Come prima, meglio di prima

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COME PRIMA, MEGLIO DI PRIMA [ATTO 1]

                           COME PRIMA, MEGLIO DI PRIMA [ATTO 1]

Nella sala, il solito arredo delle vecchie pensioni di provincia, disposto

con meticolosa simmetria. Una stufa di porcellana; un canapè d'antica foggia, con poltroncine e seggiole imbottite, adorni di cuscini e ricamini fatti in casa; una mensola non meno antica con un grande specchio dalla grossa cornice rameggiata e dorata, coperta da una garza celeste, ingiallita, a riparo delle mosche, vasetti con fiori di carta; una cantoniera con ninnoli di vecchia majolica; oleografie volgari, un po' annerite, alle pareti, e un'antica pendola che batte le ore e mezz'ore con un languido suono di campana lontana. Usci laterali a destra e asinistra.

Chiara mattinata, sulla fine d'aprile.

DON CAMILLO (in attesa, rivolto alle due donne che guardano dalla scaletta

dell'orto)  No, eh?

ROGHI (dopo una breve pausa d'attesa). Sará un po' troppo presto.

DON CAMILLO (stizzito, in attesa ancora della risposta). Ehi, Giuditta, dico a te!                                             

LA NACCHERI (venendo avanti dalla scaletta, furiosa e schizzante veleno).

Crederei che se ci fosse da vedere, tra me e la Giuditta, a me e non a lei

dovreste domandare, perché con questo (mostrando il grosso binóculo e

pigiando sulle parole) se ci fosse da vedere, vedrei meglio io, che lei.

DON CAMILLO. Eh no, abbiate pazienza, Marianna. Anche con queste

(mostra le lenti e se le inforca sulla punta del naso) tra me e il signor Roghi, vedo sempre meno io, che lui.

ROGHI. Ah si, grazie a Dio, la vista...

LA NACCHERI  Ma anch'io, signor Roghi, anch'io! Non ho punto bisogno di lenti

io, sa? né per leggere, né per cucire, né per veder qua entro certe cose, che Dio sa se s'avrebbero a vedere!

DON CAMILLO. Eh via, Marianna! Non é di cose da veder qua entro che si discorre; ma delle vetture giú a valle, Dio bono, se non si scorganodi ritorno dalla stazione.

GIUDITTA (che ha seguitato a guardare). Eccole, eccole! Già due! Ma vanno in giú! (La Náccheri corre a guardare col binóculo.)

DON CAMILLO. In giú? O come in giù? Possibile?

GIUDITTA. Si. Eccone un'altra! La vettura di Dodo.

LA NACCHERI. Ma che di Dodo! Quella di Dodo é la prima!

GIUDITTA. No, mamma; guardate bene: é la terza.

LA NACCHERI. La prima!

DON CAMILLO. 0 la prima o la terza, se vanno in giú...

LA NACCHERI (voltandosi di lá verso il cognato, inviperito). Vi dico che é la prima!

ROGHI. Mi par difficile che si possano distinguere a tanta distanza. si vedran di quassù piccine piccine, così. (Fa segno sull'indice.) E Dodo, mi scusi, signora Marianna, l'ho visto io partir di piazza dopo gli altri.

LA NACCHERI. Questo non vorrebbe. dir nulla, perche ha un cavallo, Dodo,    per sua norma, che é un demonio peggio di lui. Anche a partir l'ultimo,      arriva sempre il primo.

GIUDITTA (alla madre, guardando sempre). E difatti, guardi, guardi: ha già    sorpassato la seconda e sta per sorpassar la prima. Tant'é vero che é lui!   (La Náccheri scrolla le spalle e viene in sala.)

DON CAMILLO. lo non so, saran tutte in ritardo stamani. A quest'ora, di     solito (la pendola batte le undici) ecco, sono le undici — gli altri giorni,   alle undici, son di ritorno e si vedono alla seconda girata dello stradone    su per la costa. A proposito, Giudi... (s'interrompe, imbarazzato, cercando di riprendersi): — cioé, dico...

LA NACCHERI (di nuovo inviperita, chiamando). Giuditta! E vieni, corri qua a   sentir che altro vuol domandarti tuo zio!

DON CAMILLO (c. s.). Ma niente, niente... Volevo dire una cosa...   (forzandosi a far viso fermo) una cosa appunto, che mi pareva da     domandar a lei piuttosto che a voi.

LA NACCHERI (sfidandolo). E su, ditela! Sentiamo!

DONCAMILLO (volgendosi al Roghi). Ho insegnato al signor professore,     prima che partisse, la malizia di far fermare al ritorno la vettura giú sotto il nostro orto, per tagliar la salita alla scorciatoja, anziché fare, con la       vettura al passo, tutta la girata fin quassú in cima.

LA NACCHERI (C. S.). E poi?

DON CAMILLO. Volevo appunto domandare alla Giuditta, se si era ricordata     'andare ad aprire il cancellino dell'orto giú.

LA NACHERI. Niente altro? (Rivolgendosi allafiglia, che si tiene in discosto, mortificata)  Su, e rispondi a tuo zio, se ti sei ricordata!

GIUDITTA (guardando in la, infastidita). Ma si, si, é aperto.

LA NACCHERI (con un inchino ironico al cognato, come se lo facesse per   conto della figlia). É aperto. — Un ordine dello zio! Mi pareva assai che      non se ne fosse ricordata! Avesse mai obbedito cosi a suo marito! Non mi    sarebbe rimasta li melensa per casa; sulle braccia, e cosi, né acerba, né     matura.

ROGHI. Ma é poi sicuro, don Camillo, che il professore ritornerá stamattina?    Non vorrei star qui ad aspettarlo inutilmente.

DON CAMILLO. Ma che! Per ritornare, ritorna di sicuro!

LA NÁCCHERI. Vorrei vedere che non ritornasse! —Ah, io sono stufa, sa!...

DON CAMILLO. Per caritá, Marianna!

LA NÁCCHERI. Stufa! stufa! stufa!

DON CAMILLO. State tranquilla, che ritornerá. — Ma non vi nascondo, caro     Roghi, che mi par difficile, difficile per non dire impossibile, che voglia      accettare il vostro invito.

ROGHI. Neanche per un semplice consulto?

DON CAMILLO. Ma neanche...

ROGHI. A me basterebbe che me la vedesse, la mia povera bambina!

DON CAMILLO. Eh, se vi riesce che vi venga a vederla! — Detto e fatto,

    ve la opera e ve la salva!

ROGHI. Dio volesse! Verrei a prenderlo subito subito con l'automobile.

GIUDITTA. Per essere, é la caritá in persona!

DONCAMILLO. Giá; ma non puó. Capirete, dopo il miracolo di qui...

LA NÁCCHERI (interrompendo). E giusto qui ci voleva codesto miracolo!

DON CAMILLO (con un 'occhiataccia alla cognata. passando sopra all'interruzione). Sparsa la fama, tutti vorrebbero averlo!

ROGHI. Ma come ieri, a un bisogno, é andato a Sarteano, cosi non potrebbe   oggi...?

DON CAMILLO. Non può! Avrà più di venti richieste, a dir poco.             i

LA NÁCCHERI. E non ci mancherebbe altro che, per carità degli altri,    tenesse qua noi nello scompiglio ancora per un mese!

DON CAMILLO. Lassú a Merate ha poi la figliuola... avrá i suoi affari. Era    venuto qua per un giorno solo...

LA NÁCCHERI. E ne son passati la grazia di quarantacinque!

GIUDITTA. Par che la figliuola lassú non sappia ancor nulla.

ROGHI. Ah si? Della madre qui?

DON CAMILLO (ammiccando e accennando con la mano all'uscio a destra).     Piano, eh! piano... S'é già levata di letto. (Misteriosamente al Roghi): Ah, caro Roghi, come non siamo tutti esciti di cervello, io non lo so!

ROGHI. Con quel giudice, eh?

DON CAMILLO (irritato). Ma che giudice! Ma che giudice! Non diciamo giudice, per caritá!

GIUDITTA (molle molle, afflitta). Un matto, s'ha a dire!

DON CAMILLO (incalzando). Da legare, s'ha a dire!

GIUDITTA (lamentosamente). Quel che ci fece vedere!

DON CAMILLO (collerico, incalzando ancora). II diavolo! Tutti i diavoli   dell'inferno! Non mi ci fate pensare!

LA NÁCCHERI (che é stata a mirarli, zio e nipote). Attento veh, attento,      Signor Roghi, come parlano adesso tutt'e due.                          I

DON CAMILLO (stordito). O come parliamo?

LA NÁCCHERI. Una, molle molle: (rifacendole il verso con voce nasina):

    «Quel che ci fece vedere!». E lui, lá, come il rum che da grazia alla ricotta: (rifacendo il verso anche a lui): «II diavolo! Tutti i diavoli    dell'inferno!».

ROGHI (non potendo tenersi di ridere). Avete voglia di scherzare, signora Marianna!

DON CAMILLO. Giá! Come se proprio ne fosse il momento... O che non é   vero che qua s'é visto il diavolo?

LA NÁCCHERI. Ma no, eh, ché non istá bene, il diavolo in casa d'un     sacerdote come voi. Il terremoto, si dice! E creda, signor Roghi, che

    mi sarei tanto spassata, io, a vederli ballare tutt'e due, zio e nipote, se   per causa loro non fosse toccato di ballare anche a me!             

DON CAMILLO. Se si potesse saper prima le cose!

LA NÁCCHERI. Gran merito allora, saperle dopo!

DON CAMILLO. Potevo mai supporre che il marito dovesse accorrer qui?                                          

LA NÁCCHERI. Ma si che potevate, se lo chiamaste propno voi!              ,

DON CAMILLO. Nossignori! Nient'affatto! lo gli scrissi a Merate per il mio    ministero di sacerdote, appena ricevuta la confessione.              

ROGHI. Ah, quando la signora si tiró?

DONCAMILLO. Precisamente. Volle confessarsi. Per morire in pace con tutti,    chiese per mio mezzo al marito il perdono de' suoi trascorsi.

    Ora il professore poteva rispondere alla mia lettera con un'altra lettera. Nossignori. Per sua bontá, preferi venire ad accordar di presenza il      perdono.

ROGHI. E trovò qui quell'altro?

DON CAMILLO. Che c'era piombato da Perugia all'alba, poche ore dopo che     la signora s'era ferita. Nel trambusto, in principio, non ce n'eravamo neanche accorti.

GIUDITTA. Non sapevamo chi fosse la signora...

DON CAMILLO. Si vide lui attorno al letto, che piangeva, piangeva, come   non ho mai visto nessuno!

ROGHI. Eh, l'amante!

LA NÁCCHERI. Si, amante... Che amante! — Uno dei tanti. — L'ultimo.

ROGHI. Ah, perché la signora... Si, dico, — andata proprio a male?

LA NÁCCHERI. Ma si, roba... roba da guerra!

GIUDITTA. Piano, per caritá!

LA NÁCCHERI. Ih che scrupoli! Non c'é poi mica d'aver tanti riguardi!

DON CAMILLO. Ma almeno per il professore!

LANACCHERI. Si — che vi pagherá le spese. Il fastidio, intanto, non ve lo   paga di sicuro! Di due mesi a momenti.

DON CAMILLO. Oh che discorsi! (Poi, ipocritamente al Roghi): La signora   aveva abbandonato da tredici anni il tetto coniugale, e...

    (Abbandona la frase. socchiudendo gli occhi, a un indulgente gesto

    delle mani.)

LA NÁCCHERI (rifacendo smorfiosamente con aria compunta il gesto

del cognato). E... e... (Subito, staccando): Qua, dietro l'esempio, caro lei, una voglia abbiamo tutti, ma una voglia di farci male con la indulgenza e   la sopportazione, che Dio, si spera, ne vorrá tener conto lassú, perché     quaggiú, quanto agli uomini, non si fa che rider di noi, gliel'assicuro io!

DONCAMILLO. Ma non é vero!  .                                |

LA NÁCCHERI (staccando ancora). Oh, ce n'é, dico, di paesi, in Valdichiana;    e di pensioni qua, per la cura delle acque, dico, non c'é soltanto la mia!      Ebbene: proprio qua doveva capitare codesta signora, e proprio da noi! Ma colpa sua. veh! (Indica il cognato.) Sua, e di quella li! (Indica la    figlia.)

GIUDITTA. Son io sempre la colpa di tutto...

LA NACCHERI. Se per te non fosse vangelo, sempre, tutto ciò che dice e fa tuo zio! — E cosi, m'intende, tutti i malanni, alla fine, mi si rammucchiano

qui! — Ah, che! Non si maturerà mai nulla qui: (cantarellando) c'é troppe frasche!

DONCAMILLO. La vidi arrivar di sera, in legno! giusto con Dodo. Sola, mogia mogia, con una valigina... io ritornavo da scuola...

LA NÁCCHERI. Non c'ero, io!

GIUDITTA. Ma noi si disse bene, mamma, che la pensione non era ancora      aperta ai forestieri.

LA NÁCCHERI. E dunque, non si doveva pigliare!

DONCAMILLO. Di bujo, una signora sola... Insistette, chiedendoci posto     almeno per la notte...

GIUDITTA (scotendo in aria le mani). E la notte...

LA NÁCCHERI. Un botto, caro lei, nel silenzio della casa, che mi fece     springar un palmo su dal letto!

ROGHI. Ma si tirò proprio al ventre?

DON CAMILLO. Che! Al cuore aveva mirato...

LA NÁCCHERI. Lo suppone lui!

DON CAMILLO. Ma si! Mano di donna... Premendo il grilletto, la canna

    — voi capite — s'abbassó. Si feri al ventre.

GIUDITTA. Accorremmo tutti. Poverina, sul letto...                        !

LA NÁCCHERI. Poverina, giá!

ROGHI. Eh via, in quello stato...

DON CAMILLO. Bianca come un cencio, sorrideva come a chiederci scu-

sa, e diceva che non era nulla... — Lei scappó per il medico. (Indica Giuditta.)

ROGHI. Il dottor Balla?                                                  |

DON CAMILLO. Sapete com'é!

ROGHI. Se lo so! Mi sta lasciando finir cosi la mia povera figliuola!

DON CAMILLO. E anche qui difatti disse che non c'era piú da far nulla;

    quando invece, venuto il professore, si vide che a operarla in tempo non    ci sarebbe stato rischio di sorta; mentre, quando poi la operò lui, il    marito, dopo quattro giorni, già tutta infetta, capirete, agonizzante, il      caso s'era fatto disperato.                                   |

GIUDITTA. E quel matto li che non voleva! non voleva!

ROGHI. Ah si? — L'amante? Oh bella! Non voleva che il marito la operasse?                                                         

DON CAMILLO. Che! Fece il diavolo a quattro! Se la voleva caricar su le      braccia e portar via, cosl moribonda, per non fargliela toccare!

ROGHI. Oh bella!

DON CAMILLO. Perché diceva che, se il marito la.salvava, era perduta per       lui!

GIUDITTA. Ed era piú contento che morisse!

ROGHI. E il marito? o come fece a sopportarselo davanti, e cosi accanto alla moglie?                                                    

DON CAMILLO. Se la prese con me!                                   

LA NÁCCHERI. Che gusto!

DON CAMILLO. Giá, come se non avessi fatto di tutto, io, per farlo andar   via, prima ch'egli arrivasse. Non ci fu verso! — Tanto vero che non se ne volle andare, neppur quando arrivó lui, che dopo tutto, ohé, dico, era il   marito! (Giuditta a questo punto, si recherá di nuovo infondo a   guardare, se si scorgano le vetture di ritorno.) ,

LA NÁCCHERI. E come gli tenne testa! Bisognava vedere!                  

ROGHI. Si, eh?                                                      

DON CAMILLO. Col pretesto, capite? che in punto di morte non c'é piú gelosie, e che il marito non poteva, dice, adontarsi di lui, dopo tredici    anni e dopo ció ch'era passato. Si dovette mandarlo via con le guardie.                                                            

GIUDITTA (dal pianerottolo della saletta infondo, annunziando). Ecco, ecco,

ritornano le vetture! (La Náccheri accorre come una papera.)

DON CAMILLO. Oh finalmente!

GIUDITTA (con un grido dispavento). Oh Dio! Ma é lui! Lui, di nuovo, qua!                              

ROGHI. Chi lui?

DON CAMILLO. II matto? Di nuovo qua?

LA NÁCCHERI. Lui! si! lui! lui! — Riéccoci daccapo!

DON CAMILLO. Ma come! Che altro, ora, vorrà qua?

GIUDITTA (ritirandosi impaurita). Vien su di corsa! ha scavalcato il murello

 dell'orto!

ROGHI. É una bella sfrontatezza!

DON CAMILLO. E di nuovo in assenza del signor professore! Se lo ritroverà qui

tra i piedi!

LA NÁCCHERI. E come giulivo! Fa i gesti, oh, cosi... cosi... (Agita in aria le

braccia.)

DON CAMILLO. Dateci man forte per carità, caro Roghi! Non bisogna farlo

entrar qua dalla signora! — Andiamo, andiamo via tutti di lá! (Indica la

 saletta d'ingresso e s'avvia spingendo fuori gli altri.)

Chiudiamo quest'uscio! Chiudiamo quest'uscio!

(Richiude l'uscio a vetri, andando via col Roghi, con la Náccheri e Giuditta. Quasi contemporaneamente s'apre l'uscio a destra e appare Fulvia Gelli, incerta, sgomenta, pallidissima, come iina che sia stata or ora strappata dalle mani della morte. Ha tuttavia negli occhi un che difosco; e il volto é come indurito, sassificato in una disperazione squallida e cupa. Venuta qui per morire, sprovvista di tutto, levandosi ora di letto, ha indossato, in vancanza d'altro — il suo abito di viandante perduta, che stride, in contrasto con quella disperazione del volto. Stridono ancor piú i voluminosi magnifici capell in disordi ne, sfacciatamente ritinti d'un color fulvo acceso, che le avviluppano come in una fiamma lingueggiante il volto disperato. Non ha avuto forza d'agganciarsi il busto sul seno, che é quasi scoperto, e próvoca, ma frigidamente, poiché ella haun evidente sdegno e un vero intimo odio per la sua bella persona, come se da un pezzo non le appartenesse piú, e non sapesse piú neppure com'esso e, non avendo mai, se non con feroce ribrezzo, condiviso la gioja che gli altri ne han preso. Muove alcuni passi per la sala, verso l'uscio a vetri chiuso, attraverso al quale giungono le voci concitate del\e due donne. di don Camillo e del Roghi, che cercano d'impedire ilpasso a Marco Mauri. A un tratto, peró, questi, sbarazzandosi di tutti con uno strappo violento, irrompe spalancando l'uscio e si precipita su Fulvia (ch'egli chiama Flora) abbracciandola, stringendola a sé freneticamente. É sulla quarantina, bruno, magro, con lucidi occhi sfuggenti, da matto: quasi 'ilari, pur nella piii fiera esagitazione, ilari e parlanti. Fronte rotonda, specchiante. Capelli da negro, crespi e gremiti, ma già in parte grigi, spartiti nel mezzo. Sopracciglia foltissime. Parla e gestisce con quella certa teatralità che é propria della passione esaltata: teatralità calda e sincera, ma che pure, a tratti, quasi vede se stessa, e scatta allora per rimorso in gesti irosi, o scade, quasi in compenso, improvvisamente, in toni confidenziali, che fanno, per contrasto e cosi senza trapasso, un curíosissimo effetto.

Fulvia tenta dapprima di respingere, quasi odiosamente, l'abbraccio; ma poi, investita, soffocata da quella frenesia, nello smarrímento della debolezza che il male recente le ha lasciato, vien meno e s'abbandona come morta tra le braccia di lui.

MAURI (liberandosi e spalancando l'uscio). Via tutti, vi dico! (Precipi-

tandosi su Fulvia e abbracciandola c. s.) Flora! Flora mia! Flora!

Flora! — Libero! Sono libero! Ritorno a te, liberato! — Mi son liberato di tutto e di tutti! (Notando che ella gli s'abbandona tra le braccia, riversa): Flora mia! (A questo grido, don Camillo, il Roghi, la Náccheri e Giuditta, che sono entrati nella sala dietro il Mauri e, sopraffatti dalla violenza, son rimasti sgomenti e sospesi a mirare il frenetico abbraccio, accorrono premurosi, e minacciosi gridando insieme.)                                                      |

ROGHI. Ma non vede, perdio, che non si regge!

DON CAMILLO. Che violenze son codeste?

GIUDITTA. É svenuta! é svenuta!

MAURI. Svenuta? No! no! — Flora!

DON CAMILLO (aggressivo). La lasci! via! — La lasci, e vada via subito di qua!

MAURI (senza dargli ascolto, sorreggendo Fulvia). Flora mia... Flora... Flora...

DON CAMILLO (alle donne). Ma levategliela dalle mani! (Giuditta e la Náccheri sifanno avanti.)

GIUDITTA. Dia qua... dia qua...                                          [

MAURI (gridando mínaccioso). Non me la tocchi nessuno!

DON CAMILLO. Non appartiene mica a lei!                              i

MAURI. Appartiene a me! a me!

DON CAMILLO. Ah, nossignori! — C'é qua il marito!

MAURI. E venga! — Dov'é? — Me la strappi dalle braccia, se é buono!

ROGHI (vedendo Fulvia tra le braccia di lui, cosí abbandonata, che

quasi sta per caderé). Ma la adagi almeno qua, per ora, in nome di Dio! (Indica il canapé.)

GIUDITTA (accorrendo e aiutandolo a sorregger Fulvia). Qua, venga qua, qua: l'aiuto io!

MAURI (trasportando Fulvia sul canape). Non é niente, vi dico! Ora rinviene!

GIUDITTA. Vado a prendere i sali! (Corre via per l'uscio a sinistra; rientrerà poco dopo.)

LA NÁCCHERI (al cognato). Ma che siete voi qua? Siete o no il padrone?

ROGHI (a don Camillo). Questa infíne é casa vostra!

MAURI (subito rízzandosi con gli occhi spiritati, grida sillabando): Nos-

signori: — Al-ber-go!

DON CAMILLO (investendolo). Che? dove? quando? Chi gliel'ha detto,

albergo? dove sta scritto?

MAURI. Sulla porta, giù: — Pensione Zonchi!

DON CAMILLO. Sissignore — ma d'estate! — Ora non é stagione, capisce? ed é casa mia soltanto; e vi ricevo chi mi pare e piace!

MAURI (gridando). Non strillate cosi!

DONCAMILLO (restando, quasi sbalordito). Ah senti: strillo io!

MAURI. Tanto é inutile: non me ne vado!

DON CAMILLO. Lei andrá via, andrá via, perché...

LA NÁCCHERI (intromettendosi e terminando la frase). Questa non é casa vostra!

DONCAMILLO (seguitando). E non ha piú nulla da fare qui! Inteso? (Il  Mauriper tutta risposta, poiché Giuditta ritorna coi sali, si china su

Fulvia per farglieli odorare.)

MAURI (a Giuditta). — Dia qua! dia qua!

DON CAMILLO (al Roghi, indicandoglielo). — Lá — vedete come intende lui?

MAURI (chino su Fulvia). Flora mia, son qua io... — Su, via... Sei salva, guarita... E io, libero — libero, sai? E ora ti porto via con me!

DON CAMILLO (rifacendosi avanti, risoluto). Ah no, sa! Per questo, può star sicuro: — lei non porta via nessuno!

MAURI  Me l'impedirete voi?

ROGHI (facendosi avanti anche lui). Potrei, a un bisogno, impedirglielo anch'io!

DON CAMILLO. Ma no: c'é il marito, caro Roghi, che sará qui a momenti.

MAURI. E io son venuto per parlare con lui!

DON CAMILLO. Vi fará cacciar di nuovo!

MAURI. Vorró vederlo! — Non s'era mica uccisa per lui, questa donna!

— Per me, per me s'era uccisa. E io, per lei — io, Marco Mauri —

ho abbandonato il mio posto, la mia famiglia, mia moglie, i miei figli! (Guardando tutti in giro; poi rivolto al Roghi): Veda un po' se é possibile, che qualcuno ora mi stacchi da lei!

DON CAMILLO (vedendo che Fulvia, sorretta da Giuditta, comincia a

ríaversi e guarda come smarrita). Ma sará lei... ecco, ora... sarà lei stessa, la signora!

MAURI (subito voltandosi e accorrendo a lei). Tu, Flora? Mi scaccerai anche tu?

(Fulvia leva una mano per tenerlo discosto e si volta verso don Camillo, ancora stordita, ma già fosca.)

DON CAMILLO. lo la prego di credere, signora, che é entrato a forza, approfittando dell'assenza del signor professore!

FULVIA (alzandosi). Che volete ancora da me — voi?

DON CAMILLO. Ecco! Come gli ho detto io!                                  I

MAURI (quasi trasecolato). Flora!... Oh Dio... Mi dà del voi?

FULVIA (seccata, scrollandosi). Ma se vi conosco appena!

DON CAMILLO. E voi l'avete ingannata, codesta signora: — lo lo so!

MAURI (violentissimo). Statevi zitto, voi!

DON CAMILLO. Ingannata! ingannata! me l'ha detto lei!                   

MAURI (a Fulvia). Come! Tu mi conosci appena? Me, Flora? me, che t'ho dato tutta la mia vita?

FULVIA (con nausea). Ma finitela una buona volta di parlare cosi!

MAURI (c. s. smorendo). Oh Dio... Come parlo? — Ma tu piuttosto, Flora...

FULVIA. lo non mi chiamo Flora.

MAURI. Fulvia, si, Fulvia, lo so! Ma se volesti tu stessa, che ti chiamassi Flora...

FULVIA (con crudezza sdegnosa). E volete dire anche come fu, davanti a codesti signori?

MAURI (ferito). No! — lo? — Ah! — Ma allora veramente tu mi disprezzi?

FULVIA (rimettendosi a sedere, tutta assorta in sé, cupa, mormora, seccata) Non disprezzo nessuno, io.

MAURI (insistendo). — Perché t'ingannai?

FULVIA (esasperatamente). Ma no, vi dico!

MAURI (rivolgendosi a don Camillo). Me lo rinfacciate? Ma se lo gridai io stesso a tutti, qua, che avevo dentro di me lo strazio d'un doppio rimorso! Anche davanti a tuo marito lo gridai! — Testimoni tutti qua! — Dite, dite se non gli gridai ch'era un impostore! Impostore, si, impostore! Perché era «venuto a perdonare»! Lui: a perdonare! Quando avrebbe dovuto invece buttarsi in ginocchio qua, davanti a te, e farsi lui perdonare — come me! come me! — qua, cosi, ecco!

(Le casca davanti in ginocchio e grida): Perché tutti l'abbiamo ingannata, questa donna!

FULVIA (si leva da sedere senza scatto e dice piano, frigidamente, con

disperata stanchezza): Dio mio, ancora codesto teatro... Che nausea!

MAURI (come se si vedesse con gli occhi di lei; li in ginocchio, ma tuttavia non riuscendo a rialzarsi). Ah si! nausea, si! Hai ragione. Mi vedo; me n'accorgo io stesso! (Si copre la faccia con le mani, e dice piangendo): Ma non sono io; é la mia passione, Flora! Non grido io: grida lei! Faccio nausea a me stesso, a sentirmi gridare cosi: ma non posso farne a meno! Non vorrei gridare, e grido! (Si alza infine risolutamente, come se d'improvviso, aforza, si riprendesse.) Sono venuto qua peró per dimostrarti che non t'ho mentito, io.sai? La veritá ti dissi: quella ch'era la veritá per me; perché non ho avuto mai nessuno io nella vita, veramente per me; — tranne te, per pochi giorni! — Venti — quanti sono stati? — non piú di venti, in tutta una vita!

FULVIA. Si, va bene. Venti. Sono finiti. E dunque, basta.

MAURI. No! Come basta? No! — Adesso, Flora? Adesso che é finito invece l'inganno?

FULVIA. Ma che inganno? di che inganno mi parlate?

MAURI. Del mio! di quello che ti feci! — É finito! finito! — Mi sono liberato! sono libero ora!

FULVIA (fissandolo fosca, come se cominci a prestargli attenzione solo

ora, per qualche idea che giá le si matura dentro). Di che siete libero?

MAURI. Di disporre di me! Ho lasciato tutto! II posto. Mi son dimesso.

E mia moglie, sai? lei stessa, mi ha aperto la porta: — «Vattene!» Felicissima.

LA NÁCCHERI. Oh guarda!

MAURI (voltandosi a lei, pronto). Non mi ha mai amato! Non ha mai saputo che farsi di me! Vive per conto suo; ricca, con case e poderi.

Solo per un malvagio istinto andò da lei — (indica Fulvia) là, a Perugia — e le disse — (si volta verso Fulvia, che si é di nuovo seduta, ma come asseníe, ancora assorta in sé) che ti disse? che ti disse? — io ancora non lo so! (E poiché Fulvia non risponde, seguita rivolto agli altri): Forse lei, capite? lusingandosi di ridar la pace a una famiglia, se ne venne qua per levarsi di mezzo. (Riaccostandosi a Fulvia, allegro, e lanciandosi a dire una cosa, che a un certo punto non gli par piú facile a dire; tuttavia la dice, facendosi coraggio,

con una sfrontatezza, che un po' fa pena, un po' fa ridere): Ma ora l'inganno é finito! Figurati che... ma si, non ho vergogna a dirlo... — lei stessa, con le sue mani, mi... mi diede... si, un po' di denaro, per farmi andar via.

FULVIA (levando il capo, subito, per impedire che altri nefaccia le meraviglie). E poi? .

MAURI (stordito alla domanda inopinata). E poi? Che vuoi dire?

FULVIA. Che farete poi?       .

MAURI. Che faró? — Oh! — Che faró poi? — Ma se ho te, ho tutto!

- Faró di tutto! Mi metteró a dar concerti... Posso— non nelle gran-

di cittá, s'intende.

FULVIA (freddamente e stranamente, alzandosi). Mi farete il piacere di

dire a lui tutto questo, appena sará di ritorno.

MAURI (con gioja impetuosa, mentre gli altri restano come basiti). lo?

a lui? Si? Vuoi che gli dica questo?

FULVIA (per troncare, più che mai fredda, rivolgendosi a don Camillo).

Dovrebbe giá esser qui...

DON CAMILLO. Giá... io non so... questo ritardo...

MAURI. E allegramente, sai? allegramente glielo diró... Eh, ora che tu... Sono felice!

FULVIA (infastidita). Vi prego... vi prego...

MAURI. Ma non sono stato mai io, Flora! Tu, invece — devi convenirne: sei stata tu a voler prender la cosa cosi sul serio! Fare quello che hai fatto, scusa! Ma si, via! — Per quel vecchio cammello lá!

ROGHI (non potendo tenersi dal ridere). Ah senti!

LA NÁCCHERI (contemporaneamente, gargarizzando). Ah! ah! ah! ah! la Moglie? cammello?                                              !

DON CAMILLO (contemporaneamente anche lui). Ma non ve lo dico, che é matto?                                                                |

MAURI (con perfetta serietà). Un vecchio cammello, vi assicuro, signori. — Nove anni piú di me. — Zotica! Contadina... Lei l'ha veduta! (Indica Flora.) — La sposai perché aveva un pianoforte.

LA NACCHERI (c. s. piúforte, irrefrenabilmente). Ah! ah! ah! ah! (Il riso si comunica per contagio al Roghi e a Giuditta.)

MAURI (c. s. irritato un po'). Scusi, signora, se le dico che in questo, veramente, non c'é niente da ridere.

ROGHI (ridendo ancora). Ma come no, abbiate pazienza!

MAURI. Perché non capite che cosa voglia dire capitare a venticinque

anni, pieno di sogni in un paesucolo piú piccolo, piú brutto — scusate— di questo vostro, e marcirvi quattro, cinque, dieci eterni anni, pretore!         .

ROGHI (a don Camillo). Ah, ecco dunque, é giudice davvero!

DON CAMILLO (con forza convinta). É matto!

MAURI (subito, serio). Mi sono dimesso. — Una vita che non si può figurare! come nessuno di voi, che vi marcite dentro qua, puo conoscere! — Neanche tu, sai, Flora; che pure hai conosciuti tutti gli orrori della vita! Ma, Dio mio, sono orrori almeno! — Non una vita fatta di niente. — Niente! — Ombra. — Silenzio d'un tempo che non passa mai. — Neanche acqua da bere. — Acqua di cisterna, amara, renosiccia... — Ma non sarebbe nulla! É quel silenzio! quel     

silenzio! Figuratevi che vi si sente anche un soffio di vento, quando scuote la fune della cisterna giù in piazza, e la carrucola che ne stride; mentre voi, dentro... — Ah! Un piano di vecchio tavolino, unto, polveroso, ingombro di carte giudiziarie — e una mosca che vi scorre a tratti, sopra. E tutta la vita lì, in quella mosca che voi state a guardare per ore e ore. — Ebbene, immaginate di sentire un giorno, in quel silenzio, il suono d'un pianoforte: l'unico del paese. Vi corsi incontro come un assetato! E sissignori, sposai quella donna

piú vecchia di me, che mi parve bellissima e intelligentissima, solo perché aveva quel pianoforte. — Perché musica, musica io ho studiato, capite: non ho mai studiato legge io. — Sono un musicista, io! — E quella — dacché la sposai — m'ha chiamato sempre pretore. Si, si, e anche i figli! — Quattro — cresciuti con lei in campagna — a-nal-fa-be-ti. — Anch'essi, anch'essi — non mi chiamano mica papá! pretore mi chiamano! anzi: — Preto'!, come la madre. — E in casa il Preto'? — No, é alla pretura, il Preto'! (Scoppiano a ridere tutti, tranne Fulvia.)                                 '

ROGHI (tra le risa). Oh bella! oh bella.

MAURI. Ridete, si, ridete! Voglio riderne anch'io, ora! — Me ne sono liberato, vivaddio! — D'amore e d'accordo — si! Con qualche carezza, anche. — E l'avrei strozzata, v'assicuro!

DON CAMILLO (vedendo apparire dalla porticina dell'orto, in fondo, Silvio Gelli, che viene avanti tra quelle risa, costernato). Oh, Dio sia lodato, ecco qua finalmente il signor professore!

Alto distatura, Silvio Gelli, di circa cinquant'anni, ossuto, poderoso, porta occhiali a staffa, cerchiati d'oro. Non ha barba né baffi. Quasi calva la sommità del capo; ma lunghe ciocche di capelli biondastri, scoloriti. gli scendono scompostamente su la fronte e su le tempie. Egli se le rialza di tanto in tanto, e si tiene allora, per un tratto, le mani sul capo, come per un gesto di meditazione, che gli é abituale. Ha l'aria tra stordita e aggrondata d'un uomo che attraversi una grave crisi di coscienza. Ma vuol dissimularla. Per cui, spesso, resta quasi ottusamente inerte, con un sorriso freddo e vano, rassegato sulle labbra: espressione involontaria d'un che di beffardo, che é nella sua natura, e che quasi affiora a sua insaputa da antiche, maligne passioni, non ancora spente in lui, sebbene già da un pezzo domate. A urtarlo un po' in queste pause di ottusa inerzia, che sono in lui come ambigui arresti di difesa morale, egli s'intorbida: quel sorriso vano gli si scompone in una contratta smorfia di dolore, come se gli bisognasse che il dolore gli diventasse anche fisico, per poterlo sentire. Da queste contrazioni la sua fisonomia riassomma poi ricomposta, o meglio, quasi impostata in una grave e stanca aria di probítà, che vorrebbe apparire da gran tempo serena, come lontanissima ormai da quelle passioni che pure or ora, in tempestoso fermento, lo hanno travagliato.

Al suo entrare Fulvia si rizza in piedi felinamente, con lo stesso animo che, tredici anni addietro, la condusse alla perdizione. E per lei, questo, il momento d'una prova suprema. E in tutto il suo aspetto sarà dunque la risoluzione ferma d'affrontar questa prova, già meditata e preparata oscuramente nella scena antecedente, a costo di qualunque crudezza, mettendo a nudo come un vivo lacerto la sua coscienza e quella di lui, con la più brutale sincerità, avvalendosi

anche della presenza di quel suo pazzo amante.

SILVIO (notando la presenza del Mauri, ilare tra la ilaritá degli altri, e l'aria di sfida della moglie). Ah, di nuovo qua?

MAURI (irrompente). — Sissignore. E son venuto per...

FULVIA (pronta, troncando, imperiosa). Lasciate parlar me! (Al marito, recisamente); Qua di nuovo, si. — Prega tutti questi signori di lasciarci soli.

DON CAMILLO. Oh, subito, signora. Soltanto tengo a dichiarare al signor professore...

FULVIA (interrompendo di nuovo, per troncare). Che questo signore é entrato a forza. — Va bene!

MAURI (a don Camillo. accennando a Fulvia). Ma se siamo giá d'accordo!

LA NÁCCHERI (al cognato). Se son d'accordo! Che storie!

SILVIO (a Fulvia). L'hai forse chiamato tu?

FULVIA. Non l'ho chiamato io. — Dobbiamo parlar di questo.

SILVIO. Sento che c'é un accordo...

FULVIA. Nessun accordo. Non é vero!

MAURI. lo son venuto da me.

FULVIA. (c. s.). Aspettate a parlare!

DON CAMILLO. E su, su, andiamo noi, andiamo via! (Invitando cai festo a uscire il Roghi, Giuditta, e la Náccheri.)

LA NÁCCHERI (rivoltandoglisi). Ecco, ecco... Ma diciamo anche noi, a nostra volta, al signore e alla signora, che noi qua...

DON CAMILLO (sulle spine). Ma no, via, Marianna, che dite?

LA NÁCCHERI. Dico che siamo alla fine d'aprile, ohé! e che col maggio, voi sapete bene, cominciano a venire i forestieri per la cura delle acque.

SILVIO. Conto, per me, di ripartire prestissimo, signora.

LA NÁCCHERI. La prescriverà, m'immagino, anche lei ai suoi ammalati, signor professore! Ora, noi, qua, dobbiamo ancora rimettere in ordine la pensione, ecco!

DON CAMILLO. Ma non vorrei che il signor professore credesse...

SILVIO. Lei sa bene che ho ragioni impellenti d'andar via al piú presto.

ROGHI. Ma se non dovesse oggi, signor professore — ecco, io vorrei...

SILVIO (accennando alla moglie). Vi pregp...

ROGHI. Si, si, attenda, attenda con comodo, signor professore! lo pos-

so aspettare... aspetteró, ritorneró...

DON CAMILLO. Ritiriamoci, ritiriamoci adesso... (Spinge fuori il Roghi, la Náccheri, Giuditta ed esce per ultimo, inchinandosi e richiudendo l'uscio a vetri.)

FULVIA (subito, nervosamente). Ecco, Silvio. Questo signore, che conosco appena...

MAURI (ferito, protestando). Ma no, Flora!

FULVIA. Vi ho detto di lasciare parlar me!

MAURI. Ma se gli dici cosi, scusa!

FULVIA. Che volete che significhi, per una come me, conoscere uno da poco o da molto? (Voltandosi verso il marito): «Flora» hai sentito? — Mi chiama Flora!

MAURI (in tono di rimprovero). Fulvia!

FULVIA (precipitosamente). No, no, Flora, Flora — sono Flora. —

(Di nuovo al marito): Mi si chiama subito per nome, e mi si dá del tu.

SILVIO. A me premerebbe ora di sapere, come e perché — dopo quanto é avvenuto — si trovi qua di nuovo codesto signore.

FULVIA. Ecco, si. — Questo signore, Silvio, crede sinceramente ch'io abbia voluto uccidermi per lui. E non é vero!

MAURI. Ah, non é vero?

FULVIA. Non é vero. L'ho fatto per me. Ditegli come e dove m'avete conosciuta. Basterá per farglielo comprendere.

SILVIO. Ma io non voglio saperlo.

FULVIA. Ero arrestata.

MAURI (subito protestando). No! Che arrestata! Che dici!

FULVIA. Con un mandato di comparizione, si. Complicata in un volgarissimo delitto.

MAURI (c. s.). Ma che! Non creda! Prosciolta in Camera di Consiglio!

SILVIO. Vi dico che non voglio saperlo!

MAURI (seguitando con foga). Venuta soltanto per deporre. Lo so io!

Fu a Perugia, guardi, un mese appena dopo il mio trasferimento colá. C'ero io nella sala del giudice, mio collega. Fu nel processo per l'assassinio d'un tal Gamba.

FULVIA. Con cui ero andata a Perugia.

MAURI. Si, un pittore...                                               

FULVIA. Ma che pittore! Un miserabile applicatore mosaicista della fabbrica di Murano.

MAURI. Giá... venuto per restaurare non so che mosaico...

FULVIA. Un mascalzone che s'ubriacava tutti i giorni.

MAURI. E la picchiava! la picchiava!

FULVIA. Fu trovato morto, una notte, sulla strada, con la testa spaccata. (Silvio Gelli si rialza i capelli sul capo e vi trattiene le mani.)

MAURI (scattando al gesto di Silvio Gelli). Orrore, eh? «Fin dov'era caduta!» eh? — Ma mi faccia il piacere! lasci andare!

FULVIA (subito, forte). Non declamate, al vostro solito!

MAURI (senza darle retta. seguitando, ma in tono piú basso, rivolto a Silvio). Lei m'insegna che tutto sta nel togliersi d'addosso, una prima volta, sotto gli occhi di tutti, l'abito che ci ha imposto la societá. Si provi, lei che sorride.,.

SILVIO. Ma io non sorrido.

MAURI. Ha sorriso! — Si provi, si provi a rubare una volta cinque lire e faccia che venga scoperto nell'atto di rubare. Me ne saprà dire qualche cosa! — Ma lei non ruba... Grazie! — E questa disgraziata avrebbe fatto quello che fece, se lei, suo marito...

FULVIA (troncando, fierissima), Basta! Vi proibisco di seguitare!

SILVIO (piano, calmo). lo sono venuto qua...

MAURI. Per perdonare, lo sappiamo!

SILVIO (pronto, fermo, grave). No! — Per riconoscere il danno degli antichi miei torti verso questa donna. Non m'aspettavo però che altri qua, oltre lei, potesse arrogarsi di rinfacciarmeli.

MAURI (subito, a sfida). E riparare?

FULVIA (c. s.). Aspettate! Non sapete ció che vi dite!

MAURI. No, io dico riparare, Flora! E lo dico davanti a lui! Perché ho anch'io il mio torto verso di te. Tu mi hai perdonato, ma io sono qua per riparare, per riparare!

FULVIA (colpiglio di chi non vuol discutere). Dunque —sta bene — ec-

co — io ti volevo dir questo, Silvio: — che egli é pronto...

MAURI (insistendo, pigiando, sfidando). A riparare, si, a riparare!

FULVIA (esasperatamente, sdegnata, gridando). Ma non dite a riparare — fate ridere — se io non vi riconosco il torto, di cui volete accusarvi! — Oh quest'é bella! — Avete mentito con me — come tanti...

Che volete che me m'importi? (Rivolgendosi di scatto al marito): Senti forse anche tu qualche dovere verso me per avermi salvata? — No, niente, caro! Grazie!                                               :

SILVIO (stordito). Come! lo...                                             |

FULVIA (subito incalzando, ma col tono di chi vuol ragionare). Sei forse venuto qua come medico, per operarmi?

SILVIO. No.

FULVIA (c. s.). Ma anche operandomi — (cosa che nessuno peró ti chiese di fare).

MAURI. lo m'opposi! io m'opposi!

FULVIA (c. s. senza badare al Mauri). lo, per me certo, non te lo chiesi

— é vero?

SILVIO (impacciato, come sopraffatto, non sapendo a che cosa tenda quell'interrogatorio). No... — io lo feci...

FULVIA (subito, venendogli in aiuto, con uno strano lustro negli occhi). Quasi irresistibilmente, é vero?

SILVIO. Vedendoti in quello stato...

FULVIA. E dunque! — Ero come morta. Fu un miracolo anche per te!

— Se sapessi come credo adesso ai miracoli!

SILVIO. Che vuoi, insomma, concludere?

FULVIA. Niente. Questo. Che non devi credere neanche tu d'aver adesso verso di me qualche dovere per avermi cosi... diciamo «restituito alla vita». —Nessun dovere, nessun dovere. Non ne accetto! — Né da te, né da altri. Né doveri, né riparazioni.

SILVIO. E che intendi di fare allora?

MAURI. Se ne viene con me!

FULVIA. Sono qua. Vedete voi... Giacché mi trovo tra un dovere che riconosco insussistente, e un rimorso che dichiaro immaginario...

SILVIO. Tu sei sempre la stessa!

FULVIA. Ah, questo si, vedi? questo si, mi fa veramente piacere! Che i miei capelli tinti, questa mia faccia d'ora, non ti impediscano di vedermi ancora, di fronte a te, quella di prima!

SILVIO. Ma ti vedo adesso, cosi — in questo momento! Non ti ho veduta cosi in tutti questi giorni!

MAURI. Ci sono io, ora, qua!                      

FULVIA (subito. voltandosi a lui.) Voi non cisiete per nulla! Vi ho detto di non parlare! (Rivolgendosi di nuovo al marito): Mi hai veduta come un tempo? Perció sei stato tutto... non so, come sospeso...

SILVIO. lo?                                        

FULVIA. Si, turbato, incerto... pentito dentro di te — ne sono sicura!

SILVIO. No, di che?

FULVIA. Ma d'aver fatto qua, inconsultamente, piú di quanto t'eri proposto!

SILVIO. No! non é vero! — Non per questo!

FULVIA. Ma sul serio ti credi molto cambiato tu?

SILVIO. Potresti giudicarne dal fatto che mi trovo qua.

FULVIA. Ah, ma non t'aspettavi questo, venendo qua!

SILVIO. No — ah, questo no! questo no davvero! — Non sarei venuto!

FULVIA (pronta, con disprezzo). E dunque puoi andartene!

SILVIO (contenendosi). Io dico, che tu debba tenermi qua, ora, cosi...

(accenna al Mauri.)

MAURI. Ma so tutto io, sa! Di lei — so tutto!

SILVIO. Che sapete? Ció che vi avrá detto lei, saprete! Dei miei torti.

Non di ció che ho sofferto per essi.

FULVIA. Molto hai sofferto?                       

SILVIO. Molto — se mi ha condotto qua. Non m'obbligherai a dirlo davanti a un estraneo.

FULVIA. Ah no, caro, fuori! fuori! — Perché questo estraneo, caro, è qua — non tanto per me quanto per te.

MAURI. E io non sono un estraneo per lei! (Indica Fulvia.)

SILVIO (rispondendo a Fulvia). Per me? Che vuol dire?

FULVIA. Oh! d'un gran professore come sei ora, non s'immagina certo! Quasi ho soggezione io stessa, a dirlo. Ma se sono qua — e cosi — con questo accanto, o con un altro — via, tu sai bene che é per te — per te, com'eri prima! — Che vuoi? posso ricordarmi soltanto d'allora, io! Di quando giocavi con me, che avevo appena diciott'anni, come un gatto col topolino — per il gusto di vedere dove sarei arrivata. — Ecco qua, dove sono arrivata. — E tu hai molto sofferto! — Sarei curiosa di saper come.

SILVIO. Te l'ho detto, come.

FULVIA. No: scusa: m'hai detto anzi, che non ti riesce di soffrire.

SILVIO. Che non sento — t'ho detto, — di toccare la mia sofferenza: in me, in te... Questo t'ho detto!

FULVIA. Ah giá! Il vuoto, si.

SILVIO. Tu non puoi comprendere. E certe cose non si spiegano.

FULVIA. Non avevi nessuno con te? (Allude, con questo, alla figlia, e

s'infosca piú che mai.)

SILVIÓ. Mi vedevo inetto...

FULVIA. Indegno, no?

SILVIO. Anche indegno. Perché ho riconosciuto che tu eri andata via per causa mia. E perció appunto non m'é riuscito di colmarlo, questo vuoto.

FULVIA (con sprezzo). Ma dunque dici che hai sofferto per me!

SILVIO. No. Non come tu credi. Neanche in questo momento. No! Per la vita, che é cosi...

MAURI. Ah, questo é vero! Ha ragione! Anch'io, sa!

SILVIO (senza badargli). Tu qua t'uccidi... un altro là impazzisce... chi crede di ragionare e non conclude nulla...

MAURI (quasi tra sé). La vita é brutale! Se lo so!

SILVIO (c. s.). Vengo qua, dico: «Muore; vuol andarsene in pace; va', va', accorri...» — E il mio sentimento s'infrange qua contro una realtá che non potevo immaginare.

FULVIA. Che vuoi fare ora?

SILVIO. M'hai aggredito, appena entrato — con codesto signore. Non vuoi doveri, non vuoi riparazioni. — Non so... Ti vedo decisa — non so a che cosa...

FULVIA (con voce improvvisa, come per una subitanea scoperta). Tu non sai, caro mio, quanta malizia hai ancora nello sguardo, quando — senza volerlo — guardi di sottecchi.

SILVIO (stordito). lo?

FULVIA. Tu, tu, si.

SILVIO. Malizia?

FULVIA. Malizia, malizia. Me ne sono accorta cosi bene! ora, si — or ora — come ti sei voltato a guardare cosi. (Imita il modo.)

SILVIO. Fastidio, forse — o stanchezza.

FULVIA. No. Malizia, malizia. Quella di prima! Devi darti per forza, anche adesso, un'aria di fronte a me. Questa, o un'altra. — Tutti gli uomini ve la date! Ma dimenticate come le donne vi hanno veduto, quando non ve la date piú, in certi momenti. Mi spiego? E perció le donne ridono sotto il naso, poi, nel veder le arie degli uomini. O ne provano dispetto o disgusto. — Ma questo ora non importa.

SILVIO. Tieni a liberarmi d'ogni dovere, per mettere a prova davvero se sono o non sono cambiato?

FULVIA. NO no — non per questo! Ma ecco — vedi la tua milizia?

SILVIO. No, Fulvia — credi! É soltanto perché una prova su questo non potrei dartela!                                                       ,

FULVIA. E io non la voglio! — Non capisci che non voglio da te nessun obbligo? Io sono ora... quella che sono. Non voglio approfittarmi della tua venuta, vincolandoti per la vita che m'hai ridata. Di questa mia vita d'ora, di quel che sono ora, di tutto ció che puó accadermi ora, non m'importa piú nulla — proprio nulla! E tu saresti uno sciocco, se te ne facessi qualche scrupolo. Sei accorso qua, perché credesti che non potessi sopravvivere. Peggio per me, se non sono morta!

MAURI (con forza). Ma ci sono qua io, Flora!

FULVIA (subito con leggerezza sprezzante, mostrandolo al marito). Ecco — vedi? — c'é lui. — Volevo dirti questo!

MAURI (c. s.). Io: io — tutto per te!

FULVIA (quasi atterrita). Per caritá, non parlate d'amore! —

(Al marito): Disposto, pronto a riprendermi con sé.

MAURI. Con me! Per sempre!

FULVIA. Bravo, caro! Come dicono i fidanzati.

MAURI (con forza). No! — Come posso dirtelo soltanto io!

FULVIA (spiegando, come sopra al marito). Ha lasciato per me moglie e figliuoli. — Anche il posto, non é vero?

MAURI. Tutto!

FULVIA. E m'offrirà una bellissima posizione! — Darà concerti in provincia! Peccato che la voce con questa mia vitaccia, mi si sia arrochita! Ci metteremmo insieme: lui sonerebbe e io canterei! (Scoppia a ridere stridulamente.)

MAURI (ferito). Tu dunque ridi di me?

FULVIA (subito). No, no: credo, credo nella vostra bravura di pianista.

SILVIO (sdegnato). Tutto questo, via, non é serio!

FULVIA. E ti fa molta impressione? — A me, nessuna. — Vi prego, insomma, di non darvi pensiero di me, nessuno dei due. Quante volte devo dirlo? — Stabiliamo così alla buona. — Ho vissuto per anni, caro mio, giorno per giorno. Mi sono mancate le cose piú necessarie; e il domani senza certezza non mi spaventa piú. Puó passarsi, il destino, tutti i suoi capricci, con me. — Sono cosa sua. (S'accosía al marito e lo guarda con uno strano, orribile ammiccamento di donna perduta.) — Anche quei tuoi, sai?

SILVIO (smorendo). Che, miei?

FULVIA (ridendo, ma con un misto di pianto, in una convulsione che diverrà man mano piú forte, quanto più, per vincerla, ella si strazierà, dicendo di sé le cose piú crude). Mah! quelli che ti passasti, quand'ero come una bambina, e m'insegnavi cose che mi parevano orribili!

SILVIO (per richiamarla a sé). Fulvia!

FULVIA. Mi sono divenuti familiari.

SILVIO (c. s.). Fulvia! Fulvia!

FULVIA. Oh, sai, famosa!

SILVIO. Tu hai la voluttá di dilaniarti!

FULVIA. Con le tue mani, si. — Le ho fatte sapere anche a lui, sai? Perció egli spasima cosi di me! (Subito — staccando — al colmo del-

l'orgasmo — grida tre volte): Che schifo! Che schifo! Che schifo!

(Segue come un nitrito, e in un brivido lungo di ribrezzo, restríngendosi tutta in sé con le mani afferrate ai capelli e il volto nascosto dalle braccia, aggiunge): Ah Dio, che schifo! (Subito, Silvio e Mauri le sifanno accosto, premurosi e sconvolti, e mentre l'orgasmo di lei par che si scarichi in un tremore convulso, di freddo, le parlano insieme concitatamente.)

SILVIO. Non é possibile seguitare cosi!

MAURI (supplice). Ma come, Flora! Se ti ho tenuta come una santa! come una santa!

FULVIA (all'improvviso, rialzandosi ancora convulsa, ma di nuovo ri-

soluta, e ponendo le mani sulle spalle del Mauri). Si, é vero, si! — Voi, si! (Subito correggendosi, spiccatamente): Tu, si! — Ma fammi il piacere: — zitto!

MAURI (felice, provandosi a prenderle una mano per baciargliela). Oh Flora! Grazie!

FULVIA (ritraendo subito la mano, con ribrezzo). No... no... no...

MAURI. Mi basterá che tu abbia cosi... pena... pena soltanto... codesta

pena che hai, del mio amore, e niente più — niente! — É cosi dolce, che mi basterà.                                

FULVIA (in fretta). Si, va bene. (Poi, rivolgendosi al marito); Dunque, sará così. — Vado con lui. — Puoi ripartirtene, caro, con la coscienza tranquilla d'aver compiuto una buona azione.

SILVIO (la guarda con occhi pieni d'una sofferenza atroce, poi contenendosi a stento, dice gravemente): lo ti prego, Fulvia, di levarmi da questa situazione.

FULVIA. Ti dico sinceramente. Che tu sii venuto, — é una buona azione. Dell'altra che hai compiuto, quasi senza volerlo, e che non era certo nella tua intenzione, venendo — se si riduce per me a un cattivo servizio — in coscienza ti dico che non posso né voglio fartene responsabile — dunque puoi proprio ripartirtene in pace con te stesso. — O al piú, guarda — se proprio lo vuoi — (non ho piú nulla del mio!) — vedi? e sono una donna veramente volgare — puoi darmi un po' di denaro — come a lui l'ha dato sua moglie! (Scoppia a ridere indicando il Mauri.)

MAURI (scattando). No! — niente danaro! no! Non accettar danaro da lui, Flora!                                                             |

FULVIA. Stupido! Non capisci che non é per noi? Dico per lui! Quanto più ne dá, per lui, meglio é. — Si vede cosi chiaro che (pigiando con intenzione le parole) — nonostante ch'io faccia di tutto — gli persiste un certo rimorso. — Gli propongo di liquidarlo in contanti.

SILVIO (non potendone più, con estrema risolutezza). Basta così, Fulvia! — io debbo parlarti!

FULVIA (con furore appena contenuto e aria di minaccia). Ah, no, sai!

Non arrischiarti ora, a parlarmi di ció che ti leggo negli occhi!

MAURI (tra sé, sogghignando). Della figlia... della figlia!

SILVIO. Debbo pure parlartene!

FULVIA. Guai a te! se lo. fai! Ma non vedi che sto qui da un'ora a imbrattarmi di fango per impedirti di parlarne?

SILVIO. Non vuoi dunque che te ne parli?

FULVIA. No!

SILVIO. Mi provochi!

FULVIA. Se hai sfuggito di parlarne anche poc'anzi!

SILVIO. Te ne parlo adesso!

FULVIA. Ti sfido a farlo; con me così (passa un braccio sul collo di Mauri) decisa ad andarmene con lui!

SILVIO. Sta bene. — Vado... Ma bada che veramente tu perdi ora ogni diritto d'accusarmi!

FULVIA. lo? (Rivolgendosi al Maurí): L'ho accusato? (A lui): T'ho lodato; ringraziato; t'ho detto d'andartene via tranquillo. — Sei tu, là, impedito. Insisti tu! Vuoi parlare, per cercarti scuse, ch'io non ti chiedo.

MAURI (c. s.). Eh — lo specchio! lo specchio!                             i

SILVIO (provocante). Che dite voi, specchio?

MAURI (placido, quasi sorridente). Quello, caro signore, che ci mettiamo noi stessi davanti, senza saperlo. Ce lo troviamo davanti: ci pare che ci parli un altro, e siamo noi stessi. — io lo so bene.

SILVIO. Lo saprete per voi!

MAURI. Anche per lei, anche per lei!

SILVIO (a Fulvia). Perché mi butti in faccia un rimorso, ch'io stesso t'ho dichiarato e provato?

FULVIA. No, scusa: voglio levartelo!

SILVIO. Come? cosi? «imbrattandoti di fango» per accrescermelo?

FULVIA (con voce nuova, di disperata sincerità, quasi avvilita, come se fosse arrivata al punto di non poter più sostenere la sua parte). Ah Dio, sono stata qua tanti giorni con lui — e lui stesso ha detto come — quella di prima — con tutto il cuore sospeso — il mio cuore d'un tempo — là, nella mia casa — il mio cuore di madre — tutti questi giorni in attesa che mi parlasse della figlia — dicendo a me stessa: «stai cosi... stai cosi... egli ora é buono... é venuto... ora te ne parla, ora te ne parla...».

SILVIO (forte, vibratamente, per rompere la commozione di lei). Ma se non potevo parlartene!

FULVIA (subito, violenta, cangiando tono anche lei). E perché vuoi parlarmene adesso?

SILVIO. Ma per dirti appunto perché non te n'ho parlato!

FULVIA. Ora non voglio più saperlo! — Sono ragioni per te!

SILVIO. No, non per me! Per tua figlia!

FULVIA. Ragioni di non parlarmene? Anche per lei?

SILVIO. Unicamente per lei!

FULVIA. Perché mi crede morta, é vero! — Eh, si sa! — Storia vecchia! — Chi gliel'ha detto? glie l'hai detto tu, che sono morta?

SILVIO. Non gliel'ho detto io...

FULVIA. L'ha creduto da sé, e tu gliel'hai lasciato credere? — E va be-

ne. Basta. Lo supponevo: — Vuoi dire che il miracolo di farmi rivivere anche per lei, non puoi farlo?

SILVIO. No, dimmi tu, se lo credi, se lo vedi possibile! — Non faccio altro che pensare a questo da un mese. Subito, dacché vidi la possibilitá che tu guarissi. — Tu hai atteso che te ne parlassi. Ma non te n'ho parlato per questo! — Come si puó fare? — Dimmi tu! — Rispunti a casa, ora, cosi?

FULVIA (con orrore). No, no!

SILVIO (seguitando). Dove sei stata tutto questo tempo? E perché le si é lasciato credere che tu fossi morta, senz'esser vero?

FULVIA. Non é possibile — no!

SILVIO. Ecco — lo vedi tu stessa!

FULVIA. E credi che me n'importi? — Se fossi morta davvero... Ma non sono! Non lo dico per me, bada! Tu non sai ancora, caro mio, tutto intero il miracolo che hai operato! — Non me lo sarei mai atteso! — Stato di grazia! — Tornata per un momento come allora...

Caro mio, se non puoi farmi rivivere per tua figlia, puó lei ora, invece, rivivere per me!

SILVIO (stordito, costernato). Che dici? per te? E come?

FULVIA. Lei — o un'altra — se l'ho giá in me, per me e la stessa!

SILVIO. Fulvia, che dici?

MAURI. Come! — Tu dunque...?

FULVIA. E perché sono cosi spensierata? — Per questo! — Non vedi che non m'importa piú di niente?

MAURI. Ti sei lasciata riprendere da lui?                                    ',

SILVIO (levandosi ormai d'ogni ambascia, d'ogni dubbio, con animo

fermissimamente risoluto). Ah — se é cosi — senz'altro, allora!

FULVIA. Che cosa?

MAURI (quasi tra sé). Ma questo e un tradimento!

SILVIO. Avevo già pensato — prima che tu dicessi questo — che c'era

forse un mezzo — uno solo — per riparare!

FULVIA. Che mezzo? Se mi hai uccisa per lei!

SILVIO. No — c'é! c'é! — E ora, senz'altro, bisogna che tu lo accetti, per quanto possa esser duro per te e per me.

FULVIA. E sarebbe?

SILVIO. Verrai con me!

MAURI. No, Flora! Non farlo! non farlo!

SILVIO. Lei ora lo fará!

FULVIA (a Mauri, per rassicurarlo). Aspettate! (Al marito, con aria di sfida) Con te, dove?

SILVIO. Dove? A casa!

FULVIA. E come?

SILVIO (subito, con forzá). Come moglie! come moglie!

FULVIA. E se c'é lei che mi crede morta?

SILVIO. Ecco, si — questo é duro — e irreparabile! — Ma bisogna superar questo, nel solo modo in cui é possibile!                              ;

FULVIA. Non capisco come dici!

SILVIO. Ma che tu sii moglie, anche se in apparenza per lei non potrai esser madre!

FULVIA. Moglie senz'esser madre? Ah, tu intendi «un'altra»?

MAURI (subito). É una barbarie! é una barbarie!

FULVIA. Ma io non sono un'altra!

SILVIO. Certo! Sará solo apparenza! Tu sarai pure la madre!

FULVIA. E lei mi crederá la matrigna?

MAURI. Non accettare, Flora! non accettare! É una barbarie!

SILVIO. Non c'é altro mezzo! — Se questa é una barbarie, che é meglio: la condizione che le offrite voi?

MAURI. Meglio, si! centomila volte meglio! La fame, Flora... con me! Meglio! Pensa che strazio, essere un'altra per tua figlia!

SILVIO. Se puoi sopportarlo...                                              

FULVIA (subito, con sprezzo, ma già sopra pensiero). Ma non é questo! Sopporto tutto, io! — Se la figlia é mia — io non sono un'altra — sono sua madre! (Si alza e come se cominciasse a comprendere soltanto ora): Tu dunque mi riprenderesti con te?

MAURI (trasecolato). Accetti?

FULVIA (senza badare al Mauri, rivolgendosi al marito, o piuttosto, parlando quasi tra sé). Ma come? — Ah già, il matrimonio c'é... Non ci sarebbe piú bisogno di nulla!

SILVIO. É solo per lei! Apparenza...

MAURI (tra sé). Ah che tradimento... Lasciarsi riprendere da lui!

FULVIA (c. s.). Ha giá sedici anni... Certo non può avere nessuna memoria di me.

SILVIO. Ne aveva poco più di tre...

FULVIA (subito, con sdegno). Quando io morii... — (Poi, riprendendosi); Ma gli altri? Potranno riconoscermi!

SILVIO. Nessuno, dove sto ora — quasi in campagna. Ma questo non importa! Cambieremo paese.

MAURI (risoluto). Dunque, per me, Flora, é proprio finito? Non é possibile, bada! non é possibile!

FULVIA (scrollandosi infastidita). Ma che volete voi!

MAURI (terribile). Come, che voglio! E come faccio io ora? Come resto senza di te?

SILVIO (facendosi innanzi). Dovreste capire che non é piú tempo di parlare cosi!

MAURI (c. s.). Io ho spezzato, distrutto la mia vita per lei!

FULVIA (interrompendoli, rivolta al marito). Lascia, aspetta. Gli parlo io...

MAURI (abbracciandola, frenetico). Non voglio sentir nulla! Sei mia! Non ti lascio!

SILVIO (avvicinandosi per strappargliela). Ah, con la violenza?             I

FULVIA (divincolandosi). Lasciatemi!                                    \

MAURI (c. s.). Non ti lascio! Non la lascio!

FULVIA (riuscendo a liberarsi e respingendolo). Lasciatemi, vi dico!

SILVIO. Fuori! Fuori di qua! Via, fuori!

MAURI (rompendo in disperati singhiozzi). Ma per pietá, almeno!

FULVIA (vibrante). Che pietá volete, se io avevo giá troncato ogni legame con voi?

MAURI. Ma io, no! io, no!

FULVIA. Questo vostro pianto, ora, é veramente di più.

MAURI. Una vita... Come se non fossi uno, io! — Mi stronchi... — dici che sono di piú! (Casca a sedere, come stroncato veramente, singhiozzando sempre.)

SILVIO. Via, via, basta...

FULVIA (facendo un cenno a Silvio, e accostandosi al Mauri). Un po'

di caritá, un po' di caritá... Bisogna mandarlo via con le buone!

FINE PRIMO ATTO

Tela


COME PRIMA, MEGLIO DI PRIMA

ATTO SECONDO

Sala nella villa del dottor Silvio Gelli, presso uno dei villaggi intorno al lago di Como. La sala é vasta, chiara di tanto azzurro intorno, che dilaga tra il verde.

Arredo di tinta tenue, molto signorile, ma non nuovo, perché Fulvia Gelli possa riconoscerlo per quello stesso, che, tredici anni addietro, lasciò in un'altra casa. In fondo é una veranda, da cui si scende nel giardino. Due usci laterali a destra. La comune a sinistra. Sono passati dal primo atto circa quattro mesi. É agosto.

Sono in scena, al levarsi della tela, Fulvia, la governante Betta e un Commesso di negozio. Fulvia é in una ricca e gaja vestaglia estiva. Ha ancora i suoi capelli di fuoco, ma composti in una placida pettinatura. Non ha più il fosco pallore del primo atto: pare rasserenata. La vecchia governante Betta ha l'aria d'una mezza signora: sia con gli altri due presso a un tavolino ed esamina con l'occhialetto e palpa e tasta i molti scampoli di tela, bianchi e anche colorati, celesti, rosei, lilla, e i varii merletti, che il commesso di negozio ha tratti da un grande scatola di tela cerata con cinghie di cuoio, posata su una sedia accanto al tavolino.

COMMESSO. Giá! Se la signora vuol proprio pigliarsi il fastidio...

FULVIA. Ma no! Non sarà mica un fastidio!

COMMESSO. Capisco — pardon! — per una madre... Ma sarà un po' lungo, mi permetto di farle osservare, preparare tutt'intero un corredino di nascita...

FULVIA. Oh, mi servirá anche per passare il tempo!

COMMESSO. Capisco. Dicevo, perché ne abbiamo tanti, giá belli e pronti in bottega — una meraviglia, sa? — tutti assortiti — di tutto punto—delicatissimi...

FULVIA (a Betta che esamina una tela). Che ve ne pare, di questa?

BETTA. Ah! — lenta... lenta...

COMMESSO. Pelle d'uovo, codesta! Sopraffina. — Si fanno di codesta, ora. Oppure di nansouk.

BETTA (giocando con le parole). Sará nansú — io non so; ma é lenta.

COMMESSO (piccato). No, scusi — ho detto che codesta é pelle d'uovo.

BETTA. Pelle d'uovo — ma é lenta!

COMMESSO. Ma no, per caritá! Lieve, morbida — sfido! per le carni tenere d'un neonato! — ma resistentissima. Garantisco.

FULVIA. Sará, sará... Ma non é, a ogni modo, quella ch'io cercavo.

C'era una volta un'altra tela — fina cosi, morbida — ma ben più solida!

COMMESSO. Dice forse cambrì, la signora?                             

BETTA. Eh, ma le antiche mussoline!

FULVIA. No no — non cambrì.

COMMESSO. Battista di lino? battista di cotone?

FULVIA. Non so. Voglio fargliela vedere. — Fatemi il piacere, Betta, salite su. Livia conserva ancora in quella vecchia cassapanca, — sapete?

BETTA. Lo so.                                                     

FULVIA. Anche alcuni capi del suo corredino di nascita: li ho visti.       

BETTA. Sissignora. Vado. (Si avvia.)                                   

FULVIA. No, meglio... aspettate! Non ditele nulla. Pregatela di scender qui un momento.

BETTA. Sissignora. (Via per il secondo uscio a destra.)

FULVIA. Vedrá, vedrá che morbidezza e che altra soliditá!

COMMESSO. Eh, ma lavato questo nansù, sa come infittisce, signora? E creda che, quanto a morbidezza, non c'é niente che regga al paragone di questa pelle d'uovo.

FULVIA. Intanto restiamo d'accordo, é vero, per queste battiste qui colorate. Se ci fosse un lilla piú tenue...                                

COMMESSO. Sissignora, ne abbiamo in bottega. Ma anche questo mi pare che vada benissimo...

FULVIA. E quanto ai valenciennes poi no, proprio no: questi non vanno.                                                        

COMMESSO. Eh, lo so. É proprio da piangere, creda! Le condizioni presenti del mercato... (Entra dal secondo uscio a destra Livia. Ha poco piú di sedici anni. Seria, rigida, s'intorbida ogni qualvolta si sforza di guardare in faccia. É vestita ínsolitamente di strettissimo lutto. Fulvia non s'accorge in prima ch'ella é entrata.)

LIVIA. Mi hai fatto chiamare?

FULVIA (voltandosi appena). Ah si, Livia, vieni. (Vedendola cos'i vestita di nero, e restando): Oh, e perché cosi? (Livia abbassa gli occhi e non risponde.)

FULVIA (sovvenendosi subito). Ah giá... si si... scusami, sai! (Cambiando idea, in conseguenza); E allora niente, niente...               

LIVIA (fredda). Che volevi?

FULVIA. No, niente. Vai subito in chiesa?

LIVIA. Fra poco. Il parroco ha detto che non poteva prima delle undici.

FULVIA. Finirete tardi, allora. Tre messe...

LIVLA. Io volevo due.

FULVIA (subito in tono di rimprovero, ma dolce; comeferitá). No, Livia. Questo é un voler fare un dispiacere a papá. Non dico poi a me!

LIVIA (c. s.). Volevo che fossero due, appunto per non fare un dispiacere a te. (Dirá questo come se, sotto l'apparenza d'una benevola attenzione, non fosse contenuta un'ingiuria per lei.)

FULVIA (con amarezza). Ma che vuoi che faccia a me dispiacere, se non questo: che tu possa pensarlo? Sono state tre messe ogni anno; saranno tre anche quest'anno. Papá verrá con te?

LIVIA. Non so se voglia venire.

FULVIA. Verrá, verrá. Glielo diró io di venire. (Staccando): Stavo qui a

sceglier la tela per il corredino.

LIVIA (rigida, come per cosa che non la riguardi affatto). Ah...

FULVIA (non potendo non notare il contegno di lei). Vai, vai; non volevo mica il tuo aiuto. (E vedendo che Livia se ne va senz'altro, aggiunge irritata, cangiando improvvisamente tono e umore): Volevo che mi lasciassi, almeno per un po', la chiave di quella cassapanca, dov'é custodito quel resto del tuo corredino.

LIVIA. Sta bene. Te la manderó giú. (Esce per il secondo uscio a destra.)

FULVIA (a/ Commesso che nelfrattempo avrá ripiegato e rimesso dentro la scatola tutti gli scampoli e i merletti). Scusi...

COMMESSO. Oh, per caritá, signora!

FULVIA. Per farla finita, restiamo cosi: prendo il nansouk.

COMMESSO. Ah, benissimo! Creda, é la scelta migliore, signora.

FULVIA. La quantitá che le ho detto.

COMMESSO. Benissimo. Ho giá preso l'appunto.-Le manderó allora tutto in giornata. Riverisco, signora.

FULVIA. A rivederla. (// Commesso, reggendo la scatola, e sceper la comune, mentre dal secondo uscio a destra rientra in scena Betta.)

FULVIA (subito, vedendola, in tono derisorio). La fate dire anche voi, dunque, una messa in suffragio dell'anima benedetta?

BETTA (da vecchia volpe). Mi perdoni, signora. É uso, ormai. Ogni anno, in questo giorno... Mi perdoni...

FULVIA (sdegnata, severa). Perché volete che vi perdoni?

BETTA. Ma perché forse quest'anno, ecco, si poteva non farne sapere nulla alla signora.

FULVIA. Sentite dunque che c'é qualche cosa di male in questo?

BETTA. No, signora. Si fa per la povera figliuola...

FULVIA. Ah, per lei! Non lo fate dunque per voi, né per la padrona morta?                                                              

BETTA. Anche per me, sissignora, e per la povera padrona. É uso, le dico.

FULVIA. Tutti gli anni, dacché é morta?                                    

BETTA. Tutti gli anni, sissignora! Una la figlia, una io, una il signor dottore.

FULVIA. Anche Livia, da allora?

BETTA. Eh, la prima, lei!

FULVIA. Ah, questo no, vedete! Non vi fate bene il conto, cara Betta!

Livia doveva esser piccina, e non poteva pensare allora a far dir messe. Tranne che non ci abbiate pensato voi, per suo conto, o il padre.

BETTA (rimanendo imbarazzatá). Giá... veramente... Sará stato il padre...                                

FULVIA (ridendo). Come va, come va quest'affare? Voi dovreste ricordarvi, perché siete stata sempre qua, voi Vi é morta tra le braccia, la padrona! (Silvio Gelli, che é stato di lá a parlare con Livia, entrando a questo punto per il primo uscio a destra, ode le ultime parole di Fulvia, e subito, costernatissimo, temendo ch'ella stia quasi per svelare il segreto, la richiama.)

SILVIO. Fulvia! (Ma subito resta interdetto, tradito dal prímo impeto che gli ha fatto venire sulle labbra il vero nome di lei.)

FULVIA (subito voltandosi, rimediando con gioia maligna). Chi chiami? Fulvia? Oh Dio benedetto! Capisco che oggi é l'anniversario; ma che tu debba pensarci fino al punto di chiamarmi col «suo» nome, via, mi sembra un po' troppo!

SILVIO. Scusami... si, hai ragione...

FULVIA. Di niente, caro! É naturale. Nomi soprammessi, sfuggono. Mi chiamano Flora, sapete, Betta? Brutto nome, veramente: di cagna.

Mi ha chiamata Francesca, col mio secondo nome. (Al marito); Bisogna che te ne ricordi, caro! (Lo guarda, lo vede costernato, come sospeso.) Che cos'é? Sto cercando di rimediare, con buona grazia, mi sembra, a una tua gaffe.

SILVIO (un po' irritato, facendole intendere che la sua costernazione non é per questo). Si, va bene... Ma...

FULVIA (comprendendo). Niente, parlavamo delle tre messe d'oggi...

(A Betta); Non v'ha dato nulla Livia per me?

SILVIO (subito). Ecco, venivo per questo.

FULVIA (turbandosi, eccitandosi). Non mi vuol dare la chiave della cassapanca?

SILVIO (a Betta). Andate, andate, Betta. Credo che Livia abbia bisogno di voi.

FULVIA. Forse sta a piangere perché gliel'ho chiesta?

SILVIO (a Betta che non sa allontanarsi). Andate, vi dico! (Betta via per il secondo uscio a destra.)

FULVIA (attaccando subito, con sdegno). Senti, ah, questo no!

SILVIO. Lasciami dire!

FULVIA. Ho fatto trasportare io stessa in camera sua — vedendo che ne soffriva — gli antichi mobili della nostra camera da letto, e glien'ho consegnate le chiavi!

SILVIO. É vero, si...

FULVIA (seguitando, con foga sempre piú appassionata). E n'avevo tanto bisogno, tanto! di rivedermeli attorno, quei mobili!

SILVIO. Ma devi pensare...

FULVIA (pronta, forte). Penso a tutto! Ma questo no, Dio mio! Lo feci io, con le mie mani, quel corredino per lei! prima che nascesse!

SILVIO. Si, si!

FULVIA. Ricordi che non volevi? Me lo strappavi dalle mani! Ritrovarlo insieme con gli abiti miei di allora, fu per me... ah Dio, non lo so dire! Vi affondai la faccia; vi respirai la mia purezza di allora; la risentii viva in me, qua, nella gola — come un sapore — vi piansi dentro, e me ne lavai tutta l'anima... (Staccando): Bene: gliel'ho dati; me li sono strappati io stessa da me...

SILVIO. Ma capisci...

FULVIA (pronta c. s.). Perché capisco! perché capisco! Ma c'era qua il commesso. Volevo mostrargli la tela d'una di quelle camicine. Che cos'é, male? Non posso?

SILVIO. Ma non é questo!

FULVIA. E che cos'é? Perché le ha indossate lei, non vuole che le faccia uguali, ora, per quest'altra? (Torbida, minacciosá): — Bada — ah, bada! Moglie — sta bene — rappresento qua un'altra — pensi di me ció che vuole! Ma madre no, sai? bada! come madre mi deve rispettare!

SILVIO. Ma ti rispetta...

FULVIA. Non dico madre di lei! dico di quella che verrà! Badi! badi! Me la difendo, perché non mi resta piú altro qua per sentirmi ancora viva.                                                                    

SILVIO; Non eccitarti cosi, per caritá!

FULVIA. Non mi eccito, no. Quello che hai saputo fare per uccidermi! (Pausa. Poi, piano, tentennando il capó): Fissare anche il giorno dellamorte...

SILVIO. Ma no... Me lo chiese, una volta...

FULVIA. E tu, lá! subito la data. E tre messe... Di la veritá: devi essere stato anche tu a ordinare a quella vecchia marmotta...

SILVIO. E dalli! Te l'ho detto! A furia di ripeterlo — forse per acquistarsi una maggiore benevolenza da Livia— é facile che quell'imbecille ci creda lei stessa, alla fine!

FULVIA. D'avermi tenuta morta tra le braccia? (Ride.) Ah! ah! ah! ah!

Fino al punto di farmi dire in suffragio una messa insieme con te!

SILVIO. Questo delle messe é un pensiero di Livia. Mi domandó una volta; non credetti di doverle dire di no.

FULVIA. Ma se l'hai accompagnata sempre in chiesa.

SILVIO. Per farle piacere. Sai che non soglio andarci per me.

FULVIA. Ci andrai anche oggi!

SILVIO. Non vado!

FULVIA. Voglio che tu vada!

SILVIO. Non vado, non vado!

FULVIA. Non privarmi di questb spettacolo, che almeno, via, é da ridere! Póstumo — per me! — (Staccando): Gliel'ho giá detto a Livia, che andrai.

SILVIO. E io le ho detto or ora che non vado.

FULVIA. Me lo fai dunque apposta?                                      

SILVIO. Che cosa?                                                    

FULVIA. Per farmi odiare di piú?

SILVIO. Deve comprenderlo anche lei, e lo comprende, difatti, che ora é un riguardo, questo...

FULVIA (pronta, scoppiando di nuovo a ridere, allegramentc). Che tu devi a me? Ah! ah! ah! ah!                                             1

SILVIO. Ti va di ridere...

FULVIA. Ma si, caro! É meglio che me la prenda a ridere! (ride ancora.) Perché ti senti ridicolo tu stesso, vestito di nero, compunto, a messa, per me, che sono qua viva, (ride di nuovo,) e faccio le corna!

SILVIO. Ma per nulla! Se non l'ho fatto per me...

FULVIA (staccando, con altra voce). Scusa: ora me lo devi, il riguardo?

SILVIO. Come, ora? perché?

FULVIA. Perché si riduce tutto a mio danno!

SILVIO (forte, con convinzioné). Ma ho inteso di rispettarti sempre, io, qua!

FULVIA (pronta). Me? Ah, no, caro! La tua impostura!

SILVIO (fermo e serio). io ti prego di credere alla mia sinceritá.

FULVIA. Ci credo, ah, ci credo! E ciò che è orribile in te è questo, difatti: la sincerità della tua impostura: codesta... oh, via! non mi far parlare!

SILVIO. No, dì, dì, parla!

FULVIA (ancora una volta staccando, con altra voce). Vuoi farmi del bene davvero?

SILVIO (stordito da questa che gli pare un'improvvisa diversione). Come? Certo!

FULVIA (subito, fredda). Non avere nessun rguardo per me!

SILVIO. Ma che dici?

FULVIA. Dico questo: trattami come una... una di quelle cagnacce di strada, che per caso ti si sia messa dietro, attaccata alle calcagna.

SILVIO. Ah si! Bello, cosi!

FULVIA (c.s. quasi che parlasse d'un'altra). Cosi, cosi. Non potendo più levartela dai piedi, per forza, rassegnato, hai dovuto portartela in casa. Se lei potesse credere questo, forse, vedendomi trattata così, disprezzata, avvilita, e nello stesso tempo, me, umile, docile...

SILVIO. Ma non é possibile!

FULVIA. Ah, ora, grazie, lo so! Hai fatto il contrario! C'é un odore di santità, qui, che viene da quella morta...

SILVIO (alludendo alla figlia). Non aveva avuto madre! Che la pensasse almeno come una santa, dovendo farle un inganno, mi parve che questo fosse il più pietoso, non solo per lei, ma anche per te!

FULVIA (con impeto, subito frenato). Non dire per me! non dire per me! Non l'hai fatto per me, scusa! Per te l'hai fatto, per quietarti in qualche modo la coscienza che ti rimordeva. E non l'hai quietata! Non si quieta mica con le imposture la coscienza.

SILVIO. T'ho pregata di non usare piú codesta parola!

FULVIA. Scusa, mi hai fatto morire, e poi mi hai santificata! e ti sei santificato, e hai santificato tutto qua! (Staccando e cambiando tono ancora una volta): Posso ammettere che la mia morte poteva essere, li per li, una «necessaria» menzogna. Ma se lei era cosi piccina! Le si era schiusa, la vita, con te solo accanto! Ti avrà domandato... cosi, della madre, da grandicella, é vero? Dovendo fingere, scusa, non potevi, anche senza dirglielo, farle intendere che non eri stato lieto nel tuo matrimonio?

SILVIO. Giá, si! A giudicarne adesso!

FULVIA. T'avrebbe amato di piú; non avrebbe rimpianto nulla!

SILVIO. Ma dovevo immaginare che potesse succeder questo! Scusa, é strano! Ne parli, come se tu ne fossi gelosa...

FULVIA. Ah, si, nel cuore di mia figlia!

SILVIO. Ma pensa che sei in fondo tu stessa!

FULVIA. Non è vero! Non è vero! Io stessa? L'ho toccato! L'ho sentito!

Sono morta! morta veramente! Le sto davanti, e sono morta! Non sono io, questa qua, viva; é un'altra, sua madre... di lá, morta!

Vorrei prenderla per le braccia (allude a Livia), scuoterla, guardarla fissa negli occhi e dirle: No! no! Credi a me, cara: perché é morta... Non possono piú far male, i morti, e perció, dopo molto tempo, si pensa di essi solo il bene. Anche la morte, cara, puó essere una menzogna! (Staccando, vibrante, con un'espressione quasi da folle): Sai quante volte mi viene questa tentazione?                                

SILVIO. Per caritá, Fulvia!                                            

FULVIA. Non temere, ci penso, io più di te! (Pausa.) Sfido! con te tutto dedito per tanti anni alla venerazione di quell'anima santa, doveva sembrarle per forza un tradimento, così, all'improvviso, da un giorno all'altro. (Pausa.) Prima, si — ci avrá pensato... così, una volta l'anno. (Staccando); Ma non é vero! non é vero! Si dimentica tutto! ci si adatta a tutto! É un'altra cosa ora! É quella sua, si, vera gelosia, per conto della morta, ora. (Pausa.) Doveva nascerle per forza, appena entrata io qua. Prima, era lei come lei. Appena entrata io, a prender posto accanto a te, lei s'é fatta la rappresentante di quell'altra. Naturale. Colei che ne tiene il posto. Ha voluto tutto ció che le apparteneva: i mobili, tutto. Ho dovuto darglieli io stessa. M'é parso giusto. Tanto questa menzogna s'é fatta realtá qua, per tutti: l'unica, l'unica, in cui viva tua figlia! Dico tua, vedi? Non la sento, non la sento piú realmente come mia! Non la sento! E non ti pare una cosa disumana? Bisogna ucciderla, ucciderla, questa menzogna, perché io sono viva, viva, viva!

SILVIO. Per caritá, per caritá, Fulvia! Hai riconosciuto tu stessa la necessitá di tacere — anche per te!

FULVIA. Proprio per me? Tu vuoi tacere per non offendere sua madre, ecco perché!                

SILVIO. Ma se sei tu!

FULVIA. Non é vero! Io per lei sono — questa — e non posso essere sua madre! Sono arrivata al punto di crederci io stessa! Mi pare, mi pare veramente figlia di quell'altra. É spaventoso! Fin dal primo momento che la vidi e dovetti frenare ogni impeto che mi lanciava ad abbracciarla, a rifarmela mia sul mio petto! Le parole riguardose che fui costretta a dirle, che lei quasi m'impose col suo contegno, sono rimaste — irremovibili — non solo, ma cosi, proprio — realtá — realtá — anche per me. La guardo, con quelle spallucce li, con quell'aria, e non credo piú io stessa, proprio non sento piú, che glieli abbia fatti io, quegli occhi, quella bocca; come se veramente ci fosse stata qui un'altra, da cui lei é nata — che io non so! — E il bello é poi, che non lo sa neanche lei! — L'ombra, divenuta realtá! E che realtá! Ha ucciso in me, veramente, il mio istinto materno per lei! Ora piú che mai, che lo risento in me vivo per un'altra. — Via, via, via. — Non voglio piú pensarci. — Si stia con la sua morta. E mi lasci qua — viva e in pace — per quella che verrá.

SILVIO. Non dirlo! Sei stata qua con lei — son quattro mesi ormai...

FULVIA. A sorriderle, su questa graticola a fuoco lento... — Dio mio, basta ti dico. Non ne parliamo piú, {Va a distendersí su una sedia a sdraio.) — Discorsi che si fanno... Poi non ci si pensa piú. (Pausa tenuta.) — Questa notte mi sono svegliata. Mi son messa a pensare, calmissima. Si, questo dolore c'é, questa cosa orribile nella mia vita. Ma pure... — eh, si dorme! E se mi sveglio, posso mettermi a guardarmi le mani al lume del lampadino rosa... (Silvio, tentato, a

questo punto le si fa presso, e la contempla li distesa.) — Che?... — Niente... cosi... le mani... il letto... i mobili nuovi della camera... — La vita é uguale; e ha tante cose a cui posso pensare, oltre questo mio dolore... — (Scotendosi un po'): Bisogna dire che non é vero che quando uno ha un dolore, non pensa piú ad altro. Pensa a tante altre cose. lo pensavo questa notte... — indovina? Ah come vorrei essere, come vorrei essere allegra! E questo é segno, sai? che non sono una canaglia.

SILVIO (che le si é fatto sempre piú accosto e ha seguitato a contemplarla). Per caritá, che dici! (E fa per prenderle una mano.)

FULVIA (ritraendo la mano). Va lá, che ti piaccio ora, perché ho questi

capelli cosi!

SILVIO. No, Fulvia... Ti stanno bene, si...

FULVIA. Ti eccitano!

SILVIO. Per caritá, non dirlo...

FULVIA {sdegnata, nel vederlo cosi preso di lei per le sue grazie ambi-

gue, involontarie). Ma io non voglio mica essere allegra cosi!

(Sopravviene a questo punto Betta dalla comune, in grande esultanza)

BETTA (annunziando). Signor dottore, signor dottore!                    |

SILVIO (levandosi, urtato d'essere stato sorpreso in quel momento d intimitá). — Che cos'é?                                                 |

BETTA. La zia Ernestina! É arrivata la zia Ernestina!

SILVIO (subito, costernatissimó). Come! qua?

FULVIA (con lieta meraviglia). O senti! — La zia Ernestina! E ancora viva?                                                               

SILVIO (per richiamarla alla sua finzione di seconda moglie). Francesca! (E subito volgendosi a Betta e avviandosi con lei verso la comune): Dov'é? Com'é arrivata?

FULVIA (tra sé, mentre il marito s'avvia con Betta). Ah già! lo non la conosco!

BETTA (rispondendo a Silvio). In carrozza... Sta a pagare il vettuno.

SILVIO'. Andate subito! Non la fate entrar qui! Conducetela su da Livia!

BETTA. Vado, sissignore! Ah, come sará contenta la signorina! (Via di furia per la comune.)

SILVIO. Non ci mancava che lei oggi!

FULVIA. Ma come, scusa, la mandi da Livia? — E mia zia! Saprà tutto!                                

SILVIO. Tutto, sì; ma sa anche come deve comportarsi con Livia.

FULVIA. Ah, anche lei?

SILVIO. Sai bene com'é...

FULVIA. Me l'immagino! Indignata, offesa nei suoi pudori — per scroccarti ancora del danaro — morta, sepolta...

SILVIO. Ma come si fa adesso? — Se ti rivede, si tradirá! — Bisogna mandarla via subito! — Me l'ero levata dai piedi — e rieccola daccapo!

(Si sentono dietro la comune le voci di.Betta e della zia Ernestina. Poco dopo. questa si precipitera in iscena incontro a Silvio, con le braccia levate in atto tragico. É una magra vecchina invelenita più dagli antichi disinganni che dalla miseria, stupida come una gallina, e sempre mezzo stordita, come se fosse sorda. Ma non é sorda. E quella storditaggine puó essere anche finta. Ha i capelli tinti d'una rossa orribile manteca. Si presenta parata di strettissimo lutto.)

BETTA (dall'interno). Ma no, scusi! non di qua! non di qua!

ZIA ERNESTINA (dall'interno). Lasciatemi! (Entra c.s. con Betta.) Morta? morta dunque davvero, la mia povera nipote?

SILVIO (su le furie, temendo che Livia la senta di su). Si stia zitta, per-

dio! — Le proibisco di parlare! (A Betta): Andate, andate su, voi, e impedite a Livia almeno di scendere! (Betta corre via per il secondo uscio a destra).

ZIA ERNESTINA; Dev'esser morta davvero, se hai potuto riprender moglie! Ti scrissi; non m'hai risposto...

SILVIO (con rabbia, per farla tacere, indicandole Fulvia). Eccola li! — Ma si stia zitta!

ZIA ERNESTINA (stordita sul serío, accorgendosi della presenza di Fulvia, ma non riconoscendola e, credendola veramente la seconda moglie di Silvio). Oh — scusi: non l'avevo vista, signora. Sono la zia dell'altra moglie... (Dal secondo uscio a destra irrompe improvvisamente Livia con le braccia tese verso la zia Ernestina.)

LIVIA. Zia! zia! zia!

ZIA ERNESTINA. Livia! (Si abbracciano strette strette, a lungo.)

LIVIA. Zia mia! zia mia!

ZIA ERNESTINA (piangendo). Orfanella mia! povera orfanella mia!

SILVIO (infuriato, cercando di strapparla dall'abbraccio). Via, basta! Non mi faccia qua ora codeste scene!

ZIA ERNESTINA. Si... si... hai ragione — per riguardo qua...

SILVIO. Per riguardo a niente! Ma voglio che si ricordi che sua nipote é morta da tredici anni! (Pigerá sulle parole, per farle intendere che davanti a Livia bisogna ch'ella seguiti a sostenere l'antica finzione.)

ZIA ERNESTINA (non comprendendo affatto). Ah giá... si... — ma per me... ora...

SILVIO (subito, cercando di rimediaré). Per lei il dolore sará ancora come recente; ma si ricordi pure, che tanto per Livia quanto per lei la disgrazia non é di ieri, né di quattro mesi fa!

ZIA ERNESTINA (c. s. seguitando a non riconoscere Fulvia). Ah, giá — si! Son piú di quattro mesi... Chiedo scusa, signora...

LIVIA (fiera, fredda, provocante, supponendo che il padre abbia mostrato tanta durezza per un riguardo verso laseconda moglié). Andiamo su! vieni con me, zia Ernestina!                      

ZIA ERNESTINA (subito). Si, figliuola mia... orfanella mia, si... si... Sei anche tu vestita di nero... (E tutt'e due, abbracciate, se ne escono per il secondo uscio a destra.)

FULVIA (con un'impressione quasi di gelo). Non mi ha riconosciuta...

SILVIO. É colpa mia, é colpa mia. Mi scrisse veramente, chiedendomi...

FULVIA. Ma hai visto? Non m'ha riconosciuta...

SILVIO. Deve credere cosi...

FULVIA. Ch'io sia morta davvero?

SILVIO. Supponendomi riammogliato! — Dovevo risponderle, avvertirla, spiegarle. Ma potevo immaginare che dovesse venire, dopo che la cacciai via malamente, tant'anni fa, per il fastidio che mi dava?

FULVIA. É ritornata per lei, (allude su a Livia,) sicura di trovare ora in lei un'alleata che la protegga, contro te e contro me.

SILVIO. Ah no: s'inganna!

FULVIA. Sei certo che non le abbia scritto lei?

SILVIO. Ma no! Non hai visto che é arrivata all'improvviso?

FULVIA (quasi tra sé). La zia Ernestina... Ma guarda! — E non m'ha riconosciuta...

SILVIO (accennando ad avviarsi per il secondo uscio a destra). Se ne ritornerá ora stesso da dove é venuta!

FULVIA (per richiamarlo). No! Che fai?

SILVIO. La mando via!

FULVIA (alludendo a Livia). Ma non hai visto Livia! Come s'é piantata li, provocante, credendo tu la bistrattassi per me?

SILVIO. Ma glielo diró io — che non la voglio io, io!

FULVIA. Crederá sempre che sia per causa mia! Non vedi che, per forza, tutto qua si ritorce contro di me?

SILVIO. Che vuoi che faccia allora?

FULVIA. Come se l'é stretta fra le braccia: «Zia mia, zia mia!» — E quella stupida lá: «Orfanella mia!» — Se non fosse da piangere...

SILVIO. Insomma, io non posso star tranquillo, con lei qua! Bisogna che vada via immediatamente!

FULVIA. Fammi il piacere: accompagna Livia in chiesa, e mandamela giú. Mi faró riconoscere.

SILVIO. E la indurrai a ripartirsene subito?

FULVIA. Vedremo, vedremo.

SILVIO. No, no — non la voglio — non la voglio per casa! Deve ripartirsene!

FULVIA. E se potesse giovare?

SILVIO. Ma che vuoi che giovi quella li! (Silvio e sceper il secondo uscio a destra.)

FULVIA (sola — dopo una pausa — assorta). Zia Ernestina... — la credevo morta...

(Rientra Betta dalla comune, reggendo a fatica due grosse valige

della zia Ernestina, una di qua, una di lá a contrappeso.)

BETTA. Pesano... pesano...

FULVIA. Sono della zia... (si corregge subito) della signorina Galiffi?

BETTA. E ha portato anche un baule!

FULVIA. Ah — é dunque venuta per restare?

BETTA. Almeno dalla roba che porta... — Su, in foresteria, é vero?

FULVIA. Si, si — per ora...

(Betta via, con le valige, per il secondo uscío a destra. Poco dopo, da quest'uscio entra, tutta imbarazzata e titubante come una vecchia pollastra scappata dalla stia, la zia Ernestina.)

ZIA ERNESTINA. Permesso?

FULVIA (recandosi a chiuder l'uscio da cui zia Ernestina é entrata; decisa a pigliarsela un po' a godere prima di svelarsi). Venga, venga — s'accomodi. Livia é giá andata? Doveva essere in ritardo...

ZIA ERNESTINA (su le spiné). Si... — col padre.

FULVIA. S'accomodi, s'accomodi.

ZIA ERNESTINA. Grazie. — In chiesa...

FULVIA. Come dice?

ZIA ERNESTINA. Dico che é andata in chiesa, col padre.

FULVIA. Si si, per le messe. Forse anche lei avrebbe desiderato andarci — perché saprà che oggi — (piano, pigiando, con uno sguardo d'intelligenza) — per la fíglia — é l'anniversario.

ZIA ERNESTINA. Ah — la signora sa, dunque?

FULVIA. Come vuole che non sappia, scusi!

ZIA ERNESTINA. Ma io non so nulla, invece! — Dev'esser morta da poco, é vero? la mia povera nipote.                                        |

FULVIA (la guarda, forzandosi a dissimulare lo stupore che la agghiaccia; poi dice); Eh, non da poco veramente...                             ^

ZIA ERNESTINA. Manco di qua da sei anni circa. Ero l'unica parente. Mi si poteva avvertire... — Ma com'é morta? com'é morta? la signora lo sa?

FULVIA (tentenna il capo, poi dicé): Si, lo so.

ZIA ERNESTINA. Male?

FULVIA. Eh, male,Si! (Pausa — poi): L'hanno uccisa.

ZIAERNESTINA (con un balzo). Uccisa? Come! Chi l'ha uccisa?

FULVIA. Zitta, per caritá! (Con aria misteriosá): Non se n'é saputo nulla.                                                                

ZIA ERNESTINA. Uccisa'... Ma come? dove? Neanche i giornali ne parlarono!                                                            

FULVIA. Ma... sa!... di certi delitti non si parla sui giornali. (Piano, guardandola di nuovo con aria misteriosa, comeper rassicurarla, in confidenza): Stia tranquilla!                                            \

ZIA ERNESTINA (intontita). lo? (Poi, piú che mai smarrita): E come l'ha saputo lei? Da suo marito?

FULVIA (fa cenno di si, con truce cipiglio, poi, di nuovo, piano, in confidenza). Mi ha confidato tutto.

ZIA ERNESTINA (trasecolata). Lui? Oh Dio! Che cosa?

FULVIA (c. s.). Non tema! non tema! Io so tacere... (E le posa, come a giurarlo, una mano sulle mani)

ZIA ERNESTINA (c. s.). Le giuro che io non so nulla, signora! Oh Dio! Ma che c'entri dunque lui? Badi che io sono la zia di lei!                   j

FULVIA. Ma che zia! Mi faccia il piacere. Non seguiti a far la parte con me! Le dico che so tutto, scusi!                                          j

ZIA ERNESTINA (c. s.). Io? La parte? Che parte?

FULVIA. Ma se lei é la complice!

ZIA ERNESTINA. lo? La complice?

FULVIA. Lei! Lei!

ZIA ERNESTINA. Che dice? Io? Complice di che?

FULVIA. Come, di che? Dell'uccisione!

ZIA ERNESTINA. lo?

FULVIA (non resistendo piú alla vista del trasecolato terrore della vecchia, scoppia a ridere come una matta). Ah! ah! ah! ah! (E subito facendolesi vicinissima, scostandosi i capelli dalle tempie e dalla fronte e tenendosi il volto come per presentarglielo}: Ma dici davvero, zia Ernestina? Ma guardami bene! Non mi riconosci?

ZIA ERNESTINA (come basita, tirandosi indietro col busto e parando le mani! Che?...Che?...

FULVIA. Sono io! Non mi riconosci davvero?

ZIA ERNESTINA. Fulvia? TU?

FULVIA. Zitta! Ora sono Francesca!

ZIA ERNESTINA. Ma come?

FULVIA. Eh! come... Te l'ho detto come!

ZIA ERNESTINA. Oh Dio... Mi pare d'impazzire!... Tu?... Qua di nuovo?

FULVIA (nega vivacemente col dito). Francesca, Francesca.

ZIA ERNESTINA. Come!... Fulvia...

FULVIA (c. s. e poi sillabando). Fran-ce-sca.

ZIA ERNESTINA. Impazzisco davvero.

FULVIA (subito, abbracciandola). Povera zia Ernestina, no! Ma è proprio vero, sai, proprio vero: la complice! Me l'ha detto lui!

ZIAERNESTINA. No... no... Ti giuro che io...

FULVIA. Scusa, e per chi allora é andata a pregare Livia in chiesa?

ZIA ERNESTINA (cominciando a smarrirsi di nuovo). Giá... Io...

FULVIA. Vedi? Ti sei anche tu vestita di nero! Piú complice di così

ZIA ERNESTINA. Ma perché ho creduto davvero che ora tu...

FULVIA. E sì: difatti: eccomi qua: la signora Francesca Gelli!

ZIAERNESTINA. Lasciati vedere... Sai, che non ci vedo quasi più!

FULVIA. Effetto della tintura, zia! (Accenna ai capelli tinti della vecchia.) Deleteria, deleteria per la vista... Guardatene! Anch'io, vedi? (Mostra i suoi). E me l'hanno detto. Si puó anche accecare.

ZIA ERNESTINA. Ma no, è l'età! Ecco, anche per codesti capelli non ti riconoscevo...

FULVIA. Scusa, scusa, e la voce?                             ^

ZIA ERNESTINA. Dopo tredici anni, che vuoi! E sono anche un po sorda Poi con la certezza che... (non sia mai, figliuola mia!) Ma dimmi, dimmi com'é stato? Vi siete riconciliati, eh? e avete dovuto fare per la figlia quest'altra finzione...

FULVIA. Si, almeno credevo...

ZIA ERNESTINA. Ah, s'é saputo? Ma Livia, no, Livia crede...

FULVIA. Lo credono tutti, per questo!

ZIA ERNESTINA. E allora?

FULVIA. Mah, il guaio é che ho fínito per crederlo anch'io, come la Betta.

ZIA ERNESTINA. Che? Oh Dio, non ricominciare!

FULVIA. No no. Mi sono abituata ormai. Devi crederlo anche tu, zia; ma proprio crederlo come... che so! come puoi credere a te stessa.

ZIA ERNESTINA. Ah, si sa! Dici per Livia? per la gente?

FULVIA. No, per te, per te. Dico proprio per te! Per te come zia di lei!

ZIA ERNESTINA. Di Livia?

FULVIA. No! Di quella che fu tua nipote! (Con stranezza); Bella nipote, te ne puoi vantare! (Pausa.) Lo facesti per danaro; ma t'assicuro io, che avresti potuto provarne onta per davvero!

ZIA ERNESTINA (sbalorditá). Come?

FULVIA. Pessima! Pessima! Una vitaccia! (Staccando, nel veder lafaccia della zia Ernestina): Vorresti forse difenderla dopo che...?

ZIAERNESTINA (c. s.). Ma scusa, non parli di te?

FULVIA. No, cara zia! Ti dico che io sono la signora Francesca Gelli, e non puoi sapere con quale e quanta voluttà rovescio tutte le infamie che so addosso a quella tua nipote Fulvia, che qua, lo vedi? innalzata alle glorie del paradiso, si va a pregare in chiesa — tutti — anche la serva! (Con scatto di gioa quasi frenetica); Sono madre di nuovo io, sai?

ZIA ERNESTINA. Madre?

FULVIA. Madre, madre — come prima! — quella di prima! quella che lei non conobbe! (Allude alla figlia.) Ah, zia Ernestina — credi, credi — é una vera rinascita per me! Capisci che mi risento madre come allora — in attesa — prima ch'ella mi nascesse? Cosi, cosi! E mi sento io, qua, io sola — per quello che sono ora, viva come prima — la vera santa — io, per tutto il martirio che ho sofferto, prima e dopo, — questi quattro mesi qua, con lei... — ah, che cosa, se sapessi! — Dio Dio, che cosa!... che cosa!

ZIA ERNESTINA. Me l'immagino, me l'immagino... Ma te l'ha dato senza saperlo, quella poverina...

FULVIA. Senza saperlo, ma con che ferocia! Fredda, sai? oh, rispettosa! Il

vero livore! (All'improvviso, si turba profondamente; si alza, stringendosi forte una mano sugli occhi.) Oh Dio, basta che non mi fissi!

ZIA ERNESTINA (sorpresa da questo moto improvviso). Che cosa?

FULVIA. Niente. Una cosa che ho detto poco fa a suo padre. Bisogna che me la scacci dalla mente. (Forzandosi a rientrare nella coscienza abituale): Credi che ho fatto di tutto, zia, non per farmi amare... non per me, ma perché lei... non so, sentisse — ecco — sentisse che io... — non te lo so dire!— Anche i suoi dispetti, certe volte, mi son parsi carini... mi han fatto sorridere entro di me. Ma se n'é accorta. E a vederla cangiare in viso, allora! Un martirio. ti dico.

L'ho potuto sopportare, perché sono cosi di nuovo, credi, com'ero per lei, a diciott'ánni. (Staccando come per un idea che le sorge improvvisa): A proposito! Mi dovresti fare un favore, zia Ernestina. Son sicura che lei si presterá.                                           

ZIA ERNESTINA. Un favore? lo?

FULVIA. Si. Dovresti indurla, proprio per farmi un dispetto, dicendoglielo, a comparirmi davanti, uno di questi giorni, all'improvviso, con quel mio abito di velo a roselline, ch'ella conserva.

ZIA ERNESTINA. Ma no! Che ti viene in mente?

FULVIA. Si, si, zia! Mi farebbe tanto piacere, rivedermi in lei, per un momento, com'ero all'etá sua!

ZIA ERNESTINA. Ma che idea, no!

FULVIA. É vero che mi somiglia poco...

ZIA ERNESTINA. E come vuoi che lo faccia! Non lo farebbe mai!

FULVIA. Per non profanar quella veste davanti ai miei occhi? Forse hai ragione.

ZIA ERNESTINA. E poi, io — ma figurati! — Sai che mi troveró in un bell'impiccio, io, ora?

FULVIA. Oh! Non arrischiarti a lasciare trapelar nulla! Silvio é costernatissimo... Non m'ha raccomandato altro. Vuole che te ne vada via subito, anzi.

ZIA ERNESTINA. Ah, come? Cosi subito?

FULVIA. Povera zia Ernestina, venuta per angariare l'intrusa, d'accordo con la nipotina!

ZIAERNESTINA. Ma no! Che dici?

FULVIA. Non t'ha chiamato lei? di la veritá!

ZIA ERNESTINA. No, ti giuro! Ero venuta soltanto per sapere...             |

FULVIA. Scusa, e il baule? (Ride.)

ZIAERNESTINA (presa in trappolá). Giá... l'ho portato... Ma non potevo immaginare...

FULVIA. Non fa nulla; non fa nulla. E per me, anzi, ora... Ma bisognerebbe che tu sapessi fingere — ma proprio bene — senza mai tradirti...

ZIA ERNESTINA. Dio mio... sará difficile...

FULVIA. L'hai fatto per tanti anni!

ZIA ERNESTINA. Giá, ma non con te davanti!

FULVIA. Ecco: tu pensa sempre a ció che fu tua nipote!

ZIA ERNESTINA. No! Dio liberi!

FULVIA. Perché?

ZIA ERNESTINA. Non ci ho mai pensato, trattando con Livia!

FULVIA. Appunto. Pensaci ora!

ZIA ERNESTINA (con orrore). Trattando con te? Oh!

FULVIA. Non essere sciocca! lo non sono tua nipote! Ma vedrai che Livia mi tratta come quella. Glielo leggo negli occhi, sospetta di me, chi sa che orrori!

ZIA ERNESTINA. Ma no, un'innocente!

FULVIA. L'odio le fa da diavolo! Quello dell'albero, sai?

ZIA ERNESTINA. Che albero?

FULVIA. La storia sacra, zia Ernestina! L'albero della conoscenza... il serpente...

ZIA ERNESTINA (senza comprendere). Ah... giá... (Poi). E tuo marito? Tuo marito?

FULVIA. Che cosa?

ZIA ERNESTINA. Com'é ora con te?

FULVIA (si turba, la guarda, esita a rispondere: poi, accigliandosi). Mi stomaca.

ZIA ERNESTiNA. Ma sai che é divenuto...?

FULVIA Lo so, lo so, che cosa é divenuto! Me, peró, capisci? mi vuole come quella, ancora...! A quattr'occhi, capisci? vorrebbe che quella santa, rediviva e istruita, tutta la sua probità... (Fa un gesto ambiguo con le mani.)

ZIAERNESTINA (pudibonda, ma con viva curiositá). Non capisco...

FULVIA (con nauseá). Ma si, gliela sconquassasse; per poi la mattina dopo, raggiustarsela addosso, tutta ancora un po' rabbuffata, davanti alla figlia. É ancora quello di prima, sai? Ma allora, almeno, non aveva cinquant'anni e non faceva il probo per professione, e io non capivo, come capisco adesso! Scusami, scusami, zia Ernestina: non devi capire neanche tu!

ZIA ERNESTINA (scottata nel suo pudore, torna, come se nulla fosse, al primo discorso). Ecco: io ti dovrei guardare, dovrei averti davanti il meno possibile...

FULVIA. Dici, per non tradirti?

ZIA ERNESTINA. Già... Ma scusa, non si potrebbe, a poco a poco...

FULVIA. No! Impossibile! Non te lo sto dicendo? E poi, questi tredici anni ci sono stati davvero! E questo suo livore d'ora... Sarebbe terribile per lei... Guai! Ne sono cosi convinta che non ci penso neanche piú... e (subito staccando, imperiosamente e piano): Zitta!         

(Rientra dalla comune Betta.)                                          

BETTA. Signora, c'é il professore: il signor Cesarino.           

FULVIA. Oh Dio, Livia oggi non prende certo la lezione! Bisognava         

farglielo sapere, senza farlo venire fin qua...                              

BETTA. Già. Ma la signora sa che vengono anche per... (fa cenno con la mano: «per mangiare».)                                              '!

FULVIA. Ah, c'é anche la signora Barberina?                                 !

BETTA. Sissignora. Stanno tutt'e due a scuotersi di lá tutta la polvere d'addosso, sudatissimi;

FULVIA. Fateli entrare, poverini. (Betta via.)

FULVIA (piano, accostandosi). Attenta ora, mi raccomando, zia Ernestina!                                                             

(Entrano il signor Cesarino e la signora Barberina. Due tipi buffi quello, fino fino, calvo, ma pure con molti capelli tutt'intorno al cranio e sugli orecchi, candidissimi e rigonfi. E' paonazzo dal gran sole che ha preso, venendo a piedi. Perduto in un abbondantissimo abito nuovo di seta cruda evidentemente tagliato e cucito dalla saggia moglie, ha ripiegato da piedi non solo i calzoni, ma anche sui polsi, più d'una volta, le maniche, anche per il caldo, che gli fa tenere un gran fazzoletto, bagnato di sudore, in mano. La signora Barberina, atticciata e balorda, sempre in apprensione per la svolazzante vivacità del marito, veste un abito chiaro, d'una chiarezza che strilla sulla sordità pesante della sua bruna carnagione pacifica, e ha un vistoso cappellino di paglia a sghimbescio, che le sta propno un amore.)                                                          

SIGNORA BARBERINA (dalla comuné). Permesso?                    

FULVIA. Avanti, avanti, signora Barberina.

SIGNORA BARBERINA. Riverisco, signora.

SIGNOR CESARINO (inchinandosi, sbracciandosi). Signora gentilissima...

FULVIA (facendo le presentazioni). — Mi permettano. Il signor Cesarino Rota, maestro di musica di Livia, e la signora Barberina, sua moglie. — La signorina Galiffi — pro zia di Livia. (Inchini da una parte e dall'altra.) Si accomodino, prego.

SIGNOR CESARINO. Che caldo! che caldo! signora mia... Qua é una delizia! — La polvere!

SIGNORA BARBERINA (notando con orrore e facendo notare al marito, che é entrato in sala con le maniche e coi calzoni ancora rimboccati). Ma Cesarino!

SIGNOR CESARINO (non comprendendo). Che cosa?

SIGNORA BARBERINA. Dio mio, ma si entra così?

SIGNOR CESARINO (subito, riparando, a cominciar dai calzoni). Ah, giá... Mi perdonino! (Se non che, svolgendo la rimboccatura del primo calzone, un mucchietto di polvere cade sul tappeto.) Oh, guarda quanta terra...

SIGNORA BARBERINA. Ma va di là, santo Dio!

SIGNOR CESARINO (subito, alzandosi e dirigendosi verso la comune). Si, ecco... Mi permettano, mi permettano... (Esce per rientrare poco dopo.)

SIGNORA BARBERINA. Scusi tanto, signora!

FULVIA. Ma no, non é niente.

SIGNORA BARBERINA. É cosi distratto! Non se ne possono fare un'idea!

FULVIA. Eh, artista!

SIGNORA BARBERINA. Per lo stradone, poi, veramente...

FULVIA. Ecco, mi dispiace tanto, che...

SIGNOR CESARINO (rientrando). Ah, eccomi qua... (E subito ripigliando istintivamente a rimboccarsi le maniche): E la mia allieva? la mia allieva?

FULVIA. Dicevo appunto questo, signor Cesarino. Mi dispiace che Livia...

SIGNOR CESARINO. Non sta forse bene?

FULVIA. No. É andata in chiesa col padre...

SIGNOR CESARINO (preoccupatissimo, per la sua qualità d'organistá). E che cos'é oggi? Che funzioni? — Dio mio, Barberina!

FULVIA. Ma no, stia tranquillo! É una funzione privata. Oggi è... (rivolgendosi alla zia Ernestina): dica lei, signorina...

ZIA ERNESTINA (sbalordita, cadendo dalle nuvole). lo? Che cosa? Non saprei!

FULVIA. Dico l'anniversario...                            .

SIGNOR CESARINO (subito ricordandosene) Ah, della morte?, .

SIGNORA BARBERINA (c. s. compuntissima). Della sua mamma, giá!

FULVIA (indicando, con compunzione anche lei, la zia Ernestiná). Nipote appunto della signorina...

ZIA ERNESTINA (vivamente, come per ripigliarsi dallo sbalordimentó).

Giá... giá... si — oggi, — l'anniversario.

FULVIA. II tredicesimo — é vero?

ZIA ERNESTINA. Si si — il tredicesimo... il tredicesimo...

SIGNOR CESARINO. Oh guarda... guarda...

SIGNORA BARBERINA. Noi non sapevamo... Domandiamo scusa, allora. Non saremmo venuti...

FULVIA. Giá: non s'é pensato ad avvertirli.

SIGNORA BARBERINA. Quanto mi dispiace! (Accennando a levarsi): Ma allora...

FULVIA (subito). No no — possono trattenersi. (Alla zia Ernestina): Non credo, signorina, é vero, che Livia... — Oh, per sonare, certo oggi non sonerá...

SIGNOR CESARINO. Ma via! dopo tredici anni!

SIGNORA BARBERINA (strillando). Cesarino! — ma non senti che c'é qua...? (Indica la zia Ernestina, che non sa piú che viso fare.)

SIGNOR CESARINO. Ah, pardon, pardon!

SIGNORA BARBERINA. Veste ancora di nero, non vedi?

FULVIA. Si, perché la amava proprio come una figliuola.

SIGNOR CESARINO. Eh, si vede... si vede... É venuta ora a trovare qua la sua nipotina, eh?

ZIA ERNESTINA. Giá... si... son venuta...

SIGNOR CESARINO. Proprio per questa triste ricorrenza?

ZIA ERNESTINA (non sapendo che risponderé). Giá... si...

SIGNORA BARBERINA. Ah, ma dunque sará meglio che noi...

FULVIA. No, ecco — volevo dir questo. Non credo che Livia potrà aver dispiacere che rimangano a tavola, come al solito, il suo professore e la signora. Tanto piú che doveva pensar lei ad avvertirli di non venire. — Ma capiranno: c'é qua la zia... — Dica, dica lei, signorina!

ZIA ERNESTINA (c. s.). Che?... che debbo dire?

FULVIA. Nessuno meglio di lei é in grado d'interpretar l'animo della figliuola...

ZIA ERNESTINA (impappinandosi e riprendendosi a stento). Giá... ma... capirai... capirá... sono... sono ospite anch'io qua... di... di lei...

FULVIA; Ah, bene! E allora io, per conto mio, non permetteró che il professore e la signora se ne ritornino indietro, di mezzogiorno, con questo sole...

SIGNOR CESARINO. Già il tocco! già il tocco!

FULVIA. Ah si? E allora a momenti saranno qua...

SIGNOR CESARINO. Di volo... con l'automobile... che bellezza! — Le assicuro, signora mia, che noi due, a ritornare a piedi adesso, si morirebbe...

FULVIA (Alzandosi). No no. — Vadano, vadano a mettersi in comodità. — (Si alzano tutti.) Possono andar di là al solito. (Indica il primo uscio a destra.)          

SIGNORA BARBERINA: Grazie... mi leverò allora, con permesso, il cappello...         

SIGNOR CESARINO. E io vorrei, con licenza della signora... Ecco, oggi dovevo anche accomodare il pianoforte...

SIGNORA BARBERINA. Ma no, Cesarino! Non hai inteso che oggi non si suona?

SIGNOR CESARINO. Accordare non é sonare!

FULVIA. La fará poi, se mai, signor Cesarino: dopo tavola...

SIGNOR CESARINO. Ah, bene bene... E allora, ci permettano... Andiamo a rinfrescarci un po'!

SIGNORA BARBERINA. Con permesso... (S'inchina. Escono per il primo uscio a destra, marito e moglie.)

ZIA ERNESTINA (A precipizio, con aria da spiritata). Ah, no no no no no! Me ne vado, me ne vado! — Non ci resisto!

FULVIA (sorridendo). Eh, vedo anch'io, zia Ernestina...

ZIA ERNESTINA. Ma che! — Non ci resisto! Ora stesso me ne vado!

(si ode a questo punto la voce di Betta dalla comune.)

VOCE DI BETTA (che annunzia). Eccoli di ritorno!

ZIA ERNESTINA. Vado su! vado su! Vado a prepararmi! Via! via! via!

(Esce di furia per il secondo uscio a destra. Quasi contemporaneamente entra dalla comune Silvio Gelli.)

SILVIO (con ansia, alludendo alla partenza di zia Ernestina). Ebbene?

FULVIA (guarda verso la comune, poi domandá): Livia?

SILVIO. É entrata di là. Sarà su. — Che hai fatto?

FULVIA. Se ne va; se ne va via da sé...

SILVIO. Oggi stesso?

FULVIA. Oggi... non so, domani... — Ha riconosciuto lei stessa l'impossibilitá di rimanere.

SILVIO. Ah, bene! Ma non vorrei che oggi, a tavola...

FULVIA. C'é, per fortuna, il maestro con la signora.

SILVIO. Sono di là? (Indica il primo uscio a destra.)

FULVIA. Si, vai vai. Fa presto. A momenti saremo a tavola.

(Silvio, via per il primo uscio a destra. Poco dopo, dal secondo, entra Livia che si dirige risolutamente, con fosco cipiglio, verso Fulvia.)

LIVIA. Hai detto tu a zia Ernestina d'andarsene?

FULVIA (addolorata di vedersela davanti così, le risponde con grande dolcezza). No, cara. Non io...

LIVIA. E chi dunque la fa partire appena arrivata?

FULVIA. Non so, nessuno... — Lei stessa.

LIVIA. Lei stessa non puó essere!

FULVIA. Eppure torno a dirti che é lei...

LIVIA. Ma se — arrivando questa mattina — mi disse ch'era venuta per rimanere qua a lungo con me!

FULVIA. Lo so anch'io. M'hanno detto che ha portato con sé anche un baule...

LIVIA. Dunque, vedi...

FULVIA. Io t'assicuro, Livia, che per conto mio non avrei avuto nulla in contrario. Dissi anzi a tuo padre che avrei avuto piacere ch'ella rimanesse.

LIVIA. Ah, dunque é lui? (Fiera, dura, guardandola negli occhi): Perché?

FULVIA. Non per me, credi, Livia. — Lo so; tu devi sospettare cosi.

LIVIA. Sospettare... É cosi chiaro, mi sembra!

FULVIA. No, scusa. Perché allora ti dico che potresti ricordare che già un'altra volta — senza che ci fossi io — egli non la volle piú in casa e la mandò via. Me l'ha detto lui — se é vero...

LIVIA. Allora, si! É vero. — Ma il caso, ora, sarebbe diverso.

FULVIA (sempre con accorata e più intensa dolcezza). Perché ora ci sono io — tu dici. E l'ho detto anch'io, difatti, a tuo padre. Gli ho fatto notare appunto, che tu ne avresti incolpato me.                      

LIVIA. Non ostante questo, peró, — per incarico di lui — tu l'hai licenziata.

FULVIA. Ma non l'ho licenziata io! Né altri! — Che vuoi che ti dica? Se ha deciso d'andarsene, cosi da un momento all'altro, sará perché... non so, dopo aver parlato con me qua, avrá concepito forse... avversione, antipatia. — É il mio destino, qua, per quanto io faccia di tutto... — E tu se potessi essere un po' giusta verso di me, dovresti riconoscerlo. Credi, sono stata con lei affabilissima. Ma mi hanno detto che é stata sempre un po' bisbetica e fastidiosa...

LIVIA. Io le voglio bene!

FULVIA. Me l'immagino. E credi che l'ho trattata affabilmente anche per questo. lo non so... abbiamo finanche riso insieme. Non so proprio di che cosa si sia potuta avere a male... (Tentando di volgere in riso, affettuosamente, il discorso, appigliandosi a ció che ha di comico la figura della zia Ernestina): Ma forse... — sai perché? (Si china un po' verso lei sorridendo, per mostrarle il capo, e sollevando con una mano una ciocca de' suoi capelli, aggiunge): Questi capelli...

LIVIA. Che vuoi dire?

FULVIA. É tinta anche lei, lo sai. Me li ha guardati con un viso cosi arcigno... Teme forse che la sua tintura debba sfigurare troppo accanto alla mia. Tu non puoi comprendere ancora certe debolezze...            

LIVIA (dura, recisa). Ah, certo! Meglio che non le comprenda!

FULVIA (avvertendo che lo sdegno di lei si riferisce solo aisuoi capelli tinti e non a quelli della vecchia). Eppure... eppure io seguito a tingermeli per te, sai?

LIVIA (con nauseá). Per me?

FULVIA. Per te, si. — E per consiglio di tuo padre.

LIVIA. Non capisco.

FULVIA. Non capisci, lo so. Ma immagina che io abbia naturalmente, sotto questa tintura, i capelli dello stesso colore dei tuoi — ma proprio tali e quali!

LIVIA. Ebbene?

FULVIA. Potresti pensare che il colore a codesti tuoi ti sia potuto venire

da quelli di tua madre...

LIVIA (ponendosi ambo le mani sul capo, come a riparare i capelli di

sua madre, e dice, scostandosl): Si, lo so!

FULVIA. Te l'ha detto tuo padre? Ed ecco perché mi consiglia di seguitare a tingermi i miei. E io lo faccio: mentre non vorrei piú, ti giuro.

(Con un desiderio angoscioso, improvviso che la intenerisce, al ricordo di se stessa giovine come é ora lafiglia); — Ti guardo codesti ricciolini teneri sulla nuca... Mi verrebbe voglia di prenderli con due dita e allungarteli pian piano... senza farti male...

(Livia ha un moto istintivo di ribrezzo.)

FULVIA (lo nota, ma quasi per pieta di se stessa dice con un sorriso indefinibile): Tu provi il solletico solo a sentirtelo dire.

LIVIA (c. s. con uno scatto irrefrenabile). No!

FULVIA. É ribrezzo delle mie dita? — Hai ragione. Anch'io penso che cosi forse, quand'eri piccina, te li carezzava tua madre...

(Livia si nasconde la faccia e scoppia in pianto. Sopravviene dal primo uscio a destra Silvio che, evidentemente, stava alle vedette.)

SILVIO. Livia, che cos'é?

FULVIA (subito). Niente! niente! Piange per la partenza della zia. Bisogna assolutamente che tu la faccia restare.

SILVIO. Ma si, si vedrá...

FULVIA. No, deve, deve restare, deve restare!

SILVIO. Va bene; resterá. Ma Livia sa bene (le si accosta per abbracciarla) che non merita questo suo pianto...

LIVIA (aggrappandosi al padre, in una convulsione d'odio e di ribrezzo). Non piango per questo! non piango per questo!

SILVIO (con Livia sul petto, guardando severamente Fulvia). E allora?

FULVIA (apre desolatamente le braccia, guardando come da lontano).

lo non so...

(Entra, dopo una breve pausa, Betta dal primo uscio a destra, fermandosi sulla soglia.)

BETTA. É pronto, signora! (E si ritira.)

SILVIO. Su, su, Livia! Basta. Andiamo... C'é gente di là... Non é bene che sentano...

LIVIA (riprendendosi). Si... si...

SILVIO. Asciughiamo codeste lagrime... (S'avvia, con Livia abbracciata; poi, sollevando il capo verso Fulvia); Andiamo...

FULVIA (riaprendo le braccia e sospirando). Andiamo.

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ATTO TERZO

La stessa scena del secondo atto. Sei mesi dopo: di febbraio, verso sera. 

Sono in iscena Livia e la zia Ernestina. Non sono piu vestite di nero ne l'una né l'altra. Livia è irrequieta, smaniosa. Sta seduta presso un tavolinetto, su cui stanno libri, riviste. Ne prende in mano qualcuno; lo sfoglia; lo butta. La zia Ernestina è in piedi e va di qua, di là, per riscaldarsi. La luce del giorno manca a poco a poco.

ZIA ERNESTINA. Pareva dovessero arrivare col buon tempo; ho paura invece che stia per guastarsi di nuovo. — (Pausa.) Brrr... fa un freddo qua... — (Pausa.) Non ne senti tu?

LIVIA (buttando via una rivista, risponde sgarbatamente): No.

ZIA ERNESTINA. Eh, beata te! (Pausa. — Si stropiccia le mani.) Febbraio, febbraio... — Viaggiare con questo gelo, con una bambina appena nata... — (Pausa.) Ma dì, si puó sapere dov'è andata Betta?

LIVIA. Non loso.

ZIAERNESTINA. Sono piú di quattr'ore che è fuori. — Mi pare che si dovrebbe pure preparare qualche cosa per l'arrivo. Non c'è preparato niente!

LIVIA (alzandosi indignata). É preparato tutto! (Poi. dopo una pausá): Potresti capire che m'indigna la tua premura!

ZIA ERNESTINA (con un sorriso di smorfiosa mansuetudine). No, sai com'é? Penso che gioia fu, quando tu nascesti...

LIVIA. E che c'entro. io?   ...

ZIA ERNESTINA. Dopo tutto, é una tua sorellina...

LIVIA (con scatto irresistibile). Stupida!                    •

(Lunghissima pausa. Livia, tuttavibrante, scaraventa sul tavolino un libro, che aveva preso in mano, dopo la rivista.. Si volge più d'una volta verso la zia, come per dirle qualche cosa, ma è troppo colma d'odio e di dispetto, e si trattiene.)

ZIA ERNESTINA (sospirando). Eh! — saranno guai!

LIVIA. É incredibile! Ma come puoi tu, tu, ricordar la mia nascita, la gioia che ne ebbe mia madre? — É incredibile! incredibile!

ZIA ERNESTINA. É un'altra vita che comincia... E ce n'è tanto bisogno qua!

LIVIA. Io aspetto ancora di sapere una cosa; e poi te la lascio qua — a te che hai fatto lega — questa vita che comincia!

ZIA ERNESTINA. Aspetti? Che aspetti?

LIVIA. Lo so io!

ZIA ERNESTINA. Che gusto anche tu, adesso, a far la misteriosa! — Che intendi dire che me la lasci qua? — Te ne vorresti andare?

LIVIA (infastidita). Oh, basta, zia Ernestina. — Non voglio parlare con te.

ZIA ERNESTINA (dopo una pausa). Hai tuo padre, del resto, qua, che ti vuol tanto bene, e che ha tanti riguardi...

LIVIA (con violenza rabbiosa). Basta, ti dico! — Non capisci che non posso sentirti dire cosi?

ZIA ERNESTINA. Non parlo piú. (Dopo una lunga pausa però, non sapendo resistere, ripiglia): Ma certe idee, pure, dovresti levartele dal capo... (Altra pausa.) Perché son prevenzioni, credi, prevenzioni...

LIVIA (sbuffando). Oh Dio, ancora!

ZIA ERNESTINA (rinzelandosi). Dici che ho fatto lega! — Ero venuta qua per te!

LIVIA. Per difendermi, già!

ZIA ERNESTINA. Per difenderti! per difenderti!                          

LIVIA. E ora difendi lei!

ZIA ERNESTINA. Ma non la difendo! — Sono giusta. — Vedo che sei tu! Non vuoi disarmare!

LIVIA (con scatto subitaneo, aggressiva). Ma lo sai tu veramente che donna ha portato in casa mio padre?

ZIAERNESTINA (sbalorditá). Che... che donna?

LIVIA. Aspetta! aspetta! — Spero di potertelo dire tra poco!

ZIA ERNESTINA (dopo una pausa di sbalordimento: in tono di rimprovero contenuto). Ma che pensi! che cerchi! — Statti quieta, figliuola mia; e credi che quella è una donna che ha molto sofferto...       

LIVIA. Sofferto. Si vede dai capelli.                                   

ZIA ERNESTINA. Credi... credi... — (Con un gesto comico, pensando ai suoi capelli ritinti): Che c'entrano i capelli!

LIVIA. Intanto sappiamo come l'ha portata!

ZIA ERNESTINA. Dio mio, l'aveva conosciuta...

LIVIA (a precipizio). Da prima ch'io nascessi; l'aveva dimenticata; poi s'ammalò; fu chiamato; corse a salvarla... — (S'interrompe a un tratto.) Aspetta, ti dico, che saprò dartene notizie piú precise!

ZIA ERNESTINA. Hai chiesto forse informazioni?

LIVIA. Tu non t'impicciare!

ZIA ERNESTINA. C'è di mezzo il signor parroco?

LIVIA. Si vedranno, allora, i riguardi che ha avuto per me mio padre. — Già sta sempre come in agguato, con la paura che lo fa guardare continuamente davanti e dietro. — E io lo so, lo so di che teme!

ZIA ERNESTINA. Tu non sai niente! Sta in apprensione per te!

LIVIA. Ch'io venga a sapere, si! — In due mesi ch'è fuori, é tornato otto volte...

ZIA ERNESTINA. Per rivederti, e stare un giorno con te!

LIVIA. No, no! Per altro! — E non fa piú nulla! — É una pietà, un avvilimento... per non dire un'altra cosa: a cinquant'anni, vederlo così, perduto dietro una donna come quella. — Perché non la sposò prima, se è vero che la conosceva da tanto tempo?

ZIA ERNESTINA. Perché forse prima non poteva. Oh bella!

LIVIA. Non era mica maritata, lei. Lui era vedovo... Perché non poteva?

ZIA ERNESTINA. E che ne sai tu che — potendolo — non lo faceva, per

esempio, per te?

LIVIA. Per me? — Per me, no! Per me sarebbe stato meglio che l'avesse fatto prima, quand'ancora non capivo.                          

ZIA ERNESTINA. E sarà stato allora per altro! Non cercare!

LIVIA. Dici per mia madre? No! Perché ciò che anzi mi sdegna sopratutto è che questo suo amore si vede cosi chiaro che lo riporta alla sua gioventù, proprio ai tempi di mia madre — come un'irriverenza tanto più cruda alla memoria di lei. Mi pare quasi che la tradisca ora: mi fa questa impressione; come se mia madre, dopo tanti anni, ritornasse, per questo loro amore postumo, viva e giovane, per soffrirne! — Per questo, per questo la odio tanto più, questa donna, quanto più la vedo, che mi vorrebbe esser materna. Mi fa schifo, orrore, come se, parlandomi, guardandomi, facesse ogni volta un tradimento a mia madre.

ZIAERNESTINA. Ma che dici? che vai farneticando? O vedete un po' che pensieri di una testa di bambina, Signore Iddio! — É peccato, pensare certe cose!

LIVIA. Si, si — e quando vedrai quello che farò...

ZIA ERNESTINA. Ah senti: meno male che tuo padre ritorna stasera!

LIVIA. Portandomi la sorellina!

ZIA ERNESTINA. Me ne volevo andare. Mi pento di non averlo fatto! — Ma ora, subito, appena ritornano... — Che! che!... lo sono pacifica!

LIVIA. Come! Avrai la vita che comincia...

ZIA ERNESTINA. Ma io lo dicevo per te! — Che vuoi che cominci per me! Sono vecchia. — Fastidii!

LIVIA. Eh si! — Comincerà anche per me, la vita...

ZIAERNESTINA (scrollandosi). Oh infine! Te la vedi tu! — (Altra lunga pausa. Si reca a guardare dalla veranda nel giardino.) Ma guarda! Il cancello del giardino, di nuovo aperto!

LIVIA. L'avrà lasciato cosi il giardiniere. Sará qui vicino.

ZIA ERNESTINA. Già, ma è sera, a momenti... E con questo tempo! Non c'è neanche Betta in casa... lo ho paura.

LIVIA. Dici per quel signore dell'altra volta?

ZIA ERNESTINA. Proprio li era — davanti al cancello — ti ricordi?

LIVIA. Che spiava — si. Ma com'é che tu non lo conoscevi?

ZIA ERNESTINA. lo? — Ma che! — Come?

LIVIA. Se ti disse che aveva conosciuto la mamma!

ZIA ERNESTINA. Ma che! Deve aver sbagliato... (Dirà questo, strofinandosi le braccia con le mani incrociate sul petto, per il freddo. A un tratto, sobbalzando a un tonfo cupo improvviso, che viene dall'interno): Oh Dio!

LIVIA. Che é stato?

ZIA ERNESTINA. Non hai inteso di lá? (Betta entra dalla comune, tutta infagottata)

LIVIA (ridendo). Ah, é Betta!

BETTA (non comprendendo il perché dello spavento e della risata). Che succede?

ZIA ERNESTINA. La porta... Che spavento! — (A Betta): Freddo, eh?

BETTA. E a momenti pioverà...

ZIA ERNESTINA. lo sto morendo. Corro a prendermi su uno scialletto. (Viaper il secondo uscio a destra. Subito Betta s'accosta a Livia con aria misteriosa)

BETTA (piano, gestendo vivamente con le mani). Chiaro come la luce del sole, sa! Non c'è più dubbio!

LIVIA (con viva ansia). Dite, dite!

BETTA. Non poteva qua, non poteva senza scandalo!

LIVIA. É arrivata la risposta?

BETTA. Eh altro! — Da due giorni... Voleva venir lui stesso a comunicargliela. Ma, povero vecchio... Mi aspettava.

LIVIA. Ebbene? — Niente?                                    .

BETTA. Niente! — Nessun bando in chiesa, né a Merate, né a Lodi. Nessuna richiesta al municipio di stato libero!

LIVIA. E dunque?

BETTA. Chiaro come la luce del sole, che matrimonio non c'é stato. — Non è Moglie! Non sono sposati!

LIVIA. Ma è sicuro che l'atto di morte non poteva bastare?

BETTA Sicurissimo! Anche per i vedovi, signorina, c'è bisogno dei bandi - Scusi. in tanti anni, non avrebbe potuto riammogliarsi anche più di una volta? Niente! Non sono sposati! Ne può esser sicura.

LIVIA Ma si! Dev'esser cosi!                      

BETTA. E cos' si spiega tutto, allora - perché sia andata a mettere al mondo cosi lontano la figliuola! Qua - dovendo denunziare la nascita - lei capisce, si sarebbe scoperta la magagna: che non e moglie; che quella è una bastardella qualunque... Ma lo sapremo subito, fra un paio di giorni!

LIVIA. Non mi servirà più. Mi basta questo!

BETTA Ma che eran modi da signora, quelli.

LIVIA. (fissa in un pensiero odioso contro il padre). Ha potuto far questo.                                                

BETTA. Eh, le arti di queste donne! Si può esser sant'uomimi: se ci si casca...

LIVIA Ma il pudore, almeno, di non mettermela accanto, sotto lo stesso tetto! Farmela chiamar mamma!              

BETTA Già! Io non so...                  

LIVIA. Ah - ma ora! (Piano): Zitta! (Rientra dal secondo uscio a destra la zia Ernestina con uno scialletto di lana sulle spale)

ZIA ERNESTINA. Oh, dico, bisognerà far lume qua. S'è fatto buio.

LIVIA (a Betta, difuria). Andiamo su, andiamo su, Betta! (Livia e Betta escono per il secondo uscio a destra.)                                  ,

ZIA ERNESTINA (sola, dopo averle seguite con gli occhi). Ma che hanno? Di dove ritorna quella pettegola? - (Sta a pensare col fiato trattenuto: poi, lasciandolo andare): Ah, che stona! - Basta accendiamo (Si reca presso la comune fa girar la chiavetta della luce elettrica: Nel frattempo Marco Mauri entra. E' molto invecchiato in un anno, ma con gli occhi più che mai vivi, di quella tragica ilarità dei pazzi. E' senza soprabito, e ancora con un vecchio abito estivo. Si tiene in fondo, in ombra)

MAURI l(appena zia Ernestina fa lume nella scena) - Permesso?

ZIA ERNESTiNA (con terrore, voltandosi, ancora con la mano sulla chiavetta della luce). Oh Dio. Chi è?                                         

MAURI. Io non si spaventi.

ZIA ERNESTINA. Entrate così come un ladro. Da dove siete entrato?

MAURI. Dal cancello, prima che lei lo chiudesse.

ZIA ERNESTINA. Vi tenevate dunque in agguato?

MAURI. I ladri, signora, non chiedono permesso, e non aspettano che si faccia lume per entrare.

ZIA ERNESTINA. Ma chi siete? Che volete, di nuovo qua?

MAURI. Le chiesi l'altra volta, se si ricorda...

ZIA ERNESTINA. Non sono ritornati!                                        

MAURI. Lei mi disse oggi.                                                   

ZIA ERNESTINA. Ma non sono ritornati! E non si sa, se e quando ritorneranno. Potete dunque andare!

MAURI. Non s'inquieti. Vuol dire che aspetterò ancora. Tranne che lei non voglia indicarmi dove potrei andare a trovarla subito... — E credo che sarebbe meglio, perché qua...

ZIA ERNESTINA. Sono in viaggio! sono in viaggio! (.Squadrandolo. incuriosita, ma sempre arcigna e sospettosa): Ma che avete da dirle? perché volete aspettarla? — II vostro nome?

MAURI. Inutile che lo lasci a lei, il mio nome. Bisogna ch'io la veda e le parli. (Alludendo a Fulvia): — Mi conosce; e anche il marito. Lei forse é una parente?

ZIA ERNESTINA. Sì, sono la zia, Ernestina.

MAURI (la guarda con occhi ilari. teneri, e dice piano, con gioia); La zia Ernestina? Lei è dunque la zia Ernestina? — Fulvia credeva che lei fosse morta!

ZIA ERNESTINA. Piano — zitto — per caritá!

MAURI (più piano, misteriosamente). Perché è morta lei, invece, qua?

(Ma lo dice con gioia, e si mette un dito sulla bocca, stringendo coi denti il labbro inferiore. Poi aggiunge, con un gesto allegro delle mani. come se fosse una fortuna): Ancora morta, eh? ancora morta per la figlia? (Trae un gran sospiro.) Ah, come sono contento! Come mi sento leggero! come mi sento leggero! — Temevo questo soltanto! Che qua si fosse chiarito... (Subito con  foga, abbracciandola): E allora m'aiuti, m'aiuti, zia Ernestina, lei che conosce lo

strazio...

ZIA ERNESTINA (atterrita, divincolandosi). Ma siete matto? Ma che strazio! Di che?

MAURI. Di Fulvia! di Fulvia!

ZIA ERNESTINA. Ma dove? — Lasciatemi! — (Svincolandosi): Grido!

MAURI. Se è ancora morta per la figlia!

ZIA ERNESTINA. Ma ne ha un'altra, ora, di figlia — tutta per sé — da

un mese!

MAURI (con un gesto e con voce d'allegra noncuranzd). Non importa!

Non importa!

ZIA ERNESTINA. Come non importa?

MAURI. Lo sapevo. — Non importa! — Anche con questa figlia, allo-

ra, se ne voleva venire con me! — Niente... Fu un momento! Ebbe

la debolezza di cedergli. — Quello che ho passato, zia Ernestina!...

ZIA ERNESTINA. Siete ubriaco? Che intenzioni avete?

MAURI. Sono venuto... sono venuto perché non ne posso più!                 

ZIA ERNESTINA. Ma se pure vi ha conosciuto vi assicuro che lei non si ricorda piú di voi, e potete esser certo che ora non pensa ad altro che a sua figlia!                    MAURI. Se fosse vero, sarebbe una disgrazia, questa. Una disgrazia, zia Ernestina, perché ci sono anch'io! C'é, oltre la nostra, cara zia Ernestina, c'é — anche quando vorremmo che non ci fosse — c'é pure la vita degli altri! — Eh, come si fa!... Non possiamo chiuderci nella nostra, come se gli altri non ci fossero! — Se la mia vita é in quella di lei, senza di lei io non posso vivere...

ZIA ERNESTINA. Ma nessuno ha l'obbligo...

MAURI. D'amare un altro per forza? Lo so! — É questa la disgrazia! Ma allora la vita, cara zia Ernestina, s'uccide dov'é! dove uno l'ha!

ZIA ERNESTINA (con terrore). Oh Dio! Che vorreste fare?

MAURI. Non lo so. — Sono qua. — Mi forzo da un anno a tentare di

vivere senza di lei. Ho visto che non posso!

(Sopravviene a questo punto, da fuori, un colpo di clakson d'automobile che annuncia l'arrivo. Zia Ernestina entra in agitazione.)

ZIA ERNESTINA. Vorreste fare uno scandalo al suo arrivo, davanti alla

figliuola?

MAURI. No. lo parleró. E diró tutto!

ZIA ERNESTINA. Per caritá! Voi siete pazzo! Andate! andate!

MAURI. Non me ne vado.

ZIA ERNESTINA. Vi prometto che gliene parleró io! — Aspettate almeno fino a domani!

MAURI. No, questa sera.

ZIA ERNESTINA. Si, va bene — questa sera — ma piú tardi, quando sará sola!

MAURI. Me lo promette?

ZIA ERNESTINA. Si, si — non dubitate! — Il vostro nome?

MAURI. Marco Mauri.

ZIA ERNESTINA. Ecco... ecco, arrivano! — Andate... andate di qua!

(Lo fa uscire per la veranda nel giardino. Esce anche lei incontro ai nuovi arrivati. Voci fuori scena)

FULVIA (Da fuori). Oh zia... cara signorina Ernestina! Come va? Eccola qua!

ZIA ERNESTINA. Che amore! Come dorme! Ma come somiglia: oh guarda, guarda, come somiglia a Livia! — Non é vero? 

FULVIA (alla bambinaia che si alza e le passa vicino). Per favore porti la bambina di sopra Betta le indicherà la camera. Piano eh? Mi raccomando! Non me la fate svegliare.                                    

BETTA. Non dubiti, non dubiti...

SILVIO. (Entrando, seguito da Zia Ernestina e da Fulvia) E Livia dov'é?

ZIA ERNESTINA. É su. L'ho fatta avvertire.

SILVIO. E come mai non è ancora scesa?                                       

FULVIA (a Silvio, togliendosi il soprabito). Lasciala, Dio mio!  Se non vuol scendere...           

SILVIO. Ma nient'affatto!                                                 

FULVIA. Puó darsi che non si senta bene. La vedremo domani.                             

SILVIO. Vado su io!                                                       

FULVIA. Vacci per te; ma non la forzare a discendere, se non vuole.

SILVIO. Va bene... va bene... (Via er il secondo uscio a destra.)

FULVIA (subito abbracciando la zia Ernestína). — Ah, zia Ernestina —

hai visto? (Allude alla bambina.) Sono felice!

ZIAERNESTINA (cercando di sottrarsi all'abbraccio). No... senti... senti...

FULVIA. Che c'é?

ZIA ERNESTINA. C'é un guaio! c'é un guaio!

FULVIA. Livia? — E lasciala stare!

ZIA ERNESTINA No! Uno che è venuto a cercarti.

FULVIA. Me? Chi?

ZIA ERNESTINA. Mi ha detto il nome... — É di là, in giardino.

FULVIA. In giardino? E chi è? A quest'ora?

ZIA ERNESTINA. Vuole parlarti!

FULVIA. Li, nascosto?

ZIA ERNESTINA. É un forestiere. Non se ne voleva andare. Gli ho promesso

che te l'avrei detto.

FULVIA. Ma come! Ora?

ZIA ERNESTINA Piú tardi.. Era venuto anche due giorni fa.

FULVIA (quasi tra sé). Che sia ancora quel pazzo?

ZIA ERNESTINA. Un pazzo, si! Pare un pazzo... Mi disse che tu, per lui...

FULVIA. Mauri? t'ha detto Mauri?

ZIA ERNESTINA. Sì, Mauri... S'é messo a predicare... non ci ho capito niente... Dice peró così, che bisogna finirla.

FULVIA. Ancora?

ZIA ERNESTINA. Gliel'ho detto! — Mi ha minacciato! Gli ho detto...

FULVIA. Lascia! lascia! Temo ora qua per Livia; che senta... Ma non voglio agitarmi, non voglio agitarmi... (Con gioia): L'allatto io, sai?

(Sopravviene dal secondo uscio a destra Silvio.)

FULVLA. Oh, Silvio...

SILVIO. Mi ha detto che ora discende.

FULVIA. Livia? Ma no! Era meglio che rimanesse su!

SILVIO. Nient'affatto! — Lo deve anche per rispetto a me.

FULVIA. E l'hai costretta?

SILVIO. Non posso tollerare che seguiti cosl! Non mi ha voluto neanche aprire! Ma ha promesso infine che ora scende.

FULVIA (a zia Ernestiná). Cerchi, cerchi lei d'impedirlo, zia Ernestina!

SILVIO. Perché?

FULVIA. Perché c'è di là, in giardino —... quel Mauri, sai?

SILVIO (restando). Qua — e come?

FULVIA. Pare che sia qua da due giorni.

SILVIO. E che vuole?

FULVIA. Ma, al solito! La sua pazzia!

SILVIO. Ancora? — Ma come ha scoperto?

FULVIA. Che vuoi ch'io sappia! — Va', va'— cerca di farlo andar via,

prima che Livia discenda.

(Silvio s'avvia verso la veranda.)

FULVIA Fa per avviarsi verso il primo uscio a destra, quando, dal secondo, appare Livia, pronta per partire.)

FULVIA (fermandosi). Ma che cos'è? Che pazzie son.queste, Livia?

LIVIA. Dov'é mio padre?

FULVIA. Vuoi andare via? Dove vuoi andare?

LIVIA. Lo so io.

FULVIA. Ma dici sul serio? A quest'ora? — E perché poi? — Senza nessuna ragione?...

LIVIA. La so io, la ragione. — E dovreste saperla anche voi!

FULVIA (colpita da quel «voi», la guarda). Ah, mi dai del voi, ora? Per la buona accoglienza, é vero? Ma insomma, che é accaduto qui? Qual è la ragione, ch'io dovrei sapere?

LIVIA. lo voglio parlare con mio padre! — Dov'é?

FULVIA. Ma ti fíguri che tuo padre possa lasciati andar via?

LIVIA. Non ha piú nessun diritto, mio padre, di tenermi qua, accanto a voi!

FULVIA. Vuoi dire accanto a me.

LIVIA. No. Dico accanto a voi!

FULVIA (torna a guardarla; si frena). E va bene! Di come vuoi. — Ma perché credi che tuo padre...?        

LIVIA. Questo lo vedró con lui!                                      

FULVIA. Oh, insomma! si — veditela con lui! — Sono stanca. Tu non hai neppur veduto come e con chi sono ritornata... (Fa' per avviarsi)

LIVIA. Andate, si. — Tanto meglio! Ci sará quella, ora, qua, per tutti quanti.

FULVIA (con un baleno di speranza, che la decisione di Livia sia per gelosia della sorella). Ah, per questo? — No, Livia! Tu non puoi sapere, figliuola mia, com'io, venendo, abbia desiderato di metterti accanto, nel mio cuore, a quella bambina che è di là... (E fa per abbracciarla.)                                                     

LIVIA (con subitaneo, fierissimo moto di repulsione). Ah no — lasciatemi — grazie! Accanto a quella, io non ci sto!      

FULVIA (con uno sforzo sovrumano per dominarsi, ferendo se stessa pur di salvare da quella repulsione la bambina). Tu dici per me, é vero, Livia? — Non dici per la bambina!

LIVIA. Ma se lo dico per voi — é anche per lei!

FULVIA. No — ah — no! Perché — comunque tu pensi di me — voglia o non voglia — quella è tua sorella!       

LIVIA. Quando lo sarà! Per ora, no. — Non é vero!

FULVIA. Come non é vero?                                       

LIVIA. Non é vero, perché voi non siete la moglie di mio padre! 

FULVIA. No? E che sono?                                         

LIVIA. Lo sapete meglio di me, che cosa siete!          

FULVIA (di nuovo, con quel baleno di speranza). Mi sdegni per questo?

— Ah, ma se é per questo — no, Livia! — Non so come tu abbia potuto pensare...                                                 

LIVIA. Dove sono gli atti del vostro matrimonio? (sguardo interrogativo di Fulvia) Non ci sono! non ci sono!

FULVIA (con scatto di fierezza). Hai fatto ricerche? Ebbene hai cercato male! — Ci sono! Eccome se ci sono!

LIVIA. Non basta dire che ci sono! — dite anche dove!

FULVIA. Per caritá, Livia, non farmi dire... — Per caritá di te stessa, più che di me — non cimentarmi; te ne scongiuro. Sono veramente stanca.

LIVIA. No. Non c'è bisogno che diciate. A me basta questo.

FULVIA. Che ti basta?

LIVIA. Ma questo riconoscimento.

FULVIA. Quale?

LIVIA. Ma che nascondete cose che — per carità di me — non potete dire.                          FULVIA. Ma no! Io non nascondo nulla!                            

LIVIA. M'avete scongiurata di non farvi dire... Che cosa? Cose che riguardano me?                                              

FULVIA. No — no — non dico questo...

LIVIA. E allora? — Cose che riguardano voi?

FULVIA. Me — si... .

LIVIA. Ma io me le immagino!

FULVIA. Tu non t'immagini niente! Non son cose che tu possa immaginarti! — Ed é meglio cosi — ti dico io stessa che è meglio cosi! — Lasciami star tranquilla.

LIVIA. Ma starete tranquilla, ora! Me ne vado!

FULVIA. Tu non puoi andartene! Non devi! Ho patito il martirio, io, un anno, qua, perchè tu restassí accanto a tuo padre almeno, poiché accanto a me non vuoi... E non ho fatto nulla io, per costringerti, se non dimostrarti tutto l'affetto di una vera madre, finchè non me ne sono astenuta, vedendo che tu non  volevi rispondere a quest'affetto, e che anzi ne provavi sdegno, anziché piacere. — Ebbene, non voglio nulla. Seguita pure a sdegnarmi. — Ma sono la moglie legittima di tuo padre. E non te lo dico per me. Te lo dico per la bambina di là — che tu perciò devi amare; anche se non ami me: perché è tua sorella! Una figlia, tal quale come te, senza nessuna differenza! — E questo anzi è bene tu lo intenda subito: — Senza differenza! — Non potrei ammettere, che tu ne pensassi per lei una sola!

LIVIA. Tranne quella della madre, mi concederete.

FULVIA (perdendo a questo punto, alla sferzante ironia, ogni dominio di sé). No, nemmeno questa!

LIVIA (fredda, più che mai ironica). Come, nemmeno questa? Non siamo mica figlie della stessa madre!

FULVIA. Ma che credi che sia io? Che pensi tu di me?

LIVIA. Le stesse cose, che proprio voi stimate da nascondere.

FULVIA. E vorresti farle pesare su mia figlia? — Ah, no, sai!

LIVIA. Mia madre...

FULVIA. Ma che tua madre! — Finiscila! — Tu non l'hai conosciuta!

LIVIA. Se non l'ho conosciuta — so chi era; e so chi siete voi!

FULVIA. Chi sono io? (La afferra; la scrolla, al colmo del furore.) Che puoi saperne tu? — Ah, si? — Ne sei certa? — E non te lo leverai dalla testa? E crederai che mia figlia abbia per madre una donnaccia? Si? si? E io ti dico allora che anche tu sei figlia d'una tal donna!

LIVIA (atterrita, inorriditá). No, no!

FULVIA. Si! si! Tale e quale! Figlie della stessa madre! — E sono io tua madre! — sono io! sono io! Capisci ora? T'hanno fatto credere ch'io fossi morta? Non é vero! Eccomi qua! Sono tua madre! E quello che sono per lei, sono per te! — Senza differenza! senza differenza! — Ah, ora mi sono liberata! Ora sono viva! (Dirà questo, abbandonando come morta Livia nelle braccia del padre. che alle grida è accorso in subbuglio insieme con Marco Mauri dalla veranda)

SILVIO (raccogliendosi tra le braccia Livia e stringendola a sé). Ma tu l'hai uccisa!

FULVIA. La tua impostura ho uccisa! Volevi che pesasse anche sulla bambina e schiacciasse anche lei? Ebbene: no! no!

SILVIO. Ma tu ora non puoi stare piú qui!

FULVIA. E me ne vado! Me ne vado, si! Ma non più come prima! Ah, non piú come prima, ora! (A Mauri): — La mia bambina! Vai! Di là — la mia bambina! (Indica il primo uscio a destra — e il Mauri accorre.) La mia bambina!

SILVIO (cercando di scuotere lafiglia, come morta). Livia! Livia!

FULVIA (che si sarà fatta presso il primo uscio a destra, in fremente attesa che il Mauri le rechi la bambina). Che Livia! Me la porto via con me Livia, questa volta! Diglielo, quando rinviene! — Lei, si — viva — e mia! — con me, viva! — Nella vita! — Alla ventura!

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