Come nasce un casinò

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COME NASCE UN CASINÒ

di Carlo Terron

Originale libero, procace, stravolto e allegorico vaudeville “à l’ancienne”, con protagonista – Rabagas, chiesto in prestito a Sardou, ma solo il nome; né un particolare né una battuta, mancherebbe altro.

Je prends mon bien où je le trouve. (Molière)

A Gianrico Tedeschi, nel caso che...

(Un protagonista fatto per lui come codesto non lo troverebbe più fin che campa)

PERSONAGGI

SUA GRAZIA BERNARDO PRIMO, principe di M...

RABAGAS, agitatore amico del popolo, dice lui

L’ARCIDUCA CHARLES, luogotenente della guardia,

detto “Le beau”, nipote di Sua Grazia

IL CONTE ANDRÉ DE MORA, amico suo per la

pelle, sovrintendente di palazzo, piccolo Scarpia

CORMELIN, gazzettiere e anarchico, detto Angustia o

Agonia e, anche, eccezionalmente, Anemia e

Misericordia

DESMOULINS, anarchico solamente, però con soldi e

ormoni da buttar via

S.E. IL CARDINALE DUCA DE FLAVEURS, nunzio

apostolico, aspirante Richelieu, piuttosto forcaiolo

EUSAPIA BLOUNTH, vedova americana, vagabonda

per i continenti, in cerca di “fare”, uno schianto di

donna, nonostante i suoi... “anta”

S.A.R. LA PRINCIPESSA GABRIELLE, fanciulla

imprevedibile per congenito anacronismo

Popolo che non si vede, però si ipotizza alla voce

Gente benvestita e vana, che si pavoneggia ma ha

lasciato a casa la lingua.

In un punto imprecisato, però abbastanza presumibile,
della Riviera di Levante, un anno opinabile della metà
dello scorso secolo, con clamoroso sfoggio di
crinoline, “panieri”,         uniformi,      scopettoni,

“chignons”, mustacchi e gilè.

Al regista, se consente:

Si potrebbe alzare il sipario sul disordine d’un palcoscenico nell’imminenza d’una prova generale. Quella che si dice una “luce di servizio” irradiante da una solitaria e pendula lampadina scendente da un filo, al centro, rischiara, per modo di dire, una scena in via di montaggio da qualche macchinista in tuta e colla barba di una settimana, intento a sistemar “parapettate”, a recar mobilio, a piantar chiodi e via discorrendo; uno sta, addirittura, a regolare il volume

 di stralci di musica, su un diffusore, destinato a finire “in quinta”. Diretti verso i loro camerini, giungono, singolarmente e in compagnia, gli attori nella quotidianità del comune povero diavolo odierno; disappariscenti, trasandati, annoiati, malmostosi e approssimativamente puliti. Saluti distratti, strette di mano meccaniche, tutto a gesti fuggevoli e automatici; chi ha il copione, gualcito in mano o in tasca, chi no e se lo fa imprestare, chi niente del tutto e non se ne cura, o perché sa la parte a memoria, o perché non la saprà mai. Sono i medesimi che, rigenerati, riappariranno, tra poco, nell’”allure” altera di personaggi belli, lustri, sofisticati e vani, coll’ostentata, consapevole e compiaciuta eleganza del lavoro ben fatto; dove l’impegno ossessivo è, o dovrebb’essere: “né un particolare, né un’intonazione, né un gesto fuori posto”: contrasto, fattosi natura, fra la trascurataggine della quotidianità e il lustro della ribalta; il tedio avvilito d’ogni giorno, contro l’eccitante euforia del meritarsi dir sei bravo! e, se sarà, nulla di più conveniente. È pur un “recitar bello”, i ghingheri briosamente spigliati del sofisticato artificio a dispetto della deprimente sciatteria del reale goffo e banale. Ultimo a comparire, essendo stato il primo – è giunto in anticipo, vecchia scuola ed ha già fatto in tempo a provvedere alla metamorfosi, un pomposo principe di Santa Romana Chiesa, lussuosamente abbigliato da cardinale, un aitante “generico primario” – senza salutar nessuno, si mette a sedere in disparte, squaderna “L’Unità” della mattina, s’immerge nella lettura dell’ultimo attacco all’onorevole Andreotti sospettato di essersi messo in combutta con Pannella, è par proprio di sì“, approfittando che il papa stava a sciare in Guatemala e Pertini era a un funerale. Infine – un paio di minuti scarsi – una voce senza volto, il regista, il capocomico?: “Prova generale, truccati e vestiti. Sipario fra, un quarto d’ora. Buio in sala o su con Offenbach”... Ecco, io comincerei così. E se non va, non vada, amici come prima, per carità: merde!

Primo atto

Preceduto da un’assordante esplosione di can-can a preavviso che, dal principio alla fine, unico scopo è, se possibile, quello di passare un paio d’ore in allegria e, parola d’onore, non ce n’è altri, alla faccia di ogni anacronismo, il sipario, sbigottito, non ha vergogna di aprirsi su una specie di sbalorditivo giardino d’inverno, un invaso floreale, il centro della reggia, dove confluisce il maggior numero possibile di corridoi e di porte dai battenti in vista, ben oliati e funzionanti; ai margini di un parco secolare di cui si intravedono le cime. Pescecanismo liberty in concorrenza col Grand Siècle, figurarsi. Un cattivo gusto fatto stile, il fascino vagamente sinistro di quella paradossale bellezza un po’ inquietante che soltanto il trionfo del più nefando e scellerato Kitsch è in grado, non infrequentemente, di perpetrare. Quale paternità potrebbe rivendicare se non quella di una priapica messa in scena di Franco Zeffirelli, la numerosa masnada di turpi cariatidi di stucco colorato, dalle tettone gigantesche, impiantate di prepotenza come colline di mascarpone tinte di anilina su ventri da batraci, e torvi occhi assassini; nonché la falange, sospesa a mezz’aria, di putti, soffici e grassocci, indecentemente osceni, dai culetti rosa confetto, deludenti sul davanti, nei loro minuscoli pistolini mollicci, pendenti e flosci, destinati a un drizzarsi mai, e ne esprimono, fin da ora, la umiliante malinconia del presagio. Saltano in mente le venerande giostre della remota infanzia, ubriache di valzeroni, polchette, mazurcacce, traviate brindanti, “surdati ‘nnammurati” e zucchero filato, in gara coi bignè: degradazione, nostalgia e simbolo dell’immortale spirito dell’Operetta che presiede aleggiando su tutto il copione e chi lo frequenta. Il pavimento è di una sozzeria indescrivibile, invaso d’ogni ben di rifiuti, probabilmente anche organici, che neanche una strada di Napoli in una giornata di assenteismo dei netturbini durante l’ultima nevicata. Armato, ciascuno, di scopa e paletta, un giovane ufficiale oppresso da dorate passamanerie, aitante ed alacre; il conte André De Mora, e S.E. il duca De Flaveurs, fasciato dal moire violetto, con jabot in pizzo Valenciennes e aurea croce latina pettorale, tempestata di sesquipedali pietre false, in sontuosa porpora cardinalizia abbondantemente caudata, si danno da fare a raccogliere l’immondizia scaricandola in una grande pattumiera vistosamente titolata delle Armi della dinastia regnante, un superbo cervo ritto sulle gambe posteriori, in campo cremisi...

DE MORA            - Non c’è tregua alla persecuzione. Si avvicina il giorno, eminenza, che, in due, non ce la faremo più. Superano il doppio ogni mattina che si alza il sole.

DE FLAVEURS   - Quando si lascia prender piede all’opposizione, tutto è possibile.

DE MORA            - Sembra l’aula di un Parlamento dopo una seduta.

DE FLAVEURS   - Vite, vite, monsigneur. Sua Grazia ha già finito la marmellata. Ancora due cucchiaioni di miele nel the e si alzerà da tavola.

DE MORA            - Di questo passo, vostra eminenza, facendo violenza a una pia taccagneria, dovrà autorizzare la spesa di un paio di altre maxipattumiere.

DE FLAVEURS   - Dissipata gioventù. Altre spese nella disastrosa situazione del principato?! Mi interrogo quanto si potrà ancora resistere coi debiti e mi si esorta al lusso di altre pattumiere.

DE FLAVEURS   - ...Quel che mi affascina di questa insolente discarica notturna che ci sfianca le reni, è, non tanto la quantità, quanto la varietà. Ogni mattina, riserva una sorpresa inedita.

DE FLAVEURS   - Vite, vite!

DE MORA            - Più se ne toglie e più se ne trova. Devono arrivare con dei carri da scaricare sul terrazzo... Orinali, bottiglie vuote, piatti rotti, bucce d’anguria, scarpe vecchie sistematicamente scompaiate, prevalentemente la sinistra, pentole bucate, stracci, giornali scaduti, lettere anonime... e ancora ancora; passi pure gli occhiali rotti, gli stivali smessi, le pipe che non tirano, le mutande da lavare, gli ombrelli senza manico, banali compagni della nostra diuturna esistenza... no: stamattina, inaspettato, compare un reggipetto: il primo! Taglia forte, tricoteuse in agguato.

DE FLAVEURS   - (curioso come un canonico) Da donna, quindi.

DE MORA            - Un reggipetto da uomo, penso, è ancora prematuro. Ma non dispero. Finirà col far la sua apparizione anche quello. Perché non dovrebbe farla? I tempi corrono talmente...

DE FLAVEURS   - Dite?

DE MORA            - Dico. Il cardinale, chinatosi, si rialza stringendo fra la punta dell’indice e del pollice, qualcosa come un preservativo.

DE FLAVEURS   - Avevate ragione: sempre sorprese. Toh, e codesto che mai sarà? DE MORA (elusivo, dopo la prima sorpresa) —Niente, niente, da non farci caso.

DE FLAVEURS   - Cioè?

DE MORA            - Un guanto, semplicemente un guanto.

DE FLAVEURS   - Cosa non inventano?! Persino i guanti per un dito solo, adesso?

DE MORA            - Per i freddolosi del dito solitario, una trovata recente. Non dura. Lo chiamano guanto di Parigi... il Progresso, eminenza, la colpa è sempre di Parigi.

DE FLAVEURS   - Troppe comodità, oggigiorno!... Ma... di queste proporzioni? Chi può aver dita di tal fatta?

DE MORA            - Melius abundare quam deficere, lo dice anche la Chiesa e così... si tengono larghi. Calcolo pubblicitario... Vanità, eminenza: un modo come un altro per darsi delle arie e... spendere... sa com’è: gran guanto, gran... signore; peccatucci veniali. Possibile che non gliene sia ancora giunta eco in confessionale?

DE FLAVEURS   - (severo) Conte, io non confesso che dai nobili in su: gente che abitualmente non è schiava di certe eccentricità, se frequentaste questo fondamentale sacramento lo sapreste.

DE MORA            - Certo, certo... E che son sempre stato intimidito, dal suo proverbiale rigore di viceré del Cielo in terra, coll’indirizzo di nostro Signore in tasca, eminenza. Saranno chiacchiere, ma si sussurra che vi telegrafiate un paio di volte alla settimana quando è poco.

DE FLAVEURS   - Pettegolezzi. Sono un confessore di manica più larga che stretta (e lasciando cadere il... referto nella pattumiera)... decisamente spropositato per un dito normale. C’è un limite a tutto.

DE MORA            - Deve. Guai se stringe. È il dito che deve adeguarsi al guanto, mica, il guanto al dito.

DE FLAVEURS   - Come può avvenire?

DE MORA            - È sorprendente, però avviene. (ma S.E. sembra scettico)... Vanno infilati al... pollice, dipende da quello.

DE FLAVEURS   - (cacciandogli il soggetto della battuta sotto il naso) Per quanto sviluppato e potente, vi pare che il mio pollice lo riempirebbe senza ballarci dentro?

DE MORA            - (che vorrebbe sprofondare sottoterra) Ci si infilerà come un fiore in un vaso di cristallo... poi, fede in Dio, eminenza: i miracoli più grandi sono i piccoli miracoli. (Fa un passo cieco sul pavimento e affonda il piede in una merda.) Merde!

DE FLAVEURS   - (immite) Conte! Codesto linguaggio da caserma! Vi dimenticate troppo spesso di essere a corte.

DE MORA            - Alt. Attenzione a non metterci su i piedi anche voi, piuttosto.

DE FLAVEURS   - Merde, merde?

DE MORA            - Un oceano. Non c’è più freno allo spregio. Non era mai stata tanta le mattine passate: un primato.

DE FLAVEURS   - E Sua Grazia che, da un momento all’altro, è qui per bersi il suo caffè e fumare il suo sigaro in pace...

DE MORA            - (un grido) La coda, eminenza! Il cardinale fa un passo di tango ed evita il disastro appena in tempo.

DE FLAVEURS   - Per un pelo. Questa plebe, che fetore! (coprofiliaco?) Indulgenza cristiana, conte; è solo questione di naso: si è sempre tutti convinti che lo sterco altrui abbia più cattivo odore del nostro... Eh sì, in certe situazioni, non si può dire, piuttosto, che la veste cardinalizia sia la più comoda. Meditate i risultati paradossali del lassismo delle monarchie, illuse di ingraziarsi i sudditi aprendo i giardini reali all’invasione della canaglia. E la chiamano democrazia... Questi non sono più insulti alla maestà del sovrano: sono attentati all’ordine e all’autorità dello Stato. Si osa l’inosabile. Temo di dovervi dar ragione: bisognerà indebitarsi ulteriormente colla spesa di chissà quante altre pattumiere che non serviranno nulla. Ma eccoli raggiunti dal Principe, un elegante “coureur des femmes” giovanilmente conservato “bonhomme blas”, incomodato, però, ogni tanto, da turbe di iraconda tirannide della durata, fortunatamente, meno d’un amen.

IL PRINCIPE       - Quel che ci vuole ci vuole. Pattumiere, pazienza: pur che non si parli di cannoni. Ci sono ancora da pagare le nuove divise dell’esercito, conseguenza del vostro oltranzistico militarismo. Per la figura abbiamo, e ne avanza, le due colubrine d’antiquariato, collocate sugli spalti, colle quali il nostro avo Venceslao terzo lo strabico, nel Cinquecento, ricacciava in mare i pirati secondo la storia ufficiale, ma è una spudorata bugia, nessuno ha dubbi in proposito.

DE FLAVEURS   - (paonazzo come la veste che indossa) È la santa verità! Non per niente Sisto quinto l’ha fatto Beato.

IL PRINCIPE       - Va bene, va bene, non arrabbiatevi. Continueremo a farla insegnare nelle scuole come si fa da tre secoli, ma, tra noi, possiamo dircelo: in archivio, c’è ancora, la ricevuta del pagamento al benedettino che inventò la panzana e redasse la Cronaca sulla quale viviamo di rendita morale da secoli. D’altronde, di qualcosa bisogna pur vivere, anche l’orgoglio nazionale ha i suoi menù.

DE FLAVEURS   - (più calmo, sollevandosi dalla genuflessione d’etichetta) L’uomo non vive di solo pane.

IL PRINCIPE       - D’accordo, avrebbero bisogno anche del companatico. È la nostra croce.

DE FLAVEURS   - (gesto di desolazione panoramica) Sua serenità vede... Domando perdono di insistere. Un piccolo sacrificio oggi potrebbe evitare un grande disastro domani... Le forche, si fa per dire, costerebbero molto meno e renderebbero molto di più, tenendo a bada i riottosi.

IL PRINCIPE       - Non ne dubito, si fa sempre per dire; ma comprometterebbero l’avvenire turistico del Paese, rovinando il paesaggio; a non tener conto, egoisticamente parlando, il gusto alla visione di questo paradiso terrestre tra il verde di tante piante e l’azzurro di tanto mare, che è tutto ciò che mi rimane contro il tedio della vita qui.

DE FLAVEURS   - (untuoso) Voi non avete simpatia per la vostra patria, sire, né riguardo per i vostri antenati, né considerazione per i vostri sudditi

IL PRINCIPE       - No, proprio niente, non mi piace la professione e non mi piacerà mai.

DE FLAVEURS   - La poesia, se mi è concesso l’ardire, è sempre stata il maggior pericolo alla stabilità dei troni, voi siete un sognatore, maestà.

IL PRINCIPE       - Ah, perché, secondo voi, questo qui sarebbe un trono? Stiamo, col raffreddore, su un fazzoletto da naso, e piuttosto logoro a quanto pare.

DE FLAVEURS   - I regni non si misurano a metri, sire, né i sovrani a raffreddori.

IL PRINCIPE       - Ma nemmeno a centimetri e a rischio di ficcare il naso in un buco.

DE FLAVEURS   - Non esiste reame tanto minuscolo da non offrire la risorsa di una mezza dozzina di alberi da abbattere per trasformarli in efficienti forche, con minima spesa. Disprezzate le divise, deridete le armi? Imparate, almeno, ad apprezzare i patiboli: non c’è altro modo di rammendare i buchi.

IL PRINCIPE       - È un’ossessione, povero amico mio. Voi dovete sentirvi un Richelieu. Ma io non sono un Luigi... non mi ricordo mai il numero.

DE MORA            - Mi farò premura di consultare l’enciclopedia, sire. Entro domani si saprà.

IL PRINCIPE       - Ecco, bravo. Faccio continuamente delle brutte figure che ne arrossirebbe uno studente di ginnasio, se avessimo un ginnasio.... Sui nostri domini, eminenza, il sole tramonta in mezzo minuto; le nostre dimensioni tirano, piuttosto, a quelle del “Sogno d’un valzer”, tranne voi, ne sono al corrente tutti. La vita può esser vissuta anche abitando lo spartito di un’operetta, carente di qualche ballabile. Non è necessario infilarsi tra le pagine dei “Tre moschettieri”. Dico a voi, conte Mora, che vi sentite tanto D’Artagnan. Cercate di capirmi.

DE MORA            - D’Artagnan, sire, io? Non ho mai letto i Tre moschettieri.

IL PRINCIPE       - Non ne dubitavo. È una bella parte. Ve lo garantisco io, che, letti li ho. E, molto lusinghiera, anche la parte di Aramis: per nostro nipote, quella, quando fosse in cerca d’un personaggio. Fateglielo sapere camerati come siete.

DE MORA            - Colmerò la lacuna, tuttavia continuo a non capire.

IL PRINCIPE       - Capisco io, nevvero eminenza? E, probabilmente, capirà anche il visconte, se mi userete la cortesia di riferirgli le mie parole. Se non letti, lui, c’è caso che i “Tre moschettieri” se li sia fatti raccontare, ... da sua cugina, magari. Cul et chemise, come direbbero i nostri allegri confinanti – chissà che non arriviate a farvene capace pure voi. Quello del paraninfo non è mai stato un nobile servizio, nemmeno fra commilitoni che hanno condiviso la stessa branda. Chiaro?

DE MORA            - (confuso) Persisto nella mia ignoranza, Vostra Grazia.

IL PRINCIPE       - Naturalmente, da perfetto poliziotto, dell’ignoranza voi avete fatto una professione... Par - dessus, tout pas trop de ruse però! (a sorpresa) Il tuo parere, Gabrielle? Ha rivolto la domanda a una graziosa fanciulla che ha
ascoltato, immobile e imbronciata, nell’invaso
dell’entrata: un caratterino tendenzialmente alquanto
“camp”, persosi, chissà     come, capitando, inesplicabilmente, in una polverosa commedia di Sar-dou.

GABRIELLE        - (urtata e urtante) Se proprio dovessi dir la mia, babbo, troverei ancor meno nobile trattar con oscure minacce uno che non può difendersi per contratto, approfittando della volubile quanto ipotetica circostanza di passargli uno stipendio, quando glielo si passa, che gli consente, a malapena, di non morir di fame, e fintanto che glielo consente, coll’unico vantaggio di non ingrassare.

DE FLAVEURS   - (stupefatto) Altezza?!...

IL PRINCIPE       - Nessuna meraviglia, monsignore. È il destino dei padri che si mangiano la camicia per tirar su, alla moderna, i figli, nei collegi svizzeri.

DE FLAVEURS   - La patria di Calvino! (e si tiene dentro il resto)

IL PRINCIPE       - Rischi che si corrono. E, adesso, signori, grato se mi lasciaste sorbire il mio caffè mattutino e assaporare il mio sigaro in pace. Mi terrà compagnia Sua Altezza. Ho bisogno di pensare e ciò mi sfinisce. I due gentiluomini si inchinano apprestandosi a ritirarsi, mentre il... sovrano si lascia andare in una poltrona; ma deve avvertire qualcosa sotto il cuscino, poiché si mette frugarvi e, ritira la mano con qualcosa di indecifrabile, ma non per questo, meno sospetto. E questa che cosa sarebbe, per esempio?

DE MORA            - (balbettando) Potrei sbagliarmi, ma così, ad occhio... vossignoria permettendo, una leggera bomba ad orologeria, direi.

IL PRINCIPE       - Meno male che è leggera. È il panico, o qualcos’altro che deciderà la regia.

DE FLAVEURS   - (accoppiato a un segno di croce) Vergine della misericordia, un attentato?!

IL PRINCIPE       - (un impeto di collera) Sotto il mio culo! E non c’è bisogno del mio permesso. (di colpo, calmo e riflessivo) D’altro canto, dovendo collocare una bomba per un regicidio, quale posto più adatto? Nei suoi panni, avrei fatto lo stesso; tutto ciò non è privo di logica. Semmai, l’esagerazione sta nel regicidio... Che ora è?... Ho domandato che ora è?... Per piacere, che ora è?

DE FLAVEURS   - (dopo un po’) Sua Grazia ha domandato che ora è.

DE MORA            - (tremebondo ed afono) Non ho l’orologio. Che ora sarà, eminenza?

DE FLAVEURS   - Il mio s’è fermato. Fa mezzanotte e son passate le nove. È in ritardo, evidentemente.

GABRIELLE        - Ha la bomba in mano, Mora, guardi che ora segna. Che bomba è, altrimenti?

DE MORA            - (inebetito) Fatalità, s’è fermato anche l’orologio della bomba.

IL PRINCIPE       - (fuor di sé) Possibile che, stamattina, non si riesce a sapere l’ora perché non c’è un orologio che funziona? Niente che funzioni in questa reggia!

GABRIELLE        - Succede, papà, e ringrazia il cielo che è una domanda che puoi ancora fare. Tutto fa supporre che, a quest’ora avrebbe dovuto essere già scoppiata, penso.

DE MORA            - Evidente che non era un orologio svizzero. Trucco calcolato.

DE FLAVEURS   - Calcolato o no, bisogna sguinzagliare la polizia. (alla Scarpia) Ogni sbirro all’opera, non dar tregua. Siamo minacciati tutti: non si tratta più di guanti e di escrementi.

IL PRINCIPE       - (già su tutt’altro binario di pensiero) Ah, nell’ira m’è sfuggito un “sotto il culo”. Censurato: scordarsene. Lo si consideri un “sotto il sedere”... benché suoni stonato per via della cacofonia.

DE FLAVEURS   - Per carità, sire... il culo è quel che ci vuole per certe operazioni delicate.

DE MORA            - Non ditelo nemmeno, maestà. Stava benissimo cu... così. L’emergenza è emergenza.

GABRIELLE        - Non farci caso, papà. Esiste? Ha un nome? Perché privarsene? Ipocrisia dell’etichetta; gliel’avranno pur dato per qualcosa.

DE FLAVEURS   - (il suo chiodo fisso) Che si fa?... Do disposizione per l’abbattimento e la congrua modificazione di un paio di alberi del parco, Vostra Grazia? Ci decidiamo?

IL PRINCIPE       - (buonsenso) Mancherebbe altro!.... Poi, non ci darebbero più pace in nome dell’ecologia, come nemici del verde. Neanche pensarci. Accontentatevi di un Te Deum. Privatissimo che nessuno ne sappia niente; non troppo mattutino che ci costringa a una levataccia. Segreto di Stato. E che costi il meno possibile! Un Te Deum economico e latitante da non trasformare in propaganda sovversiva.

DE FLAVEURS   - Le candele, almeno, si potranno accendere?

IL PRINCIPE       - Con misura, però, tra di noi e a patto che non si facciano sentire le campane, che, ogni volta, ci si rimette i timpani.

DE FLAVEURS   - (sul punto di sbottare) Un Te Deum senza campane è come la Tetrazzini senza voce. Inconcepibile.

IL PRINCIPE       - (paziente) Cercate di frenare la vostra grandeur, eminenza. È poco cristiana. La superficie dello Stato non supera la piazza maggiore di Mentone. Se fosse per voi, i nostri Te Deum li sentirebbero fino a Sanremo.

DE FLAVEURS   - Ho capito, un Te Deum basso.

IL PRINCIPE       - Il più basso e clandestino possibile.

DE FLAVEURS   - Se questa è la vostra politica, sarà fatto.

IL PRINCIPE       - La mia politica!?... Ancora, ancora, l’anarchia pazienza, sono gli incerti del mestiere, ma guarda qui che porcaio!... Gli attentati? Incidenti di percorso. Vogliono farci fuori? Lo facciano, almeno, nel rispetto della creanza, e un po’ di professionismo, vivaddio! È il minimo che si possa pretendere da attentatori seri. Siamo un paese di dilettanti?

DE MORA            - Si rassicuri, Vostra Grazia: noi si vigila fin da questo momento. Questo terrorismo deve finire e finirà. Contate su di noi.

IL PRINCIPE       - Stavo in pensiero di non sentirmelo dire. Che niente niente, mi domandavo, si siano dimenticati uno dei fondamenti del prontuario?

DE FLAVEURS   - Voi ci offendete, maestà. Ciononostante, ossequi. E si son entrambi già dileguati...

 IL PRINCIPE      - Qua, figliola, siedi a tenermi compagnia. Essa vi si adatta con visibile malagrazia. Appena seduta, apre un libro che s’è portata dietro arrivando.

GABRIELLE        - Maledizione, m’han fatto anche perdere il segno. Evidentemente, ci mette poco a trovarlo, poiché si sprofonda subito nella lettura, neanche si trovasse sola ai margini d’un deserto. Il padre subisce, sopporta e sospira prima di contattarla.

IL PRINCIPE       - Così, Gabri?

GABRIELLE        - Così come?

IL PRINCIPE       - Sono i soli momenti della giornata che si può rimanere un po’ insieme, e ti metti a leggere?

GABRIELLE        - Il caffè mi batte il nervoso fin l’aroma, fumare m’è proibito perché nel 1870 le ragazze non lo possono ancora fare. Cosa pretenderesti? I salti mortali in contemplazione di te che sorbisci il caffè e mi ammorbi coi tuoi sigari puzzolenti?

IL PRINCIPE       - È un Virginia, Gabri!

GABRIELLE        - Evidentemente la verginità ha cattivo odore. E poi, mi preme finire questo romanzo. Ho curiosità di sapere se la baronessa rimane incinta.

IL PRINCIPE       - (senza smettere di scuotere il capo) Incinta di chi?

GABRIELLE        - Di chi dovrebbe rimanere incinta una baronessa? Dello stalliere: Julien! Han sei cavalli nella scuderia, non dovrebbero avere un Julien che ci bada?

IL PRINCIPE       - Una baronessa?

GABRIELLE        - Una baronessa: Odette. Sei cavalli è un minimo e uno stalliere è ancor poco.

IL PRINCIPE       - Ma un Julien è il massimo.

GABRIELLE        - Cosa pretendevi, che lo dividesse a metà colla vicina di casa che non ha neanche da mangiare?

IL PRINCIPE       - E poi, Odette... è un nome da put... non da baronessa.

GABRIELLE        - Che ti devo dire? Non s’è battezzata da sé. Se l’è trovato addosso. A lei piace.

IL PRINCIPE       - ... Dello stalliere?!

GABRIELLE        - Quante storie, papà... Dovresti vedere che torace, che muscolatura, che occhi, che gambe, che bocca – ci passerebbe un landò – che tutto... e venticinque anni, senza contare quello che non si vede... contro un marito di sessanta mezzo paralizzato, col catarro e niente altro, ma proprio niente, sai niente?

IL PRINCIPE       - Da che parte, paralizzato?

GABRIELLE        - A macchie, a pelle di leopardo. Capirai...

IL PRINCIPE       - Ma è barone dappertutto.

GABRIELLE        - No. Non dappertutto... In pochissimi posti. Non essere curioso, che, poi, lo paghi col malditesta.

IL PRINCIPE       - Lo credo bene. Alla tua età, lettura del genere, una minorenne!?

GABRIELLE        - Sicuro. Mica i Giovani Poveri e i Padroni delle Ferriere circolanti alla tua Corte, che fanno dormire in piedi.

IL PRINCIPE       - (previo un non brevissimo silenzio di sconcerto) ...La mia Corte è anche la tua, figliuola: rispettabile... relativamente.

GABRIELLE        - È ben quello il grave.

IL PRINCIPE       - (lascia passare dell’altro tempo) ...Gabri... (Sprofondata nella lettura, ode ma non sente)

GABRIELLE        - ...Come prevedevo: è rimasta gravida. Ma, se ha buonsenso, abortirà, speriamo. Un secolo prima del referendum sull’aborto! Chiude il libro e lo depone su un tavolino. Avevi qualcosa da chiedermi?

IL PRINCIPE       - No, no, è passato.

GABRIELLE        - M’era parso.

IL PRINCIPE       - (altro se aveva qualcosa) Chi è che ti allunga da leggere quella roba?

GABRIELLE        - Qualcuno che l’ha già letta, ovviamente, e non s’è annoiato. Finito questo Balzac, ho già un Gauthier da incominciare: Mademoiselle de Maupin. Sottovoce, me ne parlano entusiasticamente.

IL PRINCIPE       - (colla voce che gli prude) Tuo cugino! Non occorre una meningite per arrivarci. Gauthier, quel dissoluto!

GABRIELLE        - Tira via, papà.

IL PRINCIPE       - (colle mani nei capelli) Come hai detto? Tira via?

GABRIELLE        - È proibito anche quello?

IL PRINCIPE       - No, no, figurati, le cameriere l’hanno sempre in bocca... il tira via, voglio dire.

GABRIELLE        - (friggendo) Fin che hanno in bocca il tira via, sai!... Charles, sì! È arciduca, è tuo nipote, siamo cresciuti insieme, è sano come un pesce, è normale come un carrettiere.

IL PRINCIPE       - Sarei curioso di conoscere la tua idea sui carrettieri.

GABRIELLE        - Del tutto rassicurante. Sono i carrettieri dai quali nasceranno i camionisti?

IL PRINCIPE       - I sudditi mormorano, Gabri, un po’ di riguardo al rango.

GABRIELLE        - Lo so, lo so. Ma cosa vi siete messi in testa? Il figlio del Kaiser?

IL PRINCIPE       - L’avvenire al quale puoi aspirare e sei destinata, e lo stai distruggendo colle tue stesse mani, soltanto quello, bambina sventata.

GABRIELLE        - È una fissazione! E, per favore, non chiamarmi bambina, e, per giunta, sventata.

IL PRINCIPE       - (palesemente a disagio) ...Qui, fra l’incudine e il martello: Francia disopra e Italia disotto, stretti come una tenera nespola fra le ganasce di una tenaglia, in permanente pericolo di venir stritolati e cancellati dalla carta geografica da un momento all’altro, non chiudo occhio, alla notte, passando in rassegna i residuati scapoli della banda dei Bonaparte e dei Savoia... Siamo tra due realtà fameliche, Gabri, pronte ad allungar le mani... Te le raccomando le sorelle latine e i loro Principali! Ci dobbiamo mettere in testa, tutti quanti, che, se la Francia, la quale esporta più rivoluzionari che Cognac, crede di essersene liberata, l’Italia, che, di una rivoluzione è sempre in credito, sa benissimo di doverseli tenere per chissà quanto ancora... Bene, non so come sia, ma per noi, il risultato è lo stesso: siamo tra due masnade di briganti che si tengono d’occhio. (sottolineatissimo) Facciamo gola, Gabri! La mano che non si può azzannare, la si lecca, non c’è altro destino per i deboli.

GABRIELLE        - Papà! Colui che ho da leccare, me lo scelgo io. Non so leccare, se no. Tu sragioni perché non mi conosci.

IL PRINCIPE       - I leccabili in circolazione sono sempre meno, per noi, purtroppo... e tu non trascuri nulla per farli girare al largo.

GABRIELLE        - Appunto. I tuoi Bonaparte, i tuoi Savoia, i tuoi Borboni, i tuoi Capeti, scordateli: leccateli tu e non perderci il sonno. Non fanno per me. E, principalmente, sai perché? Ah, un’inezia!...

IL PRINCIPE       - Perché? Il perdigiorno da leccare te lo sei già scelto, ecco perché.

GABRIELLE        - No. Perché non intendo cominciare, la sera delle nozze, col trovarmi alle prese di uno che, per arrivare in fondo, debba pensare di stringere fra le braccia il proprio attendente, mentre io “mi diverto” a perder tempo a contare le candele del lampadario sul soffitto, aspettando che mi sgocciolino addosso. Io cerco un uomo, non una Carolina. Danno molto più affidamento i carrettieri.

IL PRINCIPE       - (uno straccio) Beh... conforme. Ma, come fai ad essere così bene informata?

GABRIELLE        - (sicura come se ne avesse fatto la prova) —      Ma se lo sai anche tu!... Sono così tutti, più o
meno, i principi consorti, papà!

IL PRINCIPE       - (le mani nei capelli. È la seconda volta) —        Chi te l’ha detto? Il bel Charles, naturalmente. No,
no, parola d’onore. Non dovrai contare le candele e, se
sgocciolano, lasciale sgocciolare, non fanno che il loro
dovere, son lì apposta, guai se non sgocciolassero;
calunnie, tutta invidia, tutta gelosia, Gabri, te lo
garantisco io.

GABRIELLE        - (rotta) Papà, sei stato un principe consorte pure tu, o te ne sei dimenticato? Non mettermi cimici in testa.

IL PRINCIPE       - È ben perché me lo ricordo che te lo garantisco. Io non ho mai ridotto nessuna a contare, le candele. E tu ne sei la prova materiale.

GABRIELLE        - Bah... per quello, la paternità è la più opinabile delle parentele.

IL PRINCIPE       - Ma ti rendi conto che stai offendendo la memoria di quella santa donna di tua madre?

GABRIELLE        - Non ci si intende, caso mai la sto difendendo.

IL PRINCIPE       - (di colpo, tono agli antipodi, seccatissimo) No, no, questa piega, no, così non si può andar avanti, signorina, mancherebbe altro! C’è un limite anche a lasciarvi fare, eh Cristo! Lei è un anacronismo inammissibile: esagera per far risultar tutto un po’ più vero, ma diventa tutto molto più falso. Si metta in testa che ha per le mani un personaggio serio. Non lo maltratti a questo punto. Va bene il dispregio delle tombe, ma questo è... non so neanch’io. Non si inverano i personaggi coprendoli di fango e di ridicolo, c’è tutto il tempo in avvenire per questo, non si preoccupi. Qualcuno bisogna pur che vi fermi, per il momento.

GABRIELLE        - L’ottocento mi va stretto, commendatore, non ci sto. Poi chi me lo paga lo psicanalista?

IL PRINCIPE       - Non so che farci. Ricorrete al Sindacato, battetevi per l’indennità di psicanalista. La otterrete senz’altro, non dubiti.

GABRIELLE        - Mi par di essere l’attrice giovane di un vaudeville di Labiche. Chi mici tira fuori?

IL PRINCIPE       - Guarda, guarda, ci si permette di conoscere e di giudicare Labiche, un semiclassico. Tutti uno, voi giovani: imbrechtati e impirandelliti, per poi farvi scespizzare dal primo che passa. E cosa credete, che, a me, l’ottocento mi stia largo?

GABRIELLE        - Non conosco le sue misure... Non mi piace la parte: non me la sento dentro, lo vuoi capire? Non so cosa farci, ecco tutto, abbia pazienza. A me, il personaggio deve possedermi, mi ci voglio sentir penetrata. Io sono un’allieva di Strehler!

IL PRINCIPE       - È ben quello! La rivolta dell’attrice giovane! Complimenti. Ah, andiamo bene. Con quello che costa alla compagnia. Un ruolo di Principessa e non le piace la parte, non se la sente dentro! Ma per cosa credeva di essere stata scritturata: per sentirsi dentro Semiramide, La signora delle camelie, Cleopatra, La nemica? Madre Coraggio?

GABRIELLE        - Spero soltanto che le principesse in avvenire non siano altrettanto sceme, stucchevoli... e vergini. Vergini! Niente di più.

IL PRINCIPE       - Per l’incomodo della verginità non si preoccupi, rimarrà disoccupato per molto meno. In avvenire, non ci saranno probabilmente, neanche più principesse, può contarci.

GABRIELLE        - Quanto a questo, nemmeno più re ci saranno. Vorrò veder lei.

IL PRINCIPE       - Io ho poco da perderci. Allora, sarà in pensione alla Casa di Riposo di Bologna. Cane come, modestamente, so di essere, è già un miracolo che mi sorprende adesso, il continuare a cercarmi per parti di padre nobile alla Luigi Cimara buonanima, come quella che sto recitando in questo momento se non mi si sciupasse ogni effetto e mi piace, mi piace, io me la sento dentro: mi penetra, lo vuol capire?

GABRIELLE        - Routinier!

IL PRINCIPE       - (per niente risenitito) Routinier, ma routinier serio, come mi hanno insegnato e come so recitare. Non tutti possono essere Ruggero Ruggeri o Sarah Bernhardt, signorina. Sarebbe un disastro. Non ci sarebbe più niente da fare, né per me, né per lei... E adesso che, tramite suo, l’autore s’è sfogato rendendo pubblico il proprio pensiero sulla commedia e sull’interpretazione, nonché palesando che lui non ha le carte in regola più di noi, si chiude la parentesi e si cerca di riaccostarsi, per quanto è possibile, al copione, deviando il minimo indispensabile a farlo stare in piedi, se non le dispiace; d’accordo? Mirava alla solidarietà dei suoi compagni? L’ha avuta: stop!

GABRIELLE        - Va bene. Ci riprovo, ma garantisco quel che garantisco. Siamo attori, no? E che se ne accorgano che stiamo recitando! O ci illudiamo di essere presi sul serio? Ce ne vergognamo? Che, forse, un falegname, per piantare un chiodo, si va a nascondere al cesso?

IL PRINCIPE       - Candore, candore, candore!! È il fascino del ruolo: candore! E innocenza!

GABRIELLE        - Come desidera. Candore: io la chiamo stupidità.

IL PRINCIPE       - Gabrielle è una giovinetta innocente che non sa niente di niente.

GABRIELLE        - E magari trascorre le sue giornate ad arrossire e a far la maglia.

IL PRINCIPE       - L’ha detto.

GABRIELLE        - Se la cretina sapesse un decimo di quello che so io, non diventerebbe rossa neanche se le dessero fuoco, dopo averla cosparsa di una latta di benzina (gesto verso la platea). E, quelli là, altrettanto. Solo senza arrossire posso tentare di recitarla. Io sono incapace di rossore. Non ho firmato alcun contratto in proposito.

IL PRINCIPE       - Va bene, quando dovrebbe arrossire si volti di spalle, facciamola apparire una trovata di regia: il pudore di arrossire. Ma lo faccia sentire quel pudore, però, altrimenti i sicari mafiosi e ndranghettari della critica non la bevono. Su. Riprendiamo da dove ci si è interrotti e che Dio ce la mandi buona: posizione. Bisogna che Dio non sia del suo parere, poiché, non hanno ancora avuto manco il tempo di assestarsi, che – anticipando, trafelato, la propria entrata – devono tener testa al conte Mora latore di una bella notizia (secondo lui).

DE MORA            - Vittoria, vittoria!

IL PRINCIPE       - (soprappensiero) Con chi eravamo in guerra?

DE MORA            - L’abbiamo preso!

GABRIELLE        - (alzando il capo dal libro che s’era rimessa a leggere) Vi sarete sbagliato, avrete voluto dire “le abbiamo prese”.

DE MORA            - Il mostro, abbiamo preso il mostro della notte. Stava in una forra del parco, cogli occhi in su, incantato a scrutare fra le gambe del grande Ercole del parco. A proposito del quale, non ho buone notizie da riferire. Il vandalismo di questa notte lo ha privato di quattro dita della mano destra. Non gli è rimasto che il mignolo, una miseria. Così diventa assolutamente inattendibile sostenere che abbia potuto compiere le nove fatiche che si vanta d’aver superato.

IL PRINCIPE       - Se ne riduce il numero: avvertire le Guide turistiche.

GABRIELLE        - Mi domando, piuttosto, come farà, ora, a grattarsi con un dito solo rimastogli.

IL PRINCIPE       - Altro che grattarsi, se ne fanno di cose con un dito solo! E poi, chi ha detto che ci si debba grattare solo con la mano destra? Gli resta sempre la sinistra. Per una grattata, ne ha d’avanzo. Dieci dita a testa, più quelle dei piedi, che, se esercitate, sanno far qualcosa anche loro, ho sempre trovato che siano uno dei grandi sprechi della Natura. Ma già la Natura non ha mai avuto il più remoto senso del risparmio...

GABRIELLE        - M’è sfuggito così senza riflettere. Probabilmente perché li ho visti sempre far tutto colla destra – posso dirlo questo?

IL PRINCIPE       - Colla destra ci si sbottona solo i pantaloni e appena appena.

GABRIELLE        - Chiamalo niente!

IL PRINCIPE       - La vita non si riduce soltanto a uno sbottonamento di pantaloni, figlia mia.

GABRIELLE        - Però ha la sua importanza anche quello.

IL PRINCIPE       - Ad ogni modo, certe cose si pensano, non si dicono... E va bene, roviniamoci, scovate uno scalpellino, Mora, che glieli riattacchi; Sua Altezza lo preferisce con tutte le sue dieci dita. Ma che costi poco. Farsi mettere un dito al posto giusto, oggi costa un occhio della testa... E che gli riduca un po’ i piedi già che c’è. Un’indecenza! Ha perso altro che turbi la vista?

DE MORA            - Le indecenze gli son rimaste tutte dove dovevano essere. Comunque, me ne accerterò meglio di persona. Casomai, e se viene per poco, gliele faccio rinforzare.

IL PRINCIPE       - Non occorre, mandate un piantone. E non c’è nulla da rinforzare; è sufficiente quel che ha e gliene avanza, cosa pretendete?

DE MORA            - Son cose delicate. Non se ne ha mai abbastanza. Vanno verificate da chi se ne intende. Ho pratica. Ma alla principessa non par vero di prevenirlo. Si alza, getta il libro sulla poltrona.

GABRIELLE        - Vado a verificare io. Ho più occhio e più tatto: so quel che ha bisogno. Non m’è mai parso che sia abbondante di piede. (E scompare alla vista)

IL PRINCIPE       - Il collo, scommetterei, che, al posto dell’Ercole mutilato, troverà suo cugino tutto intero ad aspettarla. Voi che ne pensate?

DE MORA            - Da interprete del mio personaggio, come l’han ridotto, io avrei tagliato senza misericordia questo lato volgare e malizioso della vicenda, travasando l’arciduca tutto sul versante dell’amicizia che gli si addice meglio. Io e il visconte, quando non abbiamo scritture, facciamo la fame insieme in un monolocale con uso di cucina. Ma non sono che egoismi personali con poca importanza.

IL PRINCIPE       - Alt, se non ti dispiace non anticipiamo... Sicché... E che ceffo ha quest’uomo?

DE MORA            - Un ceffo da donna, sire.

IL PRINCIPE       - Un travestito? Dio degli dei, in un copione per le anime pie! Non si fa la commedia!

DE MORA            - ...Nemmeno questo scrupolo, tempo verrà.

IL PRINCIPE       - Spiegati meglio.

DE MORA            - È di sesso esplicitamente femminile, ecco tutto, il massimo della provocazione.

IL PRINCIPE       - Una terrorista?! Ma tu pensa!... E da dove viene? È la Russia a mandarcela, senza alcun dubbio. Ha agenti segreti per ogni dove.

DE MORA            - I nichilisti non hanno patria, non hanno sesso, parlano tutte le lingue e sono annidati ovunque. Hanno un avvenire, in altre parole: assisteremo a delle belle. Cambieranno solo il nome.

IL PRINCIPE       - Mi piacerebbe vedere che ceffo ostenta, questa megera.

DE MORA            - Spiacente, l’infame non dispone di un ceffo e non è una megera. Sarebbe più appropriato parlare delle Sette tentazioni. È da affrontare non prima di una doccia gelata sotto l’acqua santa.

IL PRINCIPE       - Voi non vedete che sesso... Porta armi?

DE MORA            - Deve essersi liberata dal pugnale disperdendolo in qualche cespuglio, dove si finirà per rinvenirlo. Al presente, ci si può fidare: è innocua. Posso trascinarla di prepotenza alle ginocchia di Vostra Grazia.

IL PRINCIPE       - Voi non trascinerete nessuno, non siamo all’osteria. Da oggi in poi è proibito trascinare. Capito? (estraniato) Nessuno vi ha ancora insegnato che non si maltrattano le prime attrici? Col temperamento della... (colei che sarà)

DE MORA            - È un ruolo che detesto. Dipenderà da quello.

IL PRINCIPE       - Naturalmente. Si detestano sempre i ruoli ai quali si aspira senza speranza.

DE MORA            - Devo portarla dentro in braccio?... A piedi?

IL PRINCIPE       - Da un’esasperazione all’altra. I piedi li ha?

DE MORA            - Penso di sì. Li ha, senz’altro, adesso che ci penso.

IL PRINCIPE       - E allora, che li adoperi. Venga coi piedi! Io non ho nulla contro i piedi.

DE MORA            - (tra sè) Si vede che è un feticista del piede... (e dà ordine, oltre l’uscio) A piedi!... Toh, è già qui. L’impazienza di entrare in scena delle prime donne! La claque le somministra la congrua dose ricostituente di applausi pattuiti, ed è pronta all’attacco. È iscritta sul passaporto come Eusapia Blounth e, fino a prova contraria, nulla consente il sospetto che non si tratti delle sue vere generalità... Come poi un nome simile abbia potuto varcare l’Atlantico è uno dei tanti misteri dell’emigrazione, non meno inspiegabile di quello per cui, dall’America, i pomodori sono arrivati in Europa. 8 EUSAPIA (di rabbia e d’impeto) La decrepita Europa non si smentisce. A ottant’anni dalla Rivoluzione Francese, ci si permette ancora di metter le mani addosso a una povera donna incensurata, rea di essersi impossessata di una rosa che diceva “coglimi”. Sono stata palpata e frugata dappertutto (un’occhiata da intenditrice al responsabile dell’arresto) E ancora, ancora che non s’è trattato del solito sbirro colla barba lunga, violento e lurido.

DE MORA            - Lei è prevenuta e ingiusta, madame: sono astemio, la barba ogni giorno e la doccia tutte le mattine oltre a una sera sì e una sera no col sapone e uno spruzzo di “Arpège”.

EUSAPIA             - (volubile) Perché, scusi, salta una sera di sapone?

DE MORA            - (di malagrazia) Perché è sufficiente, i giorni dispari mi rovinerebbero la pelle; ammorbidirla è bene ma rammollirla è nefasto, ne risente il muscolo.

EUSAPIA             - Curar la pelle sì, però, égalité, liberté, fraternité: parole mai sentite nominare, vero?

DE MORA            - Deve aver pazienza, siamo in provincia, tutto ci arriva in ritardo; colle nostre Poste, hanno ancora da esserci recapitate.

EUSAPIA             - Da noi, barbari americani, che siamo più distanti, sono arrivate da un pezzo, ché, quasi, le abbiamo superate.

DE MORA            - Sapesse la difficoltà di conservare il primato assoluto della posta più lenta del mondo! È un nostro hobby, sempre coll’angoscia che ce lo portino via. Anche a prezzo di quelle buone, le cattive notizie non è mai abbastanza tardi il comunicarle. Per noi il telegrafo è un’invenzione incomprensibile, oltre che diabolica.

EUSAPIA             - Non stento a crederlo. E nessuno ci mette rimedio?

DE MORA            - Pare una fatalità: c’è sempre una cosa più urgente che preme.

EUSAPIA             - Ma...?... (esclama dopo aver fissato Sua Grazia) ma..?

IL PRINCIPE       - (idem) Non è possibile...!? (E, altrettanto di concerto, esplodono in una risata convergente)

EUSAPIA             - Bernard!?

IL PRINCIPE       - Eusapia!?... Non c’è più bisogno della vostra presenza, conte; potete alzare i tacchi.

EUSAPIA             - (salutino a mamma) Ci si vede, bel giovane.

DE MORA            - (balbettando, nel guardare la porta) Compatibilmente col servizio, mi farò premura... e... non so... vedremo... Conforme.

EUSAPIA             - E cosa?

DE MORA            - ...Dipende. Vado. (tra sé) Si conoscevano. Quando mai un re e un nichilista han fatto comunella? Schiavitù dei piedi?... Che cortigiana! Sparpagliare in giro persino i preservativi...; per non farseli trovare addosso, evidentemente... Vigilare. (È andato)

EUSAPIA             - Ma tu dimmi!...

IL PRINCIPE       - Cose che succedono solo nei copioni di Sardou! Ah, devo saper tutto: come mai da questi paraggi?

EUSAPIA             - Passavo...

IL PRINCIPE       - Adorabile! Per primo, le mie scuse che quegli zotici si siano permessi di mettervi le mani addosso. Che volete?... Polizia!

EUSAPIA             - Anzi. Non avevo ricordi, sul mio corpo, il calore prensile delle mani vaste di un giovanotto di bucato, atletico, predace e un poco tonto: quelli che non creano complicazioni. Li adoro. Van diventando. di una rarità!... Da noi son solo rigurgitanti di vitamine, più gentili e ben rasati e disinfettati; per tutto il resto, preferibili quelli europei.

IL PRINCIPE       - Sempre lo stesso temperamento cosmopolita. Non cambiate mai, voi.

EUSAPIA             - Sì e no; gli anni incalzano, amico mio. Voi, piuttosto, danzate ancora tanto bene il valzer?

IL PRINCIPE       - Che altro sappiamo fare. È il nostro mestiere. Siamo tutti figli di Giovanni Strauss in attesa di essere ereditati da Franz Lehar.

EUSAPIA             - Chi è?

IL PRINCIPE       - Uno di loro prossimo a venire, non badate all’anacronismo (le prende le mani e le sbaciucchia le punte delle dita) Le cose che sanno queste dita viziose... La mia indimenticabile americana del galà all’Ambasciata di Parigi... Non mi par vero... Non uno sguardo che non fosse catturato da voi, gli uomini di concupiscenza, le donne d’invidia. E il ricevimento avrebbe dovuto essere per me.

EUSAPIA             - Il bello della festa. Permaloso? Non me l’avete ancora perdonata?

IL PRINCIPE       - Non si perdonano mai certi ricordi che ti rimangono infitti nella pelle come spini. Le cicatrici del piacere non sono meno indelebili di quelle del dolore.

EUSAPIA             - (sognante) Due ne restano, in me, sonnecchianti nella mente.

IL PRINCIPE       - Una la so: la vostra risata scoprendo che portavo il busto, come tutti gli ufficiali con pretesa di eleganza. E l’altra?

EUSAPIA             - L’altra!?... Trovarmi, al risveglio, accanto un animale sconosciuto indecentemente nudo, oscenamente sessuato e irresistibilmente attraente.

IL PRINCIPE       - Le camere del Ritz sono sempre state insopportabilmente surriscaldate. Rimaner nudi rientra nel prezzo.

EUSAPIA             - Surriscaldato eravate voi, senza tanti avverbi. M’ero sentita la bella Otero aggredita da Jack lo Squartatore.

IL PRINCIPE       - Non siete la prima a dirmelo. Mi accadeva spesso,        allora,  senza   divisa.

EUSAPIA             - Quella era rimasta sul tappeto. Mah, quante cose in tanto pochi anni!... e vi ritrovo... (ineffabile) sovrano... la vita!...

IL PRINCIPE       - E voi? Raccontate.

EUSAPIA             - Io? È presto detto: stritolata come una 9 mandorla tra lo schiaccianoci di due parole: maritata e vedova.

IL PRINCIPE       - (senza mai calare dalla banalità sofisticamente galante) Non ditemelo. Poveretto, se non altro la prima ne avrebbe fatto il più invidiabile degli uomini.

EUSAPIA             - (c. s.) Risparmiatevi la fatica di approfittare della seconda per appendervi la corona delle condoglianze. (amabilmente conservativa) Il curioso accidente ebbe la sua conclusione a Napoli, dove ero stata trascinata per via di una cura che avrebbe dovuto guarirlo.

IL PRINCIPE       - Il sole, sventurato, capisco: polmoni?...

EUSAPIA             - (inafferrabile) No, no... tutt’altra cosa... In un certo senso.

IL PRINCIPE       - Lo dite così?

EUSAPIA             - Ne ho donde.

IL PRINCIPE       - Non vi piaceva, vi maltrattava, non andavate d’accordo?

EUSAPIA             - (a che la vaga irrisione?) Mai più. Apparteneva alla più delicata, squisita, affascinante, spensierata... e irraggiungibile specie umana; al mio paese – esagerato in tutto – quando si è ricchi, si è ricchi e quando si è gai, si è gai.

IL PRINCIPE       - Non si è mai ricchi abbastanza, e si è sempre gai fin troppo. Lasciatevelo dire da uno che affoga nei debiti e langue nella malinconia. Me ne intendo, non per vantarmi.

EUSAPIA             - Crear ricchezza è una virtù.

IL PRINCIPE       - Lo dicevano anche gli antichi. (ammirazione? Disprezzo?) In tal senso, siete dei classici.

EUSAPIA             - Ricchezza è potere.

IL PRINCIPE       - Rimarrebbe da stabilire se il potere è ricchezza. Ma è un problema che non ci affligge... Di che male soffriva?

EUSAPIA             - Mah... si può dire stava male e nessuno visse più felicemente la propria malattia: viveva per la cura, ecco. Gliel’aveva prescritta, pardon, consigliata, il suo medico personale al seguito, un amico di college.

IL PRINCIPE       - E la seguì?

EUSAPIA             - ...Un’antica cura cinese rivalutata, cercavano di spiegarmi.

IL PRINCIPE       - Come la puntura?! Cinese, intendo.

EUSAPIA             - (a colpi di fioretto) Puntura?... Dipende dall’ago... in un certo senso. Cinese? Però, già molto diffusa, ma ha mille altri nomi... Forse esagerò. Si può dire che soccombette alla cura.

IL PRINCIPE       - Un’overdose?

EUSAPIA             - Probabilmente. Spirò, fulminato, tra le braccia del suo amico dalla ricetta facile, una fine straziante, a pensarci.

IL PRINCIPE       - Sofferse molto?

EUSAPIA             - Scusatemi, ma non li ho disturbati a domandarglielo; non pareva. Anzi, sembrava il contrario. Mah. Se ha sofferto, comunque, nessuno ha sofferto più gaiamente di lui; ma la vita è troppo breve per essere goduta tutta.

IL PRINCIPE       - Mai abusare delle dosi. Bisogna riconoscere che, con tutti i suoi splendidi progressi, la medicina moderna, talvolta agisce un po’ spericolatamente, no?

EUSAPIA             - A vero dire, nel suo caso, si tratterebbe di medicina antica riciclata.

IL PRINCIPE       - I cinesi, chi li capisce? Siamo sempre lì, il pericolo giallo!... Oh povera amica mia. E adesso?

EUSAPIA             - Adesso, vado trascinando su e giù per la carta geografica...

IL PRINCIPE       - Il vostro dolore, comprendo.

EUSAPIA             - E dàlli! La mia noia e le tentazioni accumulate durante questi anni di inedia forzata. Si dà il caso che noialtri Yankees, senza qualcosa di concreto e producente per le mani, non si riesca a stare. È il nostro vizio nazionale. Fare, fare!

IL PRINCIPE       - Forse l’unico vizio da cui noi si vada esenti. Non ci son due popoli uguali.

EUSAPIA             - ...Ma voi, voi piuttosto? Adamo nel paradiso terrestre.

IL PRINCIPE       - Senza Eva... Io all’interno d’un’operetta, derubato dello spartito. Avete idea sentirsi il tenore della Vedova Allegra privato della... vedova?

EUSAPIA             - È un’avance?

 IL PRINCIPE      - Fate voi... Facciata, apparenza, paravento, maschera... ma la realtà? “La mia allegrezza è la malinconia” diceva nonsochì. Gratta il carnevale, c’è sotto un funerale.

EUSAPIA             - Commediante!

IL PRINCIPE       - Chi dei due è più bravo?

EUSAPIA             - (volubile) Eravate padre di una giovinetta, se non erro. Sarà cresciuta.

IL PRINCIPE       - Non errate. Fin troppo.

EUSAPIA             - Adorabile, naturalmente.

IL PRINCIPE       - La conoscerete. Così dicono.

EUSAPIA             - Voi no?

IL PRINCIPE       - Mah... Oggi, vengono su a modo loro; alle volte, ho l’impressione di un essere planetario, scaraventato sulla terra dal futuro. Non riesco a capirla... Una creatura, tutto considerato, indisponente, che abbia fatto... il sorpasso di non so quante generazioni, più o meno.

EUSAPIA             - Là, là! Ecco rispuntare l’insopprimibile Destra storica, anche come padre. Non datevi aria di vittima: io “vi so”. Non ci deve essere uno, qui, che non vi adori. Vi immagino sfilare nelle parate ufficiali, il cuore dei vostri sudditi!... Non ditemi di non galoppare su un cavallo bianco... come al “bois”.

IL PRINCIPE       - Come si vede che non siete di queste parti. È già molto se non mi pigliano ad aranciate in testa, danneggiando la coltura degli agrumi che è la nostra unica risorsa.

EUSAPIA             - E voi fatele di carnevale; saranno in tono, colle arance in testa.

IL PRINCIPE       - Scherzate, prendetemi in giro; il mio povero fratello non poteva farmi regalo peggiore di questa incomoda eredità prima del previsto. La spirocheta pallida non ha mai avuto riguardi verso la nostra famiglia, proprio no. Il destino della mia vita era Parigi. “L’espace d’un vous”.

EUSAPIA             - Fareste meglio a chiamarlo il destino della vostra fannulloneria.

IL PRINCIPE       - Non si eredita la regalità. Da sovrano – vi fa sorridere questa parola, eh, qui e sulle mie labbra – sono una frana. Il mio – “mio”!? – regno, quello sì non vale un cavallo, è il più piccino ma anche il più turbolento dei regni. C’è un difetto d’origine. Chiudo nel petto un cuore da borghese. Non sono né abbastanza liberale per governare da democratico, né abbastanza despota per governare da tiranno: sarei solo abbastanza sensuale per governare da libertino, ma non è più di moda. Ho sbagliato secolo, ecco tutto. Oh, una minuscola Signoria italiana di tanto tempo fa!... Mantova... Verona... Ferrara... Urbino... ma, ormai, non esistono che nelle opere di Verdi e Donizetti.

EUSAPIA             - (sempre celiando) Deve essere scomodo sbagliar secolo, e nello stesso tempo divertente. Incorreggibile tenore!...

IL PRINCIPE       - (ma sta virando verso la serietà? Gira solo la testa) Non faccio che pencolare di continuo. Mi rendo conto che, per un’ottimista che viene dal paese della volontà, dell’iniziativa e dell’affarismo, possa sembrare poco meno che scandaloso, ma a noi, scusate: io, non posso cambiare, ci circolano nelle vene due filosofie differenti. Probabilmente sono vecchio, sono nato vecchio... lo sono sempre stato, tolto qualche breve periodo... Non mi son saputo sistemar bene nella vita. Seduto, sempre, di traverso, come sul bracciolo di una poltrona zoppa, pronto ad alzarmi, disposto ad andarmene.

EUSAPIA             - (irridente) Già, siamo sempre lì... tolto qualche breve periodo.

IL PRINCIPE       - ...E così, facciucchiando, nella nebbia, navigo a vista, alla cieca, fra gli scogli, sulle mine.

EUSAPIA             - Applausi. Però, ora basta; mentre voi facciucchiate, io che faccio, graziosa maestà?

IL PRINCIPE       - Basta?... C’è poco da sorridere. Avvicinatevi... Vedete, per esempio, laggiù?... Là, presso i confini del cosiddetto “regno”?

EUSAPIA             - Dove?

IL PRINCIPE       - Là, addosso al parco... dove finisce; quelle catapecchie... Bene, quel miserabile quartiere è la mia persecuzione... e, un po’ anche il mio rimorso: una mortificazione prima che una minaccia... Sicuro, in quei tuguri, in quelle botteghe oscure, si annida e fermenta la ghenga dei miei irriducibili... e screanzati nemici: l’Opposizione, come la chiamereste dalle vostre parti; la canaglia arrabbiata come, più propriamente, si chiamerebbe dalle mie, ché, della loro miseria, abbiamo una colpa relativa. Non gli va bene niente di niente. È sempre ingiusto quello che si fa e anche quello che non si fa; mai pro, immancabilmente contro: il partito del no, senza esclusione di colpi.

EUSAPIA             - È la sorte di ogni governo. Conosciamo. Ci si abitua: movimenta la vita di ogni giorno, non ci si fa caso.

IL PRINCIPE       - Una parola! Bisognerebbe non aver a che fare con un Rabagas.

EUSAPIA             - Rabagas? Che roba è? La marca d’un trattore?

IL PRINCIPE       - L’avete detto: l’incrocio tra un bisonte famelico e una mosca cocchiera, il loro burattinaio, l’occulto manigoldo che ne muove fili. Non c’è pericolo che si lasci scappare un’occasione, e, se non le trova, le crea. È la pattumiera che raccoglie, rigenera, esalta e dà fuoco a ogni più sconclusionato malcontento, trasformandolo, a suo libito, nella possibilità, indifferentemente, di una farsa o di una tragedia.

EUSAPIA             - (una spicciativa naturalezza) Punture di tafano. Liberatevene. A la guerre comme à la guerre. Non vorrete che sia l’America a insegnare all’Europa come si fa. La democrazia è invenzione vostra, noi l’abbiamo soltanto comperata da voi, e non avete ancora finito di farvela pagare. È maestra in questo genere di cose.

IL PRINCIPE       - Rabagas è peggio della guerra, come è peggiore la peste. Ha i suoi bravi dall’obbedienza pronta, cieca e assoluta, il suo giornale, i suoi cortigiani, i suoi giannizzeri, la sua polizia: una potenza, al nostro confronto. È più forte lui!

EUSAPIA             - Non vi par di enfatizzare un po’ per amor di teatralità?

IL PRINCIPE       - Ha persino la simpatia, quel becero! Ha tutto!

EUSAPIA             - E voi, da opporgli, soltanto la vostra aristocratica indolenza, ne son convinta. Ravissant!

IL PRINCIPE       - Eggià, a voi pare un gioco, un divertimento, una fiaba. Ci state a fare una scommessa con me? Quanto tempo mi date che tiro un calcio a tutto, abdico, chi s’è visto s’è visto, opto per la profes­sione dell’esiliato di lusso e torno a stabilirmi, a finire i miei giorni, a Parigi, donde non avrei mai dovuto allontanarmi? Solo, tenetevi bassa, in considerazione delle mie non floride finanze... Date retta a me, tra una cosa e l’altra, sto in una situazione tragica che non riesce a diventar seria.

EUSAPIA             - Piuttosto che rinunciare a una battuta, voi dareste il regno.

IL PRINCIPE       - Tanto, per quello che vale... A tenermi su, ormai, c’è solo la curiosità di vedere come andrà a finire.

EUSAPIA             - (soprappensiero, con noncuranza, però ben sensibile il punto interrogativo) E se fosse in buonafede? Vi siete mai posto la domanda?

IL PRINCIPE       - Quello là? Niente è impossibile. Per quanto ne risulta a me, è solo un mastino colla rogna, trombone, demagogo, e vanesio.

EUSAPIA             - Ah! Ah! Pur di non prenderli contropelo, sulla vanità dei maschi si può sempre contare, più che su quella delle donne. Dipende dal modo di solleticarla  – mio marito morì quasi persuaso di essere una bella donna ed era soltanto un bellissimo uomo. È col-l’ambizione che il compito si fa arduo. Il segreto sta nell’affrontarli separatamente, “in ordine sparso”. Non so, mi sa tanto che, con quello lì, come dite che si chiama?

IL PRINCIPE       - Rabagas.

EUSAPIA             - ...che, con quello lì, abbiate sbagliato tutto... Mi piace il nome, suona come una cannonata sparata a salve contro la grandine. È anziano questo feroce mammut?

IL PRINCIPE       - Più o meno la mia età.

EUSAPIA             - Piacente come voi?

IL PRINCIPE       - Non è a me che lo si deve chiedere. Par assai di più, da tutte le fanatiche che gli spasimano intorno.

EUSAPIA             - Ah!?... Dite... Spiegatemelo meglio.

IL PRINCIPE       - Per mettermi di malumore? Ci mancherebbe altro. Preferisco passare l’incarico al mio Richelieu.

EUSAPIA             - Il vostro che?

IL PRINCIPE       - Egli si considera una sorta di Segretario di Stato: il cardinale De Flaveurs che manda avanti, come può con molto sussiego, la baracca. Non si sa mai che mirabile monstrum potrebbe nascere da una vostra intesa. (intenzionalmente sostenuto, alla fine) Ma, adesso bando alle lagne; ve ne ho inflitte abbastanza; se non vi dispiace, amerei guidarvi personalmente a scegliere le vostre stanze, poiché è inteso che, fin da questo momento, dalla locanda vi trasferite a palazzo.

EUSAPIA             - Ma...

IL PRINCIPE       - Nessun ma; vi ho ritrovata e non me ne lascio privare. Come faremmo altrimenti, senza una prima attrice, a mandar avanti la commedia?... Eh?... Sì? Sarebbe un dono di Dio...

EUSAPIA             - Non occorre farglielo sapere. La mania di voialtri europei: procurarvi sempre il benestare del cielo.

IL PRINCIPE       - (estremo residuo di incredulità) Davvero?... Ma davvero?

EUSAPIA             - (pratica) Ti ho già conosciuto nudo, non farla lunga, Bernardo; passò quel dì per poterti ancora permettere di replicare il ragazzo sventato che devi essere stato.

IL PRINCIPE       - E poi c’è ancora chi trova da dire sugli americani! Lungo bacio, lingua in bocca e via. Ma cos’è? S’era intravisto qualcuno, inidentificato, soffermarsi ad osservarli attraversando la vetrata sul parco? Fatto si è, che fuori loro, dentro Gabrielle che, dopo aver scrutato qua e là.

GABRIELLE        - ... Ah; le voci. Cercava il suo romanzo, l’ha trovato e si dispone a precedere nella lettura sur place. Quanto passerà? Un minuto e, cautamente, ecco affacciarsi, assicurandosi che sia sola, il conte De Mora. Rassicurato, fa un cenno di via libera all’interno e introduce il bel Charles, una rutilante divisa da ufficiale degli Ussari napoleonica, appesa ad uno smagliante sorriso tenorile, e sotto, il nulla, salvo roba, all’altezza del cavallo dei pantaloni, beninteso, tutta la sua ricchezza.

DE MORA            - Sottovoce e occhi tesi. Avete poco tempo. Io vigilo. Semmai fischi; animo, dai, denti stretti e pugni serrati: sbloccati.

CHARLES            - Tu sì, sei un amico... Ce la farò? Gli stringe un bicipite da farlo gemere – un “ahi”– strozzato e, l’altro, via – indi raggiunge l’innamorata e la bacia sulla nuca. Duetto d’amore.

CHARLES            - ...Mi basta l’odore della tua pelle per sentirmi fremere, dalla punta dei capelli alle piante dei piedi, dell’ebbrezza che ti elettrizza immediatamente prima di starnutire, hai presente? Quasi svengo.

GABRIELLE        - (sibilato) Lussurioso!

CHARLES            - Tu no? Hai provato?

GABRIELLE        - Non ci ho mai fatto caso. A me succede di starnutire così di rado, sì e no un paio di volte ai primi di giugno, e siamo alla fine di agosto.

CHARLES            - (contrariato) Cristo, hai dei bronchi di ferro!

GABRIELLE        - La nostra malattia di famiglia non è l’asma bronchiale, tendiamo, caso mai all’uricemia e al diabete, ma la nostra vocazione è la paralisi progressiva. Dovrei cercare di allenarmi con qualche presa di tabacco da naso. Non c’è di meglio, per gli starnuti di una presa di buon rapè. Tu che ne dici.

CHARLES            - Puoi provare: rapè e Santagiustina. La verità è che non mi ami abbastanza. Saresti meno frigida.

GABRIELLE        - (sempre pronta a trasformare il discorso in litigio) Vorresti darmi da intendere di starnutire spontaneamente più spesso di me?

CHARLES            - Senza meno.

GABRIELLE        - (incredula) Hai lo starnuto facile, si vede.

CHARLES            - Io so voler bene.

GABRIELLE        - Quanto, sentiamo, su? Quanto?

CHARLES            - Almeno mezz’ora filata, quando va bene, ogni sera, in camicia da notte, prima di andare a letto e penso a te.

GABRIELLE        - E quando va male?

CHARLES            - Anche quarantacinque minuti e più, prima che mi passi.

GABRIELLE        - Appoggi i piedi nudi sul pavimento, per caso?

CHARLES            - Che c’entra?

GABRIELLE        - È quello. I pavimenti di marmo sono un flagello per gli starnuti, chi è debole di molle.

CHARLES            - Io non sono debole di molle, per tua norma.

GABRIELLE        - Direi di sì.

CHARLES            - Provami!

GABRIELLE        - Non sono un pavimento!... Dì un po’: mi pensi prima di andare a letto? Che generosità!

CHARLES            - È l’ora migliore.., per le molle, visto che ne fai una questione di balestre.

GABRIELLE        - (implacabile) Poi ti passa?

CHARLES            - (con un certo pudore) Conforme, dipende...

GABRIELLE        - (accanita) Da che?

CHARLES            - (sempre più imbarazzato) Da che...! Da che...! Gabrielle! Mi passa e basta.

GABRIELLE        - (inquisitoria) Impostore! Da che ti passa? Così, ti passa come t’è venuto?!

CHARLES            - Mi do da fare perché mi passi, lascia perdere, oh bella.

GABRIELLE        - (ma è vizio) Come? Come fai?

CHARLES            - (all’esasperazione) Tu vuoi saper troppo. Non è da fanciulla costumata, è disdicevole. Contentati di sapere che mi passa. Fai domande da cent’anni dopo.

GABRIELLE        - Eh già! Però “te la fai” passare. Scommetto che non sai nemmeno più cosa ti fai passare.

CHARLES            - (la resa) Altrimenti, come farei a dormire? Scusa.

GABRIELLE        - Ah, ne vengo a sapere delle belle. Che bisogno hai di dormire?

CHARLES            - Devo pur recuperare! Se no, avrei, tutto il giorno, il malditesta, già che mi viene quando sei presente...

GABRIELLE        - Dormi, dormi... Recupera che ti tiri su.

CHARLES            - (piuttosto timidamente) Cara...

GABRIELLE        - Vorrei poterti credere, ma siete tutti talmente inattendibili, voi uomini... Manco a farlo apposta, egli la smentisce con uno strepitoso quanto intempestivo starnuto.

CHARLES            - Sentito?

GABRIELLE        - Come faccio ad essere sicura che non è finto? (Ed eccì! Uno starnuto ostentatamente falso di lei) Sentito? Starnutire per finta è una cosa da niente. Ma l’autenticità? Qui ti voglio.

CHARLES            - (che deve fare?) Accertatene se non hai fiducia in me. Non si seppe mai se seguisse il consiglio, l’amore fa fare questo ed altro.

GABRIELLE        - (rassicurata?) ...Caro scusa.

CHARLES            - Stanotte, lascia socchiuso il balcone. Quando tutti saranno a letto, ti raggiungerò dal giardino, come Romeo, e starnutiremo insieme lungamente, con comodo e a gusto raddoppiato, fino a sfinirci, così non avrai più dubbi.

GABRIELLE        - Sarò capace?

CHARLES            - André dice che non è che questione di cominciare, poi non si lascia più lì. Sentissi il bravo che starnutisce lui, va avanti per delle ore.

GABRIELLE        - Come lo sai? Sei stato presente?

CHARLES            - (imbarazzato?) ...È notorio in tutta la guarnigione. Ha partecipato a delle gare. Sorpresa: qualcosa dev’essere intercorso, visto che, ora, blandamente, starnutisce lei.

CHARLES            - Vedi?... Provato il frisson? Facesti attenzione?

GABRIELLE        - (mai contenta) Tutto qui? M’avevi promesso che si sviene.

CHARLES            - Sono le prime volte. Un po’ di pazienza... In principio si può anche non svenire, chi è resistente abbastanza. (Un bacio compartecipe) Ecco, ecco, viene a me... presto, dài, non perdiamo il raddoppio, proviamo insieme!... dài...!

GABRIELLE        - (inesperta) Come si fa?

CHARLES            - Aiutarsi coll’unghia nella narice... delicatamente, appena un solletico come fa André.

GABRIELLE        - Destra o sinistra, la narice?

CHARLES            - Cosa aspetti? Sinistra, io sinistra. Ma è lo stesso anche destra... Su, hai paura? Si viene anche a destra.

GABRIELLE        - Sinistra, quella del cuore, anch’io. Con che dito?

CHARLES            - E dài, deciditi, ogni dito è buono... mi fai morire: vengo... su, che veniamo insieme...

GABRIELLE        - Col raddoppio, sì; ci sono, ecco ecco...

CHARLES            - Finalmente!... E giù un clamoroso concerto di starnuti gemelli, a ripetizione. Godete, ragazzi, che domani è un altro giorno. Ma è corso e li interrompe, trafelato e sbalordito, il fido paraninfo di guardia.

DE MORA            - Giudizio, ragazzi: la sordina, per carità, la sordina; volete radunar qui tutta la corte? Vi si sente fino in piazza.

CHARLES            - (avesse mai esagerato?) Sto male, mi manca il fiato, sto male... aiuto!...

GABRIELLE        - È lo svenimento. Era vero. Ti credo, basta così, tesoro.

CHARLES            - ...Sto male!!! ... Malissimo, davvero. Tesoro un accidente!

GABRIELLE        - Oddio, cos’hai? Chiamiamo il dottore?

DE MORA            - (prendendo in mano la situazione) È matta, principessa? Per nessuna cosa al mondo. Sarebbe la catastrofe. Proviamo tra noi, piuttosto, colla respirazione bocca a bocca. Eccomi a te, Charles! Ci penso io: a me le labbra, dammi le labbra.

GABRIELLE        - Eh, no, il bocca a bocca glielo faccio io... Charles, caro

CHARLES            - (lo scuote, lo schiaffeggia; gli fa qualcos’altro) Charles, amore... Riapre gli occhi... rinviene, deo gratias.

DE MORA            - Manco male... Lo shock che paventavo. Tutto in una volta è stato troppo... l’avevo messo in guardia... È finita, Charles su, cessato pericolo, ce l’hai fatta... quasi. (che?) Bravo.

CHARLES            - (mormorato) Sono un vigliacco, Gabrielle, non riesco a sopportare la sofferenza di essere felice. Devi credermi, dipende da quello, te lo giuro. Tremendo sai, André.

GABRIELLE        - Comincio a capire, è come il maldidenti.

CHARLES            - Non proprio; di più... tutte le viscere in rivolta. Stammi vicino, André.

GABRIELLE        - Mettiti comodo, distenditi, non aver paura, siamo qui, io e il tuo amico... Soffri, caro, soffri che ti passa.

CHARLES            - Che prova!... Perché non mi hai fatto la respirazione tu?...

GABRIELLE        - Non pensarci, te l’ho fatta volentieri io, alla faccia dell’etichetta.

DE MORA            - (perché a bassa voce, stringendogli la mano?)... — M’è stato impedito (ma cosa gli salta in mente? E, meno male che gli salta in mente tra sé) Strano, quando fa l’amore non soffre, mai così, anzi! Non gli è venuto bene, si vede. Eh già; tutt’altra cosa: colle principesse deve essere terribile, chi non ci ha fatto ancora il callo.

CHARLES            - (in istato crepuscolare) Non allontanarti, André. Tienimi la mano... Soffoco... non lasciarmi... Altro che stringere i pugni!

DE MORA            - Son qua, buono, buono, non mi muovo, taci... zitto.

CHARLES            - (un sospiro che si sente a Mentone) Ahhh...

GABRIELLE        - Come reagisce?... Cos’ha detto?... Che bisogno ha della vostra mano sulla fronte? Ci sono le mie... Non ti lascio, Charles, caro. Mi dispiace unicamente di aver solo due mani.

DE MORA            - Ne ho due anch’io, e, al momento, una mi cresce. Dove dovrei mettergliela, secondo vostra Altezza? Assegnatemi voi un posto più innocente per un uomo a un uomo.

GABRIELLE        - (rassegnata) È scandaloso, ogni altro lo sarebbe di meno; la fronte è il meno compromettente. Che fatica recitar l’ingenua!

DE MORA            - A chi lo dici. La tolgo?

GABRIELLE        - Pazienza, lasciatela dove sta... (rientrando “in parte”) Si può sapere, insomma, cosa mormora?

DE MORA            - Ah!

GABRIELLE        - Ah, che?

DE MORA            - Ha detto ah, solo ah, ma un ah, cara voi! ...Ne ho sentito degli ah, in vita mia, è stato un ah continuo, anche da muto, però un ah così, mai! C’era dentro l’anima dell’avvenire.

GABRIELLE        - Fallo ascoltare anche a me il tuo ah, caro, se non ti stanca troppo.

CHARLES            - (alto e deciso) No! Tu no.

DE MORA            - Non insistete, Altezza, l’arciduca non ripete. Non è in vena. Secondo atto Ed eccoci, trasferiti nella ridotta dell’avversario: traumatizzante comparata alla reggia: la minaccia provocatoria, per non dir inferocita della miserabilità, superba di sé medesima, puntata, come una mitragliatrice, orba della sicura, contro la presunta pompa del potere e della reazione: l’eterna guerra di due retoriche; lo stomaco vuoto e la pancia piena. Uno squallido stanzone, lurido e fumolento, dai muri graticolati di crepe e verniciati da una cinerea sporcizia, non arcaica bensì, addirittura, fossile; disordinatamente ammobiliato con un tavolo zoppo, un paio di scrivanie sgangherate e parecchie sedie discompagnate, funge, insieme, da direzione, redazione, amministrazione, locale di riunione stanza da ricevere e altro del giornale “La Carmagnola”, un foglio che esce quando ci riesce, però, in compenso, talmente incendiario da rischiar di prender fuoco da sé, per autocombustione, al solo pigliarlo in mano. È la tribuna personale di Rabagas, sovrano assoluto e indiscusso della sovversione. Alle pareti, sesquipedali slogans d’un’anarchia sediziosa e barricadiera, minacciosamente catastrofici, l’inesauribile variazione del solito “morte ai tiranni”; pochi a stampa, la maggior parte scarabocchiati a carbonella, occor dirlo? Tutti iperbolicamente oltranzisti. Ne risaltano due, l’un di qua, l’altro di là dai battenti d’un poggiuolo proteso su una breve piazza, negata all’occhio, quanto, a tratti, fin troppo presente all’orecchio, e rovescia all’interno, un torrente di sole – è una giornata che, a Monaco, fa bello e se ne vanta; questo suona: “dio e popolo”; quello non è che un manifesto – non, ahimé, firmato Toulouse Lautrec, all’epoca ancor fanciullo e colle gambe lunghe, ma ha scarsa importanza – reclamizzante il “Moulin rouge”, dove la popputa Goulou e lo scheletrico Valentin in tuba, ballano un frenetico can-can, arrivato in quel tugurio non s’è potuto venir a capo come ed a che. C’è e basta, anacronismo o no. S’aggira, per l’antro miserando, Cormelin, affettuosamente soprannominato dai più, Angustia, dai meno, Agonia e da qualcuno Misericordia; mica un uomo, una voce senza speranza, esaltata, con flebile malinconia, da una foresta di tics; vivo, quel poco che è ancor vivo, unicamente nel superstite fanatismo degli occhi elettrizzati dai bagliori residui degli Immortali Principi, rari nantes in gurgite vasto d’un universale naufragio. Spigoloso e diffidente, tutto stizze e sospetti, è una specie di genius loci... ma potrebbe anche trattarsi di un miraggio visionario, il fantasma  di se stesso, dimenticato quaggiù da qualche inidentificata deità in vena di sinistri scherzi non si sa a qual fine. Redattore, compositore, correttore di bozze, stampatore, amministratore, usciere, factotum, moralista e ideologo, “La Carmagnola” è lui. Al momento ritenuto meno topico dal metteur en scène, il campanello àfono, sovrastante la porta d’entrata a vetri, preavverte della comparsa di qualcuno. Detto e fatto, ad aprir la serie, stamattina è Desmoulins, un gagliardo giovanottone roseo, atletico, sorridente e canagliesco, dagli ormoni a fior di pelle, garanzia di sana, provocante e, se vogliamo, un po’ indecente mascolinità in altre parole: uno scattante puledro la cui prorompente fisicità, per nulla discreta, può suscitare tentazioni inequivocabili e ambigui pruriti di vario genere, tutti piuttosto procaci. Credulo, estroverso ed entusiasta, è un fresco simpatizzante della banda rabagassesca. Eccolo, la simpatia!

DESMOULINS    - ...Niente ancora? Neanche dalla parte didietro?

ANGUSTIA          - (di malagrazia) Né davanti né didietro. È la terza volta, in un’ora, che rompi i coglioni. Le grandi cause, giovinotto, possono andar avanti un quarto d’ora come un quarto di secolo. Giustizia moribonda nessuna fretta al decesso.

DESMOULINS    - Concordo. Per aver ragione, il cristianesimo, che è il cristianesimo, ce ne ha messi una dozzina di secoli, e interi.

ANGUSTIA          - (ed è già polemica) A parte che è sbagliato, che c’entra il cristianesimo? Te lo ritrovi dappertutto, come il prezzemolo nelle pietanze della cucina italiana.

DESMOULINS    - Non si arrabbi, signor Angustia, non mangio verdura. Sto sul carnivoro... Ma... un inappetente storico come lei, conosce la cucina italiana?

ANGUSTIA          - Son collezionista di menu. Hai i soldi, piuttosto,          per       l’iscrizione?     Noi non siamo un partito sovvenzionato dal Capitale. Se ne guarda bene. Viviamo dei nostri contributi, come i Radicali.

DESMOULINS    - Non vuole? Ringraziando il cielo e maledicendo mio padre, posso mettermi in condizione di sbattervene qua anche per due, tre, quattro, cinque iscrizioni, tutto quel che ho.

ANGUSTIA          - Allora non c’è problema.

DESMOULINS    - E cos’è che c’è?

ANGUSTIA          - Aspettare. Se esiste qualcosa, al mondo, che ha bisogno di pazienza, è la rivoluzione. È dalla rivolta di Spartaco che aspettiamo.

DESMOULINS    - A me, la rivoluzione mi serve fin che son giovane. Che me ne faccio quando l’albero della vita mi si è seccato?

ANGUSTIA          - Buono: prima che ti perda le foglie, lui è qui. Quante volte te lo devo dire? Sta fuori sede in missione. Non far che torni.

DESMOULINS    - Pensa che sarà prima della una? Mi romperebbe mica male ritardare il desinare. Io, alle undici, ho già una fame da orbi. Suonano le undici e scattano i crampi.

ANGUSTIA          - Troppo legato alla materia, ragazzo mio.

DESMOULINS    - Io sì, tanto. E qualche organo ai piani inferiori di più ancora. Se avesse voce, supererebbe Tamagno. I do di petto che mi lancia!

ANGUSTIA          - Non prometti troppa predisposizione al ruolo del rivoluzionario.

DESMOULINS    - Perché? Ho sempre pensato che una macedonia di fami varie, intensa e molteplice, costituisca il terreno ideale per un sovversivo autentico; ho anch’io la mia, cosa crede?

ANGUSTIA          - Un cazzo! Aut miserabilis aut famelicus. Il vero combustibile del fuoco sacro, l’unico comandamento dell’autentico anarchico, non può essere che l’orgoglio smisurato di una fame solitaria, universale, concentrata e omicida; una solitudo famis che non perdona. Un nichilista, privato della fame, è un incendiario distratto e senza fiammiferi, il quale, prima o dopo, è destinato a smarrire la fede. Guarda modestamente me: non faccio per dire: son costretto a vivere perché non riesco a mettere insieme i soldi per il funerale. Io ho raggiunto lo stato di fame assoluta, a qualsiasi ora. Carico la sveglia per farmelo ricordare fin in piena notte. La fame è il mio unico alimento: mi nutro di digiuno e acqua corrente, come Pannella.

DESMOULINS    - Chi non lo sa, signor Agonia? Lei è un asceta, un mistico; esempio, onore e vanto della lega: una bandiera! Un nome venerato lungo le due Riviere.

ANGUSTIA          - Non disturbarmi la filosofia. Non è di elogi che vado in cerca. Sarebbe pur sempre un espediente per alimentarmi, aggirando la situazione. Essere fino in fondo un idealista del materialismo, comporta degli obblighi: libertario non è una parola vacua.

DESMOULINS    - (esclamativo) Diamantina coerenza di un ideale! Stamattina imparo che ci si nutre anche di fame.

ANGUSTIA          - (con sospettosa severità) Tu, spiegami un po’, allora com’è che ce l’hai su tanto contro il capitalismo, ben nutrito come ti pavoneggi?

DESMOULINS    - (candido) Ma io non ce l’ho col capitalismo, ho fame gratis.

ANGUSTIA          - (e c’è il disprezzo) Un dilettante della fame! E contro che Cristo ce l’hai da essere disposto a versare per cinque tessere? Mania di grandezza? Lussi da grand - commis del benessere? Contro che cazzo ti fai anarchico?

DESMOULINS    - Mica contro il cap... il ca... autentico... mancherebbe altro, anzi: pro! È l’unica ricchezza di cui dispongo. Mi gioconda l’animo fin pronunciarne il nome. Contro la pidocchiosa avarizia di quella lurida sanguisuga reazionaria di mio padre, mi faccio anarchico per cinque... Colla grana che si ritrova, mi tiene a stecchetto di tutto – e quando dico tutto!... Pensi e se ne faccia un’idea: arriva a negarmi le quattro palanche sufficienti per andare a puttane una volta alla domenica che, da noi, per deficienza di mano d’opera, data la scarsa richiesta, son le più economiche della riviera; racchie fin che vuole ma tariffe meno della metà di Nizza, qui a due passi. Le dispiace darmi un’occhiata? Le paio, a venticinque anni, e colla mia complessione che mi scoppia nei vestiti, uno che possa far a meno di sbattere almeno una doppia ogni otto giorni? Io non metto bocca. Dica lei: le sembra umano, anche solo limitatamente al lato salute?

ANGUSTIA          - (rabbonito) Sai, io rappresento un caso particolare. Nel mio perpetuo stato di grazia di mistica inedia, sono il meno qualificato a giudicare... Un vantaggio mi par innegabile: ti giova a mantener desto l’odio contro la classe sociale a cui hai avuto la disgrazia di appartenere; e nessun altro sentimento come l’odio è utile a mantener lubrificata la macchina della ribellione.

DESMOULINS    - Per questo, non deve preoccuparsi, il despota ha altre frecce al suo arco. E poi, se non odiasse il proprio padre, un figlio, me lo dice chi dovrebbe odiare? È un fatto congenito, naturale e fa bene alla salute. Diversamente sarebbe un anormale. Non le pare?

ANGUSTIA          - Io, se avessi un figlio e mi accorgessi che viene su senza odiarmi, sì e no che non lo strangolerei manu mea. Non son uno che si presta a metter bastoni fra le gambe al progresso, io!

DESMOULINS    - ...Dice: “si deve risparmiare, non solo i quattrini: tutto, sempre, non bisogna buttar via niente: – n.i.e.n.t.e.!” – Rendo l’idea? “Si depaupera il patrimonio generativo”, non fa che predicare. Comprende?

ANGUSTIA          - (fiscale) A ognuno il proprio digiuno, è la crudele ingiustizia della presente Società.

DESMOULINS    - (si riscalda) E io, cosa sto qui, ad aspettare per dar un po’ di respiro, io, alla bestia idrofoba che mi ringhia nei pantaloni? Che lui tiri le cuoia e io abbia la bocca per terra, aspetto? Dove la rinchiudo nell’attesa? In culo a lui? L’invidia e la gelosia dei padri per i figli hanno da trovar posto nei codici, se non altro, fra i reati contro la proprietà. A cominciare dal nostro, è una lacuna non esserci.

ANGUSTIA          - Non si può pensare a tutto. Tempo, figliuolo.

DESMOULINS    - Uno di questi giorni, giuraddio, mi faccio giustizia da me con uno sproposito!

ANGUSTIA          - Per esempio!

DESMOULINS    - Un patricidio; sa che vuol dire un patricidio?!

ANGUSTIA          - È stato un sogno irrealizzato della mia giovinezza. Eh, la vita non è che una catena di rinunce... Rigenerare l’umanità senza riguardo per le parentele, tutto considerato, sì, può ricondursi alla lotta senza quartiere contro il mostro camaleontico del capitalismo, anche questo; non ti manca la vocazione.

DESMOULINS    - ...Domando scusa per la perdita di tempo.

ANGUSTIA          - (addirittura paterno) Attaccare il capitalismo non è mai una perdita di tempo, figliuolo. Un bel giorno, ci si trova, non si sa come con una bomba in mano, e, in testa l’indirizzo dove collocarla. A qual altro traguardo, se non questo, aspettiamo al varco sorgere il sol dell’avvenire?

DESMOULINS    - ...Stima che ci sia da aspettare molto ancora? Dico il pasto, non la bomba.

ANGUSTIA          - Dipende dalla Giuria. Ce n’è che fanno presto e ce n’è che la tirano per le lunghe peggio della Giustizia che bestemmiano di amministrare. Mica si può, abbi pazienza, abbandonare, indifeso, un camerata nelle fauci della Reazione che, dopo il pasto, ha più fame di prima?

DESMOULINS    - Cosa gli è venuto in mente al Capo, di precipitarsi a difendere un iscritto fin in Italia?! Cosa vogliono fare, adesso, esportarlo? Non abbiamo che lui dalla nostra, qui. Teniamocelo.

ANGUSTIA          - Gli apostoli non hanno patria. E poi, il richiamo della stirpe. Son due passi... il suo retaggio italiano s’è rinverdito, la lingua batte dove il dente duole. Di Rabagas ce n’è uno solo. Farne un genere di monopolio, come il sale da cucina e il tabacco da pipa, equivarrebbe venir meno ai principi dell’Internazionale.

DESMOULINS    - Se non si tratta che di solidarietà di partito, pazienza, purché facciano presto a restituircelo, perché io li conosco gli italiani.

ANGUSTIA          - Effettivamente la tendenza all’appropriazione indebita, se non al furto, è una componente congenita della loro simpatica natura esu­berante, ma, stavolta, hanno trovato un osso duro. Rabagas non è uno che si lascia accalappiare facilmente. Va’ tranquillo: non è in vendita è un puro!

DESMOULINS    - Ecco, io andrei, intanto che aspettiamo, giù in piazza a farmi un panino innaffiato da una birra scura.

ANGUSTIA          - Per piacere, non parlarmi di mangiare. Mi si mettono in moto associazioni di idee che debbo evitare. Preferisco pensare che stai leggendo “La Carmagnola”. Prendi, è una copia del numero di stamattina. Ti distrarrà dal panino e io dimenticherò di possedere uno stomaco. (E fa seguire il fatto al detto)

DESMOULINS    - Tenterò... Dica, ritiene che sarò accolto?

ANGUSTIA          - Deve deciderlo personalmente l’infallibile.

DESMOULINS    - Faccia una cosa se arriva prima di me, ci metta una buona parola.

ANGUSTIA          - Ci mancherebbe altro! Te ne manca ancora della strada per arrivare all’autentica anarchia... Se sei uno che vuol far carriera colle raccomandazioni con noi, hai sbagliato indirizzo. Il confine è a due passi, la tua cuccagna è là.

DESMOULINS    - Mi permetta di dirglielo, sa che lei ha l’incazzo facile? Ostia!...

ANGUSTIA          - Certo che lo so: perché ho la “subornazione” difficile.

DESMOULINS    - Subornazione?... Ho capito, qui bisogna presentarsi col vocabolario. Cos’è?

ANGUSTIA          - Un calcio nel sedere se non ti levi dai coglioni!

DESMOULINS    - Perché non usa il suo nome giusto?

ANGUSTIA          - Di che?

DESMOULINS    - Scusi, visto che lo usa per i pendagli che gli stanno solo due dita davanti... lo trovo... ingiusto. Cosa gli ha fatto per ignorarlo?

ANGUSTIA          - Per prenderlo a calci non è indispensabile nominarlo.

DESMOULINS    - Scusa che non convince troppo. Pochi minuti e son di ritorno. Che mi aspetti! Non mi dice buonappetito! E va a rifocillarsi, mentre l’interlocutore si accinge a correggere delle bozze senza cessare di scrollar la testa. La realtà, a lasciarla fare, essendo, quando ci si mette, regista insuperabile, egli stette là finché, alquanto tempo dopo, dalla vetta della torre antica, la campana cominciò ad avvisare la plebe che era pressappoco mezzogiorno, e, al dodicesimo botto in punto, finalmente eccolo. C’è chi l’ha presente, l’Istrione Nato? La sua autorevole figura quando mette soggezione, la civetteria del suo pessimo carattere con tutta la simpatica stravaganza della propria antipatia? La medesima testa leonina, l’aria stralunata, la superbia modesta e la timidità aggressiva; la sfacciata volubilità dei toni avventati e perentori nell’enfasi procellosa di copertura del calcolato gigioneggiar vano e sublime, l’iperbole autosarcastica di sé medesimo, la sincerità della propria insincerità e viceversa, in altre parole: lui calzato e vestito, quando si scatena... il Mattator Gigione. E, a lui è dedicato il copione.

RABAGAS           - (fermo sull’entrata) Non t’è parso, Gioacchino Cormelin, tra l’undicesimo e il dodicesimo tocco, mezzogiorno, o chi per esso, dalla vetta della torre antica, la veneranda campana, onusta di rinnegate glorie, abbia inteso rendermi l’inopinato omaggio d’una trepida pausa? Mi imbarazzerebbe, eppur m’è parso.

ANGUSTIA          - No, non m’è parso. Disimbarazzatevi. È già molto che siate riuscito a contare dodici colpi, anziché qualcuno di meno o qualcuno di più. I nostri mezzogiorni son più variabili d’un barometro guasto. I conti non tornano mai. Per limitarci a stamattina, son saltate le otto e le undici erano le dieci e un quarto. Che adesso sia davvero mezzogiorno potrebbe dircelo solo il sestante della gloriosa Santamaria anticlericalmente parlando.

RABAGAS           - (estraendo il proprio orologio dal panciotto) Eppur lo è. Se tu pensi che il disguido orario, da noi, preserva dagli attentati e salva la vita ai tiranni, è abbastanza strano. Quel giorno, che fu soltanto quattro giorni fa, arrivarono a privarci delle due, delle sei, di tutte le mezze e di tre quarti dei quarti. Non è mica normale. Domando e dico se la misura non sia colma.

ANGUSTIA          - Stracolma!

RABAGAS           - Pure, la pausa, Cormelin, ripeto, io l’ho avvertita. Ti risulta, per caso, che il campanaro stia venendo a noi?

ANGUSTIA          - Escluso! Coartato, conculcato, ricattato, sfruttato, al soldo della tirannide che lo affama, come potrebbe? Vi sarete sbagliato...

RABAGAS           - Dubiti della mia sincerità?

ANGUSTIA          - No, maestro.

RABAGAS           - Della mia attenzione?

ANGUSTIA          - Me ne guardo bene.

RABAGAS           - Della mia buonafede?

ANGUSTIA          - Non sia detto mai.

RABAGAS           - E allora? Visionarietà, telepatia? Pragmatico come sono?!

ANGUSTIA          - Non c’è come bramarla per raffigurarsela, una cosa. L’affamato non cessa di sognarsi addosso, tutte le notti, montagne di maccheroni al ragù e bidoni di minestrone colle cotiche. So quel che dico... Anche le utopie fanno dei cattivi scherzi.

RABAGAS           - Tu sei la mia coscienza, fratello... Però il dubbio rimane.

ANGUSTIA          - E magari quel dodicesimo tòcco moroso, si trattava soltanto di una “mezza” in ritardo, d’un dì passato; o, in anticipo, d’un dì futuro.

RABAGAS           - Basta là. Quando si mette in moto, la coscienza è come salire su una ferrovia che ha perso le stazioni. Non si sa più dove scendere. Tregua. Non cale, rinunciamo al viaggio. (Si butta trambasciato a sedere lavandosi gli stivali) Ah, l’Ideale spossa!... Il brusio della piazza sottostante, che, da un po’, s’era cominciato a percepire, va aumentando... qualche applauso, qualche voce isolata che chiama...

RABAGAS           - (espressione interrogativa) Beh?...

ANGUSTIA          - (allargando le braccia) I diritti della piazza: leviti della prima ora...

RABAGAS           - Sì, va bene, però è una rottura mica da poco. Mi sento spiato controllato, forse perseguito, di continuo; quella gente mi denuda dentro.

ANGUSTIA          - Destino dei Giusti, Capo.

RABAGAS           - Che cazzo vogliono, adesso?

ANGUSTIA          - Vedervi, udirvi, possibilmente toccarvi. Concedetevi. (e quasi guidandolo al balcone) È voluttà reciproca d’una simbiosi: voi a loro, loro a voi.

RABAGAS           - Uno di questi giorni, quel balcone del mal augurio lo faccio buttar giù.

ANGUSTIA          - Mai offendere i balconi. Senza di esso, non saremmo niente. La nostra forza sta tutta lì: un’intuizione che farà strada. Io credo nei balconi.

RABAGAS           - Niente da fare. Mai una volta che ti si possa dar torto! E, con impotente rassegnazione, “mascelluto e naticone”,  si accinge ad affacciarsi.

ANGUSTIA          - (precipitoso) Le scarpe!

RABAGAS           - L’incendio di quella strada rovente sotto il sole ho un mal di piedi che le stelle non le vedo, ma le sento scottare sotto le piante come calli accesi.

ANGUSTIA          - Ci son momenti, nella missione di un Duce, che deve dimenticare l’ora, il giorno, la notte e anche i calli. Che avreste detto, assistere alle Catilinarie di un Cicerone in mutande?

RABAGAS           - (per esplodere) Angustia! Esageri nell’aver ragione!

ANGUSTIA          - Domando scusa, ma le scarpe oggi non son da meno delle mutande ieri.

RABAGAS           - Lasciami fare il mio bagno di folla, pediluvio compreso e piedi fumanti. Tanto già, al riparo della balaustra, nessuno me li vede, e, a piedi nudi, si scalcia meglio. Portavano, forse, scarpe i sanculotti?

ANGUSTIA          - Perdonate l’ardire: la ragione passa momentaneamente a voi.

RABAGAS           - Almeno una volta! Ed è già fuori orchestrando e dominando la festa, con tribunizia oratoria, saggio impudico della più invereconda e facinorosa demagogia. Ancora a stomaco vuoto e piedi in fiamme, rieccomi vostro, compagni cittadini... Ho mai deluso le vostre sacrosante attese?... Fede e coerenza, ieri come oggi, oggi come domani... E bombe, sicuro, quando suonerà l’ora, anche le sacre bombe... Ma voi volete conoscere l’esito della mia trasferta... Son qua, son qua, se mi lasciate parlare... Ohhh! In alto i cuori: peggio non poteva andare, laonde è andata benissimo! Vien su dalla piazza un boato, non si capisce se consensuale o dissidente. Habemus martyrem. Ce n’era bisogno come dell’aria che si respira: la causa rischiava il soffocamento per penuria d’eroi... No, non è modestia, io non basto. Come i pidocchi non sono mai abbastanza a rosicchiar le teste dei vostri figli, così gli Ideali divorano i loro apostoli non meno del leone le sue prede. Ebbene per il momento siamo a posto. Andai, lo procurai e ve lo reco... Certo, non ce l’ho in tasca... Dove ogni autentico martire deve trovarsi, si trova! In vinculis, il martire è in vinculis! Da giù silenzio sconcertante, tanto da indurre Angustia a tirarlo per la giacchetta per suggerirgli:

ANGUSTIA          - Non capiscono il latino, mai che ne teniate conto.

RABAGAS           - Ah sì, è vero. (riprende il colloquio con la folla) Un giorno comprenderete anche il latino. Nel frattempo procedo alla traduzione: in vinculis: in galera: il martire sta in galera. Va bene? Siete contenti? Dabbasso la fine del mondo. Non così miei fedeli, non così!... (dominando la cagnara) Sgominando l’oscurantismo, tempo verrà che, nella luce gloriosa della conquistata libertà, una delle nostre strade, forse questa medesima piazza che vide la nostra infanzia festeggiare la candida innocenza dei suoi giochi, dopo aver dovuto assistere alla vergognosa erezione dei roghi del loro sadico dispotismo... Cosa? Come?... Erezione non va bene? E che parola dovrei usare?... No, cittadino che protesta, anacronistici pregiudizi: vi sono erezioni sante ed erezioni empie, benedette le prime purché siano maledette le seconde... tempo verrà...

ANGUSTIA          - (tra sé, forse soltanto in fase di pensiero) Tre erezioni in meno di mezzo minuto: troppe, non ce la farebbe nessuno, non ha torto.

RABAGAS           - (initerrotto) ...che una delle due, strada o piazza, porterà il nome imperituro dell’umile Aristide Bezuchard. Pensate: “Rue Bezuchard, agitatore e martire...” Va bene, la piazza: “Place Bezuchard”. Sarà il popolo a deciderlo, faremo un referendum, è ora che cominciamo anche noi... Sicuro: la gloria lo avrà trasformato in un indirizzo postale... e al centro un monumento... naturalmente: eretto... Si troverà pure un sordido capitalista da fargli cacciare una briciola del maltolto, per la spesa; eretto: sì – di ghisa! –, certo – sono entrato in fase operativa! Ne faccio solenne sacramento, da questo storico luogo, glorioso del sole che sarà dell’avvenire e dovrebbe già essere del presente... Che? Cosa?... Come?... (e verso l’interno, sbuffante al fido Angustia) Ci risiamo: Garibaldi! Son fissati su Garibaldi. (e riprende) Ma sicuro, Garibaldi: anche Garibaldi; dove ci sta Bezuchard può starci anche Garibaldi: piazza Garibaldi... o via, sì. Eretto anche Garibaldi, come no? Faremo un altro referendum, passeremo la vita a fare referendum... (sbotta) E mettetevi d’accordo, per la Madonna! Lungomare Garibaldi? Lungomare!... Capisco, eroe per eroe, già che stavo in Italia, tanto valeva, è naturale, pensare, ricorrere alla fonte, al Niagara dell’eroismo e condurre meco Garibaldi, nato da queste parti, e che, quando si tratta di Resistenza non dice mai di no, si paga il biglietto, i monumenti glieli tirano dietro, e a cavallo o niente: la scoperta dell’America!... Eretto sul cavallo, neanche a dirlo. No, no, non confondiamo: quello è Cristoforo Colombo, con noi non c’entra. E può stare senza cavallo, d’accordo... Uno che contesta? (gridato) Sì! L’ha letto, garantisco io: Garibaldi è uno dei cinque italiani che hanno letto Marx... E, se non avesse capito niente come gli altri quattro? Che figura?! Ve lo siete mai chiesto?... Garibaldi ormai è una quercia morta. Lo chiamate logoramento da poco, tutto il tempo dell’anno a cavallo, occupato nella professione di eroe dei due mondi??! Sei mesi qua, sei mesi là. Siamo giusti... E poi sarebbe venuto? L’avrebbero lasciato varcare il confine questi reazionari, socialista sparato com’è, in poncho e papalina, fedele alla divisa da eroe che non si è mai tolto dalla nascita né per andare a letto, né per mandarla in lavanderia, insuperato esempio d’intemerata coerenza?... Ma certo, ma certo! È un impegno. Non ci sono mai abbastanza eroi. E adoperiamoli! Sarà per la prossima volta. Se ci sarà Garibaldi... si fa per dire. Per adesso accontentiamoci di Bezuchard... Insomma, aprite gli occhi, va bene il meglio del meglio ma un po’ di modestia: siamo quattro gatti ridotti pelle e ossa dai vampiri che ci dissanguano. I festeggiamenti sono cari, è ogni anno peggio, un aumento dopo l’altro, il costo della vita non fa che andar su: eretto pure lui anche quando il festeggiato ti si regala gratis. Se volete proprio saperlo non disponiamo dei mezzi per permetterci nemmeno un Garibaldi deteriorato. I Garibaldi costano. E vedrete in seguito, coi Garibaldi apocrifi che già ci sono in circolazione. La camicia rossa è diventata una professione che rende e tiene lo sporco quasi quanto una camicia nera e poco meno di una camicia bruna. Ci sono già fior di famiglie per bene, in Italia, che, ai loro figli, fanno studiare privatamente da Garibaldi, considerandola la professione dell’avvenire. Acqua per piacere. (ordina verso l’interno ad Angustia che provvede; e mentre, di sotto dura una certa mormorazione) Non capiscono un ostia, altrettanti bisonti. È il discorso dell’erezione.

ANGUSTIA          - Ve lo volete. Che cazzo vi salta in mente di mettervi a profetizzare? A parte che Garibaldi è sempre Garibaldi e gli avrei stretto la mano volentieri anch’io.

RABAGAS           - (nuovamente alla piazza) Ma i Garibaldi costano!... Va bene. Proveremo... Si fa quel che si può... Anche le camicie rosse stingono, compagni, volete cacciarvelo in testa? Garibaldi colla colletta! Mi ci tirate per i capelli, abbiate pazienza... Ma sì! Adesso mettete anche in giro la voce che ho detto male di Garibaldi. Fareste perdere la pazienza a un santo, voi che ci credete... Ma Bezuchard, il povero Bezuchard, ve lo siete dimenticato?... Ecco le plebi! E vengo dall’averlo difeso immortalandolo! (trionfante in crescere) ...Trent’anni! E li ho voluti tutti, senza sconto. Mi ero proposto di farne un martire e un martire ne ho fatto, contro tutto e contro tutti. Con contorno di fischi, da giù, dev’essere venuto su qualcosa... forse un pomodoro, un carciofo, un finocchio, una verza, un sedano, il meglio che offre la stagione. Che fu? Il regista consulti un erbivendolo. Pigliati questo, dopo un’arringa destinata a far epoca!... Sicuro! Professionalmente parlando, il mio capolavoro; un’arringa a retromarcia, tecnicamente parlando: capovolta lì per lì. Un’ispirazione, altro modo non c’era a come s’eran messe le cose: perdere la causa per vincere la Causa!... Son cascati nella rete come altrettante talpe orbe, ubriacati dalle mie parole. Tentava sì, maldestramente, il Pubblico Accusatore di fare il furbo umileggiando nel puntare scopertamente sul vantaggio, per la sua cricca, di una sentenza di clemenza; e si mise ad intrecciar carole disquisendo in punta di forchetta di attenuanti sì, attenuanti no, d’infermità e non infermità di mente, proponendo la semi, quell’ingenuo impudente; come dire: avete davanti un povero imbecille che non sapeva quel che si faceva mentre lo faceva, chiudiamo un occhio. Vi rendete conto la sfacciataggine? L’accusa rubava la parte alla difesa. Volevano regalarmelo... Regalarmelo!! Fortunatamente a puntare sulla stupidità dei furbi non si sbaglia mai. E parlava, parlava, parlava. Diluviava indulgenza come una grondaia buca. Per duecentotré minuti durò il tentativo di tirarmelo dietro! Se mi fossi prestato al gioco sarei stato perduto. La mia “difesa”, di minuti non ne durò nemmeno dieci: “Se lo tenga! – esordii, sgomitandogli nel fianco – è suo... Noi lo lasciamo a chi se lo merita”. Stupefazione generale! “Ma è matto” – scoppiò detto a quel boia patentato. “Signorsì” – gli ghignai sulla faccia – “Vergogna, rispettabile Pubblico Ministero, arrossisco per lei, così giovane e già così irrimediabilmente servo. Summo jus, summa injuria! C’è dell’altro che lei si guarda bene dal riferire. Giù quella toga, giù quella viltà!” E via lapidario: “perché non mette a giorno la Corte dell’abisso di irrecuperabile abiezione del mostro, che sfrontata scorrettezza, ha difeso accusandolo: l’eredità che grava, come una montagna, su questo povero terminale della criminalità che, in non remoti tempi avreste arrotato, squartato ed arrostito: la sfrenata lussuria della madre, i precedenti alcolici e sanguinari del padre, la gaia collezione di stupri del nonno, colto in flagrante mentre stava – si badi bene, non tentava – graziosamente violentando una vergine, alla veneranda età di novantadue anni, un venerdì santo, per festeggiare la resurrezione della carne, spiegò – sta agli atti; e non fu l’ultima: recidivò a novantatré, e poi ancora a novantacinque, illibato inesplicabilmente a novantaquattro, con sorpresa della scienza, ma ci risiamo di nuovo a novantasei, manicomiato – leggo letteralmente dalle carte processuali – per “priapismo cronico, congenito, irreversibile, ereditario”, il che vuol dire, se non lo sapete...

ANGUSTIA          - (suggerito) Lo sanno, non occorrono spiegazioni.

RABAGAS           - (c.s.) Grazie... “Eccole le sue attenuanti, signor accusatore. E non dovreste assolvere questo criminale degenerato, irrecuperabile, questo sedicente irredentista, emerito brigante che non è calabrese soltanto perché un capriccio della natura lo ha fatto nascere in Liguria, ma è siciliano? Che aspettate a fare il vostro dovere, che superi i suoi ascendenti?”... E qui una pausa che nemmeno le pause che precedono i catastrofici terremoti del Giappone, in questo sport, non secondo a nessuno... Percepivo correre per tutta la Corte un fremito di belve. Paralizzata dall’orrore e dall’odio, essa si sentì scudisciare in faccia: “Lo volete rimettere in circolazione, questo pericolo pubblico?... Che aspettate? Dovete rimettercelo. È suo diritto e vostro dovere. E perché? Perché è una vostra emanazione, uno come voi: è voi! In fondo, galantuomini, di che s’è reso colpevole da indurvi al rimorso per la povera spoglia di una mite, umile guardia campestre, uno sbirro fedele che veglia sui vostri ozi, sui vostri sonni e sulle vostre digestioni, assalito, anche se non violentato, ve lo concedo – ma chi può scrutare nelle insondabilità di un animo degenere? – fatto secco nell’esercizio del proprio dovere, sulla soglia della sua misera dimora, mentre, due passi oltre, tremuli e trepidi, lo attendevano, impazienti dell’abbraccio serotino, i vecchi genitori, la giovane sposa, i figliuoletti innocenti, il minestrone fumante, il quarto di Barbera, della parca cena... e il pudibondo connubio serale celebrato nel tripudio delle verdi membra sul letto nuziale, fragrante di spigo, di lavanda e di altre erbe che, al momento, mi sfuggono, colla fida doppietta lungo il fianco gagliardo e la casta sposa dall’altro, vagheggiata durante la via del ritorno. Animo dunque, onesti ‘ndraghettari, spalancate le braccia al fratello involontariamente degenere che ve lo tolse, al figliuol prodigo che rinasce!”

DESMOULINS    - (gli scappa proprio) Bravo! (era di ritorno e ne ha subito approfittato)

RABAGAS           - Dieci minuti, manco due secondi di più. L’ultimo cachinno e mi avvolsi nella vecchia toga logora ma incontaminata... Trent’anni pieni! Mi premeva un martire e furono costretti a darmelo: no, colpire e magari, trucidare una guardia campestre, bieco strumento di una società iniqua, strapagato per non dar che noia al Popolo, seminando, a tutto spiano, di contravvenzioni il suo tribolato cammino, non vuol dire aggredire un uomo, vuol dire schiacciare un Principio! Come lui è costretto, a gesti e a facce, a dominare l’ovazione che l’aggredisce da sotto in su. No, no... dovere soltanto... Non son qui a cercare riconoscenza... Non mi faccio illusioni, non raccolsi nemmeno quella dello stesso imputato, lo debbo dire che mi sanguina il cuore, Bezuchard non me ne fu grato; la gloria onde la sentenza lo laureava, forse, non gli bastava e voleva di più; travolto dall’estasi del martirio, pretendeva l’impossibile... la forca, la ghigliottina, la garrota e chissà, non si capisce mai cosa passi per a testa di un sognatore. Io feci quanto potei, meglio non seppi. E si ritrae con un sospiro dal balcone, non cessando il plauso dei seguaci. Tutto confidenziale, ma che uomo è? Te la saresti figurata, Angustia, una fine così?

ANGUSTIA          - Nessun dubbio, quando mai avete vinto una causa, maestro?

RABAGAS           - Niuna maggior virtù, per un politico, del capire quando, per vincere, bisogna perdere; e non lasciarsi sfuggire l’occasione. Maestri gli Italiani, che fu, e sarà, norma inderogabile di tutte le loro guerre passate, presenti e future. Gran Paese: le ha vinte tutte, non una mancandone la sconfitta; tutto il contrario dei tedeschi colla medesima teoria a rovescio – mai una sconfitta: tutte perse – enigmi della storia (in disinvolto cinismo). Siamo giusti, ha significato anche un risparmio per il partito. Se lo avessi fatto assolvere, poi, quel lazzarone l’avremmo dovuto mantenere ubriaco e disonorato vita natural durante (e conclude, volubilmente innocente). A proposito, levami una curiosità, te che li hai studiati: le portavano poi davvero i romani le mutande? Nemmeno senza, ma Cicerone in mutande, proprio non ce lo vedo; e nudo, lo spettacolo più deprimente della romanità, un groviglio di vene varicose. Ci vedo piuttosto Properzio dalla liscia pelle e il fresco piè.

ANGUSTIA          - (il dubbio sistematico) Che prove
abbiamo che Cicerone sia esistito? Forse è soltanto
un’invenzione della Destra conservatrice, per far dispetto
a noi, come San Gennaro e i bottoni.

DESMOULINS    - (intervenendo     precipitoso autobiograficamente interessato) Comunque, greci e romani, bottoni esclusi! Si fa più presto. Una cultura che ignora il bottone, può darsi Società più civile e democratica?

ANGUSTIA          - Giusto: prebottonuti, propendo con lui. Non erano tipi da aver paura dei colpi d’aria né delle sbirciate dei guardoni. Vita sbottonata, vita beata.

DESMOULINS    - Non per altro, furono grandi come furono. Né davanti, né didietro; tutto un andare e venire a corpo libero, sbatacchiando il meglio di sé, che dice s’accomodi; non si perde un colpo e c’è più gusto. Resti chiaro: la decadenza è cominciata con l’invenzione del bottone, un retaggio delle invasioni barbariche, i Longobardi, i Franchi, gli Eruli, i Vichinghi...

ANGUSTIA          - (uno che sa) E i Galli, gli Unni dove li metti? I Germani... i Goti... bottoni a non finire! Tutti!

RABAGAS           - (per non essere da meno) Allora anche i Sarmati...

DESMOULINS    - Hanno affogato la Civiltà sotto un diluvio di bottoni. Non saremmo al punto in cui siamo, se no... Ah, fin che ho in mente di che era imputato di preciso, lì, quel povero eroe abbottonato che non siete riuscito a far fucilare soltanto perché in Italia hanno abolito la pena di morte?

RABAGAS           - Una curiosa trascuratezza giuridica, un buco del codice di quel simpatico e brioso paese, per tanti altri aspetti sufficientemente progredito. Ingolfati fin sopra i capelli di eroi, di santi, di navigatori... la patria del diritto e refrattari ai patiboli. Mah... valli a capire i “miei” italiani!

DESMOULINS    - Ebbene?

RABAGAS           - L’imputazione? Fammici pensare... Sai che non l’ho più in mente? Ah sì: oltraggio, resistenza e aggressione alla forza pubblica! Aggravate da un piccolo e innocuo tentato omicidio tanto per fare mucchio... Gli mancò la mano. Sprovvisto di mira come un tacchino cecato... un poeta... Uomo d’acqua. Non si intraprende una carriera di libertario in quelle condizioni. Manco di sparare era capace. Non ci avesse pensato la distrazione balorda, il buon cuore ramingo e fuoriluogo di quella pallottola bastarda e petulante, la carogna non sarebbe ancora tra i piedi della povera gente, a fare il suo sporco mestiere di multarolo a cottimo e la sbirraglia conterebbe uno sgherro di meno, e una vedova di più, capitale prezioso di ogni rivolta.

ANGUSTIA          - Con alcuni orfanelli a carico.

RABAGAS           - Invece di un funerale, abbiamo regalato una famiglia alla reazione.

DESMOULINS    - Trent’anni. Cazzo!... Non hanno avuto la mano leggera.

ANGUSTIA          - Dividono di più le divergenze politiche che un coltello da cucina reduce dall’arrotino, te ne renderai conto presto.

DESMOULINS    - E gli fu sufficiente a sparargli?

RABAGAS           - Carattere d’artista: gli stava antipatico. Non lo poteva vedere. All’antipatia non si mette il guinzaglio: pelle! Tu prova a sentirti dire in faccia da uno che non ti è simpatico “fatti da parte che ho da passare”, trascurando di farlo precedere da un “per piacere”, poi sappimi dire.

DESMOULINS    - E tirò fuori il revolver, mi rendo conto. Come nei Promessi sposi.

RABAGAS           - Capace di averli anche letti. Bezuchard era capace di tutto. Per pensarlo come martire. I martiri sopravvissuti sono la peggior calamità che possa capitare ad una Causa. Tutto considerato, però, non ha demeritato la promozione. Sistemato così, qualcosa, al Movimento è servito.

DESMOULINS    - E io che ero sempre stato convinto che, per antipatia massima, a uno si potesse gridar dietro “cornuto”! Era in divisa? La mancata vittima, intendo.

RABAGAS           - Si capisce. Con tutti i suoi bottoni in vista. Fu ben a quella provocazione che Bezuchard non ci vide più.

DESMOULINS    - Una vertigine.

ANGUSTIA          - Si trattava di uno sbirro, marmocchio! È automatico.

RABAGAS           - Tanghero fin che si vuole, ma d’una fierezza fuori discussione. Questi venduti, devono cominciare a imparare che una scortesia in divisa può costargli anche la pelle. I Bezuchard vanno trattati coi guanti.

ANGUSTIA          - Infilali in una divisa qualunque, e si sentono dei padreterni.

DESMOULINS    - Succede a mio padre anche in borghese!

RABAGAS           - (esaltato) Le ingiustizie sociali avranno termine, se avranno termine, solo il giorno che le bombe a mano si potranno acquistare liberamente dal tabaccaio a un prezzo accessibile, col calmiere! Giusto? Il tabacco sì e la dinamite no?! Mi sono sempre domandato perché non debbano essere considerate alla stregua di un comune sigaro toscano.

ANGUSTIA          - Utopia, maestro.

RABAGAS           - Memento homo! Siamo sempre lì. E meno male che posso contare su di te per rammentarmelo... Ma dì un po’, a proposito di domande, posso aver la grazia di essere informato chi è quel lasagnone lì che non può veder i bottoni senza, per questo, cessare di mettere becco nella nostra politica?

ANGUSTIA          - Ah, lui? Un’aspirante recluta, voi consentendo. Contribuirebbe per cinque tessere, se non è una sbruffonata.

RABAGAS           - (lusingato benché non lo dimostri) A che cinque?

DESMOULINS    - E sono ancora poche per far dispetto a mio padre; perché io, è mio padre che mi sta antipatico. Mi taglieggia il sesso, capite?

RABAGAS           - E tu raddoppia. Facciamo dieci?

DESMOULINS    - Facciamo sei. Poi eventualmente si vedrà.

RABAGAS           - Sull’unghia se vuoi stabilire, una volta per sempre fin da questo momento, che l’uomo è un animale erotico.

DESMOULINS    - Non mi preme altro. Ecco i soldi. E rovescia sul tavolo una manciata di scudi.

RABAGAS           - Il tuo nome, giovanotto?

DESMOULINS    - Desmoulins.

RABAGAS           - (naturalissimo) Camillo?

DESMOULINS    - (senza alcuna superbia) Ha indovinato. È raro che le disgrazie vengano sole.

ANGUSTIA          - (uno stupore intimidito) Il tribuno? Fosti alla presa della Bastiglia? Non c’è caso che faccia confusione col Roger dell’”Andrea Chenier” ancora nella testa di Giordano?

DESMOULINS    - Magari! Mio bisnonno. A furia di ripeterlo in famiglia han finito col farlo credere. Dalla decollazione di Luigi sedici in poi, tutti Camilli i primogeniti, io sono Camillo quarto. E Carlotte le femmine, naturalmente.

RABAGAS           - Carlotte? Non Lucille?

DESMOULINS    - Manie di grandezza, allude a Madame Corday. S’è inteso avvalorare la voce che tra Camillo e la Carlotta, non so se mi spiego... malevoli, si dice, senza fondamento: il bertone della Corday era Danton, lo sanno anche i chiavistelli delle porte.

RABAGAS           - E gli altri? Chissà quanti: Charlotte Corday era una femmina di temperamento. Dove ci stava Danton poteva starci anche Desmoulins. Ti formalizzi per questo? Amore libero, sveglia! Cosa credi? Fottevano a tutto spiano, come conigli, anche i grandi padri della patria. È uno dei principali diritti della costituzione dell’ottantanove.

DESMOULINS    - Purché lascino fottere anche i piccoli figli della rivoluzione, io non faccio una piega. Eguaglianza per tutti: che fottere non rimanga una prerogativa della classe egemone, intendo dire. Il solo pensiero e divento una bestia!

ANGUSTIA          - (fremente) Per secoli, senza respiro, giorno e notte, di ogni stagione e con qualsiasi tempo! I piccoli soltanto al sabato, nelle stagioni calde, purché facesse bello e non fosse di quaresima, quando potevano e la fatica glielo consentiva. Sì e no il giorno di Natale, proibito dai preti, essendo Natale.

DESMOULINS    - Gli arnesi per fottere non sono né il ceto, né i soldi, né il barometro, né il termometro, né la religione, né il calendario; sono degli altri, eguali per tutti, facili da adoperare, che consumano niente e non domandano che di essere adoperati per crescere e rinforzarsi. E si vede tendere e stringere la mano dal capo.

RABAGAS           - Dignus est intrari. Benvenuto fra noi, Camillo Desmoulins: porti la Storia nel nostro Movimento. Ma subito il dito puntato contro il muro a destra del balcone, uno scoppio d’incollerito sdegno.

RABAGAS           - E colui, per esempio, che vuol dire? Che significa quello là?

DESMOULINS    - (spaventato) Quello cosa?

RABAGAS           - Non dirmi che non sai leggere, un Desmoulins! Quell’indecenza!

DESMOULINS    - (ingenuo) “Dio e popolo”. Mi par corretto. Grammatica, sintassi, punteggiatura a posto, non gli manca niente; se proprio proprio, un punto esclamativo in fondo, per rinforzare il concetto.

RABAGAS           - Ah, non gli manca niente?! E ti par corretto sotto gli occhi di chi mette piede in un luogo come questo? Evidentemente, la provocazione reazionaria di qualche avversario politico introdottosi clandestinamente. Qua dentro l’innominabile! Siamo libertari o sacrestani? Dev’essere scomparso prima del calar del sole.

ANGUSTIA          - Non dubitate. Sarà l’esame d’ammissione del nostro Desmoulins.

RABAGAS           - Che non ne rimanga l’ombra dell’ombra di una traccia!

DESMOULINS    - (che sì che l’abbiano tirato su superstizioso?) Non sarà che porti male? Lo fanno vendicativo. Non ne lascia passare una nell’Antico Testamento, secondo i suoi biografi di fiducia.

RABAGAS           - Ah, andiamo bene per un discendente di chi guidò la presa della Bastiglia!

DESMOULINS    - Dovete compatire, mi farò. Non mi facevo capace che fra voi e nostro signore ci fosse della ruggine a tal punto. Basta saperlo.

RABAGAS           - E cosa t’eri messo in mente?

DESMOULINS    - ...una diplomatica convivenza...

RABAGAS           - Adesso lo sai. Ci ignoriamo rancorosamente. Datti una regolata. Il futuro non può essere rivoluzionario senza essere anticlericale. Niente oppio dei popoli, noi! Chiaro? Giusto? Di nuovo ora, seppur meno turbolenta si fa sentire la piazza. Occhiata interrogativa.

ANGUSTIA          - Vi rivogliono, chiaro.

RABAGAS           - (scocciato) Di nuovo quei tangheri! Trova una scusa... Digli che sto al cesso, che ho la febbre... che sono stato rapito, vittima di un attentato, quel che ti viene in mente.

ANGUSTIA          - Impossibile: il rito; siamo in ritardo; vacillerebbe l’idea, già è poco salda sulle gambe.

RABAGAS           - (sbuffando, però si piega) Qui, ormai, ti fanno vivere nudo in piazza.

ANGUSTIA          - Ce li avete abituati voi.

RABAGAS           - Popolo, popolo, quanto mi costi! Estrae l’orologio, lo impugna e, a braccio teso verso l’alto, si erge nuovamente sul balcone, viso sarcastico, tono provocatorio ed è subito un silenzio cimiteriale.

RABAGAS           - Ei tu, lassù! Dico a te! Se ci sei, fulminami. Ti do un minuto. E presto, che non ho tempo da perdere...

DESMOULINS    - (sorpreso) Si danno del tu?

ANGUSTIA          - Se lo son sempre dato, fra loro...

DESMOULINS    - Così, senza il minimo fair-play?

ANGUSTIA          - Non hanno un temperamento facile, né l’uno né l’altro.

DESMOULINS    - Non è poco un solo minuto alla sua età?

ANGUSTIA          - Oggi non è in vena. Nei giorni di minor cattivo umore, qualche volta, arriva a dargliene cinque.

RABAGAS           - (al proprio impossibile interlocutore) Il minuto è trascorso. Sveglia! Altri dieci secondi di tolleranza, toh...

DESMOULINS    - (sottovoce) Se, Dio non voglia, una volta quello si rompe le scatole...

ANGUSTIA          - (maligno) Incassa, incassa, è maestro nell’abbozzare.

RABAGAS           - Stop! Fine dell’esperimento... Visto? Tutte balle: non c’è! O se ne frega, che è ancora più offensivo. L’uomo è l’unico padrone del proprio destino. Si becca un fottio di applausi e rientra.

RABAGAS           - Li ho proprio avvezzati male. Mi par di dir messa.

ANGUSTIA          - Lo è, in un certo senso. E voi il suo celebrante. Bisogna credere alla propria miscredenza!

DESMOULINS    - (rifacendolo ammirato) “Se ci sei fulminami!” Formidabile! Se, al momento, non occorro qui, volo a ripeterlo a mio padre. Tutto cristi, madonne e spiritisanti, si incazzerà come una bufala da mungere. Se non è la volta che gli viene un colpo e mi lascia erede universale da mangiarmi tutto in marchette, mi faccio frate!

ANGUSTIA          - Sbrigati che hai il muro da riconsacrare e mi dovresti anche dare una mano a correggere le bozze del giornale.

DESMOULINS    - Dài oggi, dài domani, ho trovato il sistema per farlo fuori. Vado e vengo. E per il momento va, mentre Rabagas si pone alla scrivania.

RABAGAS           - Non mi dispiace l’entusiasmo di quel marcantonio, gravido d’avvenire. Ci riconosco i miei anni verdi.

ANGUSTIA          - Strana anarchia, col portafoglio rifornito, e che ragiona solo dalla cintola in giù.

RABAGAS           - I pied-a-terre dell’Ideale, a quell’età non se ne conosce mai l’indirizzo esatto. È un utile idiota che può fare bene alla Causa. ...Dunque le bozze della “Carmagnola” di domani?...

ANGUSTIA          - Sotto il vostro naso. Se si esce.

RABAGAS           - Sarebbe a dire?

ANGUSTIA          - Cosa bella e mortal passa e non dura. Aut-aut del tipografo: o il saldo del debito sull’unghia, o si rifiuta di stampare e manda gli uscieri.

RABAGAS           - (olimpico) Sine materia, ius nullus. Cosa vuoi che vengano a sequestrare? La fame del popolo? Dove non c’è profitto, non esiste convenienza. Sta sicuro che la fame non la sequestrano.

ANGUSTIA          - Purtroppo no. È una droga con crisi d’astinenza spaventosa. Voi non potete aver idea cosa voglia dire, per esempio, un raptus da cotechino. Si vede rosso.

RABAGAS           - È il nostro colore.

ANGUSTIA          - Ma la debolezza, caro voi!

RABAGAS           - La debolezza è la nostra forza.

ANGUSTIA          - Non son certo io a potermi lamentare. Ho visioni inebrianti da nirvana, con robusti cotechini dotati di ali in languida salsa di lenticchie, come cherubini che svolazzano nell’azzurro svioloncellando e arpeggiando il “Ça-ira”.

RABAGAS           - In verità vi dico, verrà un giorno in cui gli idealisti, i giusti come te potranno ingozzarsi di cotechino fino allo schifo e crepare di indigestione: i tempi saranno presto maturi, e guai fermare la mascella allora! Perché capisci, l’attuale ma transitorio dramma della miseria consiste tutto e soltanto nel non essere prospera a sufficienza per scacciare la ricchezza e portarle via il posto, più naturale e semplice di così! Che poi comporti anche la distruzione materiale alla radice della classe abbiente è del tutto accidentale e secondario. In fondo cos’è che ci si domanda? Che la povertà diventi ricca e che la ricchezza diventi povera. Né più né meno due viaggiatori che si scambiano il posto in treno... la direzione è diversa, il percorso non cambia... e la partita è vinta.

ANGUSTIA          - (sfinito) Col languore che mi ritrovo le vostre parole sono altrettanta manna ricostituente. Se solo, anziché la via del cervello infilassero quella dell’esofago, ogni problema sarebbe risolto. (apprestandosi ad uscire per raggiungere lo stampatore) Come ci si regola ora col tipografo?

RABAGAS           - (il suo marmoreo ottimismo) Su colla vita, Angustia, dov’è la bandiera delle nostre ore buie? Sei lì che sembri il fantasma intestinale di te stesso. Ne abbiam passate di peggio.

ANGUSTIA          - Se non trovo almeno dieci minuti per tirarmi su con uno svenimento, non ce la faccio proprio.

RABAGAS           - Affoghi in un cucchiaio d’acqua, Angustia. Ti preoccupa il tipografo? Esiste quella benemerita invenzione che è la cambiale? E tu la usi. A che servirebbero le ombrelle se non a ripararsi quando piove?

ANGUSTIA          - Una parola!

RABAGAS           - Appunto: nominalismo, una parola scivolata nel discorso, e che non parendo se ne trascini dietro un’altra somigliante ma diversa... Posso sbagliarmi naturalmente, ma, per quanto... tipografo sia, uno non può risultare insensibile all’insinuazione che è di gran lunga preferibile conservare in sonno una pacifica cambialetta in compagnia di tante sue sorelle che l’han preceduta, in fondo ad un cassetto, allo scoprire, sveglia e irrequieta, una bomba nervosa, che soffre di solitudine, sotto una linotype.

ANGUSTIA          - Ma è disonesto, maestro! Un ricatto!

RABAGAS           - È soltanto politico, discepolo, un avvertimento. La vogliamo preparare sì o no questa rivoluzione?

ANGUSTIA          - Certo, però c’è modo e modo.

RABAGAS           - C’è un modo solo di fare le rivoluzioni. E non è colpa mia se passa attraverso le bombe. Ma, de hoc satis, quisquilie. Non ho potuto ancora dare un’occhiata alla “Carmagnola” di ieri.

ANGUSTIA          - Ne avete così di numeri invenduti sulla scrivania!

RABAGAS           - Lo credo. Non arriva neanche fino a Mentone. Di questo passo, finirà maggiore la resa della tiratura.

ANGUSTIA          - (sempre tanto suscettibile) Cos’è una sottintesa richiesta di dimissioni? Non più: le rimetto nelle vostre mani fin da questo momento.

RABAGAS           - E dove lo troveremmo un altro che ci pagherebbe per fare il direttore? Mica tutti hanno la tua abnegazione missionaria! Non preoccuparti: se non altro una risorsa non ci mancherà mai; contro tutti i nostri guai sapremo sempre con chi prendercela. La “Carmagnola” langue? Boicottaggio dei soliti sfruttatori del popolo. È se andasse bene che ci sarebbe da preoccuparsi. Guai a noi se dovesse andar meglio... E questo che vuol dire? (leggendo un titolo) “Un’imboscata nella notte: rischia la vita attraversando i giardini cosiddetti reali”... Niente male quel “cosiddetti”.

ANGUSTIA          - Ah, niente: un’altra bravata di Rapinat. Dopo la chiusura serale del parco in seguito all’attentato fallito.

RABAGAS           - (esplosivo lui) L’ho ancora da mandar giù! Domando e dico: che nichilisti siamo? Una bomba ad orologeria coll’orologio fermo! Che ne penserà Bakunin?

ANGUSTIA          - Era il nostro primo attentato; siamo stati traditi dall’entusiasmo. Bisogna aver pazienza che i ragazzi ci facciano la mano.

RABAGAS           - ...la chiusura serale del parco, e dopo? Avanti.

ANGUSTIA          - Rapinat non si è piegato al sopruso ed è finito all’ospedale. L’altra notte, per via, anche di soddisfare un bisogno urgente, ha scavalcato il cancello, e, mentre tranquillo e fidente, cantando in questo paese di bionde “Vorrei baciare i tuoi capelli neri” – che, tra l’altro, canta benissimo – spandeva acqua contro l’oscena statua dell’Ercole in orgasmo, veniva investito, in testa, da una scala appoggiata al muro, fatta cadere da un ammantellato in fuga, che c’era inciampato contro e se la dette a gambe, scomparendo, incognito, nelle tenebre, almeno secondo la versione di Rapinat.

RABAGAS           - (soprappensiero) Un ammantellato... Chi può essere stato mai?

ANGUSTIA          - Chissà se esisteva quell’ammantellato.

RABAGAS           - Ammantellato non è parola che un Rapinat sarebbe in grado di inventare, se almeno un mantello non l’avesse visto.

ANGUSTIA          - Ne dice tante! Lo conoscete, al solito era ubriaco cotto. Vede ammantellati dappertutto, probabilmente perché non ha mai visto un paltò. Quando beve, il vocabolario gli si arricchisce.

RABAGAS           - (severamente) Angustia! È un proletario!

ANGUSTIA          - Sì, ma ubriaco.

RABAGAS           - Bisognava montarla di più! Che giornalisti siamo? Ci ammazzano i nostri figli migliori e noi si subisce in silenzio? Ma siamo all’ammainabandiera?

ANGUSTIA          - Una semplice escoriazione al ginocchio.

RABAGAS           - Un’escoriazione confezionata come si deve, può diventare un casus revolutionis. A Balilla bastò un sasso contro un chepì senza nemmeno colpirlo. Dovevate chiedere istruzioni a me.

ANGUSTIA          - Eravate in missione all’estero a fare rifornimento di martiri a buon mercato nel paese dove si sprecano.

RABAGAS           - Debbo vedere Rapinat!

ANGUSTIA          - Sta all’ospedale.

RABAGAS           - Dunque presentemente è astemio, deinde relativamente attendibile.

ANGUSTIA          - Si presume, per l’affidamento che gli Ospedali possono dare.

RABAGAS           - (e dàlli!) ...Un ammantellato... Cosa ci andava a fare di notte un ammantellato in quel parco? Momento! Chi può aggirarsi ammantellato a ferragosto? Quanti gradi segnava l’altra notte il termometro?

ANGUSTIA          - Possedevamo un termometro l’inverno scorso. S’è rotto e da allora non abbiamo più avuto notizie della temperatura, se non tramite occasionali conoscenze. Per il bollettino meteorologico ci regoliamo col dito insalivato fuori dalla finestra a detta dei competenti, tanto più sicuro; e, francamente, nessuno si è più lamentato, ché prima non era che una lettera di protesta via l’altra. Nessuno era mai contento del tempo. Ognuno difendeva il suo, mai due che andassero d’accordo.

RABAGAS           - Siamo un paese d’individualisti, dovresti saperlo.

ANGUSTIA          - Però, a onor del vero, d’agosto, tutti sempre piuttosto sul caldo. L’altra notte il dito sudava.

RABAGAS           - Il quindici d’agosto, sfido! Capirei uno che fugge in maniche di camicia, anche uno scostumato a torso nudo, un esibizionista biotto, ma, ammantellato, non mi torna proprio. È un mistero da chiarire. Cui prodest?

ANGUSTIA          - Intanto che ci pensate, io vado per le bozze della “Carmagnola” di domani, se ci sarà la “Carmagnola”. Dieci minuti di svenimento per recuperare un po’ di tono e mi rifaccio vivo.

RABAGAS           - La sua droga... Cormelin ha già tolto il disturbo ed era ora, ma un altro ne incalza. Il tempo necessario a non alimentare troppo scopertamente la sensazione che tutto sia predisposto, e suona il campanello. Prima che qualcuno dica “avanti”, adorabile puttana fino alla radice dei capelli, nell’eleganza lieve e invereconda della naturalezza a metà spontanea, a metà calcolata, effusa da ogni parola, ogni gesto, ogni mossa, per un colloquio temperato dall’umorismo epperò tutto in chiave di sfacciata e sconcertante piaggeria, ecco già qui Eusapia, colta nella grazia di richiudere un leggiadro ombrellino di pizzo rosso fiamma, in tono col lussoso rosa pallido di un perlaceo abito da mattina firmato Worth... Lunga sosta di sincero stupore in vista del tribuno – dopo tutto un bell’uomo è un bell’uomo. Egli s’è alzato e dall’iniziale, comprensibile imbarazzo scivolerà gradatamente preda della più fatua delle vanità, banali tagliuole meno infrequenti di quanto si supponga, disseminate lungo il sentiero di coloro che si ritengono astuti nel dominare il gioco e, nel corso del colloquio, egli si sente astutissimo, fino a travalicare nell’insolenza. Tuttavia, mai disarmando del tutto da un fondo di sospettosità cautelativa, che lo mantiene continuativamente in allarme, natura bifronte di ogni uomo politico, più o meno, a qualsivoglia livello, ingenuo oppure no.

RABAGAS           - (primo inciampo, la goffaggine d’una certa galanteria da provinciale, immediatamente percepita e messa a frutto dalla schermitrice avversaria, navigatissima donna di mondo) Con chi ho l’onore, madame?

EUSAPIA             - (che par ridestarsi da una sorta di rapimento ammirativo) Eh? (marcatamente a se stessa) Fallacità delle prevenzioni!

RABAGAS           - Come dice madame?

EUSAPIA             - Tra le mie pessime abitudini c’è anche quella di parlar da sola; il che, se, in rarissimi casi può rivelarsi conveniente, come può ben intuire, è estremamente disdicevole in certi men rari momenti... d’intimità che non andrebbero confidati nemmeno a se stessi. Che intende far sapere? Che si abbandona ad esclamazioni oscene “durante”? Piuttosto sconveniente in epoca vittoriana, quando nemmeno un millesimo di quanto si pensava fu mai pronunciato, a differenza di oggi che avviene il contrario. Donde l’eterno problema insoluto: parlare sì, parlare no? Io sì.

EUSAPIA             - È arrossito avvocato? Di nuovo pardon. Io faccio la spola tra una gaffe e l’altra. Non ci badi.

RABAGAS           - Non badi lei, piuttosto, a quel che chiama il mio rossore. Son uomo di mondo, laureato allo studio bolognese. Si tratta di una città dove non è mai arrossito nessuno, eccettuato, dicesi, Arrigo settimo, quando vi passò perché vi passò e non era bolognese. Ma perché vi passò, se vi passò?

EUSAPIA             - Una lezione di storia.

RABAGAS           - (un po’ dottor Balanzone) In realtà, vede, si tratta di una dilatazione riflessa dei vasi sanguigni in relazione alla temperatura. Oggi è molto caldo e così... equivocare licet.

EUSAPIA             - Un rossore emotivo-indipendente se ho ben capito. Vergogna, indignazione, ira e aggressività, lussuria, cose del genere, niente? Soggiace alla lussuria lei, avvocato?

RABAGAS           - Santo cielo, ho così poco tempo. Dovrei coltivarla di più.

EUSAPIA             - Non soggiace: tempra d’acciaio.

RABAGAS           - Non me ne inorgoglisco. Soggiaccio e non soggiaccio.

EUSAPIA             - Ho compreso: va e viene. Ebbi occasione di conoscere un altro insigne talento il quale, sotto l’effetto della lussuria gli si accendeva il volto di viola: una melanzana matura, ha presente? E mica ne aveva vergogna, anzi, se ne gloriava; faccia conto un porporato in una giornata di malinconia; piuttosto eccitante, non trova? Caro Victor, ne menava tanto vanto!

RABAGAS           - Ma, sa... porporati, io... Negato. È cascata male.

EUSAPIA             - Non mi dica. Cominciano ad andar molto, sa? Farsi un prelato, oggi, è molto “in”, poco meno che farsi un frocio.

RABAGAS           - Non sarò io a fermarli. Finisca.

EUSAPIA             - Appunto, e così mi figuravo la terribilità del suo volto nella foga di un’arringa; lei è una personalità che mette una soggezione da prenderti per lo stomaco. Che posso farci?

RABAGAS           - Non ha da farci niente: rubor non timeo.

EUSAPIA             - (dopo averci pensato su) Cioè? Scusi.

RABAGAS           - Non divento rosso. Tocca a me impetrar venia. Abbia pazienza, sempre il felsineo feticismo curiale della citazione latina. Bonomia docet.

EUSAPIA             - (facendoglielo pesare) Ah, ecco, vedo. Che stavo dicendole? Una soggezione che stringe qui, il seno. Stranissimo... E ci provvede con le grandi e belle mani prensili colme di tentazione.

RABAGAS           - (svicolando) Cosa vuole, il verbo del diritto nella pratica della toga, radicata retorica oratoria.

EUSAPIA             - Io soltanto pelle: tatto, se vuole.

RABAGAS           - (c.s.) Gran senso il tatto.

EUSAPIA             - Pur di mantenerlo in esercizio... mi leva una curiosità?

RABAGAS           - Quante vuole, madame.

EUSAPIA             - Trattandosi di un fenomeno dipendente dalla temperatura, le arringhe dovrebbero riuscirle meglio d’inverno... o d’estate? Adesso mi si confondono già le idee. In altre parole, esiste una stagione in cui si sente professionalmente più a suo agio.

RABAGAS           - (non senza orgoglio) Tutto l’anno, tolto un leggero calo durante le mezze stagioni, ma roba da niente.

EUSAPIA             - Sciocca che sono! A lei, le arringhe vengono ugualmente bene da trenta gradi sopra a quaranta sottozero, beltempo, pioggia, neve, vento, umido, secco, nuvolo, sereno...

RABAGAS           - ...nebbia, grandine. Alieno al barometro, sostanzialmente.

EUSAPIA             - Mi crede se le dico che l’avrei giurato?

RABAGAS           - Curiosità scusabile. Se non vuol altro...

EUSAPIA             - Povera me. Non s’interroga l’usignolo se canta e il leone se ruggisce, a seconda del tempo che fa. Non bastava sciocca, anche petulante.

RABAGAS           - Per carità.... Eccessivamente magnanima, non merito tanto.

EUSAPIA             - (ma che c’entra? C’entra) Meglio stringere commendatore. Stiamo per imbarcarci nella scena più importante del copione; saltiamo un paio di pagine, così ci avviciniamo alla stretta.

RABAGAS           - A suo comodo, pur di non danneggiare la mia parte. Credo di essere fra tutti l’unico personaggio sopravvissuto del testo originale, travisatissimo e malamente assai.

EUSAPIA             - (rieccola personaggio) Dov’è?... Ah. Mentirsi contro è l’unico diritto al quale uno come lei non ha diritto.

RABAGAS           - E perché? Non ho questo diritto? Sentiamo.

EUSAPIA             - (jena ridens) Perché ha tutti gli altri. Lei scoppia di diritti.

RABAGAS           - (spudorato) Beh, adesso non esageri. Qualche causa mi son concesso il lusso di perderla anch’io, semel in anno licet errare, giusto?

EUSAPIA             - Stento a crederlo (e avanti, volubile come una bella giornata di marzo, stranamente ottenendo da lui tutto quanto spiritosamente gli domanda). Ah piuttosto, già che ci siamo le spiacerebbe offrirmisi di profilo?... Di fronte... Tre quarti... Ancora di faccia... La nuca, adesso... Scusi la familiarità, non mi ridarebbe l’orecchio per un controllo? Abbia pazienza... Basta così... stupefacente. Al museo delle terme, non c’è alcun dubbio. O in Vaticano. Ore ho trascorso, affascinata, in ammirazione di quei busti superbi, retaggio di tempi irrecuperabili, consegnati alle gallerie romane o partenopee. Non ho certo né il suo acume, né la sua facondia, ma c’è una cosa che non posso tacere: la sua testa, avvocato, è una testa di romano. Non deludiamoci a vicenda con la solita manfrina del sì e del no, che già nessuno ci crede. Lei è una testa di romano, si rassegni e basta! Classica! Non accetto obbiezioni. La mia scorpacciata di romanità me la son fatta anch’io.

RABAGAS           - Se si tratta di non litigare, rinuncio ad insistere.

EUSAPIA             - Occhi negli occhi, non è che le risulti d’aver udito qualche voce in famiglia... il vago accenno di una qualche discendenza lungo i secoli, dagli Antonini, dai Giulio-Caludii?... Dai Flavii, quella roba lì?...

RABAGAS           - Cosa vuole, con tutto il tempo che è passato... Effettivamente, posto che è lei a venire sul discorso... Sì, la mia famiglia è di origini italiane... ma tutto si ferma lì.

EUSAPIA             - Vede? Lo dice lei che si ferma lì.

RABAGAS           - E mi vien da ridere, nemmeno a farlo apposta... originaria di Roma, ma che vuol dire? Accidenti fortuiti, persi nella notte dei tempi.

EUSAPIA             - Che vuol dire? Ha poco da ridere. Vede, vede!

RABAGAS           - Se ci fa caso ne è rimasta traccia nella pronuncia, stando almeno a qualche glottologo. Coincidenze e nient’altro.

EUSAPIA             - Coincidenze? Coincidenze! Ma la testa? Se l’è mai guardata la testa nello specchio, lei?

RABAGAS           - Tutte le mattine, quando mi faccio la barba.

EUSAPIA             - E non le dice niente?

RABAGAS           - Cosa deve dirmi?

EUSAPIA             - Sei una testa di romano, deve sussurrarle. Tutto mi potevo aspettare, da come mi era stato raccontato: un austero giurista, un sottile causidico, un accusatore spietato, un travolgente difensore, uno scaltro politico, un tonante tribuno, un Danton che si strappa brani di carne nell’impeto dell’oratoria... tutto! Mai e poi mai un imperatore... Marco Aurelio, Diocleziano, Nerva... Adriano, Tito, ecco: Tito, ci ritrovo un che di Tito, come mi figuro che dovesse essere Tito, ecco, così: i.n.e.q.u.i.v.o.c.a.b.i.l.m.e.n.t.e.

RABAGAS           - (esimendosene, ma è tardi) Tito no, hai voglia... Tito, “la delizia del genere umano”, figurarsi, no, no; se proprio, per non darle una delusione, vista l’insistenza... un modesto Galba. Di più non se ne parla nemmeno. Non possumus.

EUSAPIA             - Macché Galba! È quello cui somiglia di meno.

RABAGAS           - Per cortesia, ha mica uno specchietto nella borsetta?

EUSAPIA             - Certo che ce l’ho. Glielo dà e lui ci si controlla senza far una piega.

RABAGAS           - Tanto così più di Galba ci rimetto: si precipiterebbe nel ridicolo. O Galba o niente!

EUSAPIA             - Ed è una testa da Cesare prima di perdere i capelli!... Galba! Ma realizza? Quel rachitico, arcigno, antipatico, malmostoso, indisponente e sdentato di Galba, un fusto, un platano, un abete, una quercia come lei! A Galba non ci sto io... Era anche zoppo Galba? Mi pare di averlo sentito dire.

RABAGAS           - Non so. Insomma, non insista a rompere, signora; nemmeno uno squadrone di pompieri mi strapperebbe a Galba. Galba dissi e Galba è. Stop lì!

EUSAPIA             - È autolesionismo! Lei si vuol male, è sleale negarsi ciò che ci spetta. Che ci guadagna a fare il masochista uno che, attraversando la strada la gente dovrebbe fermarsi a bocca aperta a segnarlo a dito, se porta a spasso una testa di Galba? (la freccia del parto) Mi figuro le donne. Se non altro, lo faccia per le sue ammiratrici.

RABAGAS           - Lei ha un concetto del prossimo lusinghiero, ma romanzesco, madame: non ci fanno nemmeno caso; sì e no che rispondono al saluto, la più parte, che sono il novanta per cento e passa.

EUSAPIA             - Lei ha sbagliato indirizzo avvocato. Uno straccio di estero qualsiasi e la sua carriera sarebbe stata ben diversa. Pensi un po’ la testa di un Vespasiano a spasso per New York: la paralisi del traffico! Qui è buttata ai porci. Ma anche soltanto a Roma, italiano come si riconosce, perché lei, lei ha il profilo del romano di ieri, ma la mente è quella del romano nemmeno di oggi: di domani, questo è il prodigio. Si risente se le dico che in grande, molto in grande, mi ricorda Spadolini?

RABAGAS           - (in buonafede) Lo sa che qualche volta la penso così anch’io? Purtroppo, a nessuno è dato scegliersi il proprio tempo.

EUSAPIA             - Perché non vi si trasferisce?

RABAGAS           - Eh, là c’era una tradizione, una politica... Malinconie di oriundo; ormai è fatta, alea iacta est, come previdero gli antenati. Amo il mio piccolo, ingiusto, avaro paese, dove s’è perduta, seppur mai ci fu, ogni facoltà di distinguere una tomba da un monumento. Purtroppo le plebi son così.

EUSAPIA             - Ma lei le disprezza le plebi. Lo confessi.

RABAGAS           - Tutti i loro paladini le spregiano. Ragione di più per redimerle. Chiaro? Giusto?

EUSAPIA             - Certo, certo, e, quindi, doppio merito. Non perde un colpo, lei. Mi consenta almeno di sospendere un però... su tanta abnegazione.

RABAGAS           - La patria, signora, si torna al punto di partenza.

EUSAPIA             - Le vocazioni sprecate, quindi. Peccato, menti di tal levatura.

RABAGAS           - Sprecate o sbagliate fa lo stesso. “Durissima coquit”, altrettanti struzzi; digerirebbero i sassi come zuccherini. È un continuo scoraggiamento, non hanno spina dorsale... Si lascerebbero tagliare... oh, pardon... una signora, scusi tanto... Ha capito cosa?

EUSAPIA             - Per cos’altro crede ch’io viva pellegrina, nel compianto dell’antico, quando tutto era marmo incorruttibile? E pensare che menti così, impiegate a tempo pieno e a lasciarle fare, potrebbero essere tanta manna per un paese in via di sviluppo, come si dirà fra poco. È triste.

RABAGAS           - Peggio è che non ha né la voglia, né l’ambizione, né la fiducia di lasciarsi sviluppare. Questo borgo mi sta stretto, madame, stretto da morire.

EUSAPIA             - (stessa china) Non saranno neanche numerosi gli spropositi del Creatore, ma le rare volte che cede alla tentazione, dal diluvio universale in poi, son spropositi che lasciano il segno. Ma, forse già da un po’, urge il momento di riportare il discorso sul binario di destinazione, nel contenuto se non proprio ancora nel tono.

RABAGAS           - (nel baluginare salutifico di una prudenziale sospettosità) Mica per decollare codesta galante e lusinghiera conversazione, però, prima di ruzzolare nei burroni della filosofia, non ritiene, madame, giunta l’ora di cessare di portare il cane a spasso, per declinare le sue generalità e, possibilmente, lo scopo onde m’ha onorato di una visita tanto gradita, con una testa di romano appresso?

EUSAPIA             - (ma lo fa apposta) Che ornata e rotonda sintassi mette in moto! Tutto in un solo periodo che scorre con la fluida scioltezza della Senna nei periodi di piena.

RABAGAS           - Con un punto interrogativo alla foce, però.

EUSAPIA             - Eh, lo so... Son qui, arresa all’inquisizione, proceda pure.

RABAGAS           - Non mi azzarderei mai.

EUSAPIA             - Si azzardi, si dissipi avvocato. Spendersi ogni tanto fa bene alla salute... Mi abbuoni la domanda sull’età e il resto è suo.

RABAGAS           - (galante come una faraona stagionata) Da una prima attrice, non la si pretende mai, fin qui ci si arriva.

EUSAPIA             - Prima attrice di complemento, spalla a un mattatore del suo calibro! Commendatore, senza il suo nome capoditta, lei non firma scritture, pur se, come personaggio, io sono forse un osso più elaborato e più ambiguo del suo. Prevediamo entrambi come finirà. Restaurati, rigenerati, rammodernati fin che si vuole: modelli, prototipi... Maschere, tutti, noi siamo indistruttibili.

RABAGAS           - (al punto di rottura) Allora?

EUSAPIA             - Vengo. Americana di nascita – Boston – e spiega i piedi per terra, lato prosaico di una mentalità realistica; europea di corruzione, pardon, di allevamento – Parigi – donde testa fra le nuvole, mon cöté revasseur, eternellement en état de pêché; maritata ad un essere straordinario, ma astratto; vedova fin dalla notte stessa delle nozze, si può dire.

RABAGAS           - Separazione? Divorzio?

EUSAPIA             - Funerale. Colorato, luminoso, festante e profumato come i funerali italiani. Riposa sotto una cerulea e soffice coltre di azalee, in una tremula cornice di nontiscordardimé, mantenuti freschi dai suoi amici, nel piccolo camposanto di Capri, dove può, finalmente, contemplare, con comodo, da sotto in su, le Pleiadi, per le quali aveva un debole e furono l’unico elemento in comune di un matrimonio che poteva essere felice e, nonostante tutto, non fu infelice. A questo mondo basta stabilire lealmente i rispettivi territori di caccia. Ebbe quel che donò, coerente, fino all’ultimo respiro.

RABAGAS           - Deve consentirmi un secondo allora. Come mai “si maritò”, allora?

EUSAPIA             - Come mai “si ammogliò”, vorrà intendere. Curiosità. Volle provare, ne sentiva tanto parlare da gente la quale non ne aveva idea... Sì, proprio uno splendido animale, superbo del suo metroenovanta, orgoglioso dei propri muscoli, campione universitario di pentathlon, inarrivabile alla sbarra... Negato e... ricercatissimo. Sono i casi per cui si dice “un Apollo”. Lui no, un Mercurio, casomai. Mah, succede. Come lei i prelati. Antipatia, dal povero Tomi, non condivisa. Al contrario. Alla chiesa dette molto e molto ricevette. Era un gigante dalla delicatezza vigorosa e di una generosità inimmaginabile, mon pauvre petit grand’homme. Non si pentì né si smentì mai. Splendido sempre. E com’era stato nell’esistenza breve e luminosa, con la sua vedova finalmente vedova, fu magnifico... Mah... che vuol farci, amico mio? La vita non guarda in faccia nessuno nel distribuire rose e triboli... E così, solo pensare al controllo di ciò che m’ha lasciato a consolazione della solitudine, si rischia la meningite. Non è tutt’oro quel che luccica... My golden boy.

RABAGAS           - Pazienza, madame, anche i ricchi hanno i loro disturbi. Lei ha bisogno d’un amministratore, mi par di capire.

EUSAPIA             - Una parola! (polverizzato fino allo scorporo) Dove si trova oggi un brasseur d’affaires di cui fidarsi? Offrirsi? Non offrirsi? Una pausa, però che pausa.

RABAGAS           - Come dice?...

EUSAPIA             - (lasciando correre, come del resto aveva già deciso) Ho detto qualcosa?

RABAGAS           - M’era parso... (ai margini della maleducazione) Tuttavia...

EUSAPIA             - La ragione che son qui bramerebbe sapere?

RABAGAS           - Ha indovinato: bramo! Ridondo di bramosia.

EUSAPIA             - Conoscere di persona un uomo sulla bocca di tutti, di cui t’han fatto una testa così – un consiglio, un consulto, un parere professionale... uno scambio di reciproci interessi... c’è chi vende patate e chi – oddio arrossisco – vende... opinioni... Io sono una poverina sola, timida, pavida e inesperta... ho necessità... di qualcuno di fiducia come uno storpio di una gamba di legno; avvocato, lei conosce poco le donne... non le par sufficiente?

RABAGAS           - (sgusciando) Certo, certo, però... affascinante finché si vuole, non cessa per questo di appartenere, diciamo, a un ceto agli antipodi di quello che modestamente rappresento io... Si fa per dire, solo con quello che deve costare l’abito che indossa, potrebbe vivere comodamente una famiglia di mezza dozzina di persone per mezza dozzina di mesi, senza correre pericolo di meningite per mancanza di un fidato brasseur d’affaires... Nulla da dire?

EUSAPIA             - Che? M’ha gelato le parole sulle labbra... Ha ragione. È il mio... piccolo dramma; vuol degradarlo ulteriormente? Il mio imbarazzo... Di più? Il mio rimorso. È soddisfatto? Toccata. Arresa. Sconfitta. Sgominata.

RABAGAS           - (è quasi una rottura) In un certo senso, io ero l’ultimo che una come lei, romanità a parte, avrebbe dovuto avere interesse di avvicinare.

EUSAPIA             - (riacchiappandolo, imperturbabile) In un certo senso, l’ultimo. In un altro, invece... il primo... Non comprende?

RABAGAS           - Ama gli indovinelli, madame?

EUSAPIA             - Li adoro. Non se n’è accorto?

RABAGAS           - Non son poche le cose che lei adora, a quanto pare.

EUSAPIA             - Sempre una di più di quante si creda, avvocato, il gusto è lì. E meno male, o meno bene, che è di ritorno Cormelin recando la bozza di una pagina di giornale.

ANGUSTIA          - La bozza della “Carmagnola” di do... Rimane stupefatto, col “mani” fra i denti, alla vista di madame, tanto da indurre l’avvocato ad avvicinarglisi furtivamente.

RABAGAS           - Che succede, Angustia? Gli uscieri? Diggià?

ANGUSTIA          - Ma che state a fare? La ruota a quella lì?

RABAGAS           - (c.s.) Una nobile dama entrata a conoscermi per omaggiarmi.

ANGUSTIA          - Una baccante, altroché!

RABAGAS           - Angustia!

ANGUSTIA          - (c.s.) La nobile dama altro non è che la ganza del tiranno. La fanno lussuriosissima, una mantide religiosa.

RABAGAS           - Religiosa? Ed io che sono ateo! La sua mignotta?! Ma no!

ANGUSTIA          - Ma sì! Ospite a palazzo, da mercoledì, con la scusa di far da educatrice alla figlia; sta fresca, la poverina. Regolatevi: contatto infetto... Ah! (ancor più sottovoce, se possibile) Pare che a Parigi, abbia fatto perdere la testa a Victor Hugo, peggiorando la situazione del vate già abbastanza compromessa per conto suo: una rovina-famiglie e non vi dico altro.

RABAGAS           - Io sono scapolo.

ANGUSTIA          - Se venite di là, vi dettaglio il resto. E si dilegua senza un saluto. Persa nella divertita ambiguità del suo perenne sorriso, essa è rimasta a fissarli, nulla udendo, tutto intuendo. E procede, lesta, come continuando un discorso mai interrotto.

EUSAPIA             - Ci si stava chiedendo perché io da lei. Se la montagna non va a Maometto, Maometto andrà alla montagna. Chiaro? Gliel’ho accennato. Lei non ha idea – o fa finta – l’ammirazione, la stima e l’invidia che la circonda; le speranze e i timori posti in lei, ecco.

RABAGAS           - (irto e spinoso di sospetti) Ma vada là... E non sussulti, che se mi potessero far fuori...

EUSAPIA             - (impassibile) Qual omaggio meno sospettabile per una personalità di talento? Soltanto la conservazione degli sciocchi non dà fastidio; quelli non li vuole far fuori nessuno... (gatta e volpe, un incrocio) Giusto se ne conversava, sere addietro, con Sua Grazia, a cena, nel distrarre una dispettosa aragosta – è un mio buon amico che mi rammenta tempi passati e mi soffermai a salutare sulla via del ritorno in Francia.

RABAGAS           - (piccato) Dopotutto, esistono le Pleiadi anche nel nostro cielo, vuol dire?

EUSAPIA             - (non è aragosta, ma digerisce anche questo) Ma pensi! Lo notavo stanotte. Soffrendo d’insonnia, mi accade di scrutare il cielo. (e di seguito, come se niente fosse) L’aragosta, dicevo... Adesso non mi ricordo come si fosse venuti sul discorso di quanto vada facendosi raro... il disinteresse – Sua Grazia è fissata sul disinteresse – negli uomini pubblici. Pare una fatalità, mi faceva osservare, i pochi uomini intemerati... e, se non ricordo male, mi colpì che, in occasione di questa parola, tanto poco consueta, se vogliamo, facesse il suo nome, con gran rispetto, debbo dire. Dopotutto, star su trincee avversarie non deve necessariamente significare mancarsi di rispetto... le pare?

RABAGAS           - (abbocca?) No, no, certo questo no. (impaziente per la pausa da essa calcolata) Era arrivata ai pochi uomini intemerati, se non ho mal udito...

EUSAPIA             - Stavo dicendo, sì... cosa stavo dicendo? Ah! “Pare una fatalità – riferisco le sue precise parole – che i pochi uomini intemerati rimasti finiscano tutti all’opposizione”. Che vuole, maggioranza, opposizione, è un venerando luogo comune europeo, duro a morire, quasiché non si governasse anche dall’opposizione! “Non ce n’è più uno” e mi parve molto amareggiato concludendo “sul quale il centro possa contare”. Discorsi che si fanno a tavola... però si fanno.

RABAGAS           - Sua Grazia ha ragione, un avversario, una volta tanto, non può aver ragione?

EUSAPIA             - Ah, lui ne è convinto... Dal suo punto di vista, si capisce. Io un po’ meno, ma per ciò che conto io... D’altronde, colle mediocrità che lo circondano... “A Destra e al Centro, – aggiunse, accendendo il suo eterno sigaro – non son rimasti che affarismo, corruzione e corna”. Ma intanto, l’aragosta s’era arresa e il discorso finì lì.

RABAGAS           - Corna? Così disse?

EUSAPIA             - Corna. Tant’è che io, a rischio di pungermi sulle corna, lasciai cadere la conversazione. Non si sa mai, quando non ci si vede da molto tempo. I sovrani sono volubili. E poi, quel fumo in faccia francamente... È un difetto che non si vuol togliere. Ma chi non ne ha? A lei, dà fastidio il fumo?

RABAGAS           - No, no... Corna. Però lui è vedovo, come lei...

EUSAPIA             - Suvvia, non si formalizzi sulle corna. Lui vede corna dappertutto. Si penserebbe che fosse cresciuto in Italia. Ha notato? Cornuto qua, cornuto là... è una parola che si portano addosso come la medaglietta della Madonna di Pompei.

RABAGAS           - Gente saggia... Corna. Sa, a ben pensarci, non ha tutti i torti neanche in ciò? Le corna vanno prevalentemente verso destra. Non lo facevo uomo acuto ed obbiettivo quanto me lo sta rivelando. Lo sa? Né che un irregolare come me, interessasse tanto il palazzo sgranocchiando un’aragosta. (e ride verde)

EUSAPIA             - Sua Grazia – il giusto è giusto – è uomo più attento di quanto lasci credere. È il suo beguin. Si rende conto fino in fondo delle crisi della democrazia.

RABAGAS           - Io non ho mai detto una cosa simile. Tanto più grave, scusi, rendersene conto.

EUSAPIA             - Io non saprei. Son così aliena. Ascoltare e registrare non è per me.

RABAGAS           - (sfogato) Lasci là che gli uomini giusti si troverebbero. È che non li vogliono, non li apprezzano e non li cercano, altroché.

EUSAPIA             - (un soffio) Sì, sì, può darsi. Egli dice che non si trovano... o non osano. Ma probabilmente ha ragione lei... è un uomo buono, amabile, generoso (incalzando senza sottolineare) affabile, intelligente, colto, alla buona... non farebbe male ad un’ape... ma pigro, pigro, talmente pigro... (un alitare appena) forse non s’azzarda... Del resto nessuno è perfetto. Mah... Io la sto annoiando.

RABAGAS           - Ma no... sarà mica timidezza?

EUSAPIA             - Timidezza? Eh! Forse... Forse ingenuo... Chi lo sa? Talmente scarso rilievo intende dare ora al discorso – calcolato, viceversa, in ogni virgola – che, estratto dalla borsetta un libretto d’assegni, volubilmente chiacchierando, s’è messa a compilarne uno senza variare d’un effe il tono manifestamente in calare.

EUSAPIA             - ...anta. “La Carmagnola”, nevvero, si chiama il vostro “terribile” giornale? Fa battere il cuore. Detto fra noi, che nessuno ci sente, pendo un po’... pochino... da quella parte, pure io... rientra nell’eredità. Comincia a intuire il senso di una simpatia?

RABAGAS           - (interdetto) “La Carmagnola” appunto, perché?

EUSAPIA             - Ecco. (e gli allunga l’assegno prevenendo ogni reazione) E zitto, zitto. Non dica niente... Mi son giunte voci di qualche temporanea difficoltà. Ma che anima viva non ne sappia nulla, un segretuccio fra noi, il piacere della complicità. Non lo compero, lo assaggio, un “tanto per gradire”.

RABAGAS           - (debolmente) Ma cosa fa? Non posso accettare... no, no... ci mancherebbe!

EUSAPIA             - Ssst! Non una parola di più. Il povero Tomi non me la perdonerebbe: non sia mai detto che un giornale del popolo debba tirar prematuramente le cuoia come lui... (assassina) Lasci, almeno, che mi paghi l’abito che indosso.

RABAGAS           - Impossibile. Non insista. (mente, come mente!) E poi, non è nemmeno vero che si sia in difficoltà. Calunnie politiche, un temporaneo disguido amministrativo.

EUSAPIA             - (con l’amaro d’una naturalezza schifosa, tanto falsa è) Non sono sufficienti?

RABAGAS           - Anzi.

EUSAPIA             - Al caso, mi darebbe un dispiacere imperdonabile, privarmi della soddisfazione di sentirmi utile in qualche cosuccia. (spudorata) Tradire le proprie radici... Lei non può valutare il rimorso di essere ricchi.

RABAGAS           - Proprio no. Sono desolato.

EUSAPIA             - Chiuda un occhio, mi aiuti ad alleggerire un po’ questo rimorso. Una confidenza: io sono nata proletaria.

RABAGAS           - (pessimo commediante alle ultime battute di un’eterna commedia) Desolato, direbbero che la Sinistra è la mantenuta della Destra, ci pensa?

EUSAPIA             - Lo direbbero egualmente. Succede spesso.

RABAGAS           - Purtroppo, siamo costretti a portarci dietro una coscienza.

EUSAPIA             - Anche l’incorruttibilità ha un limite. Mi sa tanto che lei è ossessionato da Robespierre. M’illudevo non anche dalla spietata crudeltà di Robespierre. Personalmente preferisco la carnale impulsività di Danton, tanto più sensualmente umana, secondo me.

RABAGAS           - Domando scusa, ognuno venera i propri idoli; in testa ai miei c’è l’Incorruttibile, senza, con ciò, nulla togliere all’umanità di Danton.

EUSAPIA             - Se la prende per questo verso... Mi amareggia soltanto veder preposto Robespierre al mio Danton. Io le restituisco le scuse e lei... pazienza (e fa l’atto di ritirare l’assegno). Succede ai maldestri credendo di far bene. Sbagliando, dicono, s’impara. Da dove sta, se ci sta, Tomi si renderà conto. Era anche – faccia caso all’anche – in sua memoria. Avrei avuto rimorso a non farlo. Mio marito stravedeva per il proletariato; morì, si può dire, di proletariato. Con lui, non esisteva disoccupazione per la gioventù. Non c’era pericolo... Non è molto originale, ma, già che è staccato, vuol dire che lo girerò alla chiesa. Sia come vuole lei. Peccato. Lo avrebbe fatto felice... L’avrebbe divertito. Ne sono certa. Ma tu pensa, mi fa diventare anche clericale!

RABAGAS           - (a che persistere nella resistenza?) Pazienza... Trattandosi di onorare un nobile defunto e piuttosto che finisca alla chiesa, come si fa a dire di no?  A buon rendere. Si arrende e intasca.

EUSAPIA             - Con comodo. Non mi aspettavo di meno da lei. Non son molti, di questi tempi, gli uomini... verticali. Che vorrà mai dire?

RABAGAS           - (un po’ sconcertato) Perché, io...?

EUSAPIA             - La verticalità in persona.

RABAGAS           - Stabiliamo, però, una verità: verticale finché vuole, ma è lei che mi costringe... (galante) ricattatrice!

EUSAPIA             - (quel sorriso!) Chi oserebbe dubitarne? Io, io, io... che ho sempre prediletto l’orizzontalità... non è buffo?

RABAGAS           - (chinando la criniera leonina) Ora sì, mi costringe ad arrossire. Si trova lei, adesso, al rischio di guastar tutto non sapendo soffocare lo squillo prorompente di una risata.

RABAGAS           - (a disagio) Si adonta se l’abbandono sola un momento? Ho qualcosa da chiarire al mio fido collaboratore.

EUSAPIA             - A suo comodo, avvocato. Faccia, faccia. L’uomo che mi ero immaginata! Fa piacere.

RABAGAS           - Per carità... La mattina, facendosi la barba, potersi guardare nello specchio e conservare la stima di se stessi, nella vita che altro c’è?

EUSAPIA             - Di più: colui che, radendosi, crede, è sicuro, ci non rovinarsi la faccia... Vede i vantaggi della barba: per la donna è già più difficile.

RABAGAS           - Al contrario. Non radendosi, non corre alcun rischio.

EUSAPIA             - Mi rifarò viva. Ora esiste un patto, pardon, un legame fra noi.

RABAGAS           - Clandestino, ahimé!

EUSAPIA             - Impaziente... E faccia cantare la “Carmagnola”! A squarciagola!

RABAGAS           - Non dubiti. I miei rispetti, madame, tante belle cose. E... alla prossima aragosta.

EUSAPIA             - Ahi, ahi! Non mi rammenti le malinconie. E lui via, col suo euforico sussiego. Subitamente enigmatica ella imprende a raccogliere le sue robe... borsetta, ombrellino col quale ha giocato tutto questo tempo... fintanto che, preceduto dal solito rauco scampanellio, non compare, in borghese, e anche visibilmente accigliato, il conte De Mora. Exit Eusapia incrociandolo sulla soglia e, non prima d’averlo festeggiato, bocca a bocca, d’un bacio breve e fugace, ma confidente e sensuale – qualcosa dev’essere intervenuto, inter eos, lungo questa settimana –, lo mette al corrente.

EUSAPIA             - C’est fait: l’äme pure a mordu à l’hameçon. È stupido non meno di Victor Hugo, senza averne l’intelligenza: solo un fesso pensatore; se si accorgesse, appena, quant’è imbecille, sarebbe un genio. Cancanizziamo la vita... C’è talmente tanta noia, cherì!

DE MORA            - (che vorrà dire? Certo è lo dice con irritata malinconia) Con me, c’è poco da cancanizzare, madame, lasciamo perdere... l’ha constatato.

EUSAPIA             - Pessimista! Ciò che non è accaduto la prima volta, può accadere la successiva: l’allenamento crea l’esperienza. Cosa credi, che Giotto sia diventato Giotto la prima volta che usò il pennello?

DE MORA            - Pensa che debbano esserci delle volte successive?

EUSAPIA             - Finché accade. La fretta è nemica del bene. Un trillo e via. Il tempo per l’applauso se ci sarà, ma ci sarà, e, richiamati dal campanello, riecco i due anarchici e via accelerando fino in fondo.

RABAGAS           - Beh?

DE MORA            - Beh?

ANGUSTIA          - Beh... Da un momento all’altro, parentesi di estraniamento.

RABAGAS           - Si deve andare avanti ancora molto a belare?

DE MORA            - È nel copione.

RABAGAS           - C’è belato e belato.

DE MORA            - Potremmo voltarlo in un ebbene.

ANGUSTIA          - Il beh son due sillabe risparmiate.

RABAGAS           - Non sufficit. È un fatto di tono: meno lagna e più incisività. Riproviamo.

DE MORA            - I soliti gigioni!

RABAGAS           - Siamo sotto finale d’atto: incalzare accelerando: antica regola di Ermete Zacconi e Giochino Rossini. Non di Sardou.

DE MORA            - Non esiste solo il mattatore in un copione, se Dio vuole.

ANGUSTIA          - Accontentati di un c’è e risparmi altre due sillabe.

DE MORA            - Intendevo: non esiste soltanto il protagonista in una commedia.

RABAGAS           - (convinto) Tutto il resto è silenzio.

ANGUSTIA          - Sarà, forse, ma la gente, commendatore, sta ancora a domandarsi: che madonna vogliono quei tre lì adesso? Li si lascia a bocca asciutta?

RABAGAS           - Intanto, ci sarà stato l’intervallo e ci si farà meno caso. Non si ha idea di quello che dimentica il pubblico durante un intervallo. Son sempre gli intervalli a fregarti. Tanto vale approfittarne... Non conta più tanto ciò che siamo né quel che facciamo. Il primo lo sa, il secondo lo prevede; conta, unicamente, guadagnar tempo ed arrivare in fondo. Gli abbiamo già fatto un sedere così a forza di chiacchiere.

DE MORA            - Non è, scusi, questione di fargli un sedere così o cosà. Quel che rompe i coglioni è la vaselina che si adopera.

RABAGAS           - Importante il sedere è farglielo: un accordo poi si trova.

DE MORA            - Lo dice lei. Personalmente io sono ancora interamente da esprimere. Ho il problema della mia diversità in sospeso. Dove lo metto?

RABAGAS           - Tutto per renderti interessante! Ce l’hai voluto cacciar dentro per forza, con la scusa di attualizzare i tuo personaggio? Non ti bastava nella vita privata? Adesso te lo tieni e te lo metti dove capita. Non dovresti avere che l’imbarazzo della scelta, visto e considerato che voialtri siete quelli che, procreando di meno, si moltiplicano di più: vorrei capire.

DE MORA            - Comodo. Non era un personaggio, era soltanto un ruolo il mio.

ANGUSTIA          - Io, più o meno lo stesso. Per me d’ora in poi vale quel che facciamo: l’aggancio nell’attualità che cerco si salda qui. Ho una tessera in tasca, io e al sindacato lo sanno. Poco o tanto che si annoino, non me ne frega niente. Ho un senso da stabilire, nel copione e mi preme stabilirlo. Ho fatto il sessantotto, io, mica le vaseline.

RABAGAS           - E va bene: sfoghiamoci e facciamoci fischiare in data da destinarsi, per non perdere l’ultimo tram.

ANGUSTIA          - Non mi rendo conto di questa vostra allergia ai fischi. Ci hanno fischiato tutta la vita come partito! Dovresti esserci abituato a farti fischiare anche come frocio.

RABAGAS           - (concludendo un sospiro di rassegnazione) Riprendiamo.

DE MORA            - Non prima di lei, commendatore. E avanti, tornati tutti personaggi. Falsi come solo la verità sa esserlo.

RABAGAS           - Beh (secco, una salve di schioppettate).

DE MORA            - Beh?

ANGUSTIA          - Beh?

RABAGAS           - Pausa. E da un allegro a un andante, intesi?

ANGUSTIA          - Si qualifichi, se non la turba troppo, signore.

DE MORA            - Armand Julien Alphonse Eva Maria, Tommaso...

RABAGAS           - Abbreviare, abbreviare. E non metterti sull’attenti che con la diversità non ha niente a che fare, non c’entra per quel che ne so. Non ci guadagna né il davanti né il didietro.

DE MORA            - (irritato) Se crede, gliela cambio in una pantomima.

RABAGAS           - Non dico questo, dài!

DE MORA            - Conte De Mora, gran croce eccetera, eccetera... luogotenente eccetera, eccetera... e come tale responsabile dell’ordine, sorveglianza e sicurezza del Palazzo, annessi e connessi inclusi.

RABAGAS           - Fa a meno degli inclusi, per una volta, non suona bene.

ANGUSTIA          - Potresti restringere tutto in una parola: sbirro.

DE MORA            - Qui nell’esercizio ufficiale del mio incarico e via discorrendo... Vengo, vengo... considerata la mia presenza in servizio la notte...

RABAGAS           - Virgola!

DE MORA            - Si capisce, virgola, circa quanto riferito dalla “Carmagnola” di ieri, secondo cui…

RABAGAS           - Lo sanno, secondo cui lo sanno: al fatto!

DE MORA            - ...e tranghiottito... posso dire, invece, inghiottito? Quel tran tran, tra i denti, mi impensierisce un po’ la cacofonia. Faccio una certa fatica a mandarla giù.

RABAGAS           - Che dovrei dire io colla dentiera che mi ritrovo in bocca?!... E sia: inghiottito. Va persa una chicca semantica, ma pazienza.

DE MORA            - ...e, inghiottito dall’oscurità…

RABAGAS           - Non erano tenebre?

DE MORA            - ... tenebre, scusi, talché...

RABAGAS           - Ti crea difficoltà il talché?

DE MORA            - Poco o niente, però sento di più il sicché.

RABAGAS           - Sicché; adesso, se mi sostituisci l’“ammantellato” ti strozzo, parola d’onore.

DE MORA            - Lo dico, lo dico. Non mi entra in cacofonia, quello… va giù come niente. Sicché l’ammantellato scomparve...

RABAGAS           - Ridillo.

DE MORA            - L’ammantellato scomparve, e così via...

RABAGAS           - Niente così via.

DE MORA            - Preferisce un dileguò? Per me, fa lo stesso, i dileguò mi scivolano dentro e fuori dalla bocca come una caramella fondente, è questione di sinonimi.

RABAGAS           - Preferisco soltanto un alt, per una controscena mia personale. Qua un alt tutto a vantaggio mio e sarebbe bene che tu stessi di schiena. (molto “recitato”) E chi era quest’ammantellato misterioso, tranghiottito e dileguato nelle tenebre?

DE MORA            - Son ben venuto per domandarlo a lei.

RABAGAS           - (sghignazzando) Perché, dalla vostra parte non si sa?! (sottovoce) Puoi voltarti.

DE MORA            - Ma si saprà.

RABAGAS           - Grati di esserne fatti partecipi. E grati, più ancora di conoscere chi, come e perché, a metà agosto, in un sito la cui temperatura media oscilla fra i ventisei gradi di minima e i trentotto di massima, l’incognito attentatore di un mite e innocuo proletario mente approfittando di un complice tabarro, come in gennaio a Stoccolma, si rende irreperibile. Cosa si celava negli anfratti di quel buio mantello?

DE MORA            - Sarà il proletario a dircelo.

RABAGAS           - Rapinat?

DE MORA            - Rapinat!

RABAGAS           - Titubo. Rapinat, colla Reazione, non apre bocca.

DE MORA            - Abbiamo mezzi per farlo parlare.

RABAGAS           - Nessuno ne dubita… Vite vite...

DE MORA            - Ci risulta ricoverato all’ospedale. Quindi in mano nostra.

RABAGAS           - Cercatelo.

DE MORA            - Senz’altro!

RABAGAS           - Se lo troverete. (occhiata d’intesa ad Angustia)

DE MORA            - (è stato sufficiente a sconcertarlo) Come sarebbe se lo troveremo?

ANGUSTIA          - (che ha raccolto l’intesa)— Rapinat è scomparso. Polverizzato, dissolto: fuit!

RABAGAS           - (incalzando) Rapito dai vostri manigoldi? Trafugato e messo al sicuro dai suoi seguaci? Emerito cimento per uno sbirro in uzzo di carriera.

DE MORA            - Come mai, sul giornale non risulta?

RABAGAS           - Sappiamo il nostro mestiere: “noi” sappiamo il nostro mestiere.

DE MORA            - Vi disturba confidarcelo voi, in tal caso?

RABAGAS           - Manco le tenaglie roventi della Santa Inquisizione disseccherebbero le nostre labbra!

DE MORA            - (interdetto, comincia a dare i numeri) La vedremo, veglio audace.

RABAGAS           - Fate!... E, seguito, nel fatto dal fido Angustia, gli offre i polsi a delle immaginarie manette. A disposizione e mercé del signor conte Eva Maria.

ANGUSTIA          - Ci sono anch’io. Nel frattempo, è stato di ritorno pure Desmoulins, scamiciato e con un occhio da far paura.

DESMOULINS    - E io chi son, cosa faccio? Già che mi ritrovo di ritorno, mi unisco alla compagnia?

RABAGAS           - Tu sei solo entrato due battute prima, rovinandoci l’effetto.

DESMOULINS    - L’entusiasmo di recitare al vostro fianco. Mi voglia bene, commendatore, è la mia prima scrittura. Pardon, esco e ricompaio a tempo in un fiat. E l’atto segue alla parola.

RABAGAS           - (sempre coi polsi in croce) Allora, si decide?

DE MORA            - Non mi passa neanche per la testa non contate su di noi per la fabbrica del martiri. Libera stampa in libero paese. Toh! È talmente comodo!... Domando scusa: il toh m’è scappato. Alla prima starò più attento. È telegrafico a sufficienza?

RABAGAS           - Potrebbe esserlo di più. Dalla sua bocca scivolerà tutto quel che si vuole, signora contessa. L’unica a non poterci scivolare è la parola libertà.

DE MORA            - Salutarla, posso?

RABAGAS           - Se ha tempo da perdere.

DE MORA            - Ce l’ho.

RABAGAS           - Lo dice per restare in scena una battuta di più? Si fa.

DE MORA            - (nero) Naturalmente. Stando coi grandi attori, s’impara. (E fuori, truce come un generale messo alla porta)

RABAGAS           - (a mezza voce) Cane... Poteva cogliere due martiri in una volta sola: quello lì ha paura. Non so ancora di che, ma quello lì, ha paura. Non c’è che fargliela crescere. Bisogna precipitarsi all’ospedale e far scomparire Rapinat.

ANGUSTIA          - Passo l’incarico ai mozzi di tipografia. Ma non sarà facile.

RABAGAS           - Un bicchiere di grappa, con Rapinat, fa più di un mandato di cattura.

ANGUSTIA          - Trovare la grappa, adesso, con quello che costa. Via, per ripresentarsi a breve.

RABAGAS           - (accorgendosi del disastro fisico e del disordine vestiario di Desmoulins) Nume dei numi, ragazzo, che t’è accaduto? Fosti in vestito da un tilbury? Non si circola più su queste strade. E lo chiamano progresso!

DESMOULINS    - Preso in contropiede: un pugno paterno e qualcosettin’altro compreso un dente del giudizio, già malfermo.

RABAGAS           - Dovevi ricordarti, benedetto figliuolo, che le colpe dei padri ricadono sui figli.

DESMOULINS    - M’ha ingannato la sicurezza. E pensare che, di minuti, io, gliene avevo concessi i cinque regolamentari!

RABAGAS           - Troppi. È un abituarlo male; deve imparare a sbrigarsi. Mica per altro, l’azienda universo è nelle condizioni disastrate che è.

DESMOULINS    - Capirete, era la prima volta, pensavo, diamogli tempo di abituarsi. Mi sono sbagliato. Son rimasto coll’orologio teso ad aspettare... E mio padre che mi guardava senza fare una piega, con quell’aria ebete e benigna che fa tanto dignità. Per non far sorgere equivoci, ho atteso anche più del tempo. Finalmente, fissandolo nel bianco degli occhi – papà, mica Nostro Signore – ho mormorato con noncuranza “Che posso farci? Si vede che non c’è. Ho commesso un errore. Sarà fuori a donne. Mi andrà meglio la prossima volta”. Niente di più. Si poteva essere più educati? Tutto tenuto sul minimo. E lui, al momento, non è, neanche, che l’abbia presa male... Calmo, calmo... ma d’un calmo da non crederlo capace, bisonte com’è... Forse, non s’era reso conto... mi fa, dice: “Cos’è, il Santissimo – tutto in lettere maiuscole, beninteso – ha traslocato di casa che non ne ho avuto notizia?” Forse sarà dipeso da quel “sarà per la prossima volta”… o le donne: scatenato e, da quel momento, non ci ho visto più; ossia, ho visto delle gran stelle contro un cielo blu notte: un pugno, secco preciso fulmineo ...ma un pugno qua... cazzo che pugno! Non aveva ancora finito di farmi un occhio così, che concludeva, gentile e sempre senza alzare la voce di tanto: “Rifatti vivo col nuovo indirizzo, esclamò, e ti sistemo pure il sinistro”... E si è rifiutato anche di darmi i soldi per l’oculista. Mio papà!!! Capito?

RABAGAS           - Sai che ti dico? Non c’è che una spiegazione: non guardavi nel senso giusto.

DESMOULINS    - Non ho fatto che guardare dove avevo visto guardare voi: di sbieco, leggermente.

RABAGAS           - Qui siamo a nord, figliuolo.

DESMOULINS    - La miseria, e noi a sud, perché non ci ho pensato?

RABAGAS           - Per me, t’ha buggerato il leggermente: in alto, deciso, avrebbe dovuto essere. E, poi, io, sai, ci gioco, cerco di confonderlo; mica sempre guardo dalla stessa parte, lo metterei sulle mie tracce subito. Cambio ogni volta, svolazzo qua e là. Non dicono che sta a rompere le scatole in ogni luogo? E io fingo di prenderlo in parola. Si vede che il tuo vecchio l’indirizzo lo conosce bene. Le solite parzialità. Ne combinano così di complicità tra di loro! Però, ritirare la mano e vendicarsi nascondendosi dietro a tuo padre, e lui che si presta, è detto tutto, uno vale l’altro.

DESMOULINS    - E, ora, come mi comporto? Di denti ne ho, ne avevo, trentadue, ma, di occhi, dispongo di un paio soltanto.

RABAGAS           - Se cerchi un consiglio – sempre opinabile, in cose del genere io lo lascerei latitante, dove sta sta. E anche una lezione, se la recepisce.

DESMOULINS    - Fissando il vuoto, suggerite?

RABAGAS           - Ecco! Fa’ una cosa però: coglilo di sorpresa fregandolo col procurarti un buon paio di solidi occhiali. Uno per uno son capaci di tutto. Insieme, poi!... Figurarsi un bigotto e il suo principale! Campanello, porta e il visconte Charles in fulgida divisa. Immediatamente successivo, anche Angustia. Gran sbattere di tacchi e sonagliere di medaglie del visconte.

RABAGAS           - (tra sé) E questa caricatura di che va in cerca, adesso?

CHARLES            - La “Carmagnola”?

RABAGAS           - Tutta fra queste quattro mura.

CHARLES            - (indice puntato) Il suo direttore?

RABAGAS           - In povertà mia lieta, per servirla.

CHARLES            - ...La Carmagnola ha pubblicato una cronaca, improbabile per voler essere fantasiosa...

RABAGAS           - Ah. Concernente il cittadino Aristide Rapinat, per l’appunto.

CHARLES            - (in guardia di sicurezza) Come sa di saperlo?

RABAGAS           - Naso. È da stamattina che Rapinat è incalzato  dalla    persecuzione    dell’eroismo. Evidentemente, oggi è la sua giornata.

CHARLES            - Poco importa ciò che lo incalza. Mi preme metterci su le mani.

RABAGAS           - Venite per arrestarlo? Non sareste il primo.

CHARLES            - Lei non si dia pena. Lo si deve interrogare.

RABAGAS           - Cercatevelo.

CHARLES            - Guadagnereste tempo consegnandomelo: tempo… e attenuanti.

RABAGAS           - (un petardo del suo genio) Desolato della rinuncia: Rapinat è defunto!

CHARLES            - (turbato, ma perché?) Morto?

RABAGAS           - Se volete considerarlo un sinonimo, fate pure. A me, sta bene.

CHARLES            - Come è morto?

RABAGAS           - Di cervelletto. Botta in testa provocata da uno sconosciuto tremante di freddo nel mese d’agosto, scherzi della meteorologia.

CHARLES            - (dopo una riflessione) ...Ha parlato?

RABAGAS           - (enigmatico) Rapinat non ha mai taciuto in vita sua. Era soprannominato l’inzittito.

CHARLES            - Prima di decedere, intendo, stette zitto?

RABAGAS           - Il suo generoso cuore s’era già fermato che l’ultima parola gli stava uscendo dalla bocca.

CHARLES            - E che disse?

RABAGAS           - (c.s.) Segreto professionale, parole grosse, mon général.

CHARLES            - Colonnello.

RABAGAS           - Lo diventerete.

CHARLES            - Lei lo sa?

RABAGAS           - Per cos’altro vi pavoneggereste in quella napoleonica montura senza la sicurezza morale che, prima o dopo, diventerà una cosa certa risalendo i lombi d’una qualche Altezza reale?

CHARLES            - Non la mia precaria promozione: conosce quel che disse, in punto di morte, il nominato Rapinat?

RABAGAS           - Certo che lo conosco. Da non credere a me stesso quel che disse. (barando) E disse anche di più di ciò che avrebbe dovuto dire et sufficit.

CHARLES            - Bene: ce lo riferirà lei.

RABAGAS           - Colonnello, pensi alla salute il mio segreto è chiuso in me... Ha un mandato di cattura?... Piglio su la tuba e vengo.

CHARLES            - (che non vede l’ora di svignarsela) Non si disturbi, per il momento. Debbo riferire. E se la cava precipitosamente.

RABAGAS           - Non ci vogliono arrestare. È evidente.

ANGUSTIA          - Defunto Rapinat? Che v’è venuto in mente?

RABAGAS           - Un’ispirazione: quello lì ha più paura di quell’altro: per loro, morto! Un morto che parla può aver detto qualsiasi cosa. Ce la diranno loro. Troppa fretta per non esser sospetti!

ANGUSTIA          - Ma se, cinque minuti fa, gliel’avete venduto per scomparso?

RABAGAS           - Rapinat regge questo ed altro. Presto. Gli si deve trovare uno spazio in prima pagina sulla Carmagnola di domani per il necrologio. Se del caso, lo si abbatterà.

ANGUSTIA          - Un altro indirizzo postale in vista?

RABAGAS           - Ribalteremo tutta la toponomastica del principato, se necessario. Teniamo accese le fiaccole, compagni: Rapinat morto può essere la scintilla della rivolta. E se lo tira dietro in tipografia. Di nuovo, campanello, di nuovo porta, di nuovo Eusapia Blounth. Trova lì solo Desmoulins, pan per i suoi denti.

EUSAPIA             - Chi non ha testa, ha gambe, dicono. La scrivania del direttore?

DESMOULINS    - Qua tutto è scrivania e tutto è direttore. Essa apre la borsetta, tira fuori una busta e la colloca su un tavolo, bene in vista.

EUSAPIA             - (l’occhio al ragazzo) Santo cielo, giovinotto, un superbo animale come te, demolito in tal modo?!...

DESMOULINS    - Cosa vuole? Piccole divergenze di famiglia.

EUSAPIA             - (scrutandolo) Hai altro di rotto?

DESMOULINS    - Sotto, funziona tutto come nuovo, madame, garantito.

EUSAPIA             - Meno male. Fa’ vedere.

DESMOULINS    - Qui, signora? Mi debbo levare i pantaloni qui?

EUSAPIA             - L’occhio. Il resto a tempo. (lo pensa soltanto? E, mettendogli davanti all’occhio pesto, un certo numero di dita) Quante sono?

DESMOULINS    - Tante!

EUSAPIA             - Sei proprio sicuro di non esserti infortunato altro?

DESMOULINS    - Mi provi. Un’infermiera come lei, mi sa che non le sfugge niente.

EUSAPIA             - Quando si tratta di far del bene ai miei simili, io non mi tiro mai indietro e sto attenta a tutto (e comincia a palpargli la muscolatura delle braccia).

DESMOULINS    - Tocchi pure, signora, si accomodi, non si faccia riguardo; prema, palpi pizzichi, se ne faccia un’idea.

EUSAPIA             - Così dappertutto?

DESMOULINS    - Si tratta solamente di un modesto assaggio che fa torto alla realtà.

EUSAPIA             - Se codesto si chiama comunismo penso che molte idee sono da rivedere. È qui che ti trovo?

DESMOULINS    - E chi si muove? Lei si avvia, sull’uscio, si ferma soprappensiero; torna sui propri passi, apre, di nuovo, la borsetta, ne estrae un’altra busta eguale e gliela mette in mano.

EUSAPIA             - Credi che, in una settimana, ti sarai ristabilito?

DESMOULINS    - Anche prima, madame. Se altro non osta... per me... pure subito, si fa per dire... Occhio e denti mi sono un di più: l’emergenza è emergenza.

EUSAPIA             - C’è un ballo a palazzo. Guai a te se manchi.

DESMOULINS    - Mi avrà tutto inedito da capo a piedi, di bucato. Devo anche profumarmi?

EUSAPIA             - Non conta.

DESMOULINS    - Credevo che fosse la sola cosa da fare.

EUSAPIA             - Cioè?

DESMOULINS    - Al massimo di efficienza..., e non temo di esagerare. Cercherò di farmi onore, insomma.

EUSAPIA             - Quanti anni hai?

DESMOULINS    - Ventisei la settimana prossima.

EUSAPIA             - Quanto sei alto?

DESMOULINS    - Un metro e ottantasei senza tacchi.

EUSAPIA             - Quanto pesi?

DESMOULINS    - Ottantasei chilogrammi e rotti, colle scarpe e tutto.

EUSAPIA             - E senza?

DESMOULINS    - Venga col metro.

EUSAPIA             - Mi riferivo al peso complessivo.

DESMOULINS    - Appunto.

EUSAPIA             - Dai settantacinque agli ottantasette è il mio carico ideale, etto più, etto meno.

DESMOULINS    - Non si dia pensiero, ci sto dentro. Un galante inchino ad essa che scompare; e mentre, aperta la busta, gongola leggendo l’invito, son riapparsi Rabagas e Angustia.

RABAGAS           - ...Apertura listata a lutto: “E un altro umile eroe ci è tolto”. Testo succinto e tutto sul generico, ma molto mordente e minaccioso nel compianto. Intesi?

DESMOULINS    - Uno schianto di femmina impunita, da cinquanta franchi almeno, ha portato quella busta per voi e m’è parsa non una di quelle che, al momento di consegnare la merce, la buttano sul patetico e buonanotte al secchio raddoppiano la tariffa: no, anzi, piuttosto viceversa la danno via come saldo di stagione, a stracciamercato, un “mi voglio rovinare” di lusso. Rabagas la prende in mano circospetto e, apertala, rimane a rifletterci su.

RABAGAS           - Ecco qualcosa che avrà i suoi sviluppi. Data storica, compagni una crepa nella Bastiglia. Il potere invita Rabagas alla cerimonia annuale della cacciata dei turchi.

ANGUSTIA          - Cosa?

RABAGAS           - Firmato, autografo del tiranno. Quos vult perdere dementat. Questa è una rivoluzione copernicana.

ANGUSTIA          - Mica penserete di recarvici, maestro??! Son tornate le Circi: l’agnello nella tana del lupo.

RABAGAS           - Il mondo vedrà chi è il lupo e chi è l’agnello.

ANGUSTIA          - Nessun contatto per carità. Quella ha demolito Victor Hugo!   

RABAGAS           - Anzi. È il riconoscimento ufficiale. Da oggi, si comincia ad esistere anche noi.

ANGUSTIA          - Alla larga; sarebbe mettersi nelle loro mani: (leggendo dall’invito e sogghignando) “...È prescritto l’abito da cerimonia”. Vagheggereste, per caso, di indossare un frac? Parrà una resa, senza discrezione, alla monarchia: la livrea del servo sostituita alla catena dello schiavo!

RABAGAS           - Vi fidate o non vi fidate di me? Ecco il solo problema. Le crociate si combattono o non si combattono? Ebbene, la mia, io la combatterò in frac: alea iacta est: ego et rex meo. Robespierre ha vissuto una vita in frac. Il problema, piuttosto, è chi me lo presta.

DESMOULINS    - Non c’è problema. Un salto a casa e son qua con quello di mio padre, la stessa vostra taglia. Rubare in famiglia, non mi par vero.

ANGUSTIA          - Perché tuo padre un frac ce l’ha?!...

DESMOULINS    - (rosso come un ravanello) Signorsì, ci si sposò dentro, l’infame.

ANGUSTIA          - Vergogna!

RABAGAS           - (ispirato, preparandosi alla pugna) Si rinasce del 1789! “Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se mi uccidono vendicatemi” e una statua in piazza, si capisce, il resto, opere di bene. A noi! Si marcia su Roma, pardon, su Monaco. Terzo atto A palazzo. Nuovamente il giardino d’inverno dell’inizio approssimativamente adattato a studio. Il padrone di casa e l’Eusapia terminano di far merenda. E, durante tutto il tempo, sottofondo fastidioso, un non lontano rumore di alberi abbattuti, nemmeno si trattasse dell’inizio atto del “Giardino dei Ciliegi” prossimo venturo.

IL PRINCIPE       - ...Ossessivo! Settimane e settimane. La voce del rimorso. Ah, non s’è perduto tempo. La Natura impiega secoli a rifinire i propri capolavori, all’uomo bastano poche settimane per distruggerli… S’impiega di meno a far cadere cento querce che a far ricrescere un filo di genziana.

EUSAPIA             - (spiritosamente sprezzante) La democrazia vi rende botanico, sire?

IL PRINCIPE       - ...Qualche giorno ancora e la collina sarà come il cranio di Gengis Khan.

EUSAPIA             - (c.s.) Com’era il cranio di Gengis Khan?

IL PRINCIPE       - Come una pentola lucidata, vista dal di fuori.

EUSAPIA             - Non è che avete sbagliato senso?... Forse, dal punto di vista della pupilla, l’effetto non risulterebbe altrettanto traumatizzante.

IL PRINCIPE       - Sfortuna vuole che la mia dotazione biologica mi abbia fornito anche di due ottimi timpani.

EUSAPIA             - Provate il tatto, monsignore, a quanto si sente dire, i governanti sono particolarmente gratificati dalla sensazione della carta moneta tra i polpastrelli.

IL PRINCIPE       - (malignetto) Non solamente i governanti a quel che pare.

EUSAPIA             - E non è una prova di più dell’uguaglianza universale?

IL PRINCIPE       - Potete ben dirlo. Son state sufficienti poche settimane per far perdere il sonno alla più tacita e solitaria costa d’Europa dal dì della creazione. Ciò che mi ha sempre incantato di più in un Dio, la prova medesima della sua esistenza, è la calma e il silenzio adottati nel fare le sue cose. Ma il vostro parere è diverso a quanto vedo. Da un moralista, mi sarei aspettato di tutto, c’ero preparato. Mi stupisce che, ad ingannarsi sia stato un cinico.

EUSAPIA             - Che vi dice che il cinico si sia ingannato?

IL PRINCIPE       - Peggio. Non trovate un po’ ignobile ciò che state facendo?

EUSAPIA             - (precisando con perentoria dolcezza) Che “stiamo” facendo.

IL PRINCIPE       - Amica mia. Fate conto di mettervi a spennare un pollastro controvento. Non ha senso lamentarsi, poi, quando ci si ritrova colla bocca piena di piume e si starnutisce. Manco a farlo apposta a rinforzargli il pensiero, ecco una fragorosa salva di starnuti repressi. A proposito. Non so cosa darei per individuare i responsabili. Non ne hanno a sufficienza di disturbare il sonno notturno coll’esplosione dei loro starnuti. Se la prendono anche coll’ora del the, adesso.

EUSAPIA             - (ambigua. Sa?) Allergia, Vostra Grazia. È favorita dalla stagione... Vi spiace togliermi un dubbio? Il pollo sareste voi?

IL PRINCIPE       - Francamente, non lo so; è da un po’ che me lo domando ed ho forti ragioni per credere di sì. Non s’è perso tempo a strapparmi di mano la situazione.

EUSAPIA             - Pensata vostra, salvo errore. Non c’è, poi, voluto molto ad accordarvi con Sua Eminenza.

IL PRINCIPE       - Ognuno ha il Richelieu che si merita e il consiglio di stato di cui si vergogna.

EUSAPIA             - Astuto e cauto, non aspettava che il pretesto, la vecchia faina.

IL PRINCIPE       - E non potendo avere le forche, ha colto quello. Ma verranno, torneranno anche le forche. Egli sa aspettare. È un’eminenza paziente come quasi tutte le eminenze: virtù cristiana. Io appartengo ancora a una vecchia educazione Illuministica, quando ci si imbarca colla chiesa è sempre per metterlo... oh, pardon… a qualcuno insomma.

EUSAPIA             - Non manca mai l’impaziente di riceverlo; indipendentemente dal tipo di educazione, era una regola del mio povero Tomi. In fondo, l’unica differenza, se c’è una differenza, tra illuminismo e liberalismo, sta tutta qui – fra noi due, alla resa dei conti, soltanto: uno ha l’ipocrisia di dirlo, l’altro il pudore di tacerlo.

IL PRINCIPE       - Quella che non cessa di stupirmi è l’improvvisa vocazione che sto scoprendo di queste venerande e sonnolente colline di ulivi secolari a balcone sul mare nel tramutarsi, di punto in bianco, in abitazioni di lusso. Farà parte dell’attacco di allergia anche questo, probabilmente.

EUSAPIA             - Non è improbabile, tout se tient. (uno dei suoi disarmanti sorrisi in grado di demolire una fortezza) Tanto denigrato e, spesso, così spiritoso, il popolo – che lo accoglie con favore – ha cominciato a chiamarlo il “mal della pietra”; perché vedete? Come lo definite volgarmente voi?... Speculazione edilizia… Strana definizione da ancien règime... dandismo a buonmercato. Ma sa di affare... di inganno... Abbiate pazienza… voi, proprio voi… che ve ne avvantaggiate per primo. (gliel’ha detta)

IL PRINCIPE       - ...a scapito del paesaggio: del saluto dei tragici tronchi di quel drammatico ulivo millenario che mi aggrediva la vista aprendo il balcone della mia camera ogni mattina. Sacrificato (tira fuori l’orologio e verifica) cinquantaquattro minuti fa. Lasciatemene, almeno, se non altro, la malinconia, dandismo o no. D’ora in poi, di esso non rimarrà che l’eco roca della sega che me ne ha privato per far luogo al cantiere dei sotterranei dell’Unione delle banche svizzere, già sul posto… Una voragine, inimmaginabile quel che potrà contenere...

EUSAPIA             - (e lo strangolerebbe) Per realizzare finalmente l’eterno sogno dell’agognato sbocco al mare... Thalassa… thalassa.. Non per altro. Gli svizzeri sono testardi nei loro... sogni.

IL PRINCIPE       - Evidentemente, hanno letto il loro Omero, anch’essi... (Altra invasione di starnuti, nuovamente notata). Ma è un’epidemia!... Beninteso, thalassa… e, ciononostante, ho idea che nemmeno tutti i vostri capitali in cerca di impiego, per quanto pungolati dall’inesausto affarismo vaticano, riusciranno nel miracolo di tramutare una realtà, sotto, sotto, sordida, in un innocente catalogo di allegoriche citazioni.

EUSAPIA             - Non olet, è quel che conta.

IL PRINCIPE       - Proprio? Davvero, davvero? Non olet?

EUSAPIA             - Due gocce di violetta di Parma su un fazzoletto di batista e l’eco di un cattivo odore è già un aroma, devo insegnarvelo io? Da una porta bene in vista stringendosi intorno alla vita un’elegante vestaglia bianca, rosa o celeste, sguscia, per uscire da un’altra parte, Gabrielle.

IL PRINCIPE       - Sei tu, Gabrielle, con quel brutto raffreddore? Non fai che starnutire dalla mattina alla sera senza escludere la notte.

GABRIELLE        - Sarà un altro. Io starnutisco il minimo indispensabile, e male, papà. Mi manca lo stimolo, evidentemente. Che ne pensate, Eusapia?

EUSAPIA             - Uno stimolo adeguato è indispensabile per uno starnuto appena decente, Gabri. (e mentre scompare) Deliziosa sempre...

IL PRINCIPE       - Trovate?

EUSAPIA             - No?

 IL PRINCIPE      - Attraente, certo. Però, me mi imbarazza Non si capisce mai né in che veste parli né, precisamente, ciò a cui si riferisce.

EUSAPIA             - Generazioni che si susseguono. Non ci sono più attrici giovani. Deve derivare tutto da lì.

IL PRINCIPE       - Non ci si crede. Non la sento pura, ecco.

EUSAPIA             - Ci vuol altro! È diventato difficile anche sembrarlo, come una volta. Accontentatevi che lo sia stata prima della guerra forse,... se lo è stata.

IL PRINCIPE       - Che ne direste, amica mia, una breve passeggiata nel parco, in attesa dell’udienza agli gnomi di Zurigo?

EUSAPIA             - Alla ricerca dell’ultimo cespuglietto di genziana: è un’idea. E via, a braccetto, da attori ottocenteschi che conoscono il loro mestiere bene.

IL PRINCIPE       - (uscendo) Sapete? Stanotte ho fatto un sogno: suonavano tutte le campane... ed erano mute.

EUSAPIA             - Non saranno stati sordi tutti coloro che le dovevano udire? Per me, è un sogno che porta bene.

IL PRINCIPE       - Mah... A double face, diciamo. Felpato e circospetto, attento che la propria, fulgida divisa sia in ordine, coll’aria, però, di chi ha dimenticato il bischero negli altri pantaloni, Charles lo Starnutatore, assicurandosi di esser solo sur place, scivola fuori dalla medesima porta donde è comparsa sua cugina poco fa. Passando, in punta di piedi davanti ad un altro dei non pochi usci, che affluiscono nel corridoio, colle nocche delle dita, tenta, vanamente un paio di volte di bussarci su. Constatato che non c’è risposta, sempre con la cautela di un gatto, procede oltre per porsi ad un tavolo e buttar giù poche righe infiorate da un sospiro, su un biglietto, rifare il per­corso e infilarlo sotto la porta ove bussò. Frattanto, servi di scena e trovarobe hanno cominciato a mettersi in moto per rendere, con ovattata alacrità, meno vacuo e invivibile il luogo, inducendo l’arciduca ad assumere un atteggiamento assorto, quasi che il suo scopo assillante, causato da un incomprensibile raptus poeti­co, consistesse nel doversi porre in ostentata contemplazione del tramonto offerto dal terrazzo, tentazione cui, a vero dire, una natura delicata, morbida e pia come la sua, può anche convin­centemente soggiacere, la mappa del tenero è vasta e sorprendente anche per uno abbandonatosi, da poco, a una salve di starnuti, ma non è il momento. Sta lì, per qualche minuto, quindi, non sapendo più che fare, si rassegna e toglie l’incomodo, mentre vengono avanti Rabagas e il suo nuovo luogotenente Desmoulins, concludendo, in conversativa naturalezza, un discorso che non deve essere stato né breve né superficiale...

RABAGAS           - Tastasti il terreno?

DESMOULINS    - Tastai.

RABAGAS           - Ci sta? Di massima, dico.

DESMOULINS    - Ci sta se la cricca ci sta. Il vecchio è un dritto e si tratta di un pourparler che lo trova sempre attento, preciso e calmo. Mica come le gare coll’orologio blasfemo che dà fuori di matto subito gettandosi in braccio alla propria arteriosclerosi. Se sarà, sarà, e tutto in famiglia... Da perfezionare, si capisce: capitolato concordabile a voce. Vi vedrete di persona, un tu per tu di massima escludendo altri tu, da trattare col voi.

RABAGAS           - Se non gli gira storto, io bramerei rimanere ufficialmente estraneo: i miei Ideali non devono uscirne opacati.

DESMOULINS    - Il modo è da trovare. Si trova sempre, è anche la sua idea, è vissuto a lungo a Roma, per lui è una seconda natura. Non è cosa che lo preoccupa. I punti sugli “i” quando si son messi giusti, in seguito le cose marciano da sé, parallele al Codice Ciancelli, non si sbaglia mai.

RABAGAS           - Parmi d’averne udito parlare, sì; dispongo anche di qualche elettore di tal nome.

DESMOULINS    - È una vita che, mutatis mutandis, la vecchia volpe lo applica contribuendo a farne una colonna dell’economia moderna.

RABAGAS           - Della politica, vorrai dire.

DESMOULINS    - Sono due funzioni, risponde, interdipendenti e sovrapponibili. Ha un detto: ammanigliarsi giusto, nella vita, è tutto.

RABAGAS           - Non manca di comodità, in effetti; il vecchio deve essere un Gran Vecchio.

DESMOULINS    - Limitatamente agli affari, senz’altro; odioso, antipatico, tiranno, è “ancora un gran vecchio”. Se non fosse un Desmoulins potrebbe essere un Andreotti, si fa per dire.

RABAGAS           - ...E questi punti sulle “i”?

DESMOULINS    - Durezza senza strozzinaggio: il suo stile: altezza delle palazzine, non meno di dieci piani, al di sotto, il santo non vale la candela. Otto mesi termine massimo. Consegne e ratei trimestrali contemporanei. Scadenza le primi idi... Costo minorato del venti su listino, gli attici verso mare al proprio gruppo, usufrutto novantanove anni. In seguito, rendita e proprietà passano all’amministrazione del Principato senza alcun vincolo.

RABAGAS           - Ma...?

DESMOULINS    - Vengo: cinque per cento – forse lo si potrà portare al sei o giù di lì – del preventivo, – brevi manu, provvigione al procacciatore dell’appalto... Solito sistema della doppia busta...

RABAGAS           - Ne discuti con inaspettata, quanto competente precisione.

DESMOULINS    - Ne ho sentito parlare in casa, da quando sono nato, che farei più fatica ad essere impreciso.

RABAGAS           - Hai detto, scusa, procacciatore?... ore? Ho inteso bene: ore.

DESMOULINS    - Naturalmente.

RABAGAS           - Procacciatore, maschile singolare? Colla e? Che poi, non saltino fuori i soliti cavilli.

DESMOULINS    - Si capisce: maschile singolare. Si può pensare ciò che si vuole, di quel farabutto di mio padre. Non che ricorra a questi trucchi. Quando mai, quelli li riserva a me “per il mio bene”. Mai venute sorprese dall’amministrazione dei fondi… come li ha chiamati?... Dei fondi neri, fuori bilancio. No, no, per questo è un grand commis... irreprensibile. Capirete, aspetta la legion d’onore dal governo francese da vent’anni per un ponte sulla Senna che non è ancora crollato!... E il primo a sorprendersene è lui, nonché un commendatorato dal governo italiano per un ponte sul Tevere, crollato il giorno prima dell’inaugurazione, e nessuno si stupì, inconvenienti dell’acqua alta.

RABAGAS           - E..?

DESMOULINS    - ...Previo deposito, anonimo ad anonimo, in titoli di rendita depositati nello studio di un notaio indicato dal fruitore, secondo prassi corrente.

RABAGAS           - Dal...? Come fa?

DESMOULINS    - Fruitore. È il termine che ha usato papà. Nelle sue transazioni è molto pignolo. Ha stupito anche me che ho fatto l’università. Non lo credevo da tanto, considerata la modestia delle sue origini bifolche. Evidentemente, la ricchezza fa cultura... Dimenticavo: maestranze italiane, ignare del sindacato: condizione irrinunciabile. Pare che il segreto dell’affare stia tutto lì.

RABAGAS           - Italiane? Non esistono maestranze edili per queste contrade?

DESMOULINS    - Dice che la manodopera importata costa il trenta per cento di meno; in Italia, anche il trentaquattro durante i mesi di magra, e non ci son contributi da versare: vengono per niente: una crosta di pane. Lavorare e chiavare: sono i migliori operai del mondo. Tutti lo sanno e lo fanno. Ossia, lo sa e lo fa lui che ci ha costruito una fortuna. Ha la situazione dei costi che gli salta da un polpastrello all’altro delle dita. In Italia, dopo l’affare dell’Unità c’è molta disoccupazione. Non è mai andata meglio di così, per le imprese, tutto merito dei Piemontesi, è il primo a riconoscerlo!

RABAGAS           - Non ce n’è di meno da noi, non dovrebbe ignorarli; leggerà anche lui “La Carmagnola”!

DESMOULINS    - Lui si nutre di Osservatore Romano.

RABAGAS           - Appunto. Si vede.

DESMOULINS    - Che ho da dirvi? Ciascuno ha le proprie idee. Pare che la disoccupazione italiana sia la più economica e la meno rivendicativa d’Europa. Ci si può fidare; il ribaldo sa il fatto suo. Non ha mai sbagliato un appalto. Ne ha dato prova colla costruzione della stazione ferroviaria di Mentone che, ad onta della sabbia, è ancora in piedi e lui è il primo a stupirsene. Quando sta allegro, confida: “Me la tiene insieme il sudore degli italiani”. Si vede che il sudore italiano butta cemento. Tranne lui, fallirono tutti, o li fece fallire. Loro si intestardirono con gli Spagnoli, il turpe vegliardo, duro, fedele alla provata simpatia per gli italiani... e pensare che è francese di Limoges: les affaires sont les affaires!

RABAGAS           - E... garanzie?...

DESMOULINS    - ...Ma sicuro. Sottinteso, per lui non è una novità, “prassi” come dice lui. Ci è abituato in ogni affare che fa, che ha fatto e che farà, in Francia come in Belgio, in Italia come in Spagna. A lasciargli mano libera è capace di edificare un continente. In questo momento, sta vincendo l’appalto per una moschea ad Amsterdam. Cosa se ne facciano, poi, di una moschea ad Amsterdam, lo sa solo lui e gli Olandesi. E con tutto questo...! Perché, se no, mi farebbe la rabbia e lo schifo che mi fa, quel cinico affamapopoli?

RABAGAS           - Temo che tu non abbia capito bene: non è di lui che dubito. La sua stima lui se l’è guadagnata e se la merita tutta. Di te, di te ci si può fidare, figlio mio? La domanda è questa... Da un figlio di papà in rivolta ti può capitare di tutto.

DESMOULINS    - (offeso?) I miei ideali sono i vostri, maestro. Coincidono, se posso permettermi.

RABAGAS           - (forse gli scappa) È ben quello.

DESMOULINS    - Lasciatevene dare la dimostrazione. Per me, è una gran prova di fiducia. Come prendere una seconda laurea, starei per dire.

RABAGAS           - (a serratura di una non breve riflessione) È da ponderarvi.

DESMOULINS    - Con comodo. Però cercando di non perder tempo. Con la scusa che la vegetazione fa umidità e l’umido reumatismo, da quando vi è riuscito di piazzare il colpo di far pelare la collina come un mandarino maturo – parecchi ci hanno messo gli occhi sopra, un altro che il tempo non ha intenzione di buttarlo via è quel Marcinkus del Nunzio Apostolico, mi sa. All’erta, marinaro!

RABAGAS           - Più che un’indigestione di ostie fritte, da solo, quell’arredo lì, non è in grado di far niente. I voti della plebe li ho in mano io.

DESMOULINS    - Mi sa tanto che sarebbe imprudenza sottovalutarlo.

RABAGAS           - Si son tenute le elezioni, ha suonato le sue campane, ha agitato i suoi ostensori, ha tuonato dal pulpito i suoi fulmini fin che ha voluto? Il popolo mi ha eletto? Han dovuto prendermi nel governo? Cosa va cercando, ancora, quello scarafaggio tinto di viola? – colore, oltretutto, che porta male e, a scanso di un disastro bisognerà avvertire la sarta di cercargli una veste talare d’altro colore, meno immisericorde, prendi nota.

DESMOULINS    - A proposito, non si pensa mai a tutto: il vecchiardo è in affari anche col paradiso dove sembra che un posto riservato costi un occhio della testa prendere o lasciare; condizione sine qua non è un santuario offerto dalla “pietà” della Società costruttrice, a nome della diocesi. Lui ci mette i progetti, essa materiali, arredi, messali, braccia.. e congrua. Fa sempre
così coi grandi appalti, è la sua santa Reparata. Tiene a
contratto un architetto apposta, specialista in absidi e
transetti, bravissimo. La nuova cattedrale di
Carcassonne, crollata        ventiquattr’ore            dopo l’inaugurazione, il progetto era suo. E, manco male, qualcosa riescono a recuperare; dicono, perfino, a guadagnarci, vendendo, a peso, le macerie, come reliquie miracolose, spedite, in pacco postale raccomandato a carico del ricevente, per tutta la Cristianità, un vero affare le cattedrali che crollano!

RABAGAS           - (sconcertato) Un santuario? Che cazzo ce ne facciamo, noi, di un santuario.

DESMOULINS    - Mal che si metta, quel che ne hanno fatto a Carcassonne: lo si vende al Comuni che lo trasformano in una piscina per la gioventù. La Chiesa si sta organizzando nel traffico benemerito di queste opere pie.

RABAGAS           - Tentar di fargli cambiar parere?

DESMOULINS    - Neanche provare: un uomo così! Non vive che di Cristi e Madonne in brodo nell’acqua santa. Non per niente va tanto d’accordo col cardinale, sopra la vostra testa.

RABAGAS           - Gliene frega così, al Cardinale, una chiesa di più o una chiesa di meno nella diocesi!

DESMOULINS    - ...Per il santo patrono, dice, che, nel buco, dove l’ha relegato l’avarizia del governo precedente, è un’indecenza piena di crepe umidità e scarafaggi, incompatibile con un luogo di culto di un paese civilizzato, anche l’ultimo in graduatoria, e diffonde i reumatismi. E se poi crolla, l’ha voluto Nostro Signore per vecchi rancori col suo luogotenente in terra.

RABAGAS           - Falsi bersagli, chiacchiere per darsi arie, pretesti per un’udienza privata col papa – so quel che mi dico, ne fanno di tutti i colori. Quello ha a cuore il Santo Patrono quanto ce l’ha il padreterno che probabilmente, con tanti da tenerne in testa, ha perso la destinazione e non sa nemmeno più di chi si tratti. A parte l’interesse della propria prosopopea, tutto quanto importa alla famelica mummia, non sono che gli affari del Vaticano. Un santuario o una bisca, per lui, non farebbe differenza. Illuminazione? ...Momento... cos’è che ho detto?... Ehi, cos’è che ho detto?

DESMOULINS    - Eh?! che un santuario o una bisca, per lui, farebbe lo stesso, mi pare.

RABAGAS           - (una gran sberla in fronte) Questo dissi o?... e?... Ma certo! Sì, sì.. potrebbe trattarsi della grande idea che fa contenti tutti... Attraverso queste ubertose contrade, potrebbero scorrere fiumi d’oro... e... o? Ecco il problema! Chiesa e bisca, una a giustificazio­ne dell’altra e tutti col loro tornaconto: una coalizione, ecco ciò che ci vuole, una tregua, un patto sociale di conciliazione: panem, circenses, scioperi et spiritus sanctus in saecula saeculorum... In attesa della combriccola degli svizzeri, ai quali piacerà certamente un sacco, devo isolarmi a riflettere intanto che il cranio non mi si riempia di crepe... Oh Dio, già che mal di testa... Che mal di testa. Tribuno!

DESMOULINS    - (automatico) Ça ira, maestro!

RABAGAS           - Da questo momento, tu ti scordi tutto fino a nuovo ordine. Ugola e timpani, io e te, mai visti né conosciuti.

DESMOULINS    - Certo, certo. Un momentino prima, però, di entrare in sonno, ci sarebbe ancora quell’intesina in sospeso da ribadire fra noi, un’inezia.

RABAGAS           - Fra noi? Ribadire? Intesina? Cosa, cosa?... Che inezia?

DESMOULINS    - Quel che prendo io, maestro, e che l’esecrando non deve preventivamente sospettare. Dopo, sarà stato il mio esordio professionale nell’attività paterna. Si metta a riposo, smammi, e mi lasci lavorare in santa pace che è ora.

RABAGAS           - Quale esecrando?

DESMOULINS    - Il sessuofobo, il Gran Vorace, l’uomo abominevole del mattone, il capitalismo in malora, il mi’ babbino caro, insomma.

RABAGAS           - Se ne parla, se sarà, e tempo permettendo.

DESMOULINS    - Sto ben qua per parlarne: s’era discorso di uno scannatoio personalizzato, cinquanta per cinquanta, monolocale a due piazze, con terrazzo proteso sull’attico a mare, dove ci si possa abbronzare bisessualmente, intestato a me, o non se ne fa nulla, il ciel non voglia e magari “parlo”, amici più di prima. Mica per niente, si sa com’è: una parola può sempre scappare e, voce dal sen fuggita, succedono i disastri. Non mi piglio responsabilità.

RABAGAS           - (una santa indignazione) Fottere, fottere, infilarsi in qualsivoglia fessura pur di infilarvisi, la gioventù odierna non ha in mente altro. Dove sono finiti i santi ideali dei padri? Fossili di cui si son perse anche le vestigia. Il popolo che ora et labora, fatica, soffre, geme ed anela di elevarsi al cielo, e tu non ti struggi che per i ludi spossanti della tua privata lussuria!

DESMOULINS    - Mi struggo per ciò che travaglia e mette in croce me, maestro. Domando il permesso: ho qualcosa che geme ed anela di elevarsi al cielo pure io.

RABAGAS           - Complimenti! Va’ ben là che puoi già insegnar a vivere, giovinotto. C’è la stoffa di un ministro di domani.

DESMOULINS    - (avvertimento, tempo a venire? Non lo si saprà mai, la commedia termina prima) Quando un cuoco di fino si adatta ad accettare l’ordinazione di servire due uova alla coque, minimo deve saperle cucinare per sé, a scapito di perdere o la faccia o il posto.

RABAGAS           - (sprezzante senza rinunciare ad essere magnanimo) E va bene: avrai la tua giovanottiera. Ora, però, scomparisci. Ho tanto da meditare.

DESMOULINS    - (andando) Ammobiliata! L’arredatore lo procuro io, un amico mio dalle mani d’oro; non occorre che altri si disturbi.

RABAGAS           - Dove andremo a finire di questo passo? In Parlamento, posto prenotato. Ma è già rimasto solo passeggiando, sprofondato nella spessità del pensiero.

RABAGAS           - Bisca e tempio: i ganci estremi a sostegno dell’oscillante filo della vita. (e congratula se stesso) Una filosofia così di getto. E si preoccupavano di non trovare gli uomini giusti! Io “mi” credo!... D’ora in poi, incalzando, tutti molto ufficialmente e in fretta, l’un dopo l’altro in successione gli altri nominati. Ecco, per primo, incedere, in gran pompa il cardinale principe di Flaveurs.

DE FLAVEURS   - (insolitamente cordiale) Ossequi, caro cavaliere. Vi incontro sempre con piacere.

RABAGAS           - Reciproci complimenti per la vostra splendida cera, stamattina, eminenza. Dormito bene?

DE FLAVEURS   - Coll’aiuto di nostro signore, non mi lamento... Anche voi?

RABAGAS           - Io di una camomilla, senza aiuto di nessuno.

DE FLAVEURS   - (glissando) Diciamo di una figlia del buon Dio.

RABAGAS           - Faccia lei. È ricomparso l’arciduca Charles.

CHARLES            - Eminenza... Sarebbe ora...

DE FLAVEURS   - Deo gratias, giovanotto, eccomi.

CHARLES            - Sua Signoria ha dato inizio al ricevimento della Delegazione finanziaria svizzera. In questo momento, sta ascoltando la relazione del Presidente dell’Unione Banche Elvetiche; raccomanda alla prudenza vostra di tenersi a portata di voce nel caso che si rendano necessari chiarimenti dell’ultimo momento. Cogli svizzeri tutto è possibile.

DE FLAVEURS   - E inteso.

CHARLES            - ...Anche lei, cavaliere.

RABAGAS           - Come d’accordo.

DE FLAVEURS   - Sempre più pittime questi svizzeri. Non si fidano che della loro cioccolata e qualche cronometro purché si tratti di marche nazionali.

RABAGAS           - Questi bastardi infedeli che credono solo nel venti per cento, si son messi a farla espressa, la loro cioccolata, ho sentito dire, inoculando i semi di cacao direttamente nella tetta della vacca, una corsetta per lo scuotimento e te la mungono calda. Squisita per la verità.

DE FLAVEURS   - Pur di comprimere i costi ne inventano una ogni giorno, anche loro, dopo la crisi francese.

RABAGAS           - (perché provocatorio così?) Da barbari rinnegati e ladri, non è che una scusa per farli aumentare, in realtà. Si è, da poco, aggiunta alla compagnia anche Eusapia.

EUSAPIA             - Non trovo sbagliato che la cioccolata a mano si paghi di più, l’artigiano costa. Non è una novità.

RABAGAS           - Ma un ladrocinio sì. Manderebbero a smarchettar la loro madre, pur di far soldi!

DE FLAVEURS   - Nell’uso verbale della vostra... indignata franchezza un po’ osé, comincio a notare, con piacere, figliuolo, il diplomatico riavvicinamento verso la santa madre chiesa. Un ritorno all’ovile?

RABAGAS           - Prendetevela come più vi aggrada, eminenza. Se sarà, sarà.

DE FLAVEURS   - Cosa conta quando il risultato è uguale?... Vogliamo avviarci?

EUSAPIA             - Non sarà opportuno che sia reperibile anch’io in rappresentanza del capitale americano? I ragguagli sono ragguagli.

DE FLAVEURS   - Senza di voi, madame, e privati dell’esperienza preziosa del cavaliere, amico Rabagas, il principato non avrebbe mai conosciuto la feconda fioritura d’iniziative che sta intraprendendo. E il nostro Rinascimento. (con poco meno untuosità) Avvocato!... Non facciamoci attendere, signori, il tempo svizzero costa caro. Eccettuato Charles, via tutti. Dalla porta, dove trafficò l’arciduca, ora esce De Mora tenendo, visibilmente in mano il biglietto insinuatovi sotto dall’amico. Avanza aprendolo, lo legge e si sofferma a riflettere sotto il naso dell’altro senza vederlo. Epinicio della gelosia:

DE MORA            - (fra i denti) ...Stronzo...

CHARLES            - ...e non una volta sola!

DE MORA            - Tu, una ne pensi e dieci ne combini. Che vuol dire codesta cazzata, adesso?

CHARLES            - Né più né meno di quanto hai finito di leggere: basta!

DE MORA            - Cos’è, t’ha colpito la filossera nei pantaloni?

CHARLES            - Fa’ conto, guarda. E me l’hai attaccata tu dedicandoti a derubare quell’allocco di mio zio.

DE MORA            - Tuo zio?

CHARLES            - ...dell’amante di mio zio, se vogliamo mettere i punti sulle “i”: la stramaledetta americana, venuta qua a portare lo sconquasso. Non dir di no.

DE MORA            - Non lo dico.

CHARLES            - Io non ti bastavo, evidentemente. T’ha stravolto, t’ha “anormalizzato”, quella gatta in calore!

DE MORA            - (deciso) L’ho dovuto fare.

CHARLES            - Nemmeno la faccia tosta di tentare di negarlo a parole!

DE MORA            - Ci son stato costretto, ti dico. Fuoco a parte, perpetuamente acceso fra le cosce, è una che se ne intende, quella lì. L’avresti capito pure tu, se fossi in grado di ragionare. Eran già cominciati i sospetti, se non te n’eri accorto. Fin dalla notte che andavi a spasso intabarrato per il parco, massacrando i vagabondi, eran cominciati i sospetti. Mi ci ha trascinato e ho dovuto cedere.

CHARLES            - Violentato, povera mammola! E pensare che cercavo camera tua... Ed era vuota!

DE MORA            - In un certo senso violentato: sì, la prova... palpabile, pretendeva, della mia incongrua virilità se sapessi con che gusto!

CHARLES            - Lasciamo correre, che, magari, sta ancora dietro quell’uscio, al caldo, nel tuo letto.

DE MORA            - (sentendosi fiutato) Che annusi a fare?

CHARLES            - T’è rimasto addosso il suo schifoso odore. Ho un naso che non s’inganna, io. E, magari, tu lo chiami profumo! Ma non ti fai ribrezzo?

DE MORA            - (spalancando le braccia) Mi rassegno.

CHARLES            - A double-face! Sei come le scarpe dei coristi, buone per ogni piede. Maschi o femmine, fa lo stesso, dopo tanti giuramenti! La morale non hai mai saputo nemmeno dove sta di casa, la morale: quella sana!

DE MORA            - Qua dentro, no di sicuro, puoi risparmiarti la fatica di cercarla.

CHARLES            - Non hai bisogno di giuramenti.

DE MORA            - Oh, insomma, Charles, m’hai rotto!... Né più e né meno di quanto ti dai da fare tu con la svenevole di tua cugina. Ma, presumibilmente, sei convinto che le corna, di cui mi incoroni tu, pesino meno di una magiostrina di piume d’uccello. (è parola quest’ultima, che non doveva usare. Pazienza)

CHARLES            - Faccia di bronzo, dopo essere stato tu a spingermici!

DE MORA            - E non me ne pento con quanto rischi di guadagnarci: una corona, nientedimeno! Il che non toglie, mettitelo in testa, che, da parte mia, debbo trascorrere le nottate coi tappi nelle orecchie, senza costrutto, per non farmi ossessionare dagli starnuti con cui assordi la zona, che tieni sveglia la gente fin sulle barche del porto. E, poi l’“anormalizzato” sarei io!... Non sopporto i tuoi starnuti, se lo vuoi sapere!

CHARLES            - Dimmi che non so nemmeno più starnutire, adesso!

DE MORA            - Avrai disimparato.

CHARLES            - Il danno e le beffe, pigliati questa, ora, per giunta.

DE MORA            - (rovesciamento del fronte?) Insomma, non li sopporto, va bene? Taccio e trangugio.

CHARLES            - E lo credo, fra le braccia dell’impunita. Figurarsi io che sono colui che li fa, con te nel cuore e altrove. (dove?)

DE MORA            - Fatti forza, Charles, ricordati che sei un soldato!

CHARLES            - (il crollo?) Non ce la faccio, Andrè, non ce la faccio. Mi viene da strangolarla. Almeno emettesse degli starnuti decenti. Sembra di star abbracciando una capra che cerca di barrire, convinta di godere.

DE MORA            - Ah, perché vorresti che ti venisse incontro con degli starnuti eccitanti anche, magari lussuriosi, già che ci sei.

CHARLES            - Da oblio – almeno da oblio. Io non voglio niente, non voglio lei! Mi abbatte, mi spossa, mi sfianca, mi umilia e mi offende: voglio te!

DE MORA            - Va’ là che una vera vocazione agli starnuti “giusti” non l’ha mai avuta. Confessalo lealmente. Io non ho mai detto nulla, pensando si farà, ma lo intuivo. Tu avrai il naso che non si inganna, io ho la pelle!... E aspettavo, aspettavo... Bisessualità, ideale irraggiungibile! Avevo sognato un androgino e mi ritrovo una checca.

CHARLES            - Mendace impostore, come fai a dire una cosa del genere? Non ti ricordi più appena finito lo starnuto? È la prova che menti.

DE MORA            - Certe cose si capiscono a volo, “durante”: in fieri.

CHARLES            - (fuor di sé) Senti: tu rinunci alla manza del Massachussetts e io rinuncio a mia cugina. Mi importa tanto di un trono se devo far a meno di te! Non sono merce adatta a noi, Andrea Danilo Maria!

DE MORA            - Ma santo cielo, chi dice di far a meno? E solo questione di pazienza: cum juicio, Charles.

CHARLES            - E intanto non hai risposto alla mia proposta.

DE MORA            - Tu sei matto nella testa, matto per tutti e due. Cerchi lo scandalo ad ogni costo come un fanatico collezionista di monete cercherebbe i due soldi di Teodolinda. Con ciò che sta maturando nel nostro paese!... A costo di ricominciare ad andare a donne e di passar le notti col cemento nelle orecchie, no e poi no: non sono disposto a farne a meno io, al tuo fianco, mi costasse un esaurimento nervoso. Guarda cosa ne faccio del tuo ultimatum. Accende un fiammifero e dà fuoco al biglietto.

CHARLES            - (con gelo insultante) Gigolò! E sia, te lo sarai voluto: mi avrà il primo biondo che incontro per strada.

DE MORA            - Purché ci stia.

CHARLES            - Ci starà. Non s’incontrano che biondi, qui, da alcune settimane.

DE MORA            - (impassibile) E io ti uccido; fa un po’ quel che vuoi e vedrai... Anzi no, mi dispiace solo che non potrai vederti. Ti vedrò io. Se vai con uno svizzero ti faccio la pelle. Essendosi sentito dire ciò che si aspettava, Charles fa ancora qualche passo imbronciato; poi, torna sui suoi passi.

CHARLES            - ...Me lo dai?

DE MORA            -  Diventi matto? Qui? Adesso?

CHARLES            - (alle soglie del pianto) Un bacio... E lo prende. Con quel che si vede alla televisione... Bocca baciata non perde ventura... Non si sarebbe neanche alloggiati in un vaudeville se non venissero sorpresi così dal Principe ed Eusapia, che, braccia intorno alla vita, sono di passaggio, per caso, in quel preciso momento, ignari e sorridenti.

EUSAPIA             - Oh!...il passato che ritorna, mon dieu!...

IL PRINCIPE       - E una fatalità. Altro che attrici giovani, cominciano a mancare pure gli attori giovani!

EUSAPIA             - Anzi, di questo passo e coll’aria che tira, mi sa, piuttosto che stia per scoccare l’ora in cui non ci saranno che attori giovani in circolazione.

IL PRINCIPE       - Se Dio non guarda giù, mi assalgono forti dubbi che l’infelice Gabri sarà costretta, davvero, a passar la sua prima notte di nozze contando le candele sul lampadario del soffitto.

EUSAPIA             - Eppure si supera. Si scova sempre qualcuno in grado di sostituire quelle che non si accendono. Basta, la mattina, chiedere alla cameriera, o pregare del servizio il cameriere, se ha le doti per assolverlo personalmente.

IL PRINCIPE       - Voi non potete capire, amica mia.

EUSAPIA             - E tuttavia intuisco, esperienza nota. Ma non è detto. Talvolta, proprio quelli lì sono i migliori mariti. I due birichini se la sono, frattanto, svignata – si ingegni il regista come – scontrandosi con Rabagas che viene avanti in pensiero e, forse, non se n’è nemmeno accorto.

EUSAPIA             - Gli svizzeri non vedono l’ora di stringervi la mano, cavaliere. D’ora in poi, sarete voi la puleggia dell’affaire.

RABAGAS           - (galante senza riuscirvi troppo) Qualora voi, amica mia, non l’aveste messa in moto.

EUSAPIA             - ...impazienti soprattutto, di scrutare al microscopio il vostro brindisi alla cena di gala in loro onore, di stasera. Occhio alla facoltà dei banchieri svizzeri di cogliere il senso riposto anche di una vir­gola.

RABAGAS           - (insolente) E, allora, che abbiano la buonagrazia di aspettare a stringermela dopo le nove. Parlerò senza punteggiatura... Nessun “cochemère”, madame, se non condividono la medesima facoltà anche gli affaristi americani.

EUSAPIA             - (ridendo agra) Di loro, rispondo io. Nel mio paese, il femminismo è molto più avanzato di qui.

RABAGAS           - Appunto.

EUSAPIA             - A momenti. E s’avvia accompagnata dal Principe.

IL PRINCIPE       - (a bassa voce) Ciò che più m’infastidisce è l’arroganza che ha messo su.

EUSAPIA             - (ambigua) Ad affarista nato, arroganza urtante, non esiste via di mezzo. Lasciategli il tempo di farsi. Vocazione ne ha fin troppa. Improvvisamente, è comparso Angustia. Anche lui, però... come si dice? Il più possibile di “estraniamento” nel breve, ma fondamentale colloquio coll’ex principale.

ANGUSTIA          - Eccomi. Mi mandasti a chiamare e, debitamente perquisito al cancello, son venuto.

RABAGAS           - (palese lo sforzo dell’ipocrita amicizia) Angustia?... A te?!...

ANGUSTIA          - Domando.

RABAGAS           - Mi dispiace.

ANGUSTIA          - Comprensibile. Non ho bombe addosso. Puoi accertartene di persona. E gli si offre come per una perquisizione.

RABAGAS           - Cormelin!... Fratello di tante sacrosante battaglie, come puoi pensarlo? Uno stupido contrattempo dei soliti cretini troppo zelanti. Più che naturale. Lascia perdere. Bakunin non lo verrà a sapere. (dopo un po’, finto sorpreso) Sei di cattivo umore, Cormelin?

ANGUSTIA          - Non ho ragione di essere del mio migliore, diciamo.

RABAGAS           - Noto compiaciuto che mi dai del tu. È la prima volta in tutto questo tempo. Non hai idea quanto te ne sia grato.

ANGUSTIA          - Ce l’ho.

RABAGAS           - No, non ce l’hai.

ANGUSTIA          - (freddo e tagliente) È un tu da collega.

RABAGAS           - (nota della nostalgia patetica) Compagni da tanti anni...

ANGUSTIA          - (rettifica) Colleghi.

RABAGAS           - Significa che hai compreso, dunque. Ci tenevo. Mi togli una pietra dal cuore.

ANGUSTIA          - (c.s.) ...Da attore ad attore: professionale. Ce lo siamo sempre dato; l’apprezzamento al collega non cambia. Bravo come non mai. È il personaggio che non ha nulla a che farci, impresa disperata.

RABAGAS           - (una falsa ingenuità) E umanizziamolo un po’, questo benedetto Rabagas, che non sia soltanto un fantoccio, un mascherone! Un po’ meno incredibile! S’era d’accordo, no?

ANGUSTIA          - Peggiorandolo, quando mai. Rabagas è un fantoccio e fantoccio deve restare. Ha un avvenire davanti a sé. La sua carriera è appena agli inizi. Oggi è soltanto un mediocre pupazzo, domani sarà un personaggio grande e potente e non farà più ridere. Con lui, e coi suoi nipotini, probabilmente, la storia avrà il suo da fare... Rabagas è prolifico, Rabagas. Umanizzarlo vorrebbe dire distruggerlo. Gli va data corda, semmai: Rabagas non muta!

RABAGAS           - (sui nervi) È così che la pensi?... Bada, stai boicottando lo spettacolo.

ANGUSTIA          - Lo sto, anzi, valorizzando. Lascia perdere come la penso. Anche la storia ha la deplorevole abitudine di scrivere pessimi copioni… All’osso: cos’è che vuoi precisamente?

RABAGAS           - (modestia costosa) Mi serve il tuo sostegno.

ANGUSTIA          - Già, mi dimenticavo: io sono la tua coscienza.

RABAGAS           - (riscaldandosi) E non ti consento di metterlo in dubbio. Tra poco, qui c’è una riunione ad alto livello. Il Consiglio della Corona si riunisce a discutere proposte democratiche – insisto sulla parola – e di grave momento per il nostro paese. Voglio, ho deciso, che tu sia presente: il Popolo deve far sentire la propria voce. Passeranno, perché vanno a beneficio generale e, innanzi tutto, del popolo: la fine della miseria, Cormelin. Ti chiedo soltanto, prima di consentire o di dissentire, ascoltami. Ho bisogno del tuo appoggio morale: il tuo voto di consulenza, ti parlo apertamente... E, proprio, perché si sa, e si deve continuare a sapere, fuori e dentro di qui, che tu sei la mia coscienza: la legittimazione morale. È tutto... Non rispondi?... (vorrebbe apparire l’onestà offesa e gli riesce a malapena il rancore stizzito) Non ho voltato gabbana, compagno!... E parla, per Giove, non ho voltato gabbana!!

ANGUSTIA          - (ambiguo) Penso proprio di no.

RABAGAS           - (un autentico sforzo. Costa salvare la faccia) ...Tu sei un teorico, un apostolo... un santo, toh! Non sei mai riuscito a distinguere dove finisce un copione e comincia la vita. Ma per dare concretezza all’idea, talvolta è giustificata qualche apparenza di compromesso, renditene conto, poggia i piedi per terra. Non si vive unicamente di sogni! (gli tende la destra, che l’altro si guarda dallo stringere) ...Sii con noi anche tu. Può dare ancora – e avere – molto ai nostri ideali un uomo come te... Dentro, nulla è cambiato, Cormelin... Cosa ti si chiede? Solo un po’ di diplomazia, appena quel tanto... Poni termine, finalmente, alle angustie che ti hanno dato il nome e delle quali ti sei sempre fatto orgogliosamente bello... lasciaci fare, testardo d’un poeta... Ci vuol altro! (controllando astutamente l’ormai scoperto tentativo di corruzione) Pensa al domani dei tuoi figli, alla serenità di tua moglie, a proposito come sta la cara Isolina?...

ANGUSTIA          - Non si lamenta.

RABAGAS           - ...che si consuma come una bestia da soma,... a tutto quanto fosti costretto a rinunciare tu... gli ozi che non potesti prenderti... i viaggi, i libri.., i pasti saltati... il rispetto, la dignità. Non c’è solo un modo di essere coerenti... Scommetto – si fa per dire – che non hai mai messo piede in un teatro per ascoltare un’opera, te che adori la musica…

ANGUSTIA          - (quando umiltà significa provocazione) Sbagli: La figlia di madame Angot la so dalla prima nota all’ultima.

RABAGAS           - (sfogato) Per la magra soddisfazione di riuscir a fischiettare La figlia di madame Angot, tu ti precludi ogni altra gioia della vita! E la Lucia di Lammermoor, I puritani, la Favorita, L’elisir d’amore?

ANGUSTIA          - (lapidario) Sono astemio!

RABAGAS           - (iracondo) Insomma, una volta, almeno, nella vita, una sola, quando è il bene di tutti, e anche il tuo, consenti di sporcarti le mani, è l’unica maniera per conservartele pulite!... Ne dovrai rendere conto, un giorno.

ANGUSTIA          - Bravo. Basta così. La commedia è già lunga e Rabagas è in frantumi. A te raccoglierne i cocci e rimetterlo insieme, se ci riesci.

RABAGAS           - (uno slancio venuto chissà da dove) Sospetta pur di tutti, Angustia, ma non sospettare di me!

ANGUSTIA          - (una sorta, molto vaga, di gelida tenerezza) Che gusto c’è a sospettare di qualcuno quando non esiste più il minimo dubbio? E conclude tra sé, o mormora, o pensa soltanto, col volto appenato: “il dramma del cannibale: non potersi far credere vegetariano...” È il momento e rieccoli tutti, per l’occasione, più sontuosamente vestiti che mai. Nell’ordine: Desmoulins, De Mora, Eusapia, De Flaveurs. Chiude il corteo, marcandolo di una certa impressione, S.E. il cardinale De Flaveurs in gran pompa, rosso scarlatto di pesante e fluente seta moiré; conservavano in sartoria un costume storico, quattro punti sui fianchi e servì a pennello. Cormelin stava già lì, meschino e immusonito, e ascolta, senza mai intervenire, salvo che, alla fine, il gesto del rifiuto di votare. Incedono involontariamente impettiti, a dimostrazione di quanto sia difficile camminare a testa alta, in divisa, senza darsi delle arie. Con deferente sussiego, Rabagas non è da meno nell’accompagnarli ai loro posti, intorno a un sontuoso tavolo centrale onusto di vasellame argenteo.

RABAGAS           - ...Signori... (alla precipite scollatura di Eusapia, sottovoce) Le più belle spalle in cima al più scosceso precipizio del nuovo mondo.

EUSAPIA             - Galante. (soffio) Scalarle non è impossibile a un provetto rocciatore di garretto gagliardo. Dipende tutto dal garretto, siamo sempre lì.

RABAGAS           - (al prelato) ...Ottimo, eminenza, il rosso porta bene... non quel lugubre viola.

DE FLAVEURS   - Era il costume di Zacconi nel Lambertini. S’è dovuto solo riprendere un po’ in vita.

RABAGAS           - Non buttar via mai niente.

DE FLAVEURS   - Per cena, avrà perso anche l’odor di naftalina.

DESMOULINS    - (nel sistemarsi al suo posto) Noo, che è afrodisiaco.

DE FLAVEURS   - Se lo dite voi...

RABAGAS           - Vede?... Vostra eminenza ha il segreto di far ringiovanire persino i venerandi costumi.

DE FLAVEURS   - Lusingatore... ma non sempre quel che c’è sotto. Ognuno in piedi, aspettando il sovrano. Nemmeno terminato di scriverlo, ecco l’atteso, anch’esso con un carico supplementare di onorificenze.

RABAGAS           - (genuflessioncella d’uso, sprezzantemente registrata dall’antico compagno) Vostro Onore... E lo guida allo sfarzo di una monumentale poltrona di sbieco, a fianco della tavolata – i sovrani democratici presenziano alle sedute di gabinetto, ascoltano e non intervengono, quando non delegano il sicario – Assolta la parte ufficiale, Rabagas si reca ad assidersi al proprio posto centralmente ai suoi consiglieri; un tempo, un gesto e tutti a sedere.

RABAGAS           - (scherzosa disinvoltura non scevra di sottintesa, quanto oscura, minacciosità) Un favore: se c’è uno che il mio vivace temperamento non ha ancora insultato, me lo si dica prima di incominciare che rimedio subito. Serpeggia un risolino verde. Apre la cartella gemmata, di cuoio, che gli sta davanti, gonfia di documenti, donde estrae una relazione e si accinge a prender la parola.

RABAGAS           - Dunque... Parte, nello stesso momento, la ruffianata suadente della barcarola veneziana di Offenbach, affievolendosi, di tanto in tanto, per lasciar percepire, sottolineati, stralci del resoconto che copre e sostituisce. ...e quindi, il tutto convergente, regolato e amministrato da un fastoso casinò. Tutti successivamente, nell’ordine:

EUSAPIA             - ...Un casinò?...

DE MORA            - ...Un casinò?...

DESMOULINS    - ...Un casinò?...

DE FLAVEURS   - (leggermente più accentuato, e concluso da un perentorio colpo di tosse di richiamo) ...Un casinò?... Che c’è, poi, tanto di male se il fine è buono?

RABAGAS           - (se n’era dimenticato, evidentemente) ...Un casinò! Da inaugurare, beninteso, nel giorno del Santo Patrono prossimo venturo; presente…

EUSAPIA             - ...Non lasciateci sperare... è mai possibile? Alla presenza del Santo Padre?

DE FLAVEURS   - (rancoroso) Certo no. È in pensione. Da quando gli scomunicati Savoia l’han ridotto “quel di se stesso antico prigionier”, non esce dalle mura leonine nemmeno a prendere un gelato, goloso quanto ne è.

RABAGAS           - La questione romana scotta ancora. Verrà per il centenario, coi papi vagabondi. Ne fo solenne promessa alla pia mansuetudine dei nostri futuri concittadini... (uno scatto, un pugno sul tavolo) E se, qui qualcuno sghignazza, non è il suo posto! Per sghignazzare, c’è la piazza! È stato Angustia. Fa finta di niente e rimane. Non è passato inosservato al Principe. S’accorgono, invece, tutti, che Desmoulins ha alzato un dito come richiesta di intervenire. Avete la parola, Desmoulins.

DESMOULINS    - Un casinò? “Ò”!? Coll’accento?

RABAGAS           - Ovvio: l’ombelico di una gran macchina di ricchezza, di opulenza, di lusso e di piacere. Nessuno, in questo paese, avrà più il diritto di essere povero: sola meta, un mondo dove il sogno della gioventù sia dormire.

DESMOULINS    - Ah, una sciocchezza… semplice questione formale. Personalmente, l’incomodo dell’accento sull’ultima vocale, mi intriga come una pietra frenante sul rettifilo di una lingua altrimenti veloce, sciolta ed esplicita quale nessun’altra. Nei prossimi anni, qui si innalzerà di tutto. Non capisco perché, erigendo l’edificio più importante, lo si debba soffocare con un coperchio che gli spezza il respiro, quando sarebbe tanto più facile e catturante la parola piana. Un casinò coll’accento può essere inteso, scusate, come un casino castrato, trattenuto, che ha vergogna di se stesso... Divide, discrimina, tiene distante la gente, la gioventù a cui non si pensa mai... quando urge tanto il contrario... Minuscola questione, ma non per me; tutto qui, mi scusino tanto. Dimentichiamocene! Non piacerà, agli svizzeri, forse...

RABAGAS           - Perché? Libertà di parola non è semplice flatus vocis. E poi, cos’è, un accento? Metti caso che non funzioni, lo si può sempre ripristinare con poca spesa. (altra occhiata fulminante verso Cormelin).

EUSAPIA             - Del gradimento degli americani rispondo io. (sfido, è suo il 51% del capitale)

DE FLAVEURS   - Questione minuscola, però, fino a un certo punto, a onor del giovanotto.

DESMOULINS    - I casinò si fanno o non si fanno. E se si fanno, in malora gli accenti: ne riducono del cinquanta per cento il significato... e la rendita. Casino... quanto più melodiosamente attraversa le lab­bra!

IL PRINCIPE       - (ovattato e cauto) Da sovrano costituzionale, io ho il dovere di non far sentire la mia voce. Tuttavia, per una provata esperienza ippica, mi permetto di far osservare al nostro giovane, ardente e generoso nemico degli accenti che non è possibile cavalcare due destrieri con un culo solo, pardon.

EUSAPIA             - Consenta, Sua Grazia, io, con la mia pratica che reputo non da meno, ritengo di poter garantire l’esistenza di culi, diciamo, estesi a sufficienza per poterci riuscire. Oddio, con una certa scomodità, ma, poi, nemmeno insuperabile. Conta molto l’allenamento. Il cardinale e il conte De Mora non si pronunziano, da un po’ la barcarola ha finito di “discorrere”. Da prima, son cessati i colpi della demolizione delle piante.

IL PRINCIPE       - Che vi devo dire? Sarà il caso del nostro avventato amico. La giovinezza ha di ammirevole che le riesce possibile tutto.

RABAGAS           - Sarà da riflettervi. Questione sospesa… All’ordine del giorno, da aggiungere in seguito alle parole “fastoso casinò”: “nonché un ricco... gaudio–center, dotato di tutti i servizi annessi e connessi, etcetera...” Parentesi: eventuale proposta di referendum popolare: “accento sì, accento no?”... E, se del caso, referendum bis, se fare, o no, il referendum e così via. Niente paura, si può andar avanti un secolo, democratia docet. Voto palese. Chi approva in linea di massima, alzi visibilmente la mano. L’obbiezione è trasformata in proposta. Le alzano tutti, eccettuati il Principe e Cormelin, e resterà legata al dito di Rabagas finché campa. Cinque sì e uno astenuto. L’assemblea approva a schiacciante maggioranza. Col permesso di Sua Grazia, la seduta è tolta... A tavola. Signori, è il momento di affrettarsi. Tra mezz’ora, comincia, per il nostro paese, l’inizio dell’Era Contemporanea chi rimarrà povero se lo sarà voluto. Ognuno abbandona il proprio posto per recarsi alla cena ufficiale, non senza un deferente inchino nel passare davanti alla poltrona del Principe. La prima, naturalmente, è l’Eusapia.

EUSAPIA             - Vi precedo, Vostra Grazia, per gli onori di casa. Sempre colla Democrazia fra le mascelle, questi Svizzeri hanno, poi, un debole per l’etichetta. Osservano tutto.

IL PRINCIPE       - (ormai non parla, in lui, che l’umorismo indefinibile di una scettica malinconia) Nessuna preoccupazione, stasera sarete soltanto voi a focalizzare l’attenzione generale... Conterà di più la vostra scollatura di tutti gli “accenti” possibili e immaginabili. Via lei, avanti De Flaveurs. ...Perseveranza e pazienza, vedrete, Eminenza, che finirete coll’aver anche le vostre forche. Del resto cosa c’è di più rassomigliante a una croce se non a una forca? Son parentele antiche. È come un letto a due piazze. Tempestività e risparmio. Ed è la volta di De Mora. Queste scarpe sono strette, De Mora. Se non mi vogliono a cena scalzo e, quel che è peggio, coi piedi rovinati provvedete, per cortesia, a farmene trovare, in camera, un altro paio che non siano uno strumento di tortura. Il mio numero è il quarantaquattro. Non c’è Servizio Segreto che non lo sappia. ...e, finalmente, Desmoulins. ...La mia povera memoria!... Non riesce a venirmi in mente chi fu a dire che il miglior segno della regalità consiste nel riconoscere d’aver avuto torto.

DESMOULINS    - Casanova, vostro onore... facciamo Casanova.

IL PRINCIPE       - Davvero?

DESMOULINS    - Davvero!

IL PRINCIPE       - Ma tu pensa! Bene: le vostre brevi, civili e coraggiose parole sono state quelle di un autentico cittadino di domani.

DESMOULINS    - Troppo generoso. Per carità, è tutto merito dall’aver fatto i miei studi in Italia, tradizione umanistica, monsignore.

IL PRINCIPE       - Mi pareva... Degno figlio di vostro padre.

DESMOULINS    - Glielo riferirò e ne sarà felice.

IL PRINCIPE       - Non ne dubito. Un’occhiata piuttosto torva a Rabagas che non s’è avvicinato, invece un cordiale sorriso verso Cormelin per la medesima ragione; si alza e via, zoppicando. Se il regista fosse d’accordo, altrimenti fa lo stesso, estranei, distanti, lambiti dalla mezzombra dell’incipiente crepuscolo, Rabagas e Cormelin – nell’imbarazzato e triste stato di chi non ha più nulla da dirsi, immersi nella fosforescente e cristallina luminescenza dell’arcana allegoria marcata da una dimensione irreale – assistono alla sfilata di alcuni valletti, ognuno reggente, su un sostegno, un diverso abito, quasi il “costume”, emblematico, ideale gradino di una simbolica camera in salire: gli sciamannati stracci proletari, la lisa marsina borghese, l’ondosa toga avvocatesca, una inappuntabile finanziera, l’ermellino severo del magistrato, il pomposo tòcco del dottore honoris causa, una candida sahariana, un lugubre orbace mortuario, la divisa di un giulivo sergente, l’imponente uniforme di un generale, l’assisa irraggiungibile del Maresciallo; ma possono anche indossarli di persona, se non costano troppo all’impresa. Uno per uno, Rabagas li osserva trascorrere alla luce del doppiere col quale ciascuno si illumina. Al termine del bizzarro corteo, opaco e gelido il giudizio di Cormelin nel distrarsi alla balaustra, dove sta fissando il vuoto...

RABAGAS           - (tono del montone malinconico) …È tempo di scendere dai trampoli... Qui non si riesce a piantare più un chiodo, Cormelin! Dio è morto, Marx è in fin di vita... e io non sto niente bene...

ANGUSTIA          - ...Ti piacerebbe sentirti dire “povero Rabagas, hai giocato col fuoco e t’hanno preso la mano”.

RABAGAS           - Da te, tanto.

ANGUSTIA          - ...No. (spento) I dadi truccati no. Non mi diverti nemmeno più. E, nel silenzio pesante come una pietra, che fa da eco all’uscita tempestosa di Rabagas, un istantaneo precipitare nella notte flebilmente risonante delle remote melodie dal luogo dove si svolge la cena, sottolinea il trascorrere del tempo. Ora, il fulgido chiarore della luna invade il fastoso deserto conferendo un tagliente nitore alle sagome, alle cose e ai sentimenti. Furtivo, avanza il visconte trascinando per un braccio la cugina; socchiude una delle porte che li colpisce, per un attimo, con una sciabolata di ruvida e calda luce, e ve la spinge dentro di brutto.

GABRIELLE        - Ma, Charles, che ti succede?

CHARLES            - Visto che si deve fare, facciamolo qua e subito, strappato il dente, cessato il dolore. Dentro lì, con solo starnuti! E devi uscirne gravida, la Dinastia ha da continuare! E le scompare dietro rinchiudendosi l’uscio alle spalle. La cautela personificata, immediatamente replica all’uscio accanto. È Eusapia a tirarsi dietro Desmoulins a tutto garbo.

EUSAPIA             - ...Avrei, caro, capisci, scambiar due parole circa quell’accento.

DESMOULINS    - Con entusiasmo.

EUSAPIA             - Era dall’antipasto che non ne potevo più. Basta un accento a scompigliarmi l’animo.

DESMOULINS    - Quando l’animo chiama mai rimandare. A disposizione, abusi pure di me senza tanti riguardi, se deve coinvolgere lo spirito.

EUSAPIA             - Almeno uno che ne sia rimasto! Sempre più lontana la musica lontana. Compare il Principe e va ad affacciarsi alla balconata, trovandosi accanto Cormelin.

IL PRINCIPE       - ...Quando si dice condividere lo stesso pensiero!... Vegliate anche voi mentre gli altri dormono?

ANGUSTIA          - (sibillino) Io veglio “se” il re dorme.

IL PRINCIPE       - ...Lo sentite il mare?...

ANGUSTIA          - ...Lo sento.

IL PRINCIPE       - Con quello che gli costruiranno davanti, fra      poco,   non      più...    Mi soffermavo spesso su questo balcone, sul far della notte... Mah... domani cadrà l’ultimo ulivo... il mare, la collina... Fu la “Dominante” a piantarli, secoli e secoli fa, tutti firmati Simon Boccanegra... Una collina rapata è come una bella donna calva.., e uno uccide il sonno... Riserve! I Rapaci ci dicono, vanno protetti.

ANGUSTIA          - Non nei governi.

IL PRINCIPE       - Basta che mi assopisca, per essere ossessionato sempre dallo stesso sogno: la domanda se siamo stati noi i corruttori oppure i corrotti.

ANGUSTIA          - E la risposta?

IL PRINCIPE       - Non c’è risposta; sono davanti a uno specchio a interrogarmi il volto e mi ritrovo di fronte la nuca che non mi sa rispondere. Di colpo, una salve strepitosa di starnuti come fosse entrata in porto l’“Andrea Doria”.

ANGUSTIA          - Quest’epidemia di raffreddori!.. Il fresco della notte... Il Principe va alla porta donde provengono, la spalanca e rimane a bocca aperta, mentre, dall’uscio accanto, Desmoulins e l’americana se la battono come possono.

IL PRINCIPE       - ...Senza perder tempo!... Ho capito: han già tolto l’accento. ...E nello scorgere, in distanza, Eusapia e Rabagas, allacciati, che si stanno allontanando: lei, se si vuole, in provocante due pezzi, golfino di cachemire e pantaloni di vigogna beige, lui, giulivo nella propria sahariana chiara e bermuda come Spadolini. Ma non ne ha mai abbastanza quella là?

ANGUSTIA          - Non ne hanno mai abbastanza, quando hanno i soldi.

IL PRINCIPE       - (ispirato, improvviso e alto) Monsieur Jules! Rabagas si volta subito, sorpreso.

RABAGAS           - Come? Conoscete il mio nome, Sire?

 IL PRINCIPE      - ...Una premonizione:... Giulio. Intendevo mettervi in guardia: attenzione, il Potere logora.

RABAGAS           - Chi non ce l’ha.

EUSAPIA             - (di concerto) Burlone...

IL PRINCIPE       - ...Due puttane in società. E appena si saranno allontanati ancora d’un po’:

ANGUSTIA          - Peccato, io gli credevo.

IL PRINCIPE       - Per me, peggio: non le credevo... C’è luna piena, stanotte, speriamo che non ne vada di mezzo l’abituale vagabondo del parco... Venite a trovarmi, ogni tanto, signor Cormelin; mi fareste piacere.

ANGUSTIA          - Non mancherò.

IL PRINCIPE       - ...Due malumori delusi che s’incontrano, trovano sempre qualcosa di interessante da dirsi. Porre un boccone sotto i denti insieme, appiana le divergenze e mette d’accordo gli uomini.

ANGUSTIA          - Ben volentieri, maestà. M’ha preso, effettivamente, un gran bisogno di tirarmi su.

IL PRINCIPE       - Parleremo...

ANGUSTIA          - Della fame nel mondo. Un certo tornaconto l’ho avuto anch’io: rinuncio ai digiuni.

IL PRINCIPE       - (più modestamente) ...di come gestire “La Carmagnola”, per esempio.

ANGUSTIA          - “La Carmagnola” fu.

IL PRINCIPE       - “La Carmagnola” è e sarà. Ora ci sono i soldi. Deve continuare più e peggio di prima, alla sola condizione che non si sappia da dove le vengono. Ho diritto anch’io al mio giornale, adesso. Giunge ad interromperli e, piuttosto sorpreso, il colonnello De Mora.

DE MORA            - Mi scusi, Vostra Grazia, c’è, al cancello, uno che domanda del Cavaliere.

IL PRINCIPE       - Uno?

DE MORA            - Alto, bruno, truce, tutto polvere e sudore, colla barba da fare e gli stivali da allacciare; dice di chiamarsi Bakunin.

ANGUSTIA          - Il Cavaliere s’è temporaneamente assentato per un’ispezione... nell’avvenire. De Mora si accinge a tornare sui suoi passi.

IL PRINCIPE       - Ah... De Mora!...

DE MORA            - Sì, Vostro Onore.

 IL PRINCIPE      - Comunicate al viandante che saremmo orgogliosi se, domani, pranzasse, a palazzo, con noi. Si va a tavola alla una e mezza. Che non manchi.

DE MORA            - Ho inteso bene?

IL PRINCIPE       - Non potete intender meglio.

DE MORA            - Sarà fatto. Ma è brutto, Sire, contro ogni tentazione. E mentre, stupefatto, si allontana:

IL PRINCIPE       - Ci va bene così. Messa in piedi un’opposizione rispettabile, cercheremo, almeno noi, di organizzare un attentato serio. La bomba è regolata per scoppiare fra un quarto d’ora, tempo più che sufficiente a garantire l’incolumità del pubblico, se non si fermerà a bighellonare in guardaroba per dir male dell’autore come è previsto.

FINE