Come essere felici benchè sposati

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L’ESSERE E LE CIPOLLE

           

COME ESSERE FELICI BENCHÉ SPOSATI

Paolo Borsoni

Paolo Borsoni

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www.paoloborsoni.net

PERSONAGGI:

UOMO

DONNA         

I GUARDIA

II GUARDIA

I GIOVANE

II GIOVANE

CORIFEO

SCENA

L’ambientazione è in un tempo antico.

La stanza è vecchia, povera.

Al centro della stanza c’è un tavolo; sopra il tavolo un cespo di cipolle.

In fondo un lavello con pochi piatti, posate, pentole, brocche.

Accanto al lavello sulla sinistra una dispensa con un pane, una caraffa di vino, un contenitore del sale, un mucchio di fagioli posati su una scodella. Sul lato opposto a destra del lavello: una porta.

Lungo la parete destra della stanza sporge il focolare. Poco discosto dal focolare lungo il muro: un giaciglio.

Sul lato sinistro della stanza c’è la finestra e vicino alla finestra un altro giaciglio. Sopra il giaciglio c’è una semplice sacca bianca di stoffa coi lacci per tenerla a tracolla.

MUSICA IN SOTTOFONDO: “Variations for the Healing of Arinushka”-Piano- di ARVO PART

Al centro della scena U e D, un uomo e una donna: esattamente di spalle in piedi, con le schiene quasi attaccate e davanti al tavolo. Accanto a loro, fra il tavolo e il proscenio, due sedie anch’esse poste di schiena l’una opposta all’altra, quasi ad affiancare i due esseri umani e a rispecchiare la loro opposizione.

L’uomo e la donna indossano tuniche bianche, un po’ consunte.

D tiene in mano un vecchio vestito, lo sta rattoppando, infila accuratamente un lungo ago nel tessuto, con attenzione rammenda il vestito con il filo. Spezza il filo con una lama posata sul tavolo. Poi infila l’ago di nuovo in un altro punto.

U ha in mano una tavoletta su cui di tanto in tanto scrive con uno stilo; si ferma: osserva meditabondo quanto ha scritto, sta lì a pensare; alza il capo cogitando assorto; poi riprende a incidere velocemente lo stilo sulla tavoletta.

D riprende in mano la lama affilata e taglia di nuovo il filo.

La scena è quasi oscura.

Davanti alla scena c’è un piccolo fascio di luce circolare.

I - PROLOGO

Dalle quinte appare il CORIFEO, va sotto il cono di luce.

Con la musica di Arvo Part in sottofondo inizia a parlare.

CORIFEO

«La Donna è conosciuta in tutto il vicinato per la sua generosità e per la sua disponibilità verso chi ha bisogno di aiuto. Il suo fare è burbero ma anche ironico, forse un po’ troppo a volte, irruente non di rado e quasi sempre non molto raffinato. Oltre ai lavori di casa si dà da fare con lavori di cucito per integrare le magre entrate familiari; è considerata una sarta molto abile, anche se i suoi strumenti di lavoro sono semplici: ago, filo, una lama. 

L’Uomo è un tipo sognante e portato alle astrazioni, da alcuni è considerato pedante e insistente quando discute con gli altri. Alcune sue discussioni irritano gli interlocutori tanto da divenire particolarmente accese. Uno che non lo conosceva si irritò talmente dall’essere sottoposto a continue insistenti domande e sempre messo in contraddizione con quanto lui stesso aveva detto in precedenza, da prenderlo per il bavero e dargli una sberla. Ma di solito tutte le discussioni, anche le più accanite, si risolvono in una stretta di mano. U ha sopportato aspre peripezie nella vita pubblica, è considerato una spina nel fianco dai potenti. Nei casi meno piacevoli, quando si è opposto in maniera netta e decisa alle loro direttive ingiuste e ingiustificate, ha rischiato di venire rinchiuso in prigione e addirittura di essere giustiziato. Ma valuta questi rischi un pegno da pagare, un risvolto ineludibile per raggiungere conoscenza e approfondimento nella ricerca della verità e della virtù, quella in particolare di non tradire le convinzioni raggiunte con la riflessione e con la scelta ponderata. È un uomo dotato di una cultura vastissima, sia letteraria sia scientifica, ma la sua convinzione è di non sapere;  ‘è questa - dice - la mia vera sapienza’. Considera il dialogo assieme ai propri interlocutori al fine di addivenire con il confronto delle opinioni a una conoscenza più approfondita, la fonte della virtù. Il dialogo è il principio basilare di comunicazione e di relazione».

CORIFEO lascia la scena. Si spegne il cono di luce sul proscenio.

II -  AGONE

La scena della stanza viene illuminata a poco a poco. La luce aumenta lentamente; raggiungerà il suo grado effettivo solo quando i due personaggi inizieranno a parlare e in quell’istante la musica affievolendosi terminerà.

L’atmosfera è sospesa. I personaggi si spostano lentamente nella stanza come in un sogno.

U e D si muovono nello stesso istante in direzioni contrarie verso i lati opposti della stanza afferrando entrambi la sedia che hanno vicino, portandosela dietro.

D posiziona la sedia vicino al focolare, appoggia il vestito con ago e filo sulla sedia, poi torna al tavolo, prende il cespo di cipolle, va al lavello, riempie una pentola d’acqua. Tornata al focolare posa la pentola sopra il braciere. Prende a tagliare le cipolle nella pentola. Quindi accende il fuoco.

U con l’altra sedia è andato al capo opposto della stanza vicino alla finestra. Piazzata la sedia al chiarore che viene dall’esterno, dopo aver fatto vari tentativi per trovare la posizione migliore e più comoda, si è seduto e ha preso a scrivere sulla tavoletta. U ha una postura tesa sulla sedia, è talmente concentrato verso il suo obbiettivo, nel suo sforzo mentale da non rendersi conto di piegarsi di lato con il corpo, sembra ammirare un quadro di traverso.

China sul focolare con le gote rosse, D soffia sul fuoco, sventola, si dà da fare con energia con un ventaglio. Di quando in quando guarda di sottecchi l’uomo.

U, piazzato sulla sedia vicino alla finestra, sembra una statua: è immerso in chissà quali pensieri, chissà quali idee.

D sventola e soffia e quando finalmente il fuoco scintilla sotto la pentola può rialzarsi, si stiracchia la schiena per la posizione scomoda tenuta fino a quel momento e riprende il vestito che stava aggiustando. Si siede sulla sedia accanto al focolare e ricomincia il lavoro di rammendo.

La musica si attenua fino a svanire.

[Filosofo o Sempliciotto?]

D         (con tono ironico a U) «Che cosa sono queste chiacchiere adesso che saresti diventato un filosofo?!».

U         (senza rialzare gli occhi dalla tavoletta dove sta tracciando linee geometriche) «Esagerazioni, mia cara, pure esagerazioni ».

D         (insiste) «Hai proprio tempo da perdere?».

U         «Il tempo non esiste, mia cara. Quindi non c’è proprio nulla da perdere».

D         «Adesso ti accusano di empietà, di sviare i giovani e di non riconoscere l’autorità dei governanti».

U         «Sono accuse ridicole. Pochi hanno cara come me questa città, con le sue leggi e la sua giustizia. Non credere a quello che dicono. Sono frottole. Le parole assomigliano a nuvole che presto svaniscono».

D         «Caro mio, non so se riuscirai a farla franca come tutte le altre volte. Non so se le accuse che ti vengono rivolte stavolta svaniranno come nuvole, come dici tu. Non sono tutti pazienti e disponibili come me! Mi sa che un giorno o l’altro ti faranno pagare la tua aria di superiorità e di imperturbabilità intoccabile».

U         (per sviare il discorso) «La tua minestra manda davvero un profumo invitante».

D         (irridente) «Ma come può mandare un profumo invitante, se ho appena acceso il fuoco, sempliciotto che non sei altro?!».

U         (aggrottando la fronte sorpreso) «Sempliciotto?».

D         «Proprio così: sempliciotto! un filosofo un po’ sempliciotto, con la testa sempre fra le nuvole!».

U         (di fronte a tanta furia borbotta) «Mi sembra che ci sia una contraddizione: sempliciotto o filosofo? Sarebbe il caso di aprire una discussione, di iniziare un confronto, ma forse è meglio rimandare il dialogo».

D         «Sì, meglio!».

(U tira un sospiro di rassegnazione. Sulla sua tavoletta traccia altre linee per risolvere il problema di geometria che lo impegna)

U         (a voce alta per cambiare discorso) «Dovrebbe piovere».

D         (grida) «Non pioverà!».

(U fa un sussulto sulla sedia per l’urlaccio)

U         «Volevo dire solo qualche goccia».

D         (grida di nuovo) «No! neppure quella! Neanche una goccia!».

U         «Caspita, cara! Sei proprio convinta!»

D         (grida) «Sicuro! Sì, che sono convinta!»

U         (preoccupato per il tono di D) «Stai bene mia cara?».

D         (grida ancora e la voce diventa sempre più cupa, quasi minacciosa) «Tanto bene che meglio non si potrebbe! Sto benissimo dalla mattina alla sera! In questa casa non potrei star meglio!»

U         «Io invece mi sento, come dire?, un pochino strano ultimamente».

D         (a voce normale a mo’ di spiegazione a un pubblico) «È un filosofo strano e anche un po’ sempliciotto»

(U la guarda aggrottando la fronte perplesso)

U         (si chiede sconcertato) «È possibile essere sempliciotti e filosofi allo stesso tempo? Ci devo riflettere».

[La Caverna!]

(U è ritornato a immergersi nella geometria. D al focolare con un mestolo gira nel paiolo).

D         (sottovoce a se stessa) Se ci lasciassimo forse le cose andrebbero meglio. Si troverà un altro posto, magari da quel filosofo che ha tanti soldi. Di sicuro quello lì una casa gliela trova. Platone, con la sua famiglia aristocratica, è ricco sfondato;  avrà di sicuro un posto dove farlo stare».

U         (fra sé) «Questi strepiti mi rendono ardua la giornata, ma questo è l’unico posto dove posso stare, dove mi riesce di ragionare. In qualsiasi altro luogo finirei col perdermi e perderei tempo».

D         (senza guardare U a voce alta) «Prendi la salina!»

(U non ha sentito o forse dà a vedere di non avere sentito; non si muove).

D         (a voce più alta) «Prendi la salina!!».

(L'uomo si scuote, l’urlaccio è stato tonante. Ma è troppo impegnato a risolvere il suo problema di geometria per alzarsi e muoversi).

D         (con tono affannato e allungando le parole) «Prendi la salina!»

U         (con una vocetta gentile) «Aspetta un attimo, mia cara, soltanto un attimo. Sono appena giunto a un punto cruciale nella soluzione di questo problema di matematica, fra breve tutti i dodecaedri si incastreranno l’uno con l’altro. Mi si svelerà questo enigma, questo dilemma della geometria. Non posso piantare in asso la matematica proprio ora! Cerca di capirmi».

D         (lo minaccia) «Se non prendi la salina, tu stasera non mangi. Altro che dodecaedri!»

U         «Ti prego la geometria mi sembra più importante della minestra!».

D         «Va bene. Allora stasera tu mangi i dodecaedri! Niente minestra!».

U         «Mangiare i dodecaedri? No, meglio di no. Non mi sembra proprio il caso. Diamoci una mossa allora, se no qui cominciamo a dare i numeri e si passa all’algebra. Magari alla fine mi tocca davvero mangiare un dodecaedro. In effetti ho anche un po’ fame: è da stamattina che non metto niente sotto i denti».

D         «Già, neppure io! Ormai in questa casa si mangia solo una volta al giorno con i pochi soldi che arrivano. Con questi chiari di luna fra un po’ ci toccherà mangiare i libri di filosofia!»

U         «Mangiare libri di filosofia? Per carità! Cos’è che hai detto che volevi, mia cara?»

D         «La salina»

U         «La salina?»

D         «Sì, proprio la salina!»

U         «E come faccio a portartela?! Mi sembra un po’ difficoltoso. Dovrei uscire di casa, andare verso il litorale e non so come prenderla e poi portatela!»

D         «Poche storie! Portami la salina, se no stasera tu non mangi! »

U         «Vorrai dire la saliera!»

D         «Salina, saliera, quello che vuoi. Tu, coi tuoi giochetti di parole! Piantala di riprendermi sempre e di mettere in evidenza che sei un sapientone, tu con le tue astuzie filosofiche e parolaie!»

(Stoicamente l'uomo ripone la tavoletta, lascia la sua sedia. Raccoglie la saliera dalla dispensa)

U         (dice fra sé  e sé ridacchiando) «Andare a prendere una salina! Mi sembra un’impresa un po’ difficile. (Sogghigna. Poi si riavvia verso il focolare. Ma si ferma a metà stanza. Gli è venuta un’idea!) «Sì! Il dodecaedro delle cuspidi reversibili coi suoi diedri curvilinei…».

D         (commenta, guardandolo con un sorriso sardonico) «Gli dovrebbero dare un pedata sul diedro a quello lì! Così forse si smuove un po’!».

(U fa ampi gesti con la mano; traccia figure geometriche nel vuoto, tratteggia ampi segni con le dita come in una lavagna invisibile)

U         «Proprio così! Proprio così! Quel diavolo di Talete ancora una volta aveva proprio ragione! Evidente!»

D         «Sarà evidente! Ma se tu non mi porti subito la salina è anche evidente che tu e Talete stasera non mangiate niente! Fa anche la rima!»

(U annuendo e sorridendo, soddisfatto del risultato geometrico raggiunto in modo imprevisto, va a portare la saliera alla donna)

U         «Ecco dunque la salina, mia cara»

D         «Salina? Vorrai dire saliera! Prima dici che è una saliera, poi dici che è una salina. Mi sa che c’è un po’ di confusione nella tua testolina filosofica»

U         «Sì, forse un po’, o anche no. Non so.  So solo di non sapere»

D         «Sì, sì, tu con la tua aria di sapientone ignorante fai la figura di uno umile e riservato. In realtà dicendo di non sapere non dici mai del tutto quello che pensi».

U         «Beh, mi sembra che nel tuo ragionamento ci sia un filino di astiosità, mia cara»

D         «Astiosità? No, è solo una constatazione, mio caro»

(Prima di andarsene U annusa più volte. Stavolta è sicuro che il suo olfatto non stia prendendo lucciole per lanterne)

U         (afferma sicuro) «Ecco! Questa cosa la so: la tua minestra sta diffondendo un profumo celestiale in tutta la stanza! È la minestra alla sua ennesima potenza; essa fa parte della Datità ovvero del Tutto. Non c’è dubbio! Niente allucinazioni, niente apparizioni o ombre. È la minestra alla sua massima potenza geometrica. Essa è data!»

D         (domanda sogghignando) «La datità della minestra?».

U         «Proprio così, mia cara. È inutile che ridi! La datità della minestra non è affatto un’ombra sul fondo della caverna!».

D         «Caverna, mio caro? Quale caverna? Va bene che questa stanza non è una reggia e anzi è davvero un pochino malandata e sarebbe da riparare se tu portassi a casa qualche soldino, sempliciotto mio, invece che startene in panciolle a divertirti dalla mattina alla sera coi tuoi giochetti matematici. Ma per adesso non abitiamo ancora in una caverna. Fra un po’ forse sì, se va avanti così. Ma per adesso no».

U         «E invece sì, mia cara! È proprio così: tutti noi, e quando dico tutti intendo poveri e ricchi, donne e uomini, dal nostro primo giorno fino all’ultimo viviamo in una caverna e vediamo solo ombre del reale proiettate sullo sfondo della caverna».

D         «Sì, adesso ho capito! Viviamo in una caverna e tu sei un cavernicolo!».

U         «Beh, a differenza di tanti altri, io però ogni tanto esco. Quindi non mi si potrebbe dire un cavernicolo permanente. Anzi, quando sono fuori, scopro cose che gli altri neppure immaginano, essenze meravigliose, verità supreme sul cosmo, sulla vita. È quando torno dentro la caverna che trovo difficoltoso spiegarmi. Sembra che nessuno voglia prendermi sul serio, a cominciare proprio da te. Nessuno mi crede e presta fede a quello che ho scoperto. Il Tutto appare inverosimile. La realtà pura e senza ombre fuori della caverna sembra un sogno a chi sta dentro la caverna e viceversa queste ombre che offuscano la vita appaiono reali, l’unica realtà che ci spetta nella vita. Proprio il contrario di quanto accade!»

D         «Ah, adesso ho capito! Tu sei un cavernicolo e ogni tanto esci. Allora già che sei tornato prendimi il mestolo in fondo ala caverna »

(U sembra pensarci)

U         (si domanda perplesso come se gli fosse stata posta una richiesta strana) «Il mestolo?»

D         «Proprio il mestolo. A tanti, mio cavernicolo, tu sembri un po’ strano, anzi un po’ fuori di testa sia dentro che fuori della caverna. Un sempliciotto parecchio strano»

(Di fronte all’irrisione della donna, U torna alla sua sedia, si siede, fa le sue solite manovre di posizionamento per trovare la sistemazione più comoda. Decide di sedere alla rovescio fronteggiando lo schienale della sedia e riprende a tracciare altre linee geometriche sulla tavoletta. La donna va alla dispensa; prende il mestolo. Tornata al focolare mescola le cipolle nel paiolo)

D         «La caverna! È proprio una caverna, quella in cui abitiamo!»

(D di tanto in tanto riempie il mestolo assaggia, poi scuote il capo sogguardando U)

D         «Ssssh!… La caverna! Ci mancava solo la caverna! Cavolo d’un cavernicolo! Un filosofo cavernicolo!»

U         (che ha sentito dice quasi per scusarsi) «Ogni tanto esco, però!»

D         «E allora restaci fuori della caverna! Invece che tornare a casa e rovinarmi il cervello con le tue filosofie!»

[La Minestra Celeste!]

(La minestra ora sparge un profumo ineguagliabile in tutta la stanza. L’uomo di tanto in tanto alza il capo, annusa l’aroma estasiato. Sorride)

U         (fra sé) «Stasera si mangia da re»

(D  rialza il capo. Guarda a lungo con fare sospettoso U)

U         (chiede perplesso) «Beh? Che c'è?».

D         (replica storcendo il naso) «Che c'è cosa?».

(L'uomo si gira dall'altra parte e riprende a chinarsi sulla sua tavoletta e ricomincia a scrivere).

U         (a se stesso) «Perché è capitata proprio a me questa donna? Perché è successo proprio a me di incontrare questa persona nel mio cammino? Esiste davvero un destino che fa della vita di ciascuno un sentiero già segnato in partenza? È possibile che solo qui, in questa stanza, su questa sedia accanto alla finestra ci siano la ragione e il senso del mio esistere, del mio essere al mondo?»

D         (a se stessa) «Sta cercando di confondermi. Sono convinta che ci sia qualcosa che non va nel suo cervello. Perché non si alza da quella sedia? Perché non va a lavorare? Perché parla sempre dell’Essere, dell’Essenza di questo e di quello, come se ci fosse al mondo qualcosa di diverso che brigare dalla mattina alla sera per mettere sotto i denti un tozzo di pane e una minestra. Lui ragiona sullo spazio e sul nulla, sui dodecaedri e sull’Anima e non sulle cose di cui parlano tutti. Con quelle frottole non si mangia, facendo filosofia non si mette una pentola sul fuoco; questa è la filosofia vera: lavorare per mangiare e poi per stendersi a dormire tutte le sere e una volta per sempre».

U         (a se stesso) «Come mai, per quale ragione questa donna si è posata sulla mia strada? E perché io, malgrado tutto, le voglio ancora bene? Stare con lei significa mangiare, passare il tempo ad altercare più o meno tutti i giorni. Questo è il destino di quell’io che vorrebbe percorrere i sentieri più elevati della Filosofia, di quell’io che vorrebbe raggiungere i fondamenti delle domande sul senso dell’Essere, di quell’io che vorrebbe interpretare l’Anima e riconoscere l’Essenza del cosmo. Quell’io, che vorrebbe decifrare il mistero dell’universo, è invece è impegnato tutti i giorni a discutere sul prezzo delle cipolle. Sono dunque io quell'essere che pensa alla vastità e alla profondità dell’Anima e si ritrova a disputare dalla mattina alla sera sulle posate sporche? Ma anche questa donna è capitata male: non pochi mi disprezzano e mi considerano un buono a nulla».

(U si volta, guarda la donna che lavora e ha ripreso a rammendare seduta sulla sua sedia vicino al focolare. D di tanto in tanto si alza e va a controllare quanto sta cuocendo dentro la pentola).

D         (ordina) «Prepara la tavola!».

U         (come sovrappensiero per mostrare la sua contrarietà all’atmosfera che regna in casa risponde) «Stasera non mangio».

D         (replica inesorabile) «Meglio così! Mangio io due volte!».

(L’uomo storce il naso; l'evidente ostilità di lei lo amareggia).

U         (dice a bassa voce come se lo spiegasse a qualcuno) «È terribilmente astuta. È abile come nessun’altra nelle faccende domestiche. È una sarta sopraffina, potrebbe competere con le sartorie più rinomate. Ma il suo modo di fare e di parlare è talmente rude che mi angustia. Non ne uscirò mai. Da sempre mi assilla con questo suo tono animoso. Anche se, a pensarci bene, la sua struttura di comunicazione è un’abile forma di retorica, una tecnica del discorso funzionale all’obiettivo di avere ragione; è davvero una forma di comunicazione incredibilmente forbita la sua. Il suo modo di discutere, anche se non elegante, ha un’efficacia reale. Eppure mi manca immensamente la possibilità di poter discutere con questa donna dell'Essere, della geometria, della filosofia, della ricerca dell’Anima. Questa impossibilità di ragionare con chi mi è costantemente vicino sui temi che considero più elevati è qualcosa che mi mancherà sempre nella vita».

(La donna continua a darsi da fare in cucina; gira per la stanza, fa ordine tra le pentole, dispone i piatti in tavola; ritorna al focolare, vigorosamente mestola, assaggia. Poi va alla dispensa e prende a sbucciare i fagioli. Il profumo della minestra di cipolle adesso ha raggiunto ogni angolo della casa con il suo aroma delicato e penetrante. L’uomo si alza, annusa, va in giro per la stanza con la sua tavoletta e lo stilo in mano. Si china per verificare se anche in quel punto si senta il profumo, con fare scientifico verifica il persistere dell’aroma in ogni lato. Si piega sulle ginocchia; poi scrive qualcosa sulla tavoletta; prende appunti; annota quanto ha scoperto. Alza il viso, ci pensa e poi scrive note e cifre; a ogni spigolo sorride compiaciuto. Quindi scrive ancora sulla tavoletta).

D         (lievemente sardonica) «Dimmi caro che cosa stai facendo, se non sono indiscreta? Stai scrivendo poesie?»

U         «Cara, sarebbe proprio il caso di scrivere una iporchema sulla tua minestra e sul suo aroma celestiale».

D         «Iporcosa?»

U         «Iporchema. È una lirica accompagnata dalla cetra, dal flauto e dalla danza».

D         «Iporcavolo allora!»

U         «No, niente iporcavolo. In realtà quello che sto facendo in questo momento è: aerostatizzo»

D         «Aerostastruzzi!»

U         «No. Aerostatizzo»

D         «Non capisco».

U         «Aerostatizzo».

D         «E che vuol dire?»

U         «Statuisco in forma scientifica se il profumo sia giunto in modo uniforme ad ogni punto della stanza e se conformemente alla sua espansione nell’etere abbia un’uguale capacità di stimolo in ogni direzione dello spazio. Gli atomi di cui parla egregiamente Democrito si distribuiscono a raggiera in tutte le diverse dimensioni dell’etere e se noi…»

D         (l’interrompe) Grazie, ho capito. Non c’è bisogno che procedi nella tua dotta spiegazione, se no la minestra va a male. Riprendi pure gli aerospruzzi. Misura quello che devi misurare e fallo in silenzio. Non mi occorrono altre delucidazioni. Continua pure a fare quello che ti pare, aerospruzzare, aerostruzzare, ma a bocca chiusa».

U         (sorride e dice) «Entrambi, cara, stiamo facendo qualcosa di utile: io aerostatizzo e tu cucini! È davvero celestiale questo profumo della tua minestra, ineguagliabile direi. Ha impregnato ogni sostrato dell’Essere sia sostanziale sia subsostanziale, quindi ogni atomo di Democrito in questa caverna».

D         (sogghigna e quasi rivolgendosi a una terza persona presente in stanza dice) «È un cavernicolo molto scientifico, oltre che artistico »

U         «Questa minestra è la sostanzialità dell’Essere nella sua materialità più astratta».

D         (a una terza persona invisibile) «Anche se volessi, non riuscirei a star dietro a tutte queste astruserie».

U         «Te la ricordi, cara, quella minestra di cipolle che mangiammo durante la nostra luna di miele, a Egina, dopo che ci siamo sposati?»

D         «Eccome se me la ricordo! Niente aerostruzzi allora, solo fatti concrete. E poi mi ricordo anche tutto il resto».

U         «Non era male quella minestra di cipolle, niente male».

D         «Già! Allora c’era parecchio appetito, sia di cipolle sia di tutto il resto. Mentre adesso… (sconfortata come pensando all’evidenza di una situazione misera). Adesso… c’è solo la minestra di cipolle!»

U         (per schivare il discorso) «Mi ricordo, cara, che il giorno successivo, facendo il bagno, tu stavi per affogare. Se non ci fossi stato io quel giorno! Mi gettai senza indugio e senza paura fra le onde. Ti afferrai e ti tirai verso riva con tutte le mie forze. E tu eri tanto agitata che continuavi a darmi pedate e botte mentre ti portavo a nuoto verso riva, non sapevi che cosa io stessi facendo, magari pensavi che ti volessi affogare. Se non ci fossi stato io in piena energia quel giorno saremmo andati a fondo entrambi. E invece ti portai all’asciutto, ti stesi sulla spiaggia,  ti trassi in salvo e presi a farti il respiro bocca a bocca per rianimarti. Ma tu non ne avevi proprio bisogno, eri viva e vegeta e ti eri già ripresa. Ne approfittasti per continuare a darmi baci. Mi ringraziavi in quel modo strano. Erano baci davvero bizzarri: sembravi volessi indagare scientificamente con la tua bella lingua dentro la mia bocca».

D         (aggrottando la fronte) «Già! Se succedesse adesso, se mi capitasse ora di affogare in mezzo alle onde del mare non so come andrebbe la faccenda. In una situazione del genere mi chiedo che cosa faresti tu ora. Il bocca e bocca? O una spintarella per buttarmi ancora più giù?».

U         «Me lo chiedo anch’io, a volte. Come dire?… A conti fatti… (U sta lì a pensarci… Poi commenta)  Beh le cose cambiano nella vita. Comunque di sicuro niente spintarelle. Anche se forse nemmeno il bocca a bocca».

D         «Già anche le cipolle non sono più quelle di una volta. Tutto cambia!»

(U si affaccia alla finestra; è inebriato dal sapore e dal profumo che aleggia nella stanza).

U         (a voce alta come se lo comunicasse agli dei) «Nella vastità del cielo è riflessa la mia Anima. Nell’immensità s’illumina il mio io. Lì rifletto il mio Essere che è il riflesso dell’infinito che è il riflesso di ogni profonda Essenza».

D         (commenta a voce alta) «E dagli con quest’Essenza. Essenza di che? Delle cipolle forse?».

U         (aggrotta la fronte quasi a pensarci… poi ripete serio) «L’Essenza delle cipolle! Non ci avevo mai pensato! Può essere interessante come tema di discussione. Le cipolle col loro profumo esprimono un’Essenza? E se sì: è nel loro gusto in sé? o nelle sensazioni che provocano in chi le prova? ovvero metaforicamente nell’ombra proiettata sulla parete in fondo alla caverna?».

D         «Di nuovo con questa storia della caverna!».

(Sulla via sottostante si odono i passi di qualcuno che barcollando è uscito da un’osteria. L’uomo si sporge per osservare di chi si tratti).

U         «Devo sviluppare questo tema sull’Essenza della sostanzialità delle sensazioni provocate dalle cipolle nella caverna come aspetto ineffabile della materia o come forma della sensibilità di chi viene a contatto con essa in fondo alla caverna!».

D         (sbotta) «Esci dalla caverna! Va a lavorare!».

(L’uomo si volta sconcertato).

D         «Se tu portassi a casa qualche soldino, mio caro, potremmo tornare ad Egina e ogni tanto fare un bel bagno».

U         «Sì, così magari stavolta affoghi davvero!»

D         «In che senso ‘magari’? È un augurio o un’osservazione velata da timore?».

U         «Un augurio, anzi volevo dire timore, scusa un augurio, per carità anzi un timore, no… Mi stai facendo confondere!».

D         «Ah! Avevo capito bene che avevo capito male».

U         «Tanto a Egina non ci torniamo. È così piena di armatori! gente piena di pensieri, furbastri sopraffini che se non stai attento ti cavano anche il vestito nel trasporto, speculatori d’alto bordo. Meglio restare a casa! Così si può a ragionare con calma di filosofia e sui rischi scampati di affogare».

D         «Sì, proprio meglio affogare nella filosofia ovvero parole parole in un gorgo di parole, loro non costano nulla».

[Filosofia!]

U         (rivolto a D, quasi per sviare il discorso) «Dimmi, cara: è giusto sostenere l'uguaglianza di tutti gli uomini? È legittimo porre sullo stesso piano chi persegue la verità e la virtù con chi cerca solo un bicchiere di vino per ubriacarsi? O addirittura con chi froda gli altri per accumulare denaro e potere? E poi cos'è la virtù? Cos’è l’Anima? Cos’è l’Essenza».

D         (ridacchia) «Quale Essenza? L’Essenza delle cipolle o del cavolo? Spiegami meglio!».

U         (continua imperterrito) «Ascoltami, donna! Cerca di aiutarmi con il tuo buon senso pratico. Perché l’onestà è più degna della disonestà? Perché la verità è più degna della menzogna?».

D         «Non te lo dico neanche se mi regali i fagiani di Leogora»

U         «Leogora?»

D         «Sì, quello dei fagiani»

U         «Va bene, dopo vado da Leogora e mi faccio dare un fagiano per te. Poi passo anche per la salina e ti porto la salina. Ma adesso, ti prego, rispondimi: perché la verità è più degna menzogna? Perché l’onestà è più degna della disonestà? Come mai? Da quale principio possiamo dedurre che la verità e l’onestà siano quanto di più elevato noi possiamo conseguire?

(La donna lo fissa).

D         «Mi fai diventare nevrastenica con questi discorsi!».

U         (commenta serio) «Nevrastenia? Certo, mia cara! Anche la nevrastenia può essere una via per raggiungere la Verità, per conseguire una conoscenza più profonda. In effetti nelle ombre che noi vediamo proiettate sul fondo della caverna…»

D         (l’interrompe spazientita) «Basta con questa caverna! Non ne posso più di questa caverna!».

U         «Dicevo… Non m’interrompere nei miei ragionamenti, se no perdo il filo. Cosa dicevo?… Ah sì: nelle ombre proiettate sulla parete della caverna nei tempi antichi, le baccanti, notoriamente affette da nevrastenia, venivano considerate sacerdotesse sacre alle divinità. Euripide nella sua commedia…».

D         (l’interrompe di nuovo) «Lascia perdere Euripide, la caverna e i tempi antichi, e passami un cucchiaio piuttosto».

U         (sorpreso) « Ma stavo parlando delle ‘Baccanti’ di Euripide!»

D         «Lo so che parlavi di Euripide. Quell’Euripide che ‘Eschilo Eschilo che qui si Sofocle! Attenti alle scale Euripide se no Tucidide!’».

(L’uomo è a bocca aperta, esterrefatto… Poi si riprende e andando avanti e indietro nella stanza ragiona a voce alta)

U         «Se noi vediamo ogni cosa non nella sua datità ma nella sua ombra proiettata sul fondo della caverna…».

D         (urla) «Basta con questa caverna!!».

U         (senza darsi pensiero degli strepiti di D continua) «su quale principio possiamo dedurre l’assunto che la moralità sia migliore dell'immoralità? Su quale principio la speranza o meglio il ‘principio speranza’ è davvero l’ancora di salvezza in questa stagione di paura e angoscia…»

D         (spazientita) «Mi fa venire l’angoscia.

U         (continua imperterrito) E la speranza ha senso anche quando la vita sta declinando al tramonto o la speranza ha valore esclusivamente per chi davanti a sé ha un tempo adeguato alla traduzione in atti, in azioni direi, di questa speranza,

D         «Speranza, ma quale speranza? Siamo senza speranza!»

U         «…o nel principio di questo ‘principio speranza’, nella sua sostanzialità data nella datità mondo? Eh, donna? Dimmelo».

(U si è fermato, rivolto verso D, è in attesa di una risposta. D adesso resta in silenzio).

U         «Allora?»

D         «Allora cosa?»

U         «Stavo parlando della speranza»

D         «Sono in fondo alla caverna, fra qualche ora riemergo».

U         (di fronte al sarcasmo di D, ricomincia a camminare in lungo e in largo per la stanza e a ragionare) «La speranza è un’illusione o realmente esiste come motivazione? La speranza o meglio il ‘principio speranza’ ha ragione e motivo di esistere anche in fondo al buio di una caverna?»

D         (strepita) «Non ne posso più con la caverna!!»

U         (sorpreso) «Ma parlavo in senso metaforico e problematico».

D         (si rialza, va a prendere il cucchiaio da sola; mentre cammina per la stanza passando davanti a U ripete come un’ossessione oppressiva) «La caverna! La caverna! La caverna!».

U         (seguendola con gli occhi) «Proprio così, mia cara! È inutile che mi prendi in giro. Noi viviamo in fondo a una caverna! Te l’assicuro come è vero che tu stai preparando la minestra di cipolle».

D         (scuote il capo, fa uno sbuffo divertito, e dice) «Questo qua è ubriaco anche quando non beve!».

U         (insiste, rivolto a D) «Perché bisogna perseguire la virtù? Eh? Dimmelo, donna! Perché non è giusto arraffare tutto quello che ci capita sottomano? Spiegami!».

D         (ridacchiando e girando il cucchiaio nel paiolo replica) «So solo di non sapere».

(D assaggia la minestra).

U         «Non fare la spiritosa! Cerca di aiutarmi! Rispondimi con il tuo buon senso pratico. Queste domande mi assillano. Seguimi nei meandri profondi della caverna alla ricerca dell’Anima, della Conoscenza, dell’Essenza».

D         «Neanche se mi regali il fagiano di Leogora!»

U         «T’ho già detto che fra un po’ andrò a prenderlo quel fagiano da Leogora. Andrò da Leogora per te. Ma adesso, per favore, rispondimi sui quesiti supremi dell’Essenza, dell’Anima e non sui fagiani!»

D         «Lascia perdere l’Essenza e la non Essenza, l’Anima o l’Assenza! Esci da quella caverna e vai a prendermi il fagiano da Leogora o se non hai voglia almeno comincia a sbucciare i fagioli. Sono là sulla dispensa».

U         «Dove sono?»

D         «Sulla dispensa!».

(U sta lì a pensarci se uscire di casa o andare a sbucciare i fagioli. Poi invece riprende in mano la sua tavoletta del problema di geometria. Va a sedersi sulla sua sedia sotto la finestra. Fa i movimenti studiati come in una specie di cuccia per sistemarsi comodamente. Infine si siede di lato con lo schienale a fianco).

U         «Devo risolvere questo problema di geometria prima di andare a dormire. Devo raggiungere questo risultato prima di domani e non saranno certo i fagioli o i fagiani a distogliermi da questo mio obiettivo supremo. Non saranno di sicuro cipolle, fagiani e fagiolil a ostacolare la soluzione di un quesito così elevato di geometria!».

(La donna va alla dispensa e comincia a sbucciare i fagioli).

D         (fra sé) «Cielo! Invece di aiutarmi a fare da mangiare e ad apparecchiare la tavola, se ne sta lì in panciolle coi suoi giochetti matematici!».

U         (scuotendo il capo, con gli occhi sulla tavoletta dice sottovoce) «Cielo! Invece di essermi vicina in questo tentativo di risolvere i quesiti fondamentali dell’Anima, della ricerca dell’Essenza, del significato profondo dell’Essere, questa donna pensa solo a sbucciare i fagioli!».

U         (si rivolge di nuovo a D) «Dimmi, cara: che cos'è che fa della nostra vita un’esistenza degna di essere vissuta? Mangiare o pensare? Riempire la pancia o argomentare per un’ascesi a una conoscenza superiore, per una più profonda saggezza, per uno stato dello spirito in cui non esistano soltanto i fagioli e le cipollee i fagiani ma anche l’Ineffabile e l’Indicibile?»

D         «L’indicosa?»

U         «Indicibile»

D         «Mai sentito nominare!»

U         «Come non hai mai sentito nominare l’Indicibile?»

D         « L’indicapperi vorrai dire!»

U         «L’indicapperi? Ma di che cosa stai parlando?»

D         «L’indicapperi! Quello che serve per spruzzare i capperi sulla zuppa!»

U         «Lasciamo perdere! Dicevo: cos’è più convenevole all’essere umano tendere ai livelli supremi della spiritualità o occuparsi di fatti contingenti come quelli di riempirsi la pancia di fagioli, di cipolle, di cavoli,  e quindi, con rispetto parlando, di svuotare la pancia in seguito, faccio notare, dentro la caverna? Non pensi, donna, che una risposta a tali quesiti sia importante? magari più importante che occuparsi di fagioli, cipolle e cavoli?».

D         «I cavoli servono per mangiare. Le cavolate servono per perdere tempo. E non bisogna dimenticare neppure i finocchi?».

U         «I finocchi?!»

D         «Già! Anche quelli sono importanti. Si possono fare delle buonissime minestre con i finocchi».

U         «Le minestre di finocchi?»

D         «Proprio così. Sono mica scema!»

U         «Donna, mi sembra che tu ti stia parlando con l’eloquio sibillino, difficile da interpretare, dell’oracolo di Delfi».

D         «No, niente oracoli, solo semplici, evidenti verità».

U         «Il tuo eloquio in questo momento è veramente strano, donna, terribilmente oscuro, sembra quasi di essere nel tempio di Delfi o nell’antro della Sibilla»

D         «Già, già! Ma in giro, fuori dell’antro, si parla di finocchi e finocchietti. E non c’è bisogno di andare a Delfi o di entrare nell’antro della Sibilla per sapere come vanno le cose a questo mondo».

U         «La Sibilla? I finocchietti?»

D         «Lasciamo perdere! Tanto per me la minestra è sempre la stessa!»

U         «Stento a capire, mia cara, di che cosa tu stia parlando o sparlando, a cosa tu tenda con codesto discorso traverso, con argomentazioni tanto oblique e nebulose».

D         «Ah no? Allora è meglio che cambiamo discorso. Lasciamo perdere la retorica e torniamo alla minestra. Del resto a me dei tuoi discepoli del pensatoio non m’importa un fico secco!»

U         «Pensatoio? Quale pensatoio, mia cara? Vorrai dire il cenacolo di giovani che si raccolgono attorno a me nei simposi di filosofia».

D         «Proprio quello! Con gli scolaretti Alcibiade e Aristodemo…»

U         (l’interrompe) «Ti prego, donna, dimmi una buona volta una parola di verità, di conoscenza, di sapienza, di amore del sapere e non sviare il discorso con discorsi indecorosi che non comprendo,  chiacchiere di minor conto, pettegolezzi che sembrano fatti da quel reazionario omofobo di Aristofane!»

D         «Va bene, lasciamo perdere gli scolaretti, lasciamo perdere quell’ippodromo di Aristofane e non parliamo più di niente. Stiamo zitti! Ormai m’è capitato di finire dentro questa caverna e ci devo restare, ma almeno lasciami sbucciare i fagioli in pace, in silenzio».

U         «Smettila di far battute da commedia da quattro soldi, come se fossimo capitato dentro una farsa ignobile di Aristofane, e dimmi una buona volta una parola di verità».

D         (micidiale) «Le donne sono tutte bugiarde!».

U         (sconsolato) «È inutile tentare di parlare con te, donna».

D         (vezzeggiando il suo contendente) «È inutile parlare con le donne».

U         (insiste incrollabile) «Perché bisogna riconoscere in qualsiasi essere un proprio simile, a cominciare da una donna?»

D         (quasi seria) «Perché mangia pure lei le cipolle!».

(L’uomo sgrana gli occhi… Appare ispirato dall’idea… Nei suoi occhi brilla il lampo di un’intuizione geniale… È la riflessione che cercava! Quella che gli mancava!)

U         (ripete a voce alta con fare ispirato) «Perché mangia pure lei le cipolle! È un’idea! Qui c’è uno spunto! Qui c’è un filo di ragionamento! Qui c’è un ragionare sull’Essere! Sì: ‘Perché mangia pure lei le cipolle!’. Dalle cipolle può venire una risposta, può nascere un’ipotesi di ragionamento sull’Essere. Qui si intravede un’ombra riflessa del Tutto sul fondo della caverna. Non è male, non è male, mia cara, come argomentazione, non è proprio male come ardita congettura sul conoscere e sull’essere e sulla differenza di genere rispetto al filosofare ».

D         ( precisa) «Stavo parlando di cipolle, non del filosofare».

U         (prosegue imperterrito nelle sue elucubrazioni) «Forse in questo traslare dal cielo alla terra e di nuovo dalla terra al cielo, passando per la caverna, i concetti fondamentali sulle motivazioni dell’Essenza, sull’Anima…».

D         (scuote il capo e dice sottovoce a una terza persona invisibile) «Continua a fare il filosofo e io sono qui che continuo a lavorare».

U         (interroga la donna) «Ma se è così, donna, perché anche in questa prospettiva concettuale, cui ci siamo elevati nell’osservare le ombre dell’Essere sul fondo della caverna, l’universo è infinito e la geometria tratta di enti infiniti se noi abbiamo a disposizione dentro la caverna solo una finitezza di oggetti e di vita sotto i nostri occhi e per i nostri sensi, in questa caverna, ad esempio?»

D         (spazientita) «Senti! Mi stai facendo venire il mal di testa con questi discorsi! E poi basta con questa caverna!».

U         (mostrando sorpresa) «Ma è della ricerca dell’Anima che sto parlando!».

D         (spiegando come a un bambino) «L’anima? Ma quale anima? L’hai mai vista tu, l’anima? Con queste frottole non si apparecchia la tavola! Lasciami sbucciare i fagioli in pace almeno».

[Sbucciare i Fagioli!]

U         (convinto e ispirato) «Posso farlo io! Oggi mi appresterò a qualcosa di pratico. Risolvere problemi pratici è altrettanto importante che ragionare sugli Enti Supremi, è una via, un sentiero, un tentativo nella ricerca dell’Anima, un appropinquarsi all’Essere uscendo dalla caverna».

D         (ritornando al focolare, commenta provocatoria e ghignante) «Anima? Quale anima? L’anima del cavolo, delle cipolle o dei finocchi?».

U         (si alza va alla dispensa, prende in mano alcuni fagioli e continua ad argomentare) «Anche nell’impegnarsi su qualcosa di pratico, anche in un’azione così comune come questa mia, ad esempio, di sbucciare in questo istante codesto fagiolo …». (U si ferma, alza il fagiolo al cielo, lo squadra in silenzio come una reliquia religiosa, poi riprende a togliere la buccia) «Anche in questo miserissimo sostrato del reale, anche in questo umile, fagiolo si cela un atomo dell’Assoluto, dell’Anima, del Divino! Proprio così, evidente!».

(Finito di sbucciare i suoi primi fagioli, U va a riporli sulla scodella e sta per prenderne altri, ma si accorge che tutti gli altri fagioli sono già stati tutti sbucciati).

U         (sorpreso) «Ma sono già tutti sbucciati!».

D         (ghignando) «E già, mio caro! Li ho sbucciati io! Se in questa casa non lavoro io, qui non si mangia».

U         (con magnanimità acconsente) «Hai proprio ragione, mia cara! Ti concedo il riconoscimento per questo tuo agire pratico eppure elevato e commendevole».

(U infila i fagioli che ha sbucciato nella scodella, osserva con attenzione una piccola anfora nella dispensa).

U         «Che cosa contiene questa piccola anfora?».

D         «Ortica».

U         «Ortica?».

D         «È il toccasana per chi fa ingestione di cibi malsani».

U         (meditabondo) «Ah sì! Me ne ha già parlato quel mediconzolo di Asclepio, il nostro vicino, sostiene che è anche un’erba curativa negli stati di intossicazione, persino da veleni».

D         «Non so»

U         (guarda D sorridendo con gli occhi che gli brillano) «Cara, hai appena detto la verità più

elevata»

D         (sorpresa) «E cosa ho detto di tanto elevato?»

U         «Non so»

D         «Non mi sembra tanto elevato. E poi lo dico mille volte al giorno»

U         «Forse tu fai filosofia più di quanto credi!»

D         «Non so»

(U torna alla sedia, cerca di trovare una posizione migliore, fa vari tentativi. Poi visto che non trova proprio una posizione che gli aggrada resta in piedi accanto alla sedia, diritto come una statua. Riprende in mano la sua tavoletta di geometria).

U         «Bene! Dopo aver lavorato, dopo essermi speso in un’attività praticata ogni giorno dai miei simili, eccomi qui di nuovo rivolto all’impresa cosciente di scalare le vette più supreme dell’Assoluto. Si deve praticare anche un comune impegno quotidiano prima di avviarsi sui sentieri dell’Essere, della geometria, delle vie celesti sovrastate dallo sguardo degli dei!».

D         «E già, sui sentieri delle posate e dei fagioli tocca incamminarmi solo a me!».

U         «Donna, rispondimi, non pensi che sia essenziale risolvere i quesiti più complessi e profondi della vita?».

D         (risponde scocciata) «Risolvi, risolvi. Io devo risolvere altri problemi di minor conto. E poi non sono qui per rispondere alle tue domande e per passare i tuoi esami!».

[Apparecchiare la Tavola!]

(U guarda D più sconcertato che offeso. Non sa che cosa replicare. Sta per aprire bocca, sta per dire qualcosa).

D         (lo precede) «Se non hai nient’altro da fare, va a preparare la tavola!».

(L'uomo la osserva… Sembra pensarci su… Sembra decidere se andare davvero ad apparecchiare la tavola, ma poi torna con gli occhi alla sua tavoletta).

U         (risponde) «Preparare la tavola? Ma se ho detto che non mangio! E poi io ho questo problema di geometria da risolvere prima di andare a dormire».

(U, in piedi accanto alla sua sedia vicina alla finestra, piega il capo sulla tavoletta, si immerge sulle linee del suo disegno geometrico, deliberatamente impegnato a mostrare concentrazione e impegno).

U         «Di sicuro la cena può aspettare, la geometria no! L’Anima, l’Anima è quanto abbiamo di più essenziale a questo mondo!  

D         (lo minaccia) «Apparecchia la tavola, filosofo dei miei stivali! Se non apparecchi la tavola,  non mangi non solo stasera ma neanche domani!»

(Per non far vedere che esegue gli ordini l’uomo non alza lo sguardo, continua a ragionare di geometria).

U         (a voce alta con fare da artista che enuncia il titolo della sua opera d’arte) «Dodecaedri!».

D         «Dodedocavoli!»

(U traccia vigorosi ed energici segni sulla tavoletta come se si trattasse di un dipinto da riempire di colori. Dopo un po’ però, quasi soprapensiero, come pensando ad altro, posa la tavoletta sulla sedia, lascia la finestra, va vicino al lavello, raccoglie alcune posate e stoviglie e si avvicina alla tavola).

U         (mentre dispone le posate e le stoviglie sul tavolo, parlando a voce alta ragiona) «Come può l'uomo che persegue la virtù assumere la sicurezza di elevarsi sempre al di sopra del peccato e del nulla. Il peccato in realtà è la reificazione dell’Essere, la nullificazione della ricerca della conoscenza di Sé. Vivere senza tendere all’Assoluto è un non vivere, un non Essere, un’In-Essenza, una Non-Datità».

(D lo guarda. Si porta un dito alla tempia e fa il gesto che quello lì, quello che parla in questa maniera, ha qualche rotella che non gli funziona bene, uno svitato).

U         (come se fosse usuale disporre posate in tavola e fare filosofia continua) «Come può conseguire l’uomo la ricerca dell’Assoluto, dell’Essere, dell’Anima, confrontarsi coscientemente con la quotidianità?».

(U dispone bicchieri, cucchiai, piatti… D lo osserva dalla sua sedia accanto al focolare, le sembra di vedere qualcosa che non la convince, qualcosa di strano; si alza in piedi; come un uccello posato su un ramo studia in silenzio con attenzione, con sospetto che cosa stia facendo l’uomo…).

D         (improvvisamente strepita inferocita) «Diavolo d’un buono a nulla! Ma non vedi che stai mettendo in tavola i bicchieri usati? Le posate sporche? I piatti luridi?».

(L'uomo recupera stoicamente e velocemente quanto aveva disposto, riporta in fretta l’armamentario sporco nel lavello dove l’aveva preso).

D         (l’ingiuria) «Stai sempre lì a chiacchierare con te stesso, a rovinarti il cervello con le tue frottole e non vedi la differenza tra un piatto sporco e uno pulito! tra un bicchiere lurido e uno lavato! Diavolo d’un sempliciotto!».

(L'uomo sospira, ritorna vicino alla finestra, guarda con fare assorto la sua sedia, quasi studiandola, sembra indeciso se sedere o non sedere; la gira e rigira per verificare quale sia la disposizione migliore. Verso quale angolo? Verso la finestra? Verso il centro della stanza? Dopo avere a lungo meditato tra le varie possibilità, posiziona la sedia verso il muro, quasi attaccata al muro, e si siede con la faccia rivolta al muro. Fa sommovimenti con il didietro per sistemarsi come si deve, come in una cuccia. E così rivolto verso il muro riprende a ragionare sui quesiti di geometria).

U         (come se parlasse al muro) «Se la cuspide di un dodecaedro è riconducibile alla spazialità di ogni angolo in un esagono proiettato nello spazio, la sua reversibilità imporrebbe una traslazione dello spazio lungo i lati minori!».

D         (commenta) «L’unica cosa che gli riesce è parlare a vanvera, e lo fa dalla mattina alla sera! Se lo dicessi in giro che parla così non ci crederebbero. La sua fama è quella di un filosofo, ma se prendessi nota delle cose che dice e che fa e le riferissi in giro, si meraviglierebbero per le astruserie scombinate che sbandiera. Non m’intendo di matematica, ma se questa è matematica, meglio chiamarla strambomatica. Se prendessi nota delle cose che enuncia e farfuglia, lo rinchiuderebbero da qualche parte assieme a tanti altri che ragionano come lui, discepoli e non discepoli, sofisti e non sofisti, algebrici e geometrici, ma tutti con qualche rotella che non gli gira bene dentro il cervello. Non so come ho fatto a sopportarlo per tanti anni».

U         (sottovoce) «È difficile vivere accanto a questa donna. La mia vita è come se brancolasse dalla mattina alla sera nel buio. Questa donna che apparecchia la mia tavola e mi redarguisce di continuo, mi mostra ostilità come tanti altri in questa città. Ma forse anche lei e la sua astiosità sono solo un sogno, perché nulla esiste. La futilità è l’Anima della materialità del non-Essere. Anche in questa vita il non-essere incombe, il nulla, la non-Anima sono in agguato dentro la caverna.

D         (gira lentamente il mestolo nella minestra di cipolle e dice sottovoce) «Se non ci fossi io in questa casa si mangerebbe una volta al mese. Non si ricorda nemmeno di quando è l'ora di sedersi a tavola! Un giorno o l’altro coi suoi ragionamenti arriverà a dimostrare che il cielo è una stufa e che noi siamo il carbone e ficcati dentro la stufa ci arrostiamo se non ce la svigniamo in fretta. Sì, ma dove svignarcela, se tutto il cielo è una stufa? Forse Platone sa dove svignarsela con tutte le case che ha, con tutti i soldi che si ritrova, con la sua famiglia aristocratica, magari una casa vera lui ce la trova…».

[Cambiare Idea!]

(Il profumo della minestra fa trasalire l’uomo tanto è stuzzicante, invitante. Annusa l’aria, si gode il profumo sublime).

U         (sottovoce) «L’unico motivo per non cambiare idea su quella minestra è la consapevolezza che il non avere bisogni, il non possedere è la vera ricchezza dell’essere umano. Rinunciare a ogni cosa superflua è quanto avvicina l’uomo agli dei».

D         (che ha sentito quanto U, seduto con la faccia rivolta al muro, ha borbottato, commenta) «Mangiare una minestra non è superfluo, angelo mio, e non ti allontana di sicuro dai tuoi dei e neppure dagli studi. Buttare giù una minestra di cipolle la sera non ti svierà di sicuro dalle tue filosofie divine dentro questa caverna».

U         (borbotta tra sé) «Mi chiama angelo. Prima diceva che ero un sempliciotto. Poi m’ha chiamato diavolo. Adesso sono diventato un angelo. C’è un po’ di confusione dentro quella testolina. Non manca occasione che non mi tratti male, a male parole, e poi di punto in bianco mi si rivolge con paroline dolci quasi fossi un angioletto che vaga per la sua stanza, un cagnolino da vezzeggiare. Ma forse è tutto solo per scherno. È proprio un luogo oscuro quello che in cui viviamo, una caverna in tutto e per tutto. Non riusciamo neppure a decidere di che pasta sia fatta la persona che abbiamo accanto e quasi neppure a distinguere quello che diciamo e a dedicarci al nostro simile come un diavolo o come un angelo, qualcuno che ci aiuta ad attraversare il sentiero della vita o qualcuno che ci carica sul groppone anche i suoi problemi fastidiosi fino a schiacciarci a terra come un sasso e non farci più muovere di lì».

D         (sottovoce ma comunque per farsi sentire da U) «Nella caverna delle tue fisime e delle tue idee fasulle ti domandi persino se sia il caso di mangiare o di non mangiare una minestra? Riesci a imbastire un discorso filosofico anche sulla minestra di cipolle di stasera? Magari riusciresti a vedere dodecaedri nella disposizione delle cipolle sulla tua scodella!»

U         (a una terza persona invisibile) «Quella donna borbotta di continuo dalla mattina alla sera. Mi dice contro in continuazione e, se va bene, si sta prendendo gioco di me».

D         (a una terza persona invisibile) «Quel tizio borbotta rivolto al muro, di sicuro sparla di me, magari dice che sono stupida, tanto lui si ritiene intelligente e sapiente. Un giorno o l’altro potrei davvero incavolarmi, allora s’accorgerà di quanto m’ha irritato in tutti questi anni».

U         (sottovoce) «Comunque stasera non mangio, anche se ho una fame da lupi».

D         (rivolta a U con tono ironico) «Non mi sembra, mio caro, che questa di mangiare o di non mangiare una minestra di cipolle sia un’argomentazione decisiva per le tue teorie filosofiche sublimi. Angelo mio, alzati da quella sedia e vieni a cenare che è pronto!».

(La donna porta la pentola al tavolo e con il mestolo inizia a distribuire due porzioni nei due piatti disposti ai lati opposti della tavola. U dalla sua posizione contro il muro si è accorto che la donna sta brigando per apparecchiare la tavola, si volta, guarda che cosa stia facendo la donna; si alza in piedi per osservare più attentamente le sue azioni: D sta preparando la tavola per due).

U         (sedendosi di nuovo sulla sedia, rivolta al muro, dice piano) «Ho detto che non mangio e non rinuncerò a questa forma di protesta. Non posso rinunciarvi. Ho detto che non mangio e non mangerò. Potesse venire giù il cielo e ribaltarsi la terra, ma io stasera non mangio!».

(U  fa gesti di assenso con la testa, quasi per convincersi della propria decisione, quasi fosse una promessa cui tener fede).

U         «Sì, farò così! Non mangio! Rimango fermo e deciso nelle mie intenzioni! Stoico nei miei proponimenti. Dalla saldezza sulle piccole cose nasce la forza e la saldezza per i momenti decisivi quando si verrà posti di fronte a grandi problemi, a scelte essenziali».

(La donna, finito di riempire fino all’orlo le due scodelle, va a prendere la sua sedia dal focolare, la porta al tavolo, vi si siede e inizia a mangiare da sola. Spezza il pane dentro la minestra).

D         (dice compassionevole verso U) «Vieni a mangiare la minestra, angelo mio, che è meglio. Non fare l’eroe. Non star lì sulla soglia della tua caverna. Se non riempi la pancia, domani non ti riuscirà non solo di fare filosofia o deliziarti con la matematica ma neppure di alzarti dal letto e lavarti la faccia».

U         (replica duro e deciso senza girarsi, sempre rivolto al muro) «Ho detto che stasera non mangio e non mangio! Gli uomini malvagi dicono una cosa e ne fanno un’altra, gli ignoranti parlano a vanvera. Sia malvagi che ignoranti vivono per mangiare e bere. I buoni quando dicono una cosa la fanno e mangiano e bevono per vivere non il contrario!».

D         (compassionevole) «Malvagi e non malvagi, ignoranti e saggi se non mettono sotto i denti qualcosa la sera fanno ben poca strada il giorno dopo. E se mangiare è necessario per restare in piedi, occorre mangiare anche per fare filosofia. Bisogna buttar giù qualcosa senza strozzarsi per studiare matematica. Sia che mangi per vivere o che vivi per mangiare è meglio in ogni caso sorbire una minestra la sera. Sia che vivi in fondo alla caverna o sei fuori a scrutare gli astri compatendo quei poveri cavernicoli che la sfangano là dentro nell’oscurità, ogni tanto devi prendere un cucchiaio in mano, t’aiuta a trovare soluzioni per le tue geometrie, per elevarti nel tuo empireo».

U         (trasecola stupito, voltandosi dice) «Donna, mi sembra che nel tuo argomentare ci sia un trama più forbita e articolata del solito, quasi che la filosofia, dopo essermi stata accanto per tanto tempo, abbia fatto strada anche nella tua mente. Ma in ogni caso io stasera ho detto che non mangio e non mangerò! Malgrado il profumo di cipolle assomigli davvero a quello del nettare degli dei. Se esistessero gli dei ovviamente. È una pura ipotesi, come quella che esistano le cipolle che stanno mandando un profumo così celestiale e seducente in tutta la stanza. Faccio notare che queste cipolle cucinate in modo tanto abile indurrebbero in tentazione anche il più stoico degli ascetici e il più imperturbabile dei mistici rintanato dentro una caverna o in cima a un picco! Ma me no! Non riusciranno a indurmi in tentazione e farmi venir meno ai miei principi! E poi esistono davvero le cipolle? O è tutto solo un’illusione. Forse sono semplicemente la tentazione per indurre in errore chi si astiene da cose inutili».

(D ha preso a mangiare da sola, lo fa in maniera assorta, se ne frega delle dotte argomentazioni del suo filosofo casalingo. U traccia segni sulla tavoletta di geometria, lo fa con grandi svolazzi artistici, come se provasse piacere a scrivere).

U         (dice a voce alta con tono ispirato) «Dodecaedri!».

D         (come se parlasse fra sé, ma chiaramente per far sentire al tizio seduto vicino alla finestra) «Davvero buona questa minestra di cipolle! Ottima direi! Queste cipolle sono state scelte con oculatezza al mercato. Mi faccio i complimenti. Se non c’è nessun altro che me li fa in questa casa, me li faccio io! Complimenti, mia cara! Con quei pochi soldi a tua disposizione sei riuscita a portare a casa qualcosa di valore: cipolle dal sapore squisito! Molto brava! Proprio brava, mia cara!».

(D guarda il tizio per vedere la sua reazione. Ma U continua a volgerle le spalle rivolto al muro)

U         (scrollando la testa borbotta)  «Boh!!»

(Visto che U ha lo sguardo fisso alla sua tavoletta e che non c’è alcuna reazione appropriata alle sue argomentazioni, D ricomincia a mangiare).

D         «Mmm… che bontà!»

U         (schifato, a voce alta) «Mangiare cipolle? Bleah!»

D         (ragiona tra sé) «Sembra davvero che abbia intenzione di non mangiare quel citrullo. Ma lo fa solo per finta»

D         (alzando la voce per farsi sentire da U)         «Domaniin ogni caso troverò un buon pollo. Sì, che idea che m’è venuta! Domani mi compro un bel pollo, così potrò cucinare la minestra di pollo. Buona idea! Domani sera o dopodomani mi mangio una buona minestra di pollo! Ecco quello che ci vuole!»

(U si scuote. Ha sentito qualcosa che gli sembra importante, eppure strano. Quanto è stato appena detto ha sollecitato la sua attenzione quasi avesse ascoltato un aspetto di una problematica non trascurabile da non tralasciare. Si volta. Si alza in piedi)

U         (chiede) «Pollo? Hai detto pollo?»

D         «Sì, pollo. Domani invece che cipolle mi comprerò un buon pollo e me lo cercherò con intelligenza e con accuratezza come ho fatto oggi con le cipolle. Poi me lo mangio domani sera e dopodomani a pranzo, magari da sola, così me lo pappo tutto quel buon pollo, come stasera con tutte queste buone cipolle».

U         «Ma intendi comprarlo di genere femminile o di genere maschile?»

D         (subdolamente dolce) «Di che cosa stai parlando, mio caro?»

U         «Di quanto hai appena detto che comprerai domani»

D         «In che senso, mio caro?»

U         «Voglio dire intendi comprare un maschio o una femmina?»

D         «Maschio? Femmina? Ma che cosa stai inventando? Tutta quella geometria t’ha dato di volta il cervello più del solito».

U         (insiste pedante) «Domani comprerai un animale maschio? o un animale femmina?»

D         «Vedrò domani»

U         «Tu con la stessa parola… tu con lo stesso vocabolo… tu hai indicato sia il maschio!?… sia la femmina!? Pollo!?… e pollo!?»

D         «E allora?»

U         «Tu chiami pollo sia il maschio che la femmina!?»

D         «È vero. Beh? Cosa c’è di strano?»

U         «Ma come? Con tutte le tue diatribe di genere sul femminile, con tutto il tuo fervore sui diritti delle donne, con tutte le tue proteste sul fatto che i maschi, in particolare io, si comportano come padroni sfaticati e nullafacenti, con tutte le tue invettive sugli uomini fannulloni che parlano a vanvera e che dicono quello che vogliono a casaccio, adesso tu indichi con lo stesso nome sia una femmina che un maschio?! Pollo! E… pollo!»

D         «E come dovrei chiamarlo allora?»

U         «Evidentemente pollo se è un maschio e polla se è una femmina».

D         «Sì, così si confonde con la sorgente»

U         «Beh, quella chiamala pollessa»

D         «E se si tratta dell’origine di un fiume di nome maschile?»

U         «Beh, quello chiamiamolo pollone»

D         «E se è piccolo?»

U         «Pollino»

D         «Sì, così finiamo in Magna Grecia e non ci spostiamo più!»

U         «Va bene allora chiamiamolo pollastro»

D         «Mi sembra di essere finita in una commedia di Aristofane!»

U         «Lascia perdere quel reazionario!»

D         «Va bene lasciamo perdere Aristofane e lasciami anche mangiare in pace questa minestra di cipolle. Domani vedrò di arrangiarmi in qualche modo con il pollivendolo, ci capiremo, magari gli farò qualche gesto sconcio per farmi capire. Rimandiamo i discorsi sui polli, sulle pollastre e sulle polle a domani».

U         (Di nuovo seduto rivolto al  muro, sottovoce come se lo confidassi a un suo interlocutore segreto e invisibile) «In attesa del pollone o pollessa o pollastro di domani, non so se sia il caso di farmi tornare l'appetito stasera, un appetito, faccio notare, peraltro mai smarrito. E in caso di risposta affermativa, come comportarmi di fronte a questa donna che con sfacciata veemenza sta gustandosi in modo indecoroso quel suo piatto di minestra di cipolle tanto profumato da essere una vera, irresistibile, diabolica tentazione?».

(U è indeciso su da farsi).

U         (riprende a ragionare) «Il pensiero di dover capitolare in modo tanto palese ed evidente di fronte a questa donna m’impedisce di cedere. No! Non devo cedere! E non cederò! Stasera io non mangio! Neppure se viene qui un demone col suo forcone a impormelo!».

D         (dà un’occhiata verso U sempre seduto sotto la sua finestra) «Quel citrullo è ancora là, anche se ha fame! Che stupidotto! Proprio un sempliciotto quel filosofo dei miei stivali!».

U         (si volta, guarda la donna e dice sottovoce) «Quella donna si sta gustando in modo indecente la sua minestra, e lo fa senza pudore, mostra con ostentato piacere di godersela, è il piacere esibito alla massima potenza, un’esibizionista di prima riga! E guardala! Accentua pure con le sue pose di soddisfazione il suo piacere! E tutto per farmi dispetto! Che tipastra! Che teppista! Mostra di assaporare, di godere, di gustarsi con voluttà, con ebbrezza la sua pietanza, la sua leccornia di cipolle. Guarda come lecca!».

D         (lecca voluttuosamente il cucchiaio. Guardando di sottecchi U) «Se ne sta lì quel citrullo e aspetta che io gli ripeta di venire a mangiare! Povero babbeo, te lo sogni!»

U         (si volta di nuovo verso il muro e dice piano) «Magari se me lo chiedesse di nuovo di andare a mangiare con lei potrei con suprema condiscendenza, facendo vedere che lo sto facendo giusto per farle compagnia, acconsentire e con benevolenza accostarmi a quel tavolo e assumendo un quieto atteggiamento di superiore imperturbabilità sedermi davanti a quel piatto che, faccio notare, è già apparecchiato e dove la minestra si sta raffreddando».

(U si rialza in piedi, guarda speranzoso D in attesa di una sua parola, anche solo di un segno, di un cenno. Ma siccome D non fa né un cenno né un segno e non dice nulla si rimette a sedere rivolto al muro e ricomincia a tracciare formule sulla sua tavoletta. Poi si alza di nuovo, in piedi guarda D, con la tavoletta e con lo stilo in mano esita. D mangiando lo scruto di sghimbescio e sogghigna).

U         (dice sottovoce a fior di labbra) «Basterebbe una parola, dico anche solo una parola, persino poco cortese, solo un verbo, ma se non altro un invito. Che ne so? ‘Ehi tu! Vieni qua e mangia!’. Oppure un’esortazione anche rude: ‘Siediti e sorbisci la tua minestra!’. O anche una frase di impazienza: ‘Datti una smossa e prendi quel cucchiaio! Butta giù la tua minestra!’. E invece niente: pappa la sua minestra; se ne sta provocatoriamente e astutamente zitta!».

(U con passi lentissimi si avvicina al tavolo. Arrivato accanto al tavolo, guarda D dall’alto in basso in silenzio, con la sua tavoletta in una mano e lo stilo nell’altra. Ha un fare da saggio, da filosofo di un cenacolo eccelso. In realtà, in tutta evidenza sta aspettando che lei gli dica qualcosa, una parola, un invito).

D         (alza lo sguardo dal piatto, lo squadra e fa un gesto interrogativo con la mano raccolta a dite unite e chiede) «Che c’è?».

U         (borboglia) «Mm…».

D         «E allora?».

U         (borbotta timido) «Questo profumo di minestra è invero celestiale».

D         (lo guarda con un sorriso ironico) «Proprio così, mio caro. Mi sembra davvero buona questa minestra di cipolle. È venuta particolarmente bene. Queste cipolle che ho scelto ad una ad una stamattina al mercato valgono ciascuna ogni soldo che ho speso».

U         «Lo vedo che valgono i soldi che hai speso: te le stai gustando con un piacere particolare. Te le stai spassando! Te la stai godendo! Mangi deliziata quasi fossi in paradiso!».

D         «Proprio così, mio caro! La sera non c’è niente di meglio per finire una giornata di una buona minestra. Se poi è stata preparata con ingredienti scelti accuratamente da una mano esperta e attenta, che ha speso tanto tempo per le sue scelte e che ha operato con intelligenza al mercato per l’economia familiare e poi con abilità in cucina è davvero una cenetta deliziosa che riconcilia l’animo».

U         (osserva) « Soprattutto se uno ha fame».

D         «Proprio così, angelo mio: soprattutto se uno ha fame! e in particolare tanta fame. Questa è un’affermazione filosofica incontrovertibile, su cui siamo d’accordo: soprattutto se uno ha fame!»

(D è scossa da brividi e sghignazzi e ritorna a guardare il piatto e far finta di non capire la manfrina di U, riprende a mangiare mostrando indifferenza verso U).

U         ( per attirare l’attenzione di D con serietà insiste) «Mi sembra sublime questo profumo»

D         (risponde compita) «Anche a me sembra sublime o come dici tu: questa minestra di cipolle è pressoché divina, suprema, o, in altre parole, cucinata con tutti i crismi di attenzione e di accortezza e di abilità ovvero… bene! Tutte le cipolle comprate al mercato si rivelano splendide».

U         (come interrogando più se stesso che la donna) «Che cosa dovrei fare allora?»

D         «Fa’ un po’ tu, angelo mio?».

U         (ridomanda come per accertarsi e avere l’ultima conferma) «È davvero così buona quella tua minestra di cipolle?»

D         «Buona? Te l’ho detto, angelo mio: è venuta bene! O come dici tu: è un nettare divino. Se gli dei esistessero ovviamente, per seguire le tue riflessioni. Oppure se torniamo dentro la caverna: Buonissima!»

U         «E allora?».

D         (facendo una faccia subdolamente stupita e perplessa) «Allora cosa, mio caro? Non capisco!».

U         (come sovrappensiero, con un atteggiamento di indifferenza e di superiore distacco, voltandosi e avviandosi verso la finestra) «Mangio anch’io»

D         (commenta indifferente) «Il tuo piatto è lì»

(D riprende a mangiare assorta nel suo piatto)

[E Se Ci Lasciassimo?]

(U, tornato verso la finestra, posa la tavoletta e lo stilo sul suo giaciglio. Afferra la sedia; la spolvera con la mano e si avvia verso il tavolo portandosela dietro come un cagnolino).

U         «Abbandoniamo dunque per un po’ l’empireo della geometria e occupiamoci di cipolle o meglio di minestra di cipolle che nella loro datità rappresentano pur tuttavia un’essenza necessaria dell’Essere».

(U piazza la sedia accanto al tavolo davanti al suo piatto. Si siede facendo la solita manfrina di posizionamenti per trovare la postura più comoda. Afferra il cucchiaio. Si siede proprio in punta, sull’orlo della sedia, come per non disturbare, quasi un invitato in casa d’altri che si faccia riguardo di non essere di peso. Prende a mangiare. La donna continua a tirare su con gusto la sua minestra; di tanto in tanto sgranocchia il pane rumorosamente. Non alza lo sguardo verso U. L'uomo, mentre mangia, guarda di sottecchi la donna; non si sente a suo agio).

U         (bisbiglia tra un cucchiaio di minestra e l’altro) «Queste schermaglie, questi scontri verbali si susseguono dalla mattina alla sera. Pensare di andare avanti così per tutto il resto dell'esistenza non mi sembra francamente tollerabile; è una specie di spina piantata dentro il cuore».

D         (fa un sospiro di superiore sopportazione e replica svagata) «Spina? Quale spina, mio caro? Ci sono anche le spine adesso nelle tue cipolle?!».

U         «Quanto durerà questo sottile alterco tra me e te? Quanto tempo dovremo sostenere questo peso sfiancante che ci spossa? Eh, dimmelo? Fino alla morte?».

D         (replica spazientita) «Per favore non parliamo della morte. In questo momento lasciamo perdere la morte! Mangiamo in pace e non roviniamo anche la cena!».

U         «Mi domando se non sarebbe meglio restare soli».

D         «Io e te da soli? Lo siamo già!».

U         «Intendevo ciascuno per conto suo».

D         «Non mi sembra che anche se viviamo nella stessa stanza ci sia molta corrispondenza nella nostra relazione».

U         «Forse non eravamo fatti per percorrere la stessa strada insieme».

D         «No, di sicuro!».

U         «E allora?».

D         «Allora cosa?»

U         «Possiamo cambiare se vuoi».

D         «In che modo?».

U         «E se ci lasciassimo?».

D         «Già! Se ci lasciassimo?»

U         «Cosa accadrebbe?»

D         «Nulla di particolare, come a tanti altri del resto».

U         «Forse non ne vale più la pena».

D         «Non ne vale più la pena? Non so. Forse sì. Ogni giorno in fondo è un nuovo giorno, uno che ci resta da vivere, vale la pena sfruttarlo, tentare di viverlo, di non sprecarlo».

U         «Del resto non saprei dove andare».

D         «Ci sono tanti posti»

U         «Non saprei come fare. Ormai mi sono abituato a questa casa, a questa finestra, a questo tavolo, alla mia sedia. E poi non sono esperto di traslochi, solo di filosofia».

D         «Già! T’intendi solo di filosofia ovvero di parole, parole, tante parole, così tante da sfiancare alla fine chi ti ascolta. Neppure gli argonauti riuscirebbero a sopportare le tue astruserie».

(U tira sul col naso abbacchiato).

[Non È Fine!]

(La donna continua a mangiare, scuote la testa, sbuffa. Nel mangiare, tra un cucchiaio e l’altro di minestra, non smette di sgranocchiare pezzi di pane. Nel sorbire la minestra aspira rumorosamente a ogni cucchiaiata).

U         (con il tono più gentile e amichevole che gli riesca) «Cara, non pestare così con la bocca».

(D alza gli occhi; ha uno sguardo più di sorpresa che di disappunto. Ma non risponde, scuote solo il capo, e riprende a mangiare, a rumoreggiare e a sorbire ostentatamente ancora più forte con la bocca).

U         (aggiunge a mo’ di spiegazione sorridendo, con un tono di voce cortese per non far pesare l’invito) «Non è fine!».

(D col cucchiaio a mezz'aria guarda U: ha l’espressione di chi ha a che fare con un folle sbucato appena adesso da un manicomio e approdato chissà perché proprio a casa sua)

D         (sbotta) «Non è cosa?!»

U         (spiega con voce gentile sorridendo) «Non è fine, mia cara. Ho detto semplicemente: non è fine. Non ho detto niente di male. Ho detto soltanto ‘non è fine’. Cerca di esserlo, no!».

D         (come se parlasse più a se stessa che al suo dirimpettaio, esclama) «Qui sto sognando! La vita è un sogno o meglio un incubo dentro una caverna».

U         (condiscendente) «È vero: la vita è sogno. L’ha già detto Esiodo. Più che un sogno una sequenza di ombre sulla parete oscura di una caverna. Ma lasciamo perdere la caverna e facciamo finta che io non abbia detto nulla. Tu, mia cara, continua pure a mangiare e a sorbire la tua minestra come hai sempre fatto in vita tua».

D         (convinta e incavolata) «Certo che lo farò, diavolo d’un filosofo! E non sarai certo tu a insegnarmi come si sta a tavola, sempliciotto che non sei altro! Te ne stai sempre lì tutto il giorno seduto sulla tua sedia a scrivere, a rovinarti il cervello, a borbottare frasi sconclusionate su una caverna, sulle ombre che dici di vedere, sulle idee che girano per il tuo cervello, a fare dibattiti con te stesso o meglio, come dici tu, a fare filosofia, e siccome non puoi farlo con nessun altro perché nessuno ti sopporta e ti dà ascolto, lo devi fare da solo, ma nella mia stanza! dove ci sono io, perché questa è l’unica stanza che abbiamo e devo ascoltare senza scampo le tue corbellerie filosofiche! E io invece lavoro dalla mattina alla sera, rassetto questa caverna, porto da mangiare in questa caverna, lavoro di cucito dentro la caverna, vado al mercato a scegliere a una a una le cipolle perché con quei pochi soldi che abbiamo non succeda che compri una cipolla malandata. E adesso hai anche il coraggio di insegnarmi il modo come si deve mangiare! come si deve stare a tavola! filosofo dei miei stivali!».

[Minestrone Filosofico!]

(L'uomo tira un sospiro di rassegnazione. Poi prende a mangiare e a sorseggiare la sua minestra facendo attenzione di evitare anche il più che inavvertibile fruscio).

U (borbotta fra sé e sé) «Sono come sospeso in un limbo a mezz’aria»

D         «Non ho capito!»

U         (per sviare il discorso) «Niente, niente! Questa minestra è davvero il nettare degli dei! Se gli dei esistessero ovviamente!»

(U lecca il cucchiaio con la lingua per il piacere).

D         (con sarcasmo ghignante) «Non leccare così il cucchiaio, mio caro, non è fine!».

U         (acconsente con aria di superiorità) «Hai ragione, donna operosa e scaltra. È vero: non è fine. Non ci avevo mai pensato prima. Grazie per avermelo fatto notare».

D         (commenta micidiale) «Che stupido!».

U         (aggrotta la fronte sorpreso perché la sua superiore condiscendenza è stata messa in ridicolo) «Stupido hai detto?!».

D         (conferma) «Proprio così! Che stupido! ‘Stu-pi-do’! Esattamente uno stu-pi-do! Qualcuno che non nota cose ovvio è uno stupido. Lo dice la parola stessa: stupito da cose ovvie, stolto, sciocco, o, visto che sei tu, scioccone!».

U         (si sorprende adombrato) «Adesso sei diventata anche cultrice di etimologia?»

D         (sbotta) «Etimocosa?!»

U         «Niente niente. Lascia perdere. Ora pensiamo solo alla minestra di cipolle».

D         (accondiscendente) «Almeno su questo siamo d’accordo una volta tanto. Io e te abbiamo raggiunto un risultato condiviso nel nostro dialogo: in questo momento in questa caverna non esiste nient’altro di meglio che occuparsi della minestra di cipolle, dell’anima cucinata delle cipolle».

U         (domanda stupito) «L’Anima cucinata delle cipolle?».

D         (conferma) «Proprio così! L’Anima cucinata delle cipolle! Ormai ho imparato anch’io come si fa filosofia: l’anima di questo, l’anima di quello, la sostanzialità di su, la sostanzialità di giù, un’Essenza di qua, un’Essenza di là. È esattamente come preparare una minestra, o meglio un minestrone, ma non di cipolle, bensì di parole! Ogni tanto una citazione di questo e poi un aforisma di quello, e infine alla conclusione del dotto eloquio, o meglio sproloquio, una frasetta acuta tratta da una commedia famosa di Sofocle o di qualche altro nume del teatro per insaporire il discorso, proprio come si fa con un pizzico di basilico e di prezzemolo e un po’ di sale alla fine prima di servire. E di tanto in tanto però anche una sospensione del discorso, un rimanere in silenzio come a pensarci su, un silenzio tanto prolungato che sembra non finire mai e sembra far capire tanto, quel silenzio dà da pensare. Uno si chiede chissà che cosa penserà quel filosofo con quel silenzio? Quello lì con il suo silenzio sta ragionando su argomenti eccelsi, supremi, su problematiche drammatiche! E invece è un silenzio che non vuol dire niente, quel silenzio non significa nulla; è solo una manfrina, una commedia per abbindolare i citrulli e invogliarli a battere le mani di ammirazione alla conclusione del silenzio e di tutto lo sbrodolamento di parole cucinate a minestrone…».

U         (interloquisce serio) «La retorica sembra aver preso piede anche nella tua mente, donna, anche se soltanto per criticare la filosofia e chi fa filosofia. D’altra parte il non rispondere fa parte di una base dialettica del silenzio».

D         «Non m’interrompere! Non avevo finito! Bisogna anche aggiungere che per il minestrone ci vogliono anche frasi spezzate in due, spruzzate qua e là, vocaboli tipo Dis-Prezzo, Av-Versione, Contra-dizione e spizzichi, spizzichi di espressioni esoteriche Panta Rei Eidos Kalos Etnos ecceteras ecceteras, tutte distribuite ad arte e pronunciate con aria di superiorità, a volte di preoccupazione per le sorti dell’umanità. Ormai con tutti gli anni che ti sono vissuta a fianco sono diventata anch’io esperta di filosofia e soprattutto di quei furbacchioni di filosofi che col loro modo sibillino di fare e di parlare parlano di tutto ma in realtà non dicono niente!».

U         «Come non dicono niente?! Se sono solo loro invece a dire qualcosa, qualche parola di verità in quest’età dell’ansia».

D         «Sì età dell’ansia! Oppure società liquida o anche filosofia della crisi, non dimenticando la crisi della filosofia: parole, parole, parole, ma più che parole, parolone. I filosofi non sanno neppure contare i secondi che ci mette una pietra a cadere! Col loro cervello supponente discutono sul cadere in astratto, sulla sostanzialità della pietra nell’aria, sul fatto che quella pietra possa davvero cadere o rimanere sospesa perché il moto non esiste, sul tempo assoluto associato a quella pietra nel cosmo. E per dare una risposta a questi dotti quesiti si consultano e si confrontano su testi antichi, discettano con linguaggio cerimoniale su quanto è scritto in volumi di secoli prima. Ma non gli viene neppure in mente a quegli intelligentoni di abbassarsi a misurare i secondi che ci mette quel sasso, proprio quel misero sasso, per scendere dalla finestra e toccare il suolo. Se volessi potrei anch’io far concorrenza ai filosofi, basta allenarsi un po’. In ogni caso meglio di un minestrone di parolone vuote e insipide è questa minestra di cipolle concrete e saporite, meglio di tutte le pietanze filosofiche è questa pietanza ora sul tavolo!»

U         «Su questo avrei qualcosa da obiettare. Ma è meglio non iniziare una discussione e mangiare in pace».

(D replica con un rutto).

III - CATARSI

[Le Cipolle Purificatrici]

(U e D ora mangiano in silenzio. Sorbiscono cucchiaio dopo cucchiaio la loro minestra, ogni tanto guatandosi come gatti selvatici. Entrambi sono attenti a non fare il minimo rumore. U finisce per primo la cena, era veramente affamato, e passando con la mollica su tutto il piatto si gusta con soddisfazione anche quel tozzo di pane insaporito. Infine si alza, si porta dietro la sua sedia, la piazza con cura vicino alla finestra, fa varie prove per trovare la posizione migliore, e infine piazza la sedia in orizzontale, si siede per terra usando lo schienale della sedia come una poltrona improvvisata. Così ritorna alla sua tavoletta geometrica, al suo problema matematico. Sembra sia seduto su un prato tanta è l’aria vacanziera che ha assunto).

U         (serafico e soddisfatto) «Cipolle e geometria forse si accordano meglio di quanto si possa immaginare».

(La donna prende a sparecchiare. Scuote il capo sorridendo. Sembra tranquillizzata da quel concludersi della sera con la buona minestra. L’umile cena ha riportato la pace nel corpo e nella mente e in famiglia).

D         «Sei contento eh, ora? Diavolo d’un filosofo!»

U         «Contento di che, cara?»

D         «Di esserti pappato la tua minestra di cipolle!»

U         «Credi?»

D         «Dillo almeno che sei contento! anche se non è vero»

U         «Sono contento»

D         «Ripetilo!»

U         (ridendo) «Sono contento!»

D         «Stai barando!»

U         «No, non sto barando: davvero sono proprio contento».

D         «Parecchio tempo fa a questo punto ci sarebbe stata anche la pietanza»

U         «Quale pietanza, mia cara? Sono sempre stato così morigerato la sera nel mangiare»

D         «Una pietanza un po’ particolare, che forse te la sei scordata»

U         (resta lì a pensarci) «Uhm…»

D         «Fa lo stesso. Sono contenta lo stesso».

U         «Anch’io»

D         «Siamo contenti»

U         «Siamo contenti»

D         «Almeno una volta»

U         «Dì, cara, hai mai avuto un attimo di felicità da quando stiamo insieme? Voglio dire… qualcosa che ti facesse pensare: ‘in questo momento non sono solo contenta ma proprio felice’?».

D         «Che io sappia no»

U         «Ti ricordi quando all’inizio della nostra relazione la mattina andavamo sempre al mare prima di colazione e ci facevamo quelle belle nuotate»

D         «Eccome se me le ricordo! Tutte quelle belle nuotate! tutte le mattine! Quanto resistenti eravamo! E poi mi ricordo anche che quando tornavamo a casa ci scordavamo di fare colazione»

U         «Questo non me lo ricordo. E come mai ci scordavano di fare colazione?»

D         «Facevamo ginnastica!»

U         «Ginnastica?!»

D         «Proprio così, mio caro: dopo il bagno, anche la ginnastica!»

U         «Non mi ricordo proprio della ginnastica. Prima parlavi di pietanze, adesso di ginnastica…»

D         «Devi averlo proprio cancellato dal cervello»

U         «Beh, m’è sfuggito di mente»

D         «Com’eri maldestro, eppure piacevole, con tutte le tue giravolte, coi tuoi esercizi strani, e poi tra un esercizio e l’altro dicevi paroline dolci. Erano meglio di tutte le tue parolone attuali!»

U         «Paroline dolci? Saranno stati lemmi, corollari…»

D         «No, niente lemmi o lammi, corollari o coroloni, soltanto paroline dolci, come dire?, paroline divine e anche se nel dirle eri terribilmente rustico, eri anche sublime, rustico e sublime! Assomigliavi proprio a una minestra di cipolle!»

U         «Davvero cara? Sembravo una minestra di cipolle?»

D         «Proprio un piatto in brodo! calzato e vestito, a volte persino di giuggiole. Eri in un brodo di giuggiole! E io ti amavo più di tutte le cipolle e di tutte le giuggiole messe insieme. Ero felice per la tua rustichezza cipollesca. Sì, forse sono stata felice qualche volta. Adesso che ci penso ero felice mentre mi mangiavi come una cipolla!».

U         «Ti mangiavo come una cipolla?! Cara, che cosa stai dicendo? Sembra una poesia un po’ spinta di Esiodo».

D         «Sto semplicemente dicendo che eri rustico e cipollesco! Così mi piacevi! Proprio così: mi mangiavi come una cipolla!»

U         «E cosa facevo per essere sublime anche se rustico, per renderti tanto felice, anche se assomigliavo a una cipolla. Forse già da allora ragionavo sugli enti supremi e m’inerpicavo sulle vette più elevate della filosofia?»

D         «No, per fortuna non t’inerpicavi per niente nella filosofia, anzi stavi zitto e ti mantenevi terra terra. Quanto stavi zitto! E quanta ginnastica facevi! Facevi ginnastica zitto zitto. E quanto ti davi da fare con quella ginnastica!»

U         «Cara mi sembra che tu stasera stia parlando in modo bizzarro. Non ti sembra di parlare in modo bizzarro? Non dico la voce, anzi il tono è quello che vorrei tu avessi sempre: caldo e appassionato, gentile ed emozionato, ma le parole, le parole sono davvero un pochino strane: pietanze alla sera! ginnastica di prima mattina!»

D         «È vero: a volte anch’io trovo il mio modo di parlare bizzarro. È quando mi vengono in mente piacevolezze quasi scordate ma non del tutto però, allora mi metto a parlare in modo strano, bizzarro…»

U         «Santo cielo! Sei poetica stasera! Quando parli in questo mondo sei proprio lirica!»

D         «Trovi?»

U         «Proprio così, mia cara: assomigli a Saffo»

D         «A Saffo?! Ma cosa stai dicendo, sempliciotto? Quella lì se la intendeva con le donne!».

U         «Beh, allora a Corrinna, che batté per ben cinque volte Pindaro in gare di poesia!»

D         «Meglio! E anche tu da parte tua gareggiavi come un maestro! Non eri mica pigro allora! Non lo eri affatto! Questo non lo posso proprio dire. Non eri per niente pigro! Già, già! Me lo ricordo ancora. È adesso, a tanti anni di distanza, che te che te ne stai sempre lì, su quella sedia a rovinarti il cervello coi tuoi grovigli matematici e filosofici. Mi sembra che tu perda tempo. Allora invece ci davi dentro! anche troppo. Non parlavi di matematica. Eri, come dire?, scientifico e poetico, sportivo e artistico. Io cercavo delle scuse: ‘guarda la colazione si sta raffreddando’. E tu niente! E io dicevo: ‘caro sono un po’ stanchina; angelo mio non stancarti in questo modo, magari ti fa male’. E tu tiravi diritto. E io dicevo: ‘uccellino non tirare troppo la corda, mica sei di ferro!’. E tu scuotevi il capo tutto impegnato! Sembravi Ermes con le ali ai piedi e anzi da tutte le parti».

U         «Stai parlando di cure termali per caso, mia cara?»

D         «No, non erano cure termali, non sto parlando di cure termali, anche se erano cure che facevano benissimo. A dire il vero era una ginnastica che ti rimetteva in forze, ti conciliava il sonno la sera e la giornata di mattina. Ce la siamo spassata, proprio spassata, perché anche tu allora dicevi che eri felice».

U         «Poi ci sa fa l’abitudine»

D         «Anche a non far niente»

U         «Già»

D         «Niente pietanze, niente ginnastica, solo conversare del più e del meno, ogni tanto mangiare una minestra, di tanto in tanto guatarsi come gatti selvatici e poi, senza rimedio, bisticciare».

U         (per cambiare discorso) «Fra un po’ piove»

D         «Non pioverà»

U         «Credi, cara?»

D         «No, non pioverà. La pioggia oggi s’è sbagliata e sta cadendo verso l’alto»

U         (sgranando gli occhi) «Che cosa hai detto, cara?»

D         «Ridi, per favore! Non mi capita tutti i giorni di fare la spiritosa!»

U         «Non ho capito»

D         «Ridi, diavolo d’un filosofo! Ho fatto la spiritosa per la prima volta da trent’anni! Stasera ho fatto la spiritosa da non so quanto tempo, sarà stata la minestra di cipolle, e merito una risata! Ho detto che ‘la pioggia oggi s’é sbagliata e sta cadendo verso l’alto. Per questo non piove qui in terra’»

U         «Vuoi che mi metta a ridere?»

D         «Sì! T’ho detto ridi!»

U         (ride in modo sguaiato e ostentato, muovendosi come in preda a un tremolio generale) «Ah! Ah! Ah! Quanto rido!!»

(D lo guarda perplessa, non molto convinta)

D         «Non mi sembra che tu sia molto sincero in quella risata».

(U rimette diritta la sedia, ci sale sopra e si mette a  ballare sopra la sedia e a ridere)

U         (a tempo del suo ballo) Ah! Ah! Rido! Rido! Che risate che mi faccio!

(U si ferma. Guarda D. D lo squadra in silenzio seria)

U         (chiede conferma) «Va bene cosi?»

D         «Non c’è male. Così va meglio. La mia era una spiritosaggine davvero azzeccata: ‘non piove perché la pioggia oggi s’è sbagliata e sta cadendo verso l’alto!’»

U         (scende dalla sedia) «Proprio così, mia cara! Una spiritosaggine azzeccata! ‘Non piove perché la pioggia oggi s’è sbagliata e sta cadendo verso l’alto’. Una freddura degna di Aristofane, quel tontolone farabutto!».

D         «Così va meglio: finalmente sono contenta»

U         «Dimmi: a parte la direzione dell’acqua, pensi che la pioggia sia sempre composta dalla stessa acqua? Ovvero che il sole attragga l’acqua vecchia come umidità? Oppure che ad ogni pioggia l’acqua sia diversa? Esiste un ciclo di pioggia, umidità e nuova pioggia? O a ogni pioggia cadono gocce d’acqua mai piovute prima?»

D         «Non lo so e non me ne importa un fico secco!»

U         «Ma che diritto hai di dire che non te ne importa un fico secco? Prima fai battute sulla pioggia che va in su e non in giù. E adesso dici che non t’interessa per niente il lato scientifico della faccenda. È importantissimo se l’acqua sia  davvero l’umidità che effettivamente è attratta verso le nuvole e poi venga rigettata giù da sbalzi di temperatura e di pressione o se l’acqua sia una sostanza che si crea ogni volta per fenomeni di condensazione dalla polvere e dall’umidità!»

D         (interrompendolo) «A me della scienza e della filosofia non m’interessa un fico secco!»

U         «Ma come puoi dirti cittadina di Atene, la più grande città per cultura e per progresso della conoscenza e della filosofia , se non sai niente delle scienze della terra e del cielo?»

D         «Per adesso mi occupo solo di fagioli, di cipolle, di minestre e di gastronomia. Alla meteorologia ci penso domani»

U         «Non parlo solo di meteorologia, ma di formazione della materia acquorea»

D         «Fa lo stesso, non m’importa un fico secco uguale»

(L’uomo la guarda esterrefatto. Poi va alla finestra, osserva il cielo)

U         «È vero: il cielo non ha nessuna intenzione di piovere stasera, si sta riempiendo di stelle».

D         «Anche lui deve aver mangiato una minestra di cipolle!»

U         «Chi?»

D         «Il cielo! Per questo è contento e scintilla di contentezza con le sue stelle»

U         «Il cielo non mangia le cipolle. Neppure quell’ignorantone bisbetico di Arisofane arriverebbe mai a dire una cosa del genere. In ogni caso, come mai mangiare una minestra di cipolle può rendere così appagati e contenti come dopo aver risolto un problema complesso di geometria? Che senso ha dunque vivere se anche le cipolle ti fanno stare meglio al mondo come dopo aver toccato le vette più celestiali del sapere? Che senso ha continuare a esistere se un piatto di minestra è quanto serve per essere felici? Per purificarci da magagne e fisime?»

D         «Forse perché tutto quello che c’è bisogno a questo mondo è una minestra di cipolle cucinata al momento giusto e preparata con le accortezze più sopraffine. Ci vogliono cipolle e un po’ di gentilezza e ogni tanto anche una briciola d’affetto, spruzzata qua e là come il formaggio»

U         «Credi, mia cara? Ma se è così allora a che pro esistono gli Dei e le idee supreme?»

D         «Non lo so e non m’interessa un fico secco»

U         «E dagli con questi fichi secchi!»

D         «In effetti anche i fichi secchi sono buoni»

U         «È vero. È tanto che non ne mangiamo»

D         «Domani al mercato domando se qualcuno li vende a buon prezzo»

U         «Stupendo, cara! Così domani mangiamo cipolle e fichi: un pranzo da leccarsi i baffi».

D         «Baffi? Mica siamo topi! Non abbiamo affatto i baffi»

U         «A dire il vero a te un pochino spuntano»

D         «Cosa?»

U         «I  baffi»

D         «Maleducato che non sei altro!»

U         «Scherzavo! Solo qualche peluzzo»

D         «Comunque va bene: domani ci provo a chiedere i fichi».

U         «Ma ora, cara, torniamo alla scienza, alla filosofia e alle idee supreme. Quale differenza, ti chiedo, possiamo supporre dal punto di vista dell’Essere dal fatto che le cipolle, le idee supreme, i fichi e gli dei esistano dall’ipotesi che gli dei, le idee supreme, i fichi secchi e le cipolle invece non esistano?

D         «Non m’importa un fico secco!»

U         (non si dà per vinto) «Come cambia dal punto di vista filosofico della sostanzialità e della materialità dell’Essere, direi dalla datità del Tutto, il fondamento esistenziale delle cipolle in quanto esistenti, con il divino fondamento del divenire e del contemporaneo permanere degli dei e delle idee supreme in quanto celesti e superiori alla pura contingenza dell’esistenza e delle stesse cipolle e dei fichi secchi?».

D         (è andata al lavello e sta lavando le scodelle, fa un gesto con la mano e sussurra) «Ma va a ramengo, tu e la filosofia, tu e i tuoi minestroni filosofici!».

U         (continua imperterrito) «Le cipolle e i fagioli sono splendidi! Ma splendide sono anche le idee supreme e le entità divine. Il sapore della minestra fa pensare a qualcosa di sublime, fa provare sensazioni elevate quasi quanto quelle che si provano risolvendo un dilemma di logica o ascoltando una tragedia di Sofocle. Non trovi mia cara?».

D         «Io mi accontento della minestra di cipolle. E poi vorrei solo qualche parolina dolce ogni tanto; mi accontenterei solo di quella per concludere la giornata».

U         «Una parolina dolce?»

D         «Già!»

U         «Te l’ho già detta: sei stata brava a cucinare quella minestra»

D         «Così va meglio. Ma basta che non ricominci o meglio continui con la filosofia»

U         «A ciascuno la sua piccola pena»

D         «La mia non è tanto piccola. Comunque m’è andata meglio che ad altri»

U         «A migliaia di altri»

D         «E mentre ci sopportiamo, cerchiamo di conversare senza farci del male»

U         «Abbiamo delle attenuanti»

D         «Siamo come foglie su un ramo in autunno»

U         «L’ha già detto Mimnermo»

D         «Siamo come un piuma portata via lontana dal vento»

U         «L’ha già detto Alcamne»

D         «Capperi! Allora: siamo vivi solo nella continua meraviglia del mondo»

U         «L’ha già detto Pindaro»

D         «Ma hanno già detto tutto!?»

U         «Beh, nessuno ha mai provato a fare un poesia sulla vita paragonandola a un fico secco»

D         «Bene, adesso ci provo… In tutta la vita a volte cogliamo solo un fico secco»

U         «È vero. Ma non mi sembra tanto poetica. Anzi piuttosto greve e prosaica. Poteva scriverlo quel diavolo d’Aristofane mettendoci uno sberleffo finale per dargli una sterzata meno piagnona. Che ne so? ‘Però alla fine con tutti quei fichi andiamo anche in bagno e passa tutto!’».

D         «Beh, m’è venuta un’altra poesia. Non valiamo un bel niente, ma siamo buonissimi. A gustarci pian piano siamo anche dolcissimi. Sembriamo un fico secco che t’acquieta il cuore».

U         «Non male, non male, mia cara!»

(La donna emette un rutto di soddisfazione. U fa un sobbalzo per il rumore non proprio elegante prodotto dalla sua compagna).

D         «Un po’ d’amore, non chiedevo altro dalla vita, io! Non la filosofia, non le idee supreme, solo un po’ d’amore. Una volta al giorno, due volte al giorno, come quelli che fanno la cura di olio di fegato di merluzzo. Una bacetto la sera, un bacetto la mattina, due bacetti al giorno. Finché le lebbra ti si schiudono da sole e il bacetto è quasi automatico, quasi come prendere un cucchiaio e riempirlo di olio di fegato di merluzzo e buttarlo giù per la salute».

U         «Olio di fegato di merluzzo?».

D         «Sì, proprio quello: olio di fegato di merluzzo! È vero che è un po’ indigesto, ma è buono lo stesso. È vero che fa un po’ schifo, ma alla fine ci provi quasi gusto, perché sai che ti fa bene. E anche se ti si rinvoltola lo stomaco, perché quell’olio di merluzzo è sempre lo stesso, sempre lo stesso, sempre lo stesso da decenni, da decenni, ti rimetti diritta, ti raddrizza e tu vai a dormire più tranquilla e pensi che dormirai finalmente quella notte, perché hai buttato giù il tuo olio di fegato di merluzzo e la notte non è poi così paurosa dopo quel bacetto con tutto quello è seguito anche se  ne sapeva tanto di olio di fegato di merluzzo!»

(Anito e Licone)

(U porta la sua sedia vicino alla finestra. E dopo aver fatto vari tentativi per trovare la posizione migliore come sedersi, non avendo trovato una soluzione che gli aggrada, resta in piedi a fianco della sedia con in mano la sua solita tavoletta e il suo solito stilo per scrivere. Accanto alla finestra guarda fuori nel cielo).

U         «Davvero la soluzione di questo problema di geometria è ormai prossima. Manca solo l’ultimo dodecaedro. Ecco si sta incastrando tra gli altri undici dodecaedri, proprio quello che mancava!»

D         (continua a riporre piatti e posate e dice a se stessa) «Se ne sta sempre lì, con la sua fidata sedia accanto alla finestra. Il suo cervello continua a ragionare, a elucubrare teorie, a fare astrazioni, s’attorciglia con pignoleria su questioni che per altri non esistono, eppure gli voglio ancora bene, non vorrei che gli capitasse qualcosa, non vorrei che gli facessero del male con tutte le maldicenze che girano sul suo conto, che travia la gioventù, che non rispetta i governanti, che non riconosce gli dei. E ora questi due potenti, Anito e Licone, lo hanno preso di mira: servendosi di uno scrittore fallito, uno sprovveduto, un certo Meleto, sono riusciti a portarlo in giudizio in tribunale con l’accusa di empietà, di corrompere i giovani, di insegnare dottrine che propugnano il disordine sociale e la negazione degli dei e il rispetto degli anziani. Quei due ambiziosi e avidi hanno trovato un bugiardo impenitente, che pur di guadagnare qualcosa, ha sottoscritto una denuncia contro quest’uomo che mi vive accanto. Meleto, quella canaglia, ha giurato di aver assistito di persona ai reati! Spudorato d’un vigliacco falso, Meleto del villaggio di Pito, pieno di ghiande e di porci come lui!».

(Quando ha finito di riporre l’ultima posata, la donna riporta la sua sedia vicino al focolare).

D         (dice con tono gentile) «Vado dalla vicina».

U         (risponde con tono cortese) «Va’ pure, mia cara. Ci vediamo dopo. Ti aspetto prima di coricarmi».

(Mentre D si appresta a uscire, U sposta la sedia proprio sotto la finestra come se fosse un animale domestico da pulire e da vezzeggiare e da tenere sempre accanto a sé)

U         (in piedi davanti alla finestra, accanto alla sua sedia, riprende a ragionare guardando il cielo) «La realtà è solo nei miei pensieri o esiste anche l’oggetto in sé? Quanto io adesso creo nella mia mente con il mio ragionamento e con il mio ragionare sul modo di ragionare è l’Ente in sé o l’Ente nella sua rappresentazione mentale? Sono davvero ombre proiettate sulla parete di una caverna quelle che vediamo o oggetti reali?».

D         (uscendo dice) «Quando esci dalla caverna, spegni il fuoco, se no finiamo arrosto stanotte!».

(U la guarda sorridendo. Poi sposta la sua sedia vicino al letto. Prende la sacca da sopra il letto, vi infila tavoletta e stilo e la posa sopra la sedia. Aggiusta il cuscino sul giaciglio, lo sistema, si stende)

U         (a se stesso) «Lei ha le sue vicine, le sue amiche, con loro può parlare di tutto, magari di minestre di cipolle o di un merluzzo che qualcuna di loro stamattina ha comprato al mercato. Io invece devo stare attento a scambiare i miei pensieri e le mie riflessioni con altri, perché mettendo in discussione qualsiasi cosa assunta come ovvia dagli altri, ponendo in discussione quanto da tutti è considerato ovvio, vero e scontato, rischio sempre di venire deriso o addirittura di venire preso per i capelli e da qualche esagitato di essere schiaffeggiato e infine di venire accusato di minare le fondamenta dello Stato, le sue leggi, i principi che governano da sempre la città. Proprio io che penso invece con apprensione al destino di questa città, che si dimostra sempre più incapace con le sue istituzioni di scegliere per il governo le persone più sagge. Negli ultimi tempi, proprio ora che viviamo nella democrazia, dopo il governo dei Tiranni, vengono favoriti gli arrivisti, i subdoli, gli individui arroganti e interessati non al bene comune ma solo ai loro interessi e che conquistano il potere per usufruire delle migliori condizioni per arraffare tutto quanto gli riesce di arraffare. E ora questi due potenti, Anito e Licone, m’hanno portato in giudizio, vogliono farmi pagare la mia diversità, il mio discutere con tutti, la convinzione che la conoscenza delle cose più profonde sia un diritto di tutti e non di pochi. Ho la sensazione che qualcosa stia per accadermi. La mia mente è predisposta a risolvere quesiti filosofici, non riesce a non pensare in termini generali, eppure sento che qualcosa sta per verificarsi, non so che cosa sia, ma di sicuro è un evento essenziale: forse è semplicemente la soluzione del problema di geometria che si approssima, quello che urge da tempo nella mia mente e cui sto dedicando tanto tempo, quel quesito sui dodecaedri, cui provo a dare una soluzione, forse quel problema è davvero arrivato alle sue ultime battute. Probabilmente è questo l’enigma che mi rende così nervoso e inquieto. Quel rovello mi attraversa e fa scaturire pensieri, intuizioni in un crogiolo di immagini, di idee, in un ragionamento teso alla perfezione e alla geometria assoluta».

(U si alza, va a sistemare meglio la sedia. Cerca di trovare la posizione più opportuna dove lasciarla durante la notte. Prova varie posizioni lungo la parete, sotto la finestra, poi la accosta al giaciglio come una specie di comodino, con sopra la sacca che contiene la sua tavoletta e lo stilo)

(I Principi Della Virtù)

U         (steso sul giaciglio continua a ragionare) «’Conosci te stesso’, questa sentenza della tradizione religiosa di Delfi, è l’essenza della sapienza e della virtù. Indica la via per la ricerca più elevata. Deriva dai principi ‘Nulla di troppo’ e ‘Non desiderare l'impossibile’, perché non il potere sulle cose e sugli altri, ma il governo di sé e la conoscenza dei propri limiti sono i principi della saggezza. Il potere sulle cose, sugli oggetti, di generazione in generazione ha accelerato a una massima potenza. La tecnica ormai si estende su ogni lato del reale e del vivere. Quanto a una generazione passata appariva impossibile ora è ovvio e realizzabile anche per il più comune e semplice degli uomini, e con il progresso tecnico le armi più distruttive sono state inventate e tradotte in potenza micidiale. Eppure di fronte a questo dispiegarsi di un potere inaudito, la saggezza, la capacità di prendere decisioni per il bene comune non mutano o addirittura regrediscono. Come è possibile conciliare questa potenza straordinaria sulle cose, questa tecnica smisurata che è anche sistema di distruzione, con l’assenza di una saggezza atta a governare l’immane potere per adoperarlo con raziocinio, con sapienza, con circospezione? Il non volere nulla di troppo e il non desiderare per avidità costituiscono i principi dell’equilibrio, della giusta misura. Ma quanto lontano è questo modo d’intendere la vita dal comune sentire e soprattutto dal modo di pensare di coloro che governano la città! Mentre nella coscienza e nella pratica del limite risiede la saggezza, nell’avidità e nella tensione alla conquista del sovrappiù si cela la scintilla capace di far deflagrare l’incendio della distruzione di tutto ciò che abbiamo di più caro. In questa culla della civiltà, che è la nostra città, stanno prendendo piede l’avidità e la brama di conquista verso tutto quanto non è necessario».

(Dalla strada viene un cicaleccio di voci, di grida, di alterchi. U si alza dal letto, si affaccia alla finestra).

VOCE            (dalla strada) «Passami quella bottiglia!».

ALTRA VOCE          « Ehi tu, donna vieni qua!»

U         «Stanno festeggiando e godendosi le loro misere cose che per loro sono tutto; quella è la loro ricchezza. A guardarli, ad ascoltarli mi rendo conto di quante cose io sia ricco, sono ricco di tutto quanto per gli altri è necessario e invece per me è inutile. È questa la mia ricchezza: il non possedere l’inutile. La mia ricchezza è non avere bisogno di quanto ad altri sembra indispensabile».

(Ritorna a letto. Vi si distende. Appoggia la testa di lato sul cuscino. Si addormenta di colpo. Subito ronfa. Dopo poco rientra la donna, trova U addormentato che ronfa rumorosamente. Lei sorridendo scuote il capo, sistema alcune pentole, poi va a spegnere il fuoco del focolare. Infine si corica sul giaciglio al lato opposto della stanza. Prima di addormentarsi allunga la mano per spegnere un’ultima candela accanto al letto e con essa cala il buio nella stanza).

U         (si risveglia) «Sei tornata cara?»

D         «È già!»

U         «Buona notte»

D         «Buona notte anche a te, filosofo!»

Inizia prima pianissimo e poi sempre più nitida la MUSICA: “Variations for the Healing of Arinushka”-Piano- di ARVO PART

IV -  PARABASI

Si accende un cono di luce nel proscenio.

Ricompare CORIFEO, che inizia a parlare.

CORIFEO

«Molte sono le cose incredibili, ma nessuna è più incredibile dell’uomo. Quest’uomo così semplice eppure complesso, così umile ma anche saggio, quest’uomo che è il più sapiente perché di fronte a tutti gli altri che argomentano con sicurezza è l’unico che sia consapevole del proprio non sapere, questa persona che di fronte a quanti si definiscono filosofi e danno risposte a qualsiasi domanda, si premura di suscitare dubbi e di porre altre domande, di proporre argomentazioni diverse sullo stesso quesito così da poterle confrontare, quest’uomo che ha portato ad arte il metodo del dialogo e che non dice mai a nessuno “stai sbagliando” e che cerca di raggiungere una verità condivisa, quest’uomo così saggio nella sua umiltà, così quieto nella sua ricerca di una maggiore conoscenza, con questo suo mettere in discussione qualsiasi cosa, col suo non dare mai risposte conclusive, col suo suscitare incertezza e pensieri in chiunque lo ascolti è un maestro del dubbio. E in questo essere Maestro del dubbio consiste la sua colpa, proprio qui si riassume anche la sua grandezza».

Si spegne il cono luminoso. Buio completo. Resta la musica.

V - EPEISÒDIA

(Come Essere Felici Benché Sposati)

(Fuori della finestra albeggia.

LA MUSICA S’ATTENUA E SVANISCE.

La scena si illumina. L’uomo si sveglia, si siede sul lato del letto, si guarda in giro trasognato. Il focolare è già acceso. Sopra il focolare c’è una pentola. La donna è seduta sulla sedia vicino al focolare, è intenta a rammendare. Lo guarda di sottecchi).

U         (decide di rivolgerle una parola cortese) «Come va, cara? Dormito bene?»

D         (lo guarda aggrottando la fronte e risponde in modo ironico) «Non c’è male, caro. E tu come te la passi?»

U         «Ieri non te l’avevo detto: sai che Aristofane ha scritto una nuova commedia su di me? Un’altra ancora!»

D         «Bene! Ti fa un po’ di pubblicità».

U         «Ne farei volentieri a meno. Mi mette alla berlina dalla prima all’ultima parola; l’ha intitolata ‘Le Nuvole’. Prendersi gioco di me sembra diventato il suo scopo. Mette alla berlina la mia asserzione che sono le nuvole a far piovere e non gli dei».

D         «Ah! Perché non sono gli dei a far piovere?»

U         «No, mia cara sono le nuvole. Aristofane deride il fatto ch io sostenga che i fulmini sono causati da sbalzi di pressione e non dagli sghiribizzi dei numi».

D         «Sbalzi di pressione?! Mi sembra una spiegazione strampalata! Ha ragione Aristofane: sono i numi a lanciare fulmini e lo fanno quando gli prende lo sghiribizzo, quando ce l’hanno con qualcuno».

U         «Aristofane in questa commedia dice che io con la mia scienza invece di partire dalle certezze degli antichi, dai più alti concetti dei testi sacri, voglio misurare la lunghezza dei salti delle pulci».

D         «In effetti misurare i salti delle pulci è un po’ bizzarro e ridicolo»

U         «Ma io non ho mai detto una cosa del genere e non ho mai fatto niente di simile. Ho semplicemente affermato che qualsiasi affermazione va confrontata con la realtà e qualsiasi teoria va supportata con misurazioni, con i dati concreti»

D         «Mi sa tanto che fra tutti voi sapientoni il filosofo più filosofico sia proprio Aristofane»

U         «Quel tizio tutti i giorni si prende beffe di me davanti alla città. Nelle sue commedie dice che io veleggio in una cesta a metà strada tra terra e cielo spostandomi per aria sulle nuvole e con la mia scienza metto in discussione le cose terrene e celesti e così rendo più forte la ragione debole, il pensiero errato, e insegno ai giovani come vessare i vecchi».

D         «Mi sa tanto che quell’Aristofane è un reazionario di prima riga!»

U         «E poi sono arrivati questi due potenti, Anito e Licone, che servendosi di un tale Meleto di Pito, mi accusano di empietà, di traviare la gioventù, di insegnare dottrine foriere del disordine sociale, mi imputano di non riconoscere le leggi di origine divina. In realtà quello che faccio è solo cercare di parlare con i giovani e con gli anziani mettendo in discussione tutto quello che viene creduto senza fondamento, cerco di far capire di non considerarsi mai soddisfatti quando si crede di possedere la conoscenza solo perché qualcuno ha detto che quella è la verità, di non credere senza aver prima elaborato una propria riflessione, perché quanto si vuol far credere come verità a volte è illusione. Solo nel dubbio, nel dialogo, risiede il metodo per raggiungere una conoscenza migliore».

D         (guardando il vestito che rammenda) «Sarai un po’ con la testa fra le nuvole ma certamente tu non fai male nessuno, a differenza di tanti altri»

U         «Se non fosse per te che ho accanto, con tutte le persone potenti che mi osteggiano, con tutti i politici che mi odiano, in questa città avrei difficoltà a trovare anche un tozzo di pane e un piatto di minestra la sera».

D         (sorride e risponde senza alzare lo sguardo) «Grazie per averlo riconosciuto»

(L’uomo va verso la sua sedia. Estrae tavoletta e stilo dalla sacca. Posa la sacca sopra il letto. Placidamente va a sedersi sulla sua sedia spostandola vicino alla finestra. Con in mano tavoletta e stilo riprende il problema di geometria)

U         (sorridendo rivolto alla donna dice con dolcezza) «La minestra di ieri sera era davvero squisita!».

D         «Mi sembra che stamattina tu ti sia alzato con l’idea di portarmi un po’ con te fra le nuvole al settimo cielo. Mi sembra anche che tu stia un pochino esagerando con i complimenti»

U         «No, non sto esagerando. Non so che cosa mi stia accadendo, ma dovevo dirti queste cose da tempo e non so perché ma stamattina mi sento spinto a parlarti in questo modo, a dirti queste cose»

D         «Va bene allora. Però adesso lasciami lavorare, se no mi confondo».

(D continua a cucire il vestito che sta rammendando, lo fa a testa china)

D         (continuando a infilare ago e filo dice piano a se stessa) «Forse davvero con un po’ di buona volontà reciproca riusciremo a stare insieme senza rovinarci la vita. Forse basta essere un po’ più tolleranti e non cercare sempre il pelo nell’uovo. Forse è sufficiente magari lasciar correre un po’ i difetti dell’altro, se vogliamo stare ancora assieme. Forse è possibile trovare una soluzione a questo problema dello stare assieme dopo tanto tempo, dopo quasi un’intera vita, con la tolleranza, questo sentimento controverso, da un lato così poco nobile eppure ugualmente necessario e umano, quasi indispensabile. La tolleranza: un sentimento rustico e sincero».

(L’uomo annusa il profumo che viene dal focolare, sorride, si alza,. Lascia tavoletta e stilo sopra la sedia. Va verso la donna, guarda dentro la pentola sopra il fuoco).

U         «Stai già preparando qualche altra leccornia?!»

D         «È la minestra di fagioli, quelli che ho sbucciato ieri. Anche tu hai contribuito a sbucciarli. Se ricordo bene hai sbucciato 5 o 6 fagioli».

U         «È vero! Forse pochi, ma mi sono dato da fare! E già sento l’acquolina in bocca»

D         (sorridendo) «È ancora presto. Devi aspettare».

(U si china su D e l’abbraccia)

D         «Ehi! Cosa t’è venuto in mente? Mi fai pungere con l’ago».

U         «Allora lascia l’ago. M’è venuto in mente qualcosina».

D         «Sì, e poi chi lo cuce il vestito? Lo devo consegnare oggi».

U         «Lasciamo perdere i vestiti oggi, non solo quelli da cucire».

D         «Che stai dicendo, birichino?»

U         «Intendo tutti i vestiti».

D         «Hai bevuto di prima mattina?»

(U continua ad abbracciarla. D sorridendo si divincola ma non molto).

U         «Credevi che non sapessi cosa intendevi quando parlavi di ginnastica e di pietanze strane?»

D         «Credevo di no»

U         «E invece lo sapevo benissimo cosa intendevi e in fondo in fondo un po’ di energia per la ginnastica ce l’ho ancora».

(U continua ad abbracciare D)

D         «Dai! che mi fai pungere»

U         «Vieni qua pollastrella cara»

D         «Ma sta’ buono, diavolo d’un angioletto. Alla tua età, invece che startene sulla tua sedia a disegnare i triangoli e i quadrati vieni qui a insidiarmi?!»

U         «T’ho detto: stamattina ho fame di pietanze strane. Un po’ di fame ce l’ho ancora»

D         «Non ora però, di prima mattina»

U         (si sorprende) «Ma la ginnastica si fa di prima mattina! La facevamo sempre di prima mattina!»

D         «Rimandiamo a stasera»

U         «È una promessa?»

D         «Una promessa; va bene stasera: prima ginnastica poi pietanze strane»

U         «Già sento l’acquolina in bocca, pollastrella»

D         «Pollastrella?»

U         «Già pollastrella stagionata fa buon brodo! anche di qualità!»

D         «D’accordo allora per stasera. Adesso però va a ricominciare a disegnare i triangoli che ho da cucire».

(U torna alla sua sedia vicino alla finestra. Ride compiaciuto, sghignazza. Prende in mano tavoletta e stilo. Solite manovre per trovare la posizione più conveniente sulla sedia. Finché si siede con la gambe sotto le cosce come un fachiro).

U         «Una notte è passata, un giorno nuovo sta per aprirsi, è noi siamo ancora vivi»

D         «Vivi? Diciamo quasi vivi e un po’ stanchini».

U         «Eh no, mia cara, siamo vivi e pimpanti e pronti ad affrontare un’altra giornata dedicata alla filosofia e alla geometria  e poi stasera: ginnastica e pietanze strane!».

D         (sbuffando) «Io intanto oggi mi dedicherò ad altre cose prima di stasera».

U         «Ecco qua dunque: siamo vivi, contenti e felici, godendo di tutte le nostre forze fisiche e mentali per risolvere i problemi sui dodecaedri e sui diedri».

D         «Felici coi dodecaedri? Sì, forse un problema filosofico in realtà ci sarebbe da risolvere, uno cui sto pensando da tempo»

U         «E quale?»

D         «Come essere felici benché sposati»

U         (sorpreso) «Che problema è?»

D         «È molto semplice, in realtà un po’ complesso: come essere felici benché sposati»

U         «Mai sentito prima!»

D         «Questo sì che è un problemino filosofico mica da poco! Ci penso e ci ripenso, qualche idea m’è venuta, ma chissà se è quella giusta.»

U         (sta a lì a pensarci e poi dice) «Come essere felici benché sposati?! Appena ho risolto il problema sui dodecaedri mi ci dedicherò anima e corpo. Bisogna proprio che ci penso. Una soluzione di sicuro la trovo»

D         «Va bene aspetto la tua soluzione».

VI - TRAGOIDÍA

(Fuori, nelle vie le botteghe stanno aprendosi a una a una. Si sentono rumori venire dalla strada. Il silenzio è rotto da uno scalpiccio di cavalli, da un clangore di ferri).

UNA VOCE              «Dov’è la casa del filosofo?»

SECONDA VOCE    «Sempre dritto e la trova!».

TERZA VOCE          «Avanti una ventina di passi. È di sicuro a letto. A quest’ora starà ancora dormendo».

QUARTA VOCE      «Non t’infangare in quella chiavica! Vieni fuori! T’ho detto esci di lì!»

QUINTA VOCE       «Frittelle! Polipi fritti!»

(Qualcuno bussa con violenza alla porta della stanza. Senza aspettare che venga aperto sfondano l’uscio. Salta il chiavistello. Entrano due soldati. Fanno irruzione con gran clangore di ferri e spade. U dall’angolo vicino alla finestra, seduto sulla sua sedia, li squadra senza mostrare paura o sorpresa).

I GUARDIA «Ah, sei qui!»

U                     (alle guardie) «Chiudete la porta per favore o meglio accostatela visto che il chiavistello ora è rotto. C’è corrente d’aria dalla finestra».

I GUARDIA (strepita) «Abbiamo l'ordine di condurti in tribunale!».

(U, seduto sulla sua sedia, riabbassa lo sguardo, continua a tracciare segni sulla sua tavoletta. Non si mostra impressionato da quelle parole, come se fosse già a conoscenza di ogni cosa).

U                     «Devo finire questo problema di geometria».

I GUARDIA  «Tu non finisci un bel niente! Alzati che ti portiamo via! Devi venire in tribunale! Stamattina verrai giudicato per tutte le tue malefatte!»

U                     (continuando a scrivere sulla tavoletta) «E chi ha emesso questo ordine? Chi mi impone di comparire in tribunale?».

II GUARDIA            «Il governo della città in cui vivi! Il potere di Atene!»

U                     (alza lo sguardo) «Amico mio, io non sono un ateniese o un greco, ma un cittadino del mondo».

II GUARDIA            «Va bene allora! È il governo del mondo che ti chiama in tribunale! E non inventare storie su quanto t’impone il governo del mondo, se no te la passi male anche in questa stanza, prima di arrivare in tribunale, davanti al tuo governo del mondo!»

U                     (assorto, riprendendo a guardare la tavoletta) «In relazione all'eternità siamo solo una scintilla in un buio senza fine».

I GUARDIA «Meno frottole! Alzati e preparati a uscire!».

(L’uomo si alza dalla sedia. Va verso il lavello. Da una brocca prende dell'acqua e comincia a lavarsi il viso).

U                     «Non posso attendermi altro che questo abominio in un tempo come quello odierno»

II GUARDIA            (strepita) « Smetti di cianciare e fa presto! Che non abbiamo tempo da perdere!».

U                     (con un panno si asciuga la faccia) «Abbiate la cortesia di farmi preparare, almeno. Non c’è fretta».

I GUARDIA «Che ci sia fretta o non ci sia fretta non sei tu a stabilirlo! Non tirarla per le lunghe, tignoso!».

(U posa il panno, va alla finestra, raccoglie dalla sedia tavoletta e stilo e li infila nella sacca di stoffa bianca coi lacci che era sopra il letto. Si sistema la sacca a tracolla)

U                     (dice con un sorriso) «Sono sicuro di raggiungere la soluzione di questo problema di geometria prima di stasera».

I GUARDIA «Raggiungerai ben altro prima di stasera!»

(U si avvicina alla dispensa e prende tre cipolle da un grappolo, le infila nella sacca a tracolla).

U                     (dice alla guardia sorridendo) «Anche queste cipolle mi saranno molto utili».

(Le guardie sbuffano, ghignano).

I GUARDIA «Sei furbo tu! Ma vedrai che con la tua furbizia non vai tanto lontano!».

(U con fare furtivo e veloce apre la dispensa e da un’anfora estrae una manciata di foglie secche e infila anche quella nella sacca a tracolla).

U                     (sottovoce a se stesso) «L’ortica mi può servire: è un antidoto contro qualsiasi cosa, anche contro qualsiasi veleno».

(Le guardie gli si avvicinano con rudezza. Ma l’espressione di U è tranquilla, non muta, non lascia trasparire paura, timore, anzi sulle sue labbra spunta un sorriso tranquillo di condiscendenza. II GUARDIA gli dà uno schiaffo).

II GUARDIA            «Smetti di ridere, tignoso! Non sai cosa ti tocca!».

U                     (con una smorfia per la botta) «Lo so benissimo, e so anche che l’unica cosa che mi potrà essere imputata è di aver tentato di seguire la via del bene e di essermi interrogato nel ricercare virtù e giustizia. E so anche che malgrado tu abbia usato su di me violenza, io non la ricambierò perché ricambiare il male con il male è un abominio».

II GUARDIA            (l’irride) «Tu, tignoso, non ti ribelli contro di me, non perché non vuoi, ma perché se ci provi ti sbatto contro il muro e t’ammazzo qui sul posto. Tu non sei violento solo perché non ti conviene!»

U                     «Ho l’impressione, amico, che tu abbia qualche problema a stare la mondo»

II GUARDIA            «I problemi a stare al mondo ce l’hai tu, tignoso! E chiudi il becco!»

(D in piedi accanto alla sedia vicina al focolare, con in mano la veste che stava rammentando, guarda quanto sta accadendo; si asciuga una lacrima col dorso della mano).

U                     (alla sua compagna) «Tutta la vita e l'universo sono in questo istante, mia cara. A chi cerca la virtù non può capitare nessun male».

D                     (gli dice) «Torna, ti prego».

(U viene spintonato dalle due guardie verso la porta. L’uomo fa resistenza).

U                     «Abbiate un po’ di pazienza, per favore. Aspettate un attimo, vi prego. Lasciatemi vedere la mia casa per l’ultima volta. Con la pesantezza dei vostri corpi è questa la gentilezza che alberga nelle vostre menti? quella dei calzari di ferro, delle spade, degli usberghi?».

I GUARDIA «Fa’ meno poesia e smetti di cianciare! Non siamo venuti per ascoltare i tuoi insegnamenti».

U                     «Amico mio, io non ho nulla da insegnarti e se ci fosse il tempo vorrei anzi sapere da te che cosa credi sia la virtù e come credi di vincere il male».

I GUARDIA (sghignazza) «L’unica virtù che conosco è il salario che mi viene dato alla fine del mese. E l’unico male che conosco è fare lavori come questo: arrestare scimuniti come te che si credono chissà chi, gente che crede di sapere tutto e non sa niente. Questa è la follia che devo sopportare ogni giornata!».

U                     «Io non possiedo alcun sapere. L’unica cosa che possiedo è l’amore per il sapere».

I GUARDIA «Va bene allora! Ma non durerà molto questa tua commedia di sapiente che fa finta di non sapere e che in realtà si crede un dio. Questo in ogni caso lo sai benissimo perché te dico proprio ora: fra un po’ non saprai più niente!».

(U tira un sospiro di rassegnazione. Le due guardie gli prendono i polsi, glieli legano con una corda dietro la schiena).

U                     «Quando sarò nella profondità della cella, nei sotterranei del carcere avrò la mia tavoletta per studiare la geometria e sarò sempre più prossimo alla soluzione dell’enigma dei dodecaedri. Poi avrò tre cipolle. Io, che non credo alle verità propugnate senza prove, credo alla virtù delle cipolle. Ogni tanto sgranocchiandole qualche lacrima mi spunterà sullo zigomo, ma è il prezzo da pagare per gustarne il buon sapore. E poi c’è l’ortica che mi difenderà da quanto mi faranno ingurgitare».

D                     (mormora) «Ecco, tu sei simile a una di quelle teche installate ai quadrivi, una di quelle che all’esterno raffigurano un satiro ma che all'interno custodiscono la statuetta di un dio. Sei così poco attraente esteriormente e sempre impegnato alla soluzione di problemi strani ed eccentrici, eppure sei davvero buono nell'animo e cerchi il bene comune e l’accordo con quanti si soffermano a discutere con te».

U                     (le risponde) «È meglio subire le ingiustizie piuttosto che commetterle, mia cara. E la morte non è un male perché è un sonno senza sogni, forse anche la possibilità di visitare un mondo migliore di questo».

II GUARDIA (ghignando) «Vai pure a visitare il mondo migliore di questo! Io mi  accontento del  mondo

 peggiore: di questo mondo!».

U                     «Amico, difficile non è evitare la morte, ben più difficile è evitare la malvagità, perché corre più veloce della morte».

II GUARDIA «Per adesso chi deve correre sei tu, tignoso! E devi correre veloce perché se no ti  arrivano

 randellate sulla schiena e non stare più a perdere tempo!».

U                     (vedendo la donna piangere le dice) «Che stranezza è questa, mia cara! Non con il pianto ma con parole di lieto augurio bisogna accompagnare qualcuno che si avvia alla sua sorte estrema. Dunque sii quieta e forte e aiutami con il tuo sorriso ad avvicinarmi a questo sonno senza sogni».

(U viene condotto a colpi e spinte verso la porta. Mentre stanno per uscire si sente un trambusto che viene dalla strada).

I VOCE          «È quella la casa?»

II VOCE        «Quella là di fronte!»

III VOCE       «Sono ancora dentro?»

IV VOCE       «Sono lì!»

(La porta viene spalancata. Appaiono due giovani).

I GIOVANE (alle guardie) «Fermatevi! Abbiamo l’ordine di sospendere la pena di questo uomo!».

I GUARDIA (irridente) «E di chi è l’ordine?!»

I GIOVANE «Del Tribunale! L’ha emesso un giudice!»

(I GIOVANE mostra una pergamena).

I GUARDIA «Da’ qua!»

(I GUARDIA legge la pergamena).

I GUARDIA «Qui c’è scritto che il condannato deve firmare l’abiura di tutto quanto finora ha affermato sugli dei e sulle leggi dello Stato. C’è scritto che rinuncia a insegnare e dopo l’abiura viene mandato in esilio permanente. Ma qui non c’è nessuna firma!»

I GIOVANE «Firmerà ora! Slegatelo!»

(I GIOVANE prende di mano la pergamena alla guardia. Si avvicina a U).

I GIOVANE  (a U sottovoce quasi con ansia) «Ecco, ti prego, appena ti slegano firma!»

U                     (sorridente) «Caro Alcibiade, ti ringrazio per la tua sollecitudine e della tua amicizia, ma non apporrò alcuna firma, non accetterò di abiurare alle mie idee, a quanto penso sia giusto e più vicino al vero».

I GIOVANE «Ti prego! Tu hai un dovere verso di noi, i tuoi discepoli, verso la tua famiglia, devi firmare e restare vivo».

U                     «Ho un solo dovere: quello di dire la verità o almeno quanto reputo più simile al vero e ricercare la virtù. È questo che mi rende davvero vivo».

II GIOVANE            «Per ottenere questo documento abbiamo sfidato l’ira e l’arroganza dei potenti che ti vogliono a ogni costo colpire e condannare. Noi stessi stiamo correndo pericoli prendendo le tue difese, possiamo essere messi sotto accusa. Corriamo questi pericoli per te, rischiamo per cercare di aiutarti!».

U                     «Grazie Aristodemo. Ma meglio la morte che la falsità e la pusillanimità di fronte ai potenti».

I GUARDIA «Allora che fai, tignoso? Firmi o non firmi?!»

U                     (rivolto alle guardie) «Andiamo dunque. È tempo di andare, io nella via che conduce alla morte, voi nella via che conduce alla vita. Chi fra noi vada verso la sorte migliore è oscuro a tutti, tranne che al dio».

I GUARDIA (sghignazzando e irridendolo) «Io non sono un dio! Ma su questa faccenda non ho dubbi: la tua sorte è certamente migliore della mia! Ma non facciamo a cambio, mi raccomando! E non fare più neppure filosofia, m’è bastata quella che ho ascoltato. Così la tua sorte te la potrai godere con calma in silenzio e io non mi dovrò più sorbire altri discorsi a vanvera!».

U                     (rivolto alla donna) «Cara, ricordati che dobbiamo un pollo al nostro vicino Asclepio»

(U viene spintonato con brutalità dalle guardie fuori della porta).

I GUARDIA (ridacchiando sguaiato) «Asclepio! Ci mancava solo Asclepio, il vicino di casa! Questo qua si ricorda anche dei polli che deve ridare in giro, quando viene condotto nei sotterranei delle carceri!»

(Seguendo le guardie anche i due giovani escono. D, rimasta sola, si asciuga una lacrima con il dorso della mano. Passano parecchi istanti. Inizia in sottofondo la musica di Arvo Part,  prima un soffio lieve, poi sempre più nitida. D in piedi vicino al focolare, quasi inebetita, non si muove. Infine va verso la finestra, prende la sedia dell’uomo e la porta accanto al focolare, sistemandola accanto alla sua sedia. Le due sedie ora sono affiancate, vicine e rivolte al focolare. La donna si siede e appoggia la testa sul braccio posato sullo schienale dell’altra sedia).

La SCENA viene quasi completamente oscurata.

VII - ÈXODOS

MUSICA IN SOTTOFONDO: “Variations for the Healing of Arinushka”-Piano- di ARVO PART

 Si accende un cono di luce davanti alla scena.

Ricompare CORIFEO, che va sotto il cono di luce. Con la musica in sottofondo inizia a parlare.

CORIFEO

«Dialogava quieto con chiunque, senza stancarsi. Con congegnate domande riusciva a far sì che anche il più umile degli umili gli dimostrasse un teorema complesso di Geometria, perché ognuno aveva dentro di sé la conoscenza assoluta. E come una levatrice fa scaturire la vita e il pianto dei neonati alla luce, lui illuminava i pensieri nascosti alle menti. La sua intelligenza sprigionava scintille. A chiunque gli si accostasse dava una scossa, simile a una torpedine. Le cose più profonde riusciva a esprimerle con semplicità. Ogni luogo comune veniva smontato dalla sua ironia. Chiunque credesse di conoscere per lui era ignorante. A chi affermava di essere un giusto opponeva uno sguardo sorridente. Il dialogo era il principio del suo parlare con tutti gli esseri, sia i più umili sia i più potenti. E i potenti, coloro che vedevano un pericolo nei suoi insegnamenti, nel suo mettere in dubbio qualsiasi loro affermazione, lo condannarono a morte. Fino all’ultimo istante riuscì a vivere con serenità la sua sorte. Fino alla fine espose con tono sereno e con mite semplicità la sua teoria sulla sopravvivenza dell’anima.

Davvero, ti sarebbe molto sorpreso, amico mio, a sapere che la tua anima, dal disincanto così illuminato, a distanza di tantissimo tempo è qui, accanto a noi. Nella penombra di questa sala la tua anima sta guardando e ascoltando quanto con mite semplicità viene detto di te, della tua vita così straordinaria eppure semplice, del tuo insegnamento così chiaro eppure complesso, della tua filosofia che parla con profondità di un anelito di libertà, di verità fino a farlo vibrare anche in questi tempi bui dov’è arduo sciogliere l’enigma oscuro della geometria della vita, dov’è pesante sopportare il giogo dell’arroganza, della saccenteria, della corruzione, della falsità dei potenti».

SIPARIO

COME ESSERE FELICI BENCHÉ SPOSATI - copyright Paolo Borsoni – copione depositato