Se bisogno vi fia d'aiuto nostro.

Capitano

Non aspetto altro da la bontà vostra.

SCENA QUINTA

Nutrice

Che sorte, ohimé, che sorte fia la nostra

In questa così grave aspra miseria?

Ch'aspettar più possiam se non dolore?

Ma che dico io dolor? se non tal vita,

Ch'abbiamo da portare invidia ai morti,

O ver tal morte, che doler ci debba,

Che ci troviamo in questo tempo vive.

Felice ben si può dir Marco Antonio,

Poi che liber mort'è nel caro seno

De la sua Cleopatra, e non l'ha vista,

Com'io temo vederla, al servil giogo,

In podestà de le romane donne.

O corte già d'ogni piacer ricetto,

Come ora sei d'ogni dolore albergo!

Capitano

Nutrice è ver, che quei, che son felici,

Fortuna col peggio han sempre a le spalle.

E ne fa fede la reina nostra,

Di cui non visse già la più felice,

E la più trista ora non vede il sole.

E come noi fummo con lei contente,

Or siamo essempio di miseria al mondo.

Né so nutrice, ohimé, più ove debbiamo

Voltarsi, ohimé, per ritrovar soccorso,

Sì piena di pericoli, e di doglie

Veggo, di parte, in parte, or questa corte.

Nutrice

Figliuola il primo dì ne dà l'estremo,

Ché col nostro destin tutti nasciamo.

Deh foss'io morta allor, che la reina

Da Cesar ebbe in podestà l'Egitto,

Ch'io non potea morir se non contenta,

Ov'or veggendola essere ove mai

Non credea di vederla, mi rincresce

Trovarmi viva.

Cameriera

Ohimé, nutrice, ohimé,

Che ci giovano i pianti, et i sospiri,

Ohimé, poscia che fuor di tanti affanni,

Né di tanti pericoli possiamo

Trar la reina, e similmente noi?

Nutrice

Figliuola mia, poscia che non poss'altro,

Chiamata meco ti ho fuori di corte,

Per disacerbar teco il mio fier duolo,

Che mi sentia crepar il cor nel petto,

Mentre in presenza er'io de la reina,

E non ardia mandar fuori un sospiro.

Cameriera

Torniam nutrice in casa, a quella sorte,

Che vorrà il cielo, a' nostri danni vòlto,

Ch'abbia questa reina, e noi con lei.

Nutrice

Et aspettar la debbiam, figlia, sì grave,

Che fia appo lei ogni miseria lieve.

SCENA SESTA

Mecenate

Alta virtù, che in nobil alma regni,

Mostrar conviensi in ogni stato fuori,

Mille cagioni aveva date, e mille

Ad Ottavio di odiarlo Marco Antonio,

Né pur di averlo in odio, ma d'avere

Cara, sopra ogni cosa, la sua morte.

E quantunque egli dianzi da lo sdegno,

E giusto (per ver dir) fusse sospinto

A voler veder morto Marco Antonio,

Non dimen, vista ch'ha la spada tinta

Del suo sangue, et inteso, ch'egli è morto,

Non ha potuto rattenere il pianto,

Segno di generoso, e nobil core,

E d'animo roman verace essempio.

Or perché vuol, che al gran nome d'Ottavio

Rispondan l'opre, avendo perdonato

Al capitan, che dianzi venne a lui,

Mi manda a gli altri capitani, e a tutti

I soldati, che fur di Marco Antonio,

Perché lor manifesti, che perdono

Egli dà a tutti, e che gli accoglie tutti,

Come fedeli, e singolari amici.

Ben mostri, Ottavio, che non voglia tua,

Ma la necessità ti ha indutto a l'arme.

E, quantunque giustissimo disdegno

Devuto inacerbir ti avesse l'alma,

Più in te ha potuto il generoso core,

Che quante ingiurie ricevesti mai.

E non men saputo hai vincer te stesso,

Che vinto abbi il nemico, e a loda, e a onore

Tanto più questo si è, quanto suol fare

La vittoria insolente il vincitore.

Vivi felice, et abbi sempre il Cielo

Secondo a le tue voglie, come degno

Ti fa d'imperio tal l'animo tuo.

E poi ch'è morto Marco Antonio, abbia egli

Seco portato quanto d'infelice

A l'imperio roman potea avenire.

Io veggo venire un da Cleopatra.

Voglio saper chi egli è. Dimmi, chi sei?

Et ove vai? e che novelle porti?

Servo

Io sono un sventurato, et infelice

Servo di Marco Antonio, ch'ad Ottavio

Porto le lettre, ch'egli scrisse allora,

Ch'era per mandar fuor del corpo l'alma,

Con la tremante mano, e gliele manda

Cleopatra reina de l'Egitto.

Mecenate

E che fa Cleopatra?

Servo

Chi vedere

Vuole il dolore in forma umana, miri

La sua sembianza; i' credo certo, ch'ella

Se ne morrà di duol, se non le viene

Cosa da Ottavio, che la tenga in vita,

Ma veggo sì ogni cosa contra lei,

Sì minacciarle il ciel, dopo il mal, peggio,

Che temo molto, anzi non ho speranza

Di veder contra lei benigno Ottavio.

Mecenate

Va pur, che ti fo certo, che da lui

Cosa non averai, se non da prence.

Servo

Non so che possa fare un prence cosa

Di gran prence più degna, che servare

Una reina, o un re, ch'egli abbia in forza.

Se questo egli farà, mostrerà chiaro,

Ch'abbia a l'impero suo l'animo uguale.

Mecenate

Vanne con sicurezza di trovare

In Ottavio clemenza.

Servo

Il voglia Dio.

Mecenate

Vorrei così poter disporre Ottavio

A perdonare a Cleopatra, come

Disposto l'ho con le parole mie

A perdonare a tutti que' soldati,

Ch'avevan contra lui prese in man l'arme,

E il farei volentier. Ché la clemenza

Esser scesa mi par dal cielo in terra,

Perché l'uomo per lei simil sia a Dio.

Ma temo, che tentar ciò sarà vano,

Ché mi stimo, che, tocco da la gloria,

Vorrà ch'ell'orni il suo trionfo a Roma.

Ma sia che può, non è costei romana.

Forse ha disposto il Re de gli alti Dei

Che in Roma sia costei condutta serva,

Perché i signor de le barbare genti

Imparino da lei, quanto a sdegno abbia,

Che si armi alcun contra il romano impero.

SCENA SETTIMA

Servo di Marco Antonio.

Se a le parole, che da Ottavio ho avute,

Risponde il cor, non puote Cleopatra

Altro aspettar da lui, che onore, e bene,

Ma temo assai, che sia fra' fiori l'angue,

E ch'egli attenda a le ricchezze immense,

Che con lei chiuse ella ha dentro al sepolcro.

Non credo di poter persuadere

A Cleopatra, che sia per avere

Da Ottavio il ben, ch'egli vuol, ch'a suo nome

Io le prometta. Perch'ella sa quanto

Sovente, promettendo i re la vita,

Apparecchian la morte a' lor nemici.

E come sempre io consiglierei

Chi chiedesse il mio parer, che mai

Non fesse offesa ai re possenti, ch'hanno

Troppo lunghe le mani, così ancora

Consiglierei che chi gli avesse offesi

Non si lasciasse indurre a lor lusinghe

Sì, che non ne temesse la vendetta,

Ché piaghe tali non si sanan mai

Se non col sangue de' nemici loro.

Ma ritrovandosi esser Cleopatra

A tal condutta, che la morte sola

La può sottrarre a le miserie gravi,

Errar non puote a fingere di dare

Fede a' detti di Ottavio, e se benigno

(Come di volere essere mi ha detto)

Le si dimostrerà, rimarrà viva.

E se il contrario fila strada mai

Chiusa non le sarà di poter darsi

La morte, per sottrarsi a scorno, e a danni.

Ché cosa non ha l'uom più in sua balia,

Quanto è troncare il filo a la sua vita.

E fa gran senno quei, che disnor teme,

Più tosto, che di sé spettacol fare,

Sottrarsi, col morire, a la vergogna,

E fine imporre a le miserie, ai pianti.

E quella morte dir si può felice

Per cui l'uom fortemente esce di pena.

SCENA OTTAVA

Ottavio

Pòn tanto le ragioni de la patria

Appresso i veri cittadin ch'ancora,

Che nemicizia sia nata fra alcuni

Di loro, e avenga lor notabil danno,

Non ponno udir del lor nemico il male

Senza cordoglio. Et ora i' l'ho potuto

In me medesmo, ch'ancor che mi fusse

Marco Antonio il maggior nemico, ch'io

Avessi mai, non ho potuto udire

La morte sua, senza mio gran dolore.

E nel legger le lettre, che portate

Mi ha il servo suo, potuto ho rattenere

A pena il pianto.

Mecenate

Signor, non mi è nova

L'alta vostra bontà, l'alta clemenza,

Né altro pensato io mi avrei di voi.

Agrippa

Et avrei ciò anch'io pensato.

Ottavio

Le sue lettre

(Come ambidue potete aver veduto)

Lo mi han fatto conoscer nel morire

Molto più saggio, e molto più prudente,

Che non l'ho visto vivo. Io vo' che quello

Ch'egli mi ha chiesto, tutto sia essequito

Non altrimente, ch'ordinato egli abbia,

Poscia che ne la morte ha mostro avere

In me tal confidenza.

Mecenate

Ben mostrate

Qual voi sareste stato verso lui,

Mentre viveva, s'egli fusse suto

Verso voi qual volea, ch'ei fusse, il giusto.

Ottavio

Resta, poi che composte hai, Mecenate,

Le cose in guisa, co' soldati aversi,

Che conosciuta han la clemenza nostra,

Resta, che Cleopatra abbiamo viva,

Perch'onorar ne possa il mio trionfo,

E perché quei che mi ha addutte le lettre,

Sospetto messo mi ha de la sua morte,

Usato ho verso lui parole tali,

Che consolar potralla, e potrà darle

Speranza d'aver sol bene da noi.

Ma, con tutto ciò, io voglio che tu vada

Agrippa a ritrovarla, e a nome mio

Che la consoli, e l'empi di speranza

Tal, che deponga in tutto ogni paura,

E seco imaginandosi d'avere

Pace da noi, non cerchi darsi morte.

Agrippa

Anderò, Signor mio, quantunque io pensi,

Che malagevol fia a persuadere

A questa donna, più d'ogn'altra scaltra,

Che non sia per temer ciò, che temere

Si deve da reina, in simil caso,

Sapendo l'uso dei trionfi nostri.

Ottavio

Gli afflitti volentier porgon gli oracchi

A cosa, che lor dia speme di bene.

Et un saggio parlar spesso dispone

A far quel l'uom, ch'ei ricusava prima.

Però, se tu userai la tua prudenza,

In persuadere il bene a Cleopatra,

Io son sicuro, che presterà fede

A' detti tuoi. Pur quando non potessi

Con lusinghe ottener quel, che bramiamo,

Usa parole acerbe, usa minaccie,

E di', che se vorrà stata ostinata

Sì, che voglia morir, ch'ella sia certa

Ch'andran tutti i suoi figli a fil di spada.

So che sovente la pietà materna

A le madri stimar più fa la vita

De' figli loro, che la vita propria.

Agrippa

Non sarà se non ben, per mio parere,

Che discorriam su questo fatto insieme,

Acciò che ritroviam quel miglior modo,

Che parrà a vostra Altezza, che si debba

Usare, in far che Cleopatra creda,

Che non de' altro sperar da voi, che bene.

Ottavio

Poi che così ti pare, Agrippa, entriamo,

E ne raggionerem tutti e tre insieme.

CORO

Se la ragione è in noi

Sì presta, e sì vivace,

Perché rimane al desir vano in preda?

Perch'ella, ohimé, non face

Per nostro bene, e pace,

Ch'al vivo lume de' bei raggi suoi

Il cieco desir ceda,

E non trasporti noi dove le piace?

Cagione è questa spoglia,

Ond'abbiam l'alma involta,

Che la ragion, col suo lume non vegga

Quanto devria, e ch'occolta

(Ché non vo' dir sepolta)

Se ne sta sotto il fral, fin che si scioglia

Da lui, e sé ella regga,

Libera in tutto da la parte stolta.

Ohimé, se questo è vero,

Se Siam condotti a tale,

Mentre noi siamo in queste parti oscure,

Et il nostro mortale

Sì a la ragion prevale,

Ch'ella non ha sovra il desire impero,

Molto meglio era pure,

Che il divin sotto sé tenesse il frale.

Se così il Cielo avesse

Disposto, ahi quanti, ahi quanti

Affanni sarian tolti fuor del mondo?

Non si udiriano i pianti,

Che dolenti fan tanti,

Che son menati a le lor morti espresse,

Ma ognun vivria giocondo,

Né tanto fora il numer de gli erranti,

Ché vedria l'uom gli inganni,

Che il senso gli apparecchia,

Sotto fallaci, e ben mentite larve.

Ma perch'egli s'invecchia

In questa usanza vecchia,

E non si avede, che il desio l'inganni,

Il mal, che ben gli parve,

Segue, e di udire il ben fugge l'orecchia.

Né si avede giamai

Il misero dolente

Di esser, qual cieco giunto al precipizio,

Insin ch'egli non sente,

Che il desio vano mente,

E solo il mena a gli angosciosi guai,

Né val poscia ch'indizio

La ragione gli dia del mal presente,

E la reina nostro

In questa afflitta corte

Ne può dare ad ognun vivace essempio,

Che per seguir le torte

Vie, che il desir le ha porte,

E' giunta a tal, che se ben le dimostra

La ragione il suo scempio,

Non può ella più fuggir servitù, o morte.

Dunque è quegli felice,

Che ha la ragion per guida,

E di seguitar lascia il van desire;

Con scorta così fida

Non ha cagion di strida,

Perché non l'assal mai cosa infelice,

Che gli apporti martire,

Ch'aspramente il tormenti, o che l'ancida.

ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Agrippa

Non deve un gran signor porsi a tentare

La inconstante, e volubile Fortuna,

Perché chi troppo attizza questa serpe,

Ella si gonfia, e sì di venen s'empie,

Che insino, che non ha condutto a fine

Miserabile, e tristo color tutti

Che la movono a sdegno, et a furore,

Quando cercan maggior ben di quel, ch'ella

Ha conceduto lor con larga mano,

E a tal costoro ella sovente mena,

Che non perdono sol tutto quel ch'hanno

Di gemme, di tesor, di signoria,

Ma quanto ebber d'onore a la lor vita,

Che stimato è il miglior fin fra gli esterni,

Che per bene operare altri consegua.

E (per non ragionar di Marco Antonio,

Ch'è giunto al miser fin ch'inteso abbiamo)

Ce ne dà chiaro essempio or Cleopatra,

La qual, mentre contenta de l'Egitto

Esser non ha voluto, e prese ha l'arme

Contra di Ottavio, per venir reina

Con Marco Antonio suo de l'universo,

Venuta è serva, e in podestà d'Ottavio.

Vedo perché non cerchi di sottrarsi

Al servil giogo con la morte sua,

Ma s'ella è di quel cor, di quella mente,

Di ch'esser deve in così estrema sorte,

Vani i conforti fiano, e le lusinghe,

E vane quante addur saprò minaccie,

S'uopo fia forse le minaccie usare,

Perché non faccia quel, ch'ella far deve.

Io veggo Olimposuo, ch'esce di corte

E mi par tutto conturbato in vista,

Il veggo ragionar da se medesmo.

Veder vo' se di qui comprender posso

Di che ragiona, ché potrei avere

Cosa da ciò, che mi darebbe lume

A quel, ch'io debbo far con Cleopatra.

SCENA SECONDA

Olimpo

Non so, che si possa uom prometter certo

Ne lo stato mortal, quando veggiamo

Che i regni, i quali fra le cose umane,

Son di tanto momento, et hanno tante

Fortezze intorno; e così gran presidi

Son de la sorte sottosopra vòlti.

E vòlti sì, che i possessori loro

Vengono a stato così vile, e basso,

Che la morte han per ultimo refugio.

E la reina mia ce 'l mostra chiaro,

Che per non andar serva in man d'Ottavio,

Disposta si è, che il non mangiar l'uccida.

Agrippa

E questo è quel, che solo Ottavio teme.

Olimpo

Certo egli è vero, che quanto più in alto

E' asceso l'uom, tanto maggior dà il tomo.

Agrippa

Io non vo' più tardar Signore Olimpo,

Che querele son queste?

Olimpo

Che querele?

Quelle, che il destin reo vuol, che spargiamo.

Parvi che noi non ci debbiam dolere

Quanto mai si dolesse alcun mortale,

Sendo le cose nostre a tal ridutte,

Che quanti furon mai sospiri e pianti,

Non basteriano ad isfogare in parte

Le gran miserie, e gli aspri affanni nostri?

Agrippa

Così va la vicenda de le cose.

Olimpo

Ahi quanto è a noi questa vicenda grave!

Agrippa

Grave sempre fu il gire in forma altrui

A chi usat'è di sovrastare a gli altri,

Et a regnar. Ma aver dee molta grazia,

(Quando il ciel voglia pur, che questo avenga)

Quell'uomo a Dio, che cade in man di tale

Che sia tutto pietà, tutto clemenza,

Dal quale altro sperare egli non possa,

Che bene, come voi sperar potete

Dal signor nostro, ancor che siate vinti.

Olimpo

Il potressimo creder, se la prova

Saper non ne facesse quel, che fanno

Le vittorie, ne gli animi di quelli,

Che vincitori sono, e insuperbiti

Sono de la vittoria, i più benigni

Divengon crudi, et i più miti fieri.

Agrippa

Questo aviene in color ch'hanno il cor d'orso,

Ma chi ha, com'Ottavio ha, la mente umana,

Non sol fiero non vien, ma discorrendo

Lo stato, in ch'è rimaso il signor vinto,

Compassione gli ha, veggendo quanto

Può la Fortuna ne le cose eccelse.

Olimpo

Così esser ben devrebbe, se mirasse

A questo il vincitor, ch'è manifesto,

Che il cader, che fa un re, pone l'essempio

Inanzi a ognun, che tien corona in testa,

Quanto poca fé serbe la Fortuna

A quegli, a cui mostra benigno il viso.

Ma il vincitor non pensa altro, né cura,

Che dimostrarsi altiero, imaginando

Di non vederla mai per lui turbata.

Agrippa

Così benigna sempre l'abbia Ottavio,

Come Alessandria il proverà benigno.

Che fa, che pensa la reina vostra?

Olimpo

Ohimé, che può ella far, se non versare

Da gli occhi un mar di pianto, e imaginarsi

Come debba finire i giorni suoi?

Per uscir fuor de le angosciose pene,

E non esser spettacolo a' Romani

Se viva andasse al vincitore in mano.

Agrippa

Questo non fia. Fate che con lei parli

E le torrò la tema, dimostrando

Quanto sperare ella da Ottavio debba.

Olimpo

Io so che sperare deve.

Agrippa

E che?

Olimpo

Che presto

Sia a sopporsi a le leggi, ch'imporalle

Il vincitore.

Agrippa

Io non vi vo' già dire,

Ch'Ottavio da lei voglia accettar leggi,

Che ciò non vuole il giusto. Ma ben tali

Ella le avrà da lui, che poco avrassi

A doler, d'esser stata perditrice.

Fate che con lei parli, e mostrerolle,

Ch'ella conoscerà, ch'Ottavio è tutto

Pronto a farle veder, ch'animo tiene

D'imperatore, e ch'egli sa non meno

Perdonare a' soggetti, che domare

Chi contra lui si dà ad alzar le corna.

Andate, ch'io vi aspetto.

Olimpo

Io vo, Signore,

Né mancherà da me, ch'io non procuri,

Che speri bene, e si conservi in vita,

Ma temo di tentar tutto ciò in vano.

SCENA TERZA

Agrippa

Eletta avrà la parte Cleopatra

Ch'elegger dee, chi da sublime stato

Sen cade in basso, e umil, com'è caduta

Questa infelice, e misera reina,

Che mi par quell'uom stolto, che disegni

Viver quando non è, chi egli era dianzi.

Et ova solea dare ad altri legge

Egli a l'altrui soggiaccia, e credo certo

Che sappia Olimpo ben la mente sua

Et ecco, ch'egli vien da Cleopatra.

SCENA QUARTA

Olimpo, Agrippa.

Olimpo

Signor Agrippa, la reina nostra,

Che chiusa si ritrova entro al sepolcro,

Consentito non ha, ch'io le ragioni.

Ma per la cameriera ispor l'ho fatto

A punto tutto quel che avete detto.

La risposta è, ch'ell'è sì travagliata,

Sì piena di dolor, che dar risposta

Ora non puote, a quel che chiede Ottavio.

Ma che grazia gli ha ben del buon volere,

Ch'egli dimostra avere inverso lei.

E che discorrerà maturamente

Il tutto, e che saper gli farà quello,

Che delibererà di sè. Io fare

Altro non ho potuto.

Agrippa

Le direte,

O le farete dir, quando non voglia

Parlar con noi, ch'a viver si risolva,

E si rimetta, a la bontà di Ottavio,

Perchè, se disporrà fare altrimente,

Prima che se ne mora, vedrà il sangue

Di tutti i figli suoi sparso per terra.

Tanto sdegno avrà Ottavio che desperi

e la bontà, de la clemenza sua.

E a voi tutti non men tocca, che a lei,

Di usar l'ingegno, acciò ch'ella si viva,

Perchè, se more, andrà tutta Alessandria

Crudelissimamente a ferro, e a fuoco.

Ove se viva resta, tutti voi

Vi vivrete con lei lieti, e contenti.

Olimpo

Io non mancherò, Agrippa, di far quanto

Si potrà far per me.

Agrippa

Fate 'l Olimpo,

Perch'ella può sol lei salvare, e voi.

SCENA QUINTA

Olimpo

Chiunque può, senza servire altrui,

Menar da sé vita onorata, e queta,

Molto erra, e molto, se dal desio folle

Di aver favore appo i signori, lascia

Il suo tranquillo stato; e nel mar entra

De le corti, e si dà a servir, fra questi

Ravolgimenti d'onde, a re, a signore,

Chè ì turbato l'oceano,

Quando da vari venti egli è commosso,

Quanto son quei, che ne le corti sono,

Da gli uomini maligni, e invdiosi,

Nemici di virtù, che ben sovente

I miglior luoghi tengon ne le corti,

E cercan tutta via ch'altri si affoghi

Ne l'onde, che mosse ha l'orribil vento

De l'iniquità loro, a de l'invidia.

E s'alternar pur sai sí poggia, et orza,

Sí regger col timon la barca, ch'esca

Salva de l'onde, e de gli acuti scogli,

Pur che il ciel, per gastigo de l'errore,

Che commess'hai, ne 'l porti in servitute,

Over viver potevi in libertade,

Voglia, che ne l'entrar, che speri in porto,

Dapoi che gittato hai l'avere, e gli anni,

Ti assaglia così cruda, aspra tempesta,

Che il legno spezzi, et ivi ti sommerga.

E ciò avenuto è a me, ch'ora credea

Vedere in tremolar l'onda marina,

Dopo molte tempeste, e giorni in porto.

O cure vane, o stolti pensier nostri,

Possiam ben dir, che si ferman su il vento,

Tutti i disegni, e le speranze umane,

E che nulla di certo è fra' mortali,

Se non gli affanni, e gli infortuni gravi.

Io me ne voglio entrar, per non vedere

Gli apparecchi, che so, che farà Ottavio,

Per l'eccidio di tutto questo regno,

Morta che fia, come morrà, Cleopatra.

SCENA SESTA

Proculeio

Poscia ch'a voi, e a me commesso ha Ottavio,

Che poniamo ogni ingegno, perché venga

Viva ne le sue mani Cleopatra,

Ogni studio debbiam porvi, e ogni cura,

Perché al fin conduciamo questa impresa.

Io notato ho con diligenza il luoco,

Onde ne la piramide superba,

Che fabricata si ha per suo sepolcro,

A sé condur fe' Marco Antonio suo,

Luoco molto riposto, e tengo certo,

Tenendo quella parte ella sicura,

E perciò non vi avendo altra custodia,

Che fatto mi verrà di entrarvi, pure

Che sì la tratteniate ragionando,

Che non si avegga de l'inganno. E' volpe

Questa da prender con nascoso laccio.

Ché s'ella avesse un'ombra di sospetto

Incontanente accenderebbe il fuoco

Nel suo sepolcro, e sé con tutto quello

Tesoro, che vi è dentro, abbrusciarebbe,

Et vano uscir faria ciò che tentiamo.

E se non ha voluto udire Agrippa

Udirà voi; che poi che a estrema sorte

Altri è condutto e non ha alcun riparo,

S'appliglia al fine a quel, che gli par meglio.

Fatele dir, ch'a lei vi manda Ottavio,

Perché abbiate a compor con lei le cose,

E sperando da ciò qualche compenso

Ai danni suoi, non negherà parlarvi.

Gallo

Da me non mancherà, ch'io non adopri

Tutto il poter, tutto l'ingegno mio,

Perché meniamo questo fatto al fine.

Proculeio

Io me n'andrò co' miei compagni, e spero

Avere in ciò lieto successo.

Gallo

Andate,

Io tenterò l'udienza su la porta.

La veggo su la porta del sepolcro,

Che parla tutta mesta con Olimpo.

Io vo' fermarmi, che tanto più tempo

Fia dato a Proculeio di espedire

Quanto far dee, per compiacere Ottavio.

E forse poria aver quindi argomento

(Udendo ciò di che parlano insieme)

Di poter ragionare anch'io con lei.

SCENA SETTIMA

Cleopatra

L'aver veduto Olimpo, che tagliare

Ottavio ad Antilo ha fatto la testa,

Temere anche mi fa, che non avenga

Simil fortuna a' miei figliuoli, i quali

Via più cari mi son, che gli occhi miei,

E tanto il temo più, quanto mi hai detto,

Che per parte d'Ottavio, lo ti ha Agrippa

Pur dianzi detto, con minaccie gravi.

Gallo

Cosa agevole fia che mi dia udienza,

Poi che in timore ell'è de' figli suoi.

Cleopatra

Onde poi che la sorte mia crudele

I miei figliuoli ha messi in man di Ottavio,

E me condutta a tal termine, ch'uopo

Mi è pregare il nemico, io vo' che vadi

A ritrovare Ottavio, a nome mio,

E che gli dica, che quando gli piaccia

Di lasciare i miei figli in libertade

Contenta son di rimanermi viva

E coi figli miei star donna privata.

Usa qui, Olimpo, il senno, e la prudenza

E l'eloquenza tua che piegar suole

Ogni feroce core, e il dur far molle.

Olimpo

Reina, cosa non lascerò a fare,

Che per lo suo signor, servo far debba.

Cleopatra

Ma chi è costui, che di là viene?

Olimpo

è Gallo,

Famigliare di Ottavio.

Cleopatra

Ir non vo' dentro,

Ché non voglio esser colta a l'improviso.

Olimpo

Anzi io l'aspetterei, poi ch'egli è solo,

Et io son qui con voi; potremmo udire

Cosa, che ci darebbe qualche indizio

De l'animo di Ottavio. E (s'uopo fia)

Ritornerete nel sepolcro. Et ivi

A temer non avrete di nemico.

Cleopatra

Di nemico? vi ho sol due cameriere,

Le più fedeli, e più nobili, ch'io

Abbia avute unqua in corte. Vagli tosto

Prima ch'egli qui giunga, Olimpo incontro,

E se ben ti parrà, ch'egli mi parli,

Fallo venir; io mi starò qui dentro,

Et uscirò, quando mi chiamerai.

Olimpo

Venite Signor, forse a la reina?

Gallo

A lei vengo per dirle alcune cose,

Che a beneficio suo, mi ha imposto Ottavio.

Olimpo

E che cose son queste?

Gallo

Sol con lei

Ne ho da parlare. Fate Olimpo, adunque

Ch'ella mi presti udienza, ché dirolle

Cosa che la farà restar contenta.

Olimpo

Siate contento d'aspettar, sin ch'io

Vegga s'udienza ella vuoi darvi.

Gallo

Aspetto.

Credo che Proculeio abbia le scale

Al sepolcro già poste, e forse è entrato.

Olimpo

Signor, venite. Ella vi attende a l'uscio,

Ma non vuole, che più le vi accostiate,

Ch'or io mi sia.

Gallo

Pur che le parle Olimpo,

O lontano, o vicin, nulla mi curo,

Altro non le ho a portar io, se non bene.

Reina, Ottavio mio signor, salute

Vi manda.

Cleopatra

Ohimé, che ben n'avria bisogno.

Gallo

Non pensa altro, Reina, il signor mio,

Che darvi segno de la sua clemenza.

Cameriera

Ohimé Reina, ohimè, che nel sepolcro

Sono i nemici, e sete presa viva,

Ecco Reina che gli avete al fianco.

Cleopatra

Ahi traditori, anche quel non avrete,

Che vi pensate aver, se questa spada

Non mi vien men.

Proculeio

Non fate, ohimé Reina.

Cleopatra

A questo modo Ottavio vuoi mandarmi

Speme di bene?

Olimpo

Ahi traditori, ahi rei,

Lasciate la reina.

Proculeio

E che credete

Di fare, Olimpo? farete gran senno

A starvi queto, e non cercar la morte.

Olimpo

Et moiami, non voglio veder serva

La mia reina.

Proculeio

Levate la spada

A questo insano.

Olimpo

Ahi traditori, io spero

Che il ciel farà di ciò giusta vendetta.

Cleopatra

Ahi traditori, ahi scelerati, ahi cani,

Cani malvaggi, nati a lacerare

Con insidie gli afflitti acerbamente.

Proculeio

Reina il tutto è fatto per ben vostro.

Temuto ha il signor nostro, che non fusse

Più possente in vo' il duol, che la ragione.

Cleopatra

Ohimé misera, ohimè.

Proculeio

Sí che vi deste

Morte con le man vostre, et a lui tolta

Fusse l'occasion di dimostrarvi

La sua benignità, la sua clemenza,

Mandati n'ha, perché noi vi togliamo

La via di darvi morte.

Cleopatra

O che pietade,

Ben può mostrar ciò che sperar io debba.

Proculeio

Ne la bontà del mio signor sperare

Devete, et io lo vi prometto tale,

Che non vi dolerà a trovarvi vinta.

Cleopatra

Ohimé se tale egli esser deve verso

Questa infelice, e dolorosa, ohimé

Prima che mi leviate del mio regno,

Andate al signor vostro, e lui pregate,

Che s'appo lui pon nulla i giusti preghi,

Se vuol, ch'io speri aver da lui clemenza,

Contento sia tanto di grazia farmi,

Ch'io gli possa parlar; se questo ottengo

Sicura io mi terrò.

Proculeio

Non dubitate

Di non aver da lui ciò che vorrete.

Andate, Gallo, et entriam noi Reina,

E state lieta, e sicura, ché sete

Non tra nemici, ma tra amici vostri.

Cleopatra

Attendi, Olimpo, s'a me viene Ottavio

E se forse verrà; tu ratto vieni

A farmi motto, ch'io vo' girgli incontro.

SCENA OTTAVA

Olimpo.

Ohimé che dura cosa è restar senza

Presidio, poi ch'è vinto un re, un signore,

Quantunque egli si metta in luoco forte!

Che perduto ch'è il tutto, è di mestiero,

Ch'o per assedio, o per inganni, al fine

In man (mal grado suo) venga al nemico,

Et onde temea men, si trova accolto.

E ne dà essempio or la reina mia.

Ma creder vo', che s'ella non chiudea

Nel sepolcro il tesero, Ottavio meno

Cercato avria di averla ne le mani.

Io, che presago fui di ciò, gliel dissi,

Ma fece come i signor spesso fanno,

Che vogliono, che il lor voler prevaglia

A tutti gli altri, e se prendon consiglio,

Sprezzanlo al fine, et a lor modo fanno,

E spesso, spesso lor n'aviene male.

Si avea pensato questa afflitta donna

(Quanto son frali le sperante nostre)

Con quel tesor redimer sé, e il regno,

E quel tesoro ha lei perduto, e il regno.

Veggo venire Ottavio, io voglio andare

Perché gli venga la meschina incontro,

Gli è di bisogno ben, che s'usò mai

La dolce grazia del parlar, la grazia

De la sua incomparabile bellezza,

Ora l'adopre, per indurre Ottavio

Ad usarle mercé. Ma temo, temo,

Che benché atta a piegar sia ogni dur core,

Congiurato abbia sì contra sé il cielo,

Che vinta si rimanga ogni sua dote.

SCENA NONA

Ottavio

Vorrebbe ogni raggion, ch'al vincitore

Venisse Cleopatra. Ma perch' io

Cerco di assicurla più ch'io posso,

Poi che chieder mi ha fatto, io voglio andare

A lei, sol per levarle ogni sospetto.

Gallo

Vedete che si è mossa ella anche, e viene

Verso voi con la guardia.

Ottavio

Andianle incontro.

Cleopatra

Signor, poi che felice sorte ha dato

A voi tal nome, e a me la rea l'ha tolto,

Vi salvi sempre il Re dei sommi Dei,

Né vi dia mai caggion, che da lo stato

Alto, e soblime, ov'ora sete posto,

(Mercè de la virtù, del valor vostro)

Porger debbiate altrui supplice preghi,

Per ritrovarvi in umile, e demesso,

Come or son io, di reina ch'era

Al par di qualunque altra, alta, e possente.

Ma poi che il mio destin pur era fermo,

Che di reina, io divenissi ancella,

Per ritrovarmi in podestade altrui,

Signor nel mondo non si trova, al quale

Volessi più, ch'a voi, esser soggetta,

Ché il nome, che di Cesare tenete,

Da quel Cesar, che vi ebbe per suo figlio,

E me già fé reina de l'Egitto,

Di dever ben sperar mi dà cagione,

Ché veggendolo espresso tutto in voi,

(Parlo quanto al valore, a la clemenza,

E a le altre doti d'imperador degne)

Sì che veder mi par proprio colui,

Che da le man del mio crudo fratello

Mi liberò, e mi diè lo scettro in mano,

Sperar mi fa, che voi, se non per altro,

Per la memoria almen del padre vostro,

Mai non consentirete, che colei,

Ch'amata fu da lui molto, e onorata,

Sostenga cosa di reina indegna;

E mostrar vi vorrete degno figlio

(Cosa ch' anche fia grata a la sant'ombra

Di quel divino, e onorato spirto)

Di quel Cesar, di cui tenete il nome,

Né il nome, sol, ma la potenza tutta,

Essendo, come ei fu, signor del mondo.

Né far vi dee ver me d'altro pensiero

L'avermi vista giunta a Marco Antonio,

Et aver l'arme prese contra voi,

Ché ciò non fei Signor, per voler mio,

Né potei altro io far, donna infelice,

Timida per natura, e poco esperta,

Sendomi giunto Marco Antonio adosso

Con tal potenza, e tal numer di gente,

Qual'allor contra me condur volea.

Io non era atta a contrastar con lui,

Né far poteva di non ubidirlo.

Anzi mi fu mestier di usare ogni arte,

Per mitigarlo, e per averlo amico,

Fatto avendomi a sé chieder per dare

Contra me, come intesi, aspra sentenza,

Come contra nemica, e l'aspettava

Così acerba, Signor, sì dura, ch'io

Non seppi altro che far (quando le forze

Mie, né il debil ingegno mio erano atti

Di contrastar con così gran nemico)

Che far ciò che potei, per dimostrargli

Ch'io non gli era nemica. Il che avrei fatto

Verso voi, s'anche voi fuste venuto

Come egli all'or, per assalir l'Egitto.

E tanto lieta più mi serei data

A voi Signor, quanto (come anche ho detto)

Il gran nome di Cesare, che sempre

Nel cor scolpito ho avuto, sol poteva

Darmi speranza d'infinito bene,

Non che farmivi sempre esser soggetta.

Quella necessità che mi constrinse

A darmi al padre vostro, per venire

Reina de l'Egitto, mi strinse anche

A Marco Antonio darmi, per restare

Nel natio regno mio, ch' avuto avea

Del padre vostro. E quello a ch'uom s'induce

Per la dura, e crudel necessitade,

La quale è sì invincibil che non ponno

Superarla gli dei, col poter loro,

Pena non merta, ma non perdono appresso

D'uomo, qual sete voi, mite, e prudente.

Ottavio

Io vo' conceder, che necessitade

Vi fesse nel principio cosa fare,

Che fusse contra la volontà vostra.

Ma poi ch'occasione vi si offerse

(Per gli partiti, che vi fé Tireo)

Di cacciarlo da voi, perche no 'l feste ?

Cleopatra

Quella necessità, che fu cagione,

Ch'ad ubidir mi dessi a Marco Antonio,

Anche cagione fu poi, che sua moglie

Divenissi, e mio fessi il suo volere.

E, poi che moglie sua divenni, fuori

Era d'ogn'onesta, fuor d'ogni giusto,

Ch'io non volessi aver con lui communi

Le allegrezze, i dolori, il bene, il male.

In me non può, Signor, la fé sì poco,

Né sì poco l'onesto, e il dever mio,

Ch'io non voglia più tosto ogni supplizio

Soffrir, ogni gran pena, o che si sappia

Ch'a Marco Antonio non mancai di fede,

Che ch'io sia in gioia, et incolpata sia,

Che rotta abbia la fede al mio marito,

La qual mantenerei, se gliele dessi,

Ad un crudele, e capital nemico,

E credo, che più tosto voi vorreste

Tale la moglie vostra, ch'ella fusse

Qual voleva Tireo, ch'io fussi stata.

Ma se forse, per questo, vi tenete

Da me, Signor, offeso, i' non ricuso

Di non soffrir per ciò da voi la morte,

Via più contenta di morir, perch'io

Abbia serbata al mio marito fede,

Ch'io mi vergogni di trovarmi viva,

Perché tradito io l'abbia. Ben vi prego

Caro Signor, per questa vincitrice

Destra, per quello amor, che Cesar primo,

Da cu'il nome di Cesar voi tenete,

Mi portò, mentre visse, che vi piaccia

(Se forse disporrete, ch'io sia uccisa)

Morta ch'io sia, di far, che nel sepolcro

Io sia posta, ove ho posto Marco Antonio,

Acciò che come l'ombre nostre fieno

Nel regno di Pluton giunte, così anche

Un sol sepolcro i corpi nostri chiuda.

Questo prego, Signor; se questo ottengo

Da la vostra bontà, non vo' dolermi

Né di rea sorte, né di mal sofferto.

Ottavio

Che pensieri son questi, che vi vanno

Per l'anima, Reina? Io più tosto

Perder potrei tutto l'imperio mio,

Che volessi io mai, che qui morreste.

Voglio ch' abbiate assai meglio da noi,

Di quel, che vi pensate, e che godiate,

In vita lieta, ancor lieta fortuna,

Sì che lasciate il ragionar di morte,

E non vi spiaccia di trovarvi in mano

Di vincitor, ch'abbia la vita vostra

Più cara che l'impero. E mi parria,

(E dico il vero) di non aver vinto,

Se per ria sorte io vi vedessi morta.

Però volgete, prego, ad altro il core,

Ch'a penser di finire i giorni vostri.

Cleopatra

Poscia, Signor, che speme tal mi date,

La vita ch'io sprezzava, ora mi è cara,

Poscia che cara esser la veggo a voi,

Sul quale ora riposa ogni mio bene,

E vi cheggio pardon se mai vi offesi.

Vi prego ben, per questa cortesia,

Che singolare ora mi avete usata,

Che con la grazia vostra, io possa fare

Oggi l'essequie a Marco Antonio mio,

Acciò ch' avendomi a partir d'Egitto,

E venirmene a Roma, com'io bramo,

Per onorare Ottavia, e Livia vostra,

Finisca verso lui l'ultimo ufficio.

Ottavio

Ne son molto contento.

Cleopatra

Io vi ringrazio.

E prego il Re del Ciel, che lungamente

Viviate lieto, con la vostra Livia,

E nel suo sen chiudiate il giorno estremo.

Commettete a la guardia, che mi è intorno,

Che questa opera pia non m'impedisca.

Ma la mi lasci in libertà essequire,

Come de' dei la religion vuole,

Che ci hanno i modi de l'essequie dati

Ottavio

Io son contento. Lascia, Proculeio,

(Poi che religione tal qui si serva,

Che non vo' ch'a gli dei noi si opponiamo)

Che faccia la reina queste essequie,

In quella libertà, ch'ella mi chiede.

Vi prego anch'io, che vi viviate lieta,

E che poniate in noi tutta la speme.

Cleopatra

La vi pongo, Signor, ché sarei cieca

E priva d'intelletto, s'altrimente

Facessi, e farei torto a questa vostra

Immensa cortesia, ch'ora mi usate.

A la qual cortesia raccommando anche

I miei figliuoli, ancor ch'io tengo certo,

Che non bisogni, essendovi io sì cara,

Come veggo che sono.

Ottavio

Gli avrò cari

Come se fusser miei. A Dio, Reina,

Vivete lieta.

Cleopatra

Io non farò altrimente.

CORO

Alma speranza, che dal ciel venisti

Per confirmare i cori

Di chi sorte contraria affligga, e attristi,

Perch'essi non divengan così tristi,

Così il duol non gli accorri,

Che de la vita uscir cerchino fuori.

Ma gli infortuni umani,

E tutti i casi strani

Tengan di lor minori.

Se quel che poter suoli, anche ora puoi,

E non ti è il valor scemo,

Che ti face onorar tanto fra noi,

Deh non ti sia ora grave

(In questa sorte, in questo stato estremo,

Onde ciascuno pave)

Soccorrer la reina,

E poi ch' Ottavio inclina

Ad esserle cortese,

Fa che questa meschina,

A la qual sorte rea dato ha di morso,

E fatte tante offese,

Abbia da te soccorso

Tal, ch'ella dal dolore, e dai martiri

Al ben volga la mente,

E faccia tregua tal con i sospiri,

Che la clemenza miri

Del nemico possente,

E lasci quel pensiero,

Troppo, ohimé, crudo, e fiero

Ch'avea di darsi morte.

Se tu speranza spiri

Malgrado de la sorte,

La grazia tua nel travagliato petto,

Volgerà lo intelletto

A conservarsi in vita.

Porgile adunque aita

Sì, che l'alma smarrita

Ricovri il suo valore,

Con lo sperare ancor bene, e diletto.

Così sempre ti onore

Il mondo tutto, e diati altari, e tempi

E mirre ti arda, e incensi a tutti i tempi.

ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

Olimpo

Esser costume suol de gli infelici,

Non creder facilmente, né allegrarsi,

Per bene, che sia lor da altrui promesso,

Ma sogliono mai sempre in tal paura

Restarsi, e in tal sospetto, che, se il bene

Lor forse vien palese inanzi agli occhi,

A pena creder pon che bene sia.

E temendo, che sotto tal mantello

Non si celi assai peggio di quel, ch'hanno,

Non ardiscon pigliarlo. E se ciò aviene

Ne gli uomini sovente, maggiormente

Nel sesso feminil ciò avenir suole,

Cui pon timor la sicurezza istessa.

E nondimeno or la reina mia,

Di cui non fu giamai la più infelice,

Che si avea scelto, per uscir di pene,

Per sottrarsi a disnor, darsi la morte,

A quattro parolette, che le ha dette

Ottavio, con le quali egli le ha data

Non so che speme, si ha lasciata in guisa

Tor dal primo pensier, che par ch'ella abbia

Ricovrato l'impero, e i figli, speri

Più bene assai, che non temeva male.

Ma, se condur si lascia a Ottavio a Roma,

Vedrà, vedrà la misera, che quello,

Ch'ha di grave sofferto, è stato nulla,

Appresso quella angoscia, ch'avrà, quando

Legata fia condutta al Campidoglio,

Come la vi veggo io sin or condutta.

A me ne crepa il cor, ma inacerbire

Non le vo' il petto, col mostrarle quello,

Ch'avere inanzi a gli occhi ella dovria.

SCENA SECONDA

Cleopatra.

Dunque tu pensi Ottavio ch'io sia priva

D'ingegno sì, sì di me stessa fuori,

Ch'io non abbia compreso, a che fin brami

Ch'io resti viva, e ch'io non vegga chiaro,

Che le promesse tue, le tue lusinghe

Son tanti lacci, che mi metti intorno,

Per menarmi legata al Campidoglio?

Non mi appannano il lume de la mente

Queste tue finte, e simulate offerte,

Che veggo quel, che tu non vuoi mostrarmi.

Troppo Ottavio si aguzza a quelli il lume,

Che ne l'abisso son de le miserie.

Tu vuoi ch'io viva, e cara hai la mia vita,

E ti parrebbe di non aver vinto,

Se viva non mi avessi in tua podestà,

Et io te 'l credo. Non perché tu brami

(Come hai cercato di persuadermi)

Di darmi segno de la tua clemenza,

Ma per menarmi al tuo trionfo a Roma,

Serva coi lacci, e le catene intorno.

Credi tu Ottavio, che il tuo viso mostro

Non mi abbia quel, che tu nel cor chiuso hai?

Il disio ch'hai, ch'io onori il tuo trionfo,

E il mal animo tuo non ha patito,

Non ha patito la tua mente, volta

Tutta al mio scorno estremo, che mi guardi

Sol una volta pur, con gli occhi fissi,

Tenendogli mai sempre a terra vòlti.

Non hai saputo Ottavio usar gli inganni,

Che scorti gli ho, contra tua voglia, tutti.

Ma se saputo non hai tu ingannare

Una donna, che, per destin crudele,

Era ne le man tue, come legata,

Vedrai tu, ch'una donna avrà saputo

(Per torsi a scorno et ad opprobrio grave)

Ingannar te, mostrando di volere

Seguirti a Roma, e fare il voler tuo.

Tu creder hai potuto, che sia uscita

Sì di sé Cleopatra, sì d'altiera,

Ch'ella fu sempre, sia venuta vile,

E lo stato reale, in ch'ella è vissa,

Abbia sì in oblio posto, ch'ella a Roma

Debba serva venire in forza altrui?

Tu mal penetrato hai l'animo mio.

Bramava io bene di venire a Roma,

Se Marco Antonio mio restava vivo,

E vincitor, per far di te, di Ottavia,

E de la Livia tua quel, che far pensi

Or tu di Cleopatra. Ma Roma ora

(Poscia ch'ho al desir mio contrari i fati)

Non è più per vederla, se tu forse

Non la vi meni morta. Ché finire

Sotto il cielo ov'io nacqui, or vo' la vita.

Morir già Sofonisba in libertade

Volle più tosto, ch'esser serva, e viva.

E così anch'io vo' col suo essempio fare.

Se saputo non ho, con le mie forze

Difendermi da te, mentre io poteva,

Se per la mia fragilità vedere

Non ho saputo quel, che bisognava,

Che veduto io avessi al maggior uopo,

Vedrai, ch'essendo giunta, ov'ora sono,

Cieca non sono stata. E che s'hai vinto

L'Egitto, non hai vinta Cleopatra.

Meglio saprò morir, ch'io non son vissa,

E meglio procurar la libertade

Saprò con la mia morte, che saputo

Non mi ho procurar ben con la mia vita.

Se le delizie mie non mi lasciaro

Apparar l'arte del ben viver, ora

Gli affanni insegnato hammi quel, ch'io debbo

Far per morir reina, entro al mio regno.

Libera veggo pur (malgrado tuo)

Ovunque io mi volgo, questo cielo,

Sotto cui nacque, e vissi, e fui reina,

Et anche questo ciel Cleopatra vede

Non coi legami, e le catene intorno,

Ma in abito real. Questo cielo anche

Coglierà l'alma mia libera, e sciolta.

Bene con tutto il cor prego, e riprego

Le deità d'Egitto (se non sono

Rimase vinte con il regno mio)

Ch'oprino tanto, che il mio corpo unito

Sia a quel di Marco Antonio, e nel lor seno

(Fatte ch'avro l'essequie al mio marito,

Al mio marito, anzi a la vita mia,

Ch'or far gli voglio in abito reale)

Accolgano il mio spirto ultimo in pace.

A Dio cara mia patria, a Dio, ti lascio

Populo mio, ti lascio cara sorte,

In cui mi vissi già tanto felice.

Pregate tutti a la reina vostra,

Quant'esser puote più, morte tranquilla,

Pregate, che i miei figli, che signori

Esser devean di questo eccelso regno,

Et ora ne le man sono di Ottavio,

Facciano miglior fin, ch'or non faccio io.

SCENA TERZA

Gallo

Dubitar fatto ha Agrippa al mio signore

Che più, ch'uopo non era, abbia allargata

La mano a Cleopatra, in aver dato

A lei licenza, ch'ella possa fare

In libertà l'essequie a Marco Antonio,

E per questo or mi manda a Proculeio,

Perché gli dica, che col dimostrare

Di darle libertà, le tenga guardia

Tal, ch'ella di se stessa non disponga

Come le piace, et altro non avenga,

Che il far l'essequie al suo morto marito.

Ma dubito, che tardi egli ha veduto

Quel, che veder devea sin da principio.

Veggo uno, ch'esce fuor da Cleopatra,

Io voglio andar per altra via, perch'egli

Non mi trattenga a ragionar con lui,

E mi faccia tardar l'officio mio.

SCENA QUARTA

Famigliar di Cleopatra

Si suol dir, che non può l'uomo sapere

S'egli è felice, od infelice mentre

Egli vivo è, né se la vita sua

Sia buona, o rea, perché l'ultimo giorno,

E' quel, ch'a l'uomo da biasimo, o loda,

Ma veggo io, ancor che viva Cleopatra,

Che infelice è via più d'ogn'altra, e trista,

Perché lo stato, in ch'ella si ritrova,

Non le promette più, se non dolore,

E danno grave, e vituperio, e scorno.

Non so pensar, dà qual animo tocca

In tanta afflizione, in tanta angoscia,

Come fuori di sé, presa la veste

Abbia, ch'ell'ebbe il dì, che prese il regno,

E con lo scettro, e la corona in testa,

(Come essere devesse anco reina)

Data si sia all'essequie del marito.

Ma mi credo io, che ciò avenuto sia,

Perch'ella non si pensa di cor torre

D'esser stata reina. Quanto bene

Sarebbe, che quando da sommo grado

Cade un signor ad imo, così ancora

La Fortuna gli desse un cor umile,

Convenevole al grado, in ch'ella il pone.

Ma par che questa fiera, non contenta

Di averlo messo in bene infimo grado,

Non solo non gli tolga il cor reale,

Ma di più alto desir l'empia la mente,

Perché il ricordo d'esser stato tale,

(Seco dicendo al fin, che son? che fui?)

Doppia doglia abbia, e se ne dolga a doppio,

Il che sarà de la reina mia.

Manda ella per me a Ottavio queste lettre,

Credo per mantenerlosi più amico.

Ma so, che sarà van ciò, ch'ella tenta.

Potrà da Ottavio aver buone parole,

Ma proverà contrari al detto i fatti.

Nondimen prego, che le avenga meglio

Di quel, ch'io temo, ch'avenir la debba.

SCENA QUINTA

Gallo

Credo che sia sovra ogni stima grave

Miseria, e sommo affanno il ritrovarsi

In stato tale a un re, ch'ove soleva

Avere intorno servitori, e paggi,

E genti illustri, e sudditi fedeli,

Si vegga circondato da coloro,

Che il regno tolto gli han, l'han fatto servo.

Mi è proprio parso entrare in un'orrore,

Entrando nel palagio, e ne la corte

Di Cleopatra, non vi veggendo altri

Che gente armata, e capitan Romani,

I quali ha tutti vòlti Proculeio

Là, ov'or si ritrova Cleopatra,

Perché a l'uscir che farà de la stanza,

Ove si trova or, con due cameriere

L'abbia in podestà, e mover più non possa

(Se non secondo ch'egli vorrà) il piede.

Ottavio

E tu non sai se Cleopatrasia

Morta?

Famigliar di Cleopatra

Signor, quando mi diè le lettre,

Mostrommi aver pensier d'ogni altra cosa

(Tanto mi si scoperse in viso lieta)

Che di morire. E creder io no 'l posso,

Bench'ella scritto l'abbia.

Ottavio

Veggo Gallo

Che di là viene. Egli mi saprà dire

La verità. Questi da Cleopatra

Portate lettre mi ha, per le quali ella

Mi avisa, che si vuol la morte dare,

E che, giunto non fia l'apportatore

De le lettre, che manda, ch'ella uscita

Sarà di vita. E che per ciò mi prega,

Che sepelir la faccia, nel sepolcro,

Ove dianzi sepolto ha Marco Antonio.

Udita n'hai tu forse cosa alcuna,

Da Proculeio, o d'altri ne la corte?

Gallo

Nulla, Signor, anzi m'ha detto, ch'ella

Facea l'ossequie a Marco Antonio lieta,

Per venir poi con voi contenta a Roma,

E che, per quanto gli parea, mestiero

Non vi era di più guardia. Ma dapoi

Ch'a voi così piacea, gliele porria.

Ottavio

Va' ratto, e intendi a pien tutta la cosa.

Gallo

Io vado.

Ottavio

Veggo ch'esce Proculeio

Con un de' sacerdoti de la corte,

Essi ce ne daran certa novella.

SCENA SESTA

Ottavio

è forse morta Cleopatra?

Proculeio

è morta.

Ottavio

E come?

Proculeio

Io no 'l so dir. Quando mandaste

Gallo a dir ch'io tenessi maggior cura

Di lei, che voi non mi avevate imposto,

Io me n' andai veloce a quella stanza,

Ove con due donzelle era ridutta,

Dicendomi, ch'ivi entro volea fare

L'ultima parte de l'essequie, e insieme

Come soglion gli Egizi, il sacrificio,

A le sante ombre del marito suo.

E questo sacerdote inanzi a l'uscio

Ne l'abito, ch'or è, lasciato avea,

Col torchio acceso, e con l'incenso in mano.

Ma, giunto a quella stanza, ne l'entrare

Vidi una de le donne sue, che morta

Le stava a piè del letto, e vidi l'altra

Che a la reina, che corcata in letto

Era su un panno d'oro, la corona

In capo le addattava, e le poneva

Il suo scettro real ne la man destra.

E le dissi: Così dunque si face?

Così si fa, - rispose ella - a fuggire

Servitù, e scorno grave, e immantinente

Morta cadette. Io tosto al letto andai,

Et a scuoter mi diedi Cleopatra,

Et a chiamarla ad alta voce, e nulla

Sentendo, e rispondendo nulla, vidi

Ch'ella era morta, e tardi m'avevate

Mandato ad avertir, ch'io le togliessi

La libertà, che l'avevate data.

Ottavio

Vero è quel, che si dice, che la donna

E' de le finzioni il proprio nido,

E il nido de gli inganni. Chi avria mai

Al viso lieto, a le promesse, agli atti

Pensato, che costei chiudesse in core

Disio di morte? E come si è ella uccisa?

Proculeio

No 'l so, Signore, ella non avea ferro

(Però che ricercar la volsi tutta)

Né avea instrumento alcun, che si vedesse,

Con cui la morte si potesse dare.

Né ve n'aveano alcun le cameriere,

Né questi, che le fu compagno sempre

Mentre ella fé l'essequie a Marco Antonio,

Ché in questo usato avea gran diligenza,

Quantunque non avessi alcun sospetto,

Veggendola lietissima essequire

Quel che concesso le avevate voi.

E nondimen, con quanto studio ho usato,

(Come dett'ho) l'ho ritrovata morta.

E quindi ho chiaramente conosciuto,

Che la via di morir non è mai chiusa

A chi brama la morte. E pur volendo

Saper di ciò quel più, che si poteva,

Io venia dimandando al sacerdote

Come si avesse uccisa.

Ottavio

Poscia ch'eri

Ne l'essequie con lei, et a la porta

De la stanza ti stavi, ove ora è morta,

Dimmi tutto il successo.

Sacerdote

La reina

Tosto ch'ella impetrò da voi licenza

Di poter far l'essequie al suo marito,

Se n'entrò in corte, e si vestì la veste,

Ch'ella ora ha in dosso, la quale era quella,

Ch'ebbe quel dì, che fu fatta reina.

E la corona poi si pose in capo,

E in man tolse lo scettro, e andò al sepolcro

In cui di Marco Antonio è chiuso il corpo.

E gittatasi sopra quello avello,

Versando un mar di lagrime dagli occhi,

Cominciò a dir, con dolorosa voce:

Caro marito mio, quanto mi è stato

Questo poco di tempo ch'io son vissa,

Senza te, duro! S'allor fussi morta,

Che tu di vita uscisti, i' era felice,

Ma il reo destin, che non volea ch'avessi

Ne la miseria mia nulla di lieto,

Mi ti fé soprastar, perch'io venissi

Serva al nemico tuo, perch'io vedessi

Ch'al tuo cader io caddi, e cadde il regno.

Ma poi ch'il ciel così ha disposto, ho grazia

Agli dei de l'Egitto, che mi han dato

D'ingannar sì il commun nostro nemico,

Che potute ho, col mio pianto bagnare

Il tuo sepolcro, e con libera voce

Chiamare in libertà quel dolce nome,

Ch'io mi trovo nel cor vivo scolpito.

Poi dopo questo, (lagrimando insieme

Le cameriere, et io per la pietade

Ch' avevamo di lei) con grido orrendo,

O Marco Antonio - disse - o Marco Antonio,

Perché, come il sepolcro tuo di pianto

Bagno, misera me, così non posso

Spirar ne le tue braccia il fiato estremo?

E questo detto, si lasciò cadere,

Come se fusse morta, su il sepolcro,

E senza dir parola, alquanto stette

In quella guisa. Poi risorta alquanto,

Disse : Se mi ama lo spirto tuo sciolto

Dal corpo, come egli mi amava, quando

Congiunto vi era, so che egli qui intorno

Or vola, e ascolta i miei gravi lamenti,

Et attende, che il mio si giunga a lui.

Ottavio

Mi commovono certo insino a l'alma

Queste parole.

Sacerdote

Se le aveste udite

Com'io le udì, Signor, avreste pianto

Con esso lei, come ben vi piansi io,

Non senza gran cagion. Poscia seguitte:

Però caro marito, per unirmi

Morta a te, come unita io ti fui viva,

Io voglio anch'io da questo fragil velo

Scior l'alma mia, laqual quantunque afflitta

Gioisce, poi che sente, che venire

Ella de' ov'è la tua; così al ciel piaccia

Ch'abbian potuto tanto i preghi miei,

Appresso a Ottavio, che contento ei sia,

Che siano i corpi nostri anche congiunti

In un sepolcro. E poscia, questo detto,

Si levò dal sepolcro, e andò a la stanza

Con le donzelle sue, dicendo, ch'era

Lassa fuori di modo, e che volea

Prendere alquanto di riposo. E volse

Ch'io me ne stessi a l'uscio, commettendo,

Che se non mi chiamava, non avessi

Ardir di movermi indi; or giunta al letto,

Lo baciò in ogni parte; e coricossi

Sopra esso. E raddoppiando il grave pianto,

Disse: Ahi quanto mutata abbiam fortuna

Tu et io. Io già in te giacqui, non com'ora

Trista, e dolente, e in altrui man, ma lieta

à par di quante mai fur liete in terra,

Reina de l'Egitto; e tu a me fosti

Dolce riposo, mentre piacque al cielo,

Or sei dei dolor miei strano ricetto,

Che come viva già in te giacqui, giunta

Al mio marito, ora dolente, e sola

Morta in te giacerò. Ma mi contento

(Poi che i fati crudeli han ciò disposto)

Di finir sovra te i miei tristi giorni,

Poi che finir non gli ho potuti a canto

Al mio caro signor: de le mie gioie

Tu fusti testimon, tu anche serai

Testimon de le mie crudeli angoscie.

E questo detto, lagrimosa volta

A le donzelle sue, si fé portare

Un vasello d'argento. E da la tempia

Destra si trasse un canoncino d'oro,

Intorno al quale ella avolgea i capelli,

E pose 'l dentro al vaso, e a un tempo istesso

Sul vaso pose il braccio in tutto nudo,

E tratto il canoncin, toccò la carne,

E quasi lieta disse: Ecco che viene

O Marco Antonio, a te la tua Cleopatra,

Per non si dipartir più da te mai.

Accolla lieto, come la solevi

Accor, quando eri seco in questa vita,

Ch'ella per esser teco, ora abbandona.

Poi come da soave sonno oppressa,

Senza più dir parola, o tragger fiato,

Si rimase sul letto, com'or morta,

E morte anche con lei le due donzelle,

Usando il modo, ch'ella aveva usato.

Questo ho veduto, e udito, e tanto dire

So del fin reo de la reina nostra.

Ottavio

Ismisurato amore, è stato quello

Di ambidue questi; anco ch'aspri nemici

Mi siano stati, e siami grave tanto

La morte di costei, quanto altra cosa,

Ch'io potessi aver grave, io non vo' mai

Discior que' corpi, le anime dei quali

Congiunte avea così perfetto amore.

Onde poi che mi ha chiesto, per le lettre

Che mi ha dianzi mandate Cleopatra,

Che nel sepolcro, ov'ora è Marco Antonio,

La faccia sepelire. Io vo' che cura

Proculeio ti pigli tu di questo,

E che con quell'onor, con quella pompa,

Che si conviene ad una tal reina,

La facci sepelir con Marco Antonio.

Proculeio

Io farò Signor, quel che m'imponete.

Sacerdote

Ben segno date d'animo Romano,

Poi ch' anche de l'onor dei gran nemici,

Dopo la morte loro, avete cura.

Io prego il ciel, che guiderdon vi dia

Degno di sì cortese, e nobile atto.

Ottavio

Spedito ch'avrai questo, Proculeio,

A l'armata verrai con la tua gente,

Perché ordinato ch'averemo quanto

Bisognerà in Egitto, ce n'andiamo

Finito il travagliare, insieme a Roma.

CORO

Quanto miseri, ohimé, sono coloro,

Che perché hanno felice

La fallace Fortuna a' desir loro,

Mai provarla non temono infelice,

E ne' piaceri stan fra gemme, et oro.

Ché questa ingannatrice

Tant'è da temer più, quanto più lieta,

Si mostra, e più quieta.

Però ch'ella si turba in un momento,

E di pia, e mansueta,

Come aspra predatrice,

Fiera diviene, et empie di tormento

Chi parea più contento,

E mostra chiaro, che a lei sola lice

Le gioie altrui far vane,

Et abbassar tutte le altezze umane.

FINE