Comedia di Danae

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Comedia di Danae

Comedia di Danae

Di Baldassare Taccone

Atto I

Parla el Poeta.

POETA

La forza del crudel fanciullo alato

che porta l'arco, la faretra e 'l foco

qui se dimostra a te, popol ornato.

Mai più vedesti sì festevol gioco:

ma aciò che fia più degno el mio tractato

in nostra aìta el biondo Apollo invoco.

Or qui non sia nissun che scherza o ridi,

e non se senta alcun tumulto o stridi.

Regnava in Argos un re anticamente,

che Acrisio dimandato era per nome,

rico di roba e di valor potente:

ebbe una figlia, come el libro expone,

bella, legiadra e più che 'l sol lucente,

Danae chiamata da le aureate chiome,

al patre troppo cara, oltra misura,

per che in serbarla puose ogni sua cura.

E, non volendo che se maritasse,

in una grossa torre l'ebbe inchiusa.

Disse a Siro suo servo la guardasse

e fesse come agli altri pregion s'usa.

Di questa Giove par s'inamorasse:

mutossi in oro e, quel che vuole, iscusa;

di lui e de la fanciulla Perse nacque,

el quale al mondo poi cotanto piacque.

Poi vederete, doppo tal tristezza,

in una stella Danae in ciel salire;

et in tutto lassata sua vechiezza

visibilmente Acrisio ingiovenire;

Apollo poi verrà con gran dolcezza

a far che ognun piacer n'abia a sentire;

e che se trovi alfin ciascun alegro

che nel principio fu turbato et egro.

ACRISIO padre de DANAE dimanda li soi baroni del reame e gli dice el pronostico de Apollo, poi fa la putta mettere in una torre e la dà in custodia a SIRO.

ACRISIO

Crudel novella, dolci baron mei

diròvi, se l'oracolo non erra:

Apollo, nostro nume, e gli altri dei

me annunzian dal mio proprio sangue guerra.

Affirman ch'un figliolo arà costei

che i monstri vincerà, l'aria e la terra;

seco nascendo portarà tal sorte

che poi serà cagion de la mia morte.

Pensi ciascun de voi che grandi affanni

son questi, per li qual forza è ch'io grida:

che conforto è d'un patre in gli ultimi anni.

se aspetta che 'l figliol proprio l'ancida?

Serà cagion costei de tanti inganni,

che di mia vita era timone e guida?

Acrisio mischinello, e sei conducto

di tua semente meter, ahi, tal fructo.

Che state a far là giù, furie infernale?

Venite a devorar queste mie membra!

Venga tigri, leoni: ogni animale

co' denti questo afflicto corpo smembra!

Dolze mi par la febre, dolze el male,

ogni tosco bon cibo or mi rasembra.

Non più, che pel parlare el mal me adoppio,

dentro per forza del dolor mi scoppio.

Siro vien qua, troppo parole ispargo:

Danae mia figlia serra in quella torre

sì che non venga mai più fora al largo;

vedrò s'io posso a questo mal fin porre.

El te bisogna aver la vista de Argo,

se no la forca de dreto ti corre.

Menela dentro a quella forte mura,

e lì la serberai con studio e cura.

Risposta de SIRO.

SIRO

Intendo signor caro quel che di':

lassa, ch'io exequirò lo intento to'.

Tu sai ch'io son tuo servo fidel sì

che mancamento alcuno mai non fo.

In quella torre compirà i soi dì,

come una volta drento messa l'ho.

Se scappa poi i' porterò la pena:

mettemi in ferro, in ceppi o alla catena.

Lamento di DANAE.

DANAE

Rigidità del padre mi dà bando

dal solio imperial, dal sacro viso.

Morà, la sua presenzia dimandando,

el spirto a contemplar sempre defiso.

Non so de uscirne mai, né come o quando.

Padre, starai dunque da me diviso?

Se così vòi, quel che tu vòi quel fia,

fa la tua voluntà, non far la mia.

E pur per certo questo caso è duro,

e ad una come me forte è doglioso.

Dentro dal pecto el debel core induro,

pensando che ogni ben lì me sia ascoso.

Dirìa la mia ragion: non me assicuro;

contra del patre reclamar non oso.

Commisso error non ho, ma ne indovino

che questo avien per mio fatal destino.

Excusazione de SIRO verso DANAE così andando alla torre.

SIRO

Se del tuo mal, madonna, assai mi duole,

sapere el può il dolor che 'l cor mi afferra.

La sacra maiestà del signor vòle

che dentro a quella torre i' te sotterra;

ma per che è di natura tal ch'el suole

a cui non l'ubedisse far gran guerra,

va là, che el star qui nostro è frustra,

el signor guarda, e a cerco a cerco lustra.

Risposta de DANAE.

DANAE

I' so che ambasciator pena non porta

e t'ho veduto dar mia vita in mano;

conosco Siro mio, persona accorta

et amo degno, grazioso e umano.

Va inante ch'io te 'l prego, apri la porta,

l'orme tue seguirò così pian piano;

i' te perdono, fa di forte uffizio,

traboccami là dentro in precipizio.

SIRO a DANAE essendo gionto alla torre.

SIRO

Gentil madona, questo è il luoco acerbo

che serà per un tempo tua magione;

di mente del signor qui te riserbo,

non meriti da me tal guiderdone;

ben cara la tua grazia mi conserbo:

se qualche cosa vòi, comanda e impone.

Risposta de DANAE.

DANAE

Ricomandami al signor mio patre, solo

dilli qual sia el lamento, el pianto, el duolo.

SIRO ad ACRISIO

SIRO

Alto signore, tua figliola è in quella

torre serrata: non ve intrarebbe un toppo.

La faccia con le man la se martella,

con doglia, con lamento e pianto troppo;

mille tristi pensieri eran con ella,

el duolo, el sogno, el mal tutto in groppo;

alla porta i' gli dissi: “Or che comandi ?”

“Non altro, che al signor mi ricomandi”.

Qui finito il primo arto sonorono li instrumenti grossi ascosi dreto a quelle machine de la scena, poi DANAE factassi alli merli de la torre fece questa lamentazione de amore.

Atto II

DANAE

Deh, come mal si può guardare alcuna

se da se stessa non si vòl guardare!

Non obsta questa torre oscura e bruna,

ché Amor qui dentro ancor si può trovare;

Amor persegue noi fin dalla cuna:

quel stralle aurato altro non ha che fare,

le fere, gli animali e il tutto aprende,

et un core agiacciato e morto accende.

Casta è colei che da se stessa è casta:

casta non è da libertà che privi.

Privi ben el corpo, ma la mente è guasta:

guasta perché chiama so' conto i vivi.

Vivi se san ben provedere e basta.

Basta: ché tu sicur per ciò non vivi;

se tua figliola incarcerata inchiodi,

dime: chi guarderà poi i toi custodi?

La cosa denegata assai più se ama,

quella a cui lice de peccar men pecca;

se neghi el corso al bon destrier, el brama

di corre e 'l fren per forza alor se imbecca.

Se ricorda de' fonti e l'acqua chiama

l'infermo, che ha la boca arida e secca.

Io ho fora de qui pur sempre udito

che di quel che non se ha viene appetito.

L'oro ch'è inchiuso in la ferrata cassa

da se stesso gridando el ladro chiede;

tutti i vani pensieri anulla e cassa

quella che in libertà posta se vede;

or me un certo calor viver non lassa,

Amor dentro dal cor mi regna e sede.

Non voglio che di me nissun s'inganni:

come veder si può, io ho el tempo e gli anni.

Amor fallace e d'ogni ben nemico

el cor mi tra' per la sinistra costa;

non lo stimavo per adietro un fico,

sperando da lui star sicura e ascosta;

ma perché de inganare ha vizio antico

con tradimento m'ha gionto alla posta.

Qualunche l'oste non risguarda e stima

perde sovente, com'io fo, la scrima.

Ben dubitai che non puotrebbe nulla

questa alta torre smisurata e grossa:

Amor dentro dal cor mi si trastulla,

non solo aflige el cor, ma i nerbi e l'ossa,

et una molle fiama le medulla

mi mangia e rode, e dà ligier percossa,

e così a poco a poco el cor me coce,

e mille fiate ognor mi mette in croce.

A questo modo el traditor Cupido

questo e quello da morte suol ferire;

perch'io non lo stimai, or piango e grido,

e ben si fa nel mio pecto sentire.

Questo lascivo Amor, protervo, infido,

chi non se guarda mena a tal martire;

questo la nostra vista acieca e ingombra,

e tutti altri pensier dal cor ne sgombra.

In questo punto se discoperse uno cielo bellissimo tutto in un subito dove era GIOVE con li altri dei con infinite lampade in guisa de stelle.

GIOVE parla a MERCURIO.

GIOVE

Mercurio de li dii nunzio fidissimo,

non vedi in terra una gentil donzella?

Non la vedi in quel muro alto e fortissimo

più che Dïana, e più che Vener bella?

Se chiama il padre Acrisio, re richissimo,

e Danae nomata in corte è quella.

Va, perché sei più de ogni altro idonio,

e del mio amor gli fa' bon testimonio.

Dille che come è cosa naturale

Giove di lei se accese fortemente;

confortela, quanto pòi, che non è male

sì come è bella che sia ancor piacente;

se è di sangue sublimo, alto e reale,

Giove non è manco di lei potente;

se è savia invero come fuor si mostra

dilli che pensi far la voglia nostra.

Discese MERCURIO così a mezo aria a parlare a DANAE qual era in la torre.

MERCURIO

Colui che in cielo e in terra impera e regna,

Danae, da te mi manda a farte intendere

che, benché Giove sii, el non se sdegna

de mortal cosa, come pòi comprendere.

Se vòi, el te farà dil suo amor degna,

e sopra gli astri rutillanti ascendere.

Savia sei, certo intendi ciò che vuole:

non te ne exortarò con più parole.

Essendo in terra tu sei bassa e umile,

e come gli altri di carne, ossa e pelo.

Lui doppo questa vita amara e vile,

per segno fixo te mettrà là in cielo,

e in la region più bella, alta e gentile;

daràti in tua possanza el caldo e 'l gelo,

se quel ch'el chiede gli serà concesso:

beato chi puotrà poi starte apresso.

Risposta negativa di DANAE.

DANAE

Tal parole aspettar mai non credea

dal gran monarca fulminante Giove;

s'egli è dio com'io credo, el non sapea

che indarno manda a far di me tal prove?

E se mia voluntà non intendea,

dilli che Danae castità qui vove,

serrata in grotte concavate e marmi

sì che non venga più a ·ffaticarmi.

Tornando su MERCURIO in cielo, DANAE da se stessa disse queste parole:

DANAE

Gente prosumptuosa, che bisogna

pormi con lacci, o con parole assedio?

Guarda che festa è quel che costui sogna,

e a che costui se dà fatica e tedio;

non una, com'io son, tal cose agogna,

e s'io volesse non v'è poi rimedio,

sia pur che vòl costui, che indarno predica,

ché la mia vita a castità se dedica.

Risposta de MERCURIO a Giove.

MERCURIO

La risposta che fa la dolce amata

è che per niente i' non gli doni impazzo;

l'ho diligentemente interrogata:

in fin, teco non vòle alcun solazzo.

Dime qualche altra cosa, e guata:

di tal servigi voluntier me impazzo;

i' tornerò là giù come saetta

a fargli la ambasciata imposta, in fretta.

GIOVE a MERCURIO.

GIOVE

Ben ho pensato di provare altra arte,

cioè di temptar colui che tien la chiave.

Va', dilli baldamente da mia parte,

pregalo quanto pòi che non sia grave

con un compagno là dentro menarte;

di' che anderai pian pian, cheto e soave,

al suo piacere di notte o di giorno,

e non se gli farà vergogna o scorno.

S'al primo tratto el ti parà ch'el nega,

tu con questo oro gli farai gran festa,

e di': — Quel mio compagno assai ti priega

che a compiacerli tua voglia sia presta. —

Come l'oro vedrà, certo el si piega:

maraviglia mi fo se da lui resta;

questi son quei che chiamano e' bisanti,

che fan ballare i savii, i matti, i santi.

Secundo descendimento che fece MERCURIO, e alora vene fin in terra e andò alla torre a parlare a SIRO.

MERCURIO

Ben staga Siro nostro.

SIRO

Oh! Gli è Mercurio.

MERCURIO

Voluto ho per tuo amor dal ciel descendere;

pòrtoti senza dubio un bono augurio.

S'io grandemente te amo el pòi comprendere,

e penso ben de farti un bon servizio,

se vorai una dimanda onesta intendere.

Non te ramaricar se odi lo inizio,

la cosa udita poi dentro sigillola,

bisogna pur che facci un certo offizio.

Giove da Danae preso se distillola,

che gli ha trafitto el cor con forte iaculo,

questo pel primo te scusi una pillola.

A lui ti prego che non facci obstaculo,

né che cominci a borbotar né stridere,

ma in la torre gli impresti receptaculo.

Quasi che già me fai, Siro mio, ridere,

già te vedo nel volto a me contrario:

pensa tu forse la festuca incidere?

SIRO

Sì che nel volto, Mercurio, mi svario,

e la festucca teco e l'amicizia

rompere adesso intendo: esto è il sumario!

Questa vergogna mi, cotal nequizia

debbo di contra al mio signor commettere?

E adonque in me serà tanta iniustizia?

Non, ch'io non voglio Giove dentro admettere

se tu mi desti tutto el lago aurifero:

guarda s'io parlo teco a grosse lettere.

Cotal tuo prego sì m'è sta' mortifero:

io ti comando che da qui presto ambuli:

a questo modo el mio voler te inzifero.

Non bisogna che facci più preambuli.

Tu sei venuto qui forse per scorgere,

ma non siàn fanciulin da cuna o bambuli.

MERCURIO

Non mi vo' tu, mio Sir, l'orecchio porgere ?

El te vince el furore, e l'ira propia

fa che di fuor non pòi el tuo ben scorgere.

D'oro e d'argento ti faccio gran copia;

non esser così duro, aspro e silvatico:

come pòi vivo stare in tanta inopia?

Acceptarai el mio don se arai del pratico;

quei che non han danari oggidì sordeno;

così se scrive in un verso gramatico.

Quei ch'han danari le procelle acordeno

e il mare turbulento tosto acquietano;

col dolce dente el duro morso mordeno.

A Minos e a Radamante vietano

el far ragione e dar lor boni iudizii

e come poi gli par le cosse assetano.

Et a suo modo dan spesso gli indizii,

e li litigii come neve agiacciano,

e fan comettere milli errori e vizii.

Questi son quei che tutto el mondo abracciano

e gettan senza colpi un pino e un sovero

a terra, e nui mischin mortali allaciano.

La vita in corpo, Siro, te ricovero,

se non serai così malvaggio e immobile

gran ricco ti farò, sendo sì povero.

SIRO

Et io voglio più presto essere ignobile

e non lassarmi in mancamento agiongere,

che per male operar diventar nobile.

Tu mi voresti pur la mano inongere

e con queste fiorite zanze involvere,

per puotermi el cervel dal capo mongere.

Inanti ch'io mi debba a te risolvere

né inanti che dal mio dover prevarichi,

vorei veder queste mia membre in polvere.

Non posso far ch'io non me ne ramarichi,

anzi quando gli penso tremo e spasimo,

questa è troppo gran salma che me incarichi.

Il vulgo non me darà mai tal biasimo

che per danari me lassi corrumpere,

i quai disprezio e ad alta voce biasimo.

La fede vecchia non voglio interrompere,

ch'io ho servata e di servar desidero:

un monte d'oro non me puotria rompere.

Quanti qui in corte del signor me invidero

vedendo che i tributi in me non gioveno,

sopra di quali sì di rar considero.

Se oro né argento mai nulla mi moveno,

vana è la tua fatica, e vani i stimuli.

Altri dinar non han, qui in corte pioveno.

MERCURIO

Credo che forsi meco, Siro, simuli;

s' tu hai tanti danar, perché èi sì lacero?

Dimmi se dici il vero o pur dissimuli.

Squalido in volto sei, el corpo è macero,

i piedi par che di star su se sdegnino,

perché sei secco come quercia o uno acero.

Gli altri che in corte stan, de aver se ingegnino

e d'aver pur del ben forte procacciano;

tristi coloro che alle sue spese insegnino.

E quando el vien, non come te el discacciano,

ma tolto quel, de affaticarse et angere,

doppo el longo servire al fin se sacciano.

SIRO

Che bisogna più dir, Mercurio? Frangere

non me può el tuo parlar de velen gravido,

non voglio già per tuo favellar piangere.

Son de starmi così più che mai avido.

Di' com' te par di me, borbotta e strazia,

non son figliol d'ucel perché sia pavido.

State con dio, Mercurio, alla tua grazia.

Torna MERCURIO in cielo e risponde a GIOVE non avere potuto operare cosa alcuna.

MERCURIO

Quel Siro ch'è là giù stolto è per certo.

Ho seco longamente disputato:

danari, robba et oro gli ho proferto,

ma nulla alfin trovo che m'ha giovato.

Rasembra nel parlar savio e diserto,

forse che ancora lui arà studiato.

Ma pur, quando fra me el contemplo e mastico,

trovo che l'ha un cervel troppo fantastico.

Finito qui il secondo atto sonarono piffari, cornamuse, timpani et altri instromenti occulti.

Intermezzo I

Capitulo d'amore recitato da uno che portava un laberinto per intermediare lo secondo atto de la commedia.

Chi per caso udirà el mio gran lamento,

se in amar più di me lieto si trova,

porga l'orecchio a mie parole intento.

Qualunque ascolta, a compassion si mova,

ché non è pena al mondo qual la mia,

che d'ora in ora sempre più rinova.

Ch'udirà el caso lacrimevol, fia,

spero, se non è pien d'ira e d'orgoglio,

che verrà a pianger meco in compagnia.

Scriver miei versi in tal forma non soglio,

ma poi che così piace alla mia diva,

d'altro che di penar più dir non voglio.

Costei fu quella che gioconda e viva

già fece un tempo la mia lingua e il canto;

ma poi che come sol più non me aviva,

a l'usato non più festegio o canto,

né d'alegreza alcuna insegna porto,

ma i crini inculti e negra barba e 'l manto.

Merita apresso Dio chi piange un morto;

ormai pianger di me si può, che in vero

veggio come se fa el mio viver corto.

Volse così chi ha sopra me lo impero,

e quella della qual fui fin ch'io nacque,

che poco stima un cor netto e sincero,

alla qual sempre el mio servir dispiacque,

che sempre me mostrò una vita obscura

e fumi, nebbia, venti e turbide acque.

E ben che mai più bel spirto natura

non producesse di quel di costei,

che or si fa umile, or furibonda e dura,

par che gli sia concesso in ciel da i dei

che me abbi sempre in le sue mani avinto,

e ch'io non possa mai partir da lei,

che incarcerato m'ha in tal laberinto

che me pare imperciò d'un bel tesoro

avere el collo incatenato e cinto.

O labre di corallo, o chiome d'oro,

o sen, che mi struggete a poco a poco,

viso pel qual tutto mi strugo e moro,

anzi nel quale al dilettoso fuoco

sì dolcemente fa il suo albergo e nido

che non è al mondo el più piacevol luoco.

In quegli occhi soggiorna el fier Cupido,

et io che so che a morte Amor mi mena

non più molto seguirla ormai me afido.

Costei con soi sembianti ha forza e vena

de farme lì parer come om che manca,

o come ai naviganti la serena.

Più che 'l sol bella, e più che neve bianca

e come rosa matutina o latte,

mostra una faccia angelicata e franca.

Con Venere e con Palla infin combatte,

e le altre donne de la nostra etade

maravigliosamente vince e abatte.

Se si trovasse in te qualche pietade

tu seresti de tutte l'altre prima,

sì come prima sei d'alma beltade.

Non seria pare a te nel nostro clima,

né degna di maggior trïonfo o fama

che meritasse d'esser posta in cima.

Abbi pietà di quel che tanto t'ama,

al quale ad te servir tanto dilecta

né altro che de seguirte in vita brama.

Tempo è che a tua durezza un fin si metta:

vedi che qui te sto prostrato al piede

come un che di la vitta grazia aspetta.

Se degno non sono io d'aver mercede,

poi che vedi esser gionte l'ore extreme,

mira i miei stenti e la mia pura fede.

Come lo infermo son che morir teme,

che, rimembrando el mal dentro alla mente,

mostra pur del guarir aver gran speme.

Son come el bon villan, che la semente

levando da la boca getta in terra

e del fructo a venir già piacer sente.

Pace se acquista doppo longa guerra,

e il so' suggetto un peregrino ingegno

fuor del soccorso suo non chiude e serra.

Fami, ti priego, di tua grazia degno:

vo' tu fuor di speranza al fin lassarme?

Fallo per tua bontà, s'io sono indegno.

Combatter non voglio io: metti giù l'arme,

mostrame un picciol segno di clemenza!

Non credo già che debbi ciò negarme.

Qui se conoscerà la tua prudenza:

dame, se sai, quanto tu vòi la morte,

ché di speranza non serò mai senza

et in amarte più constante e forte.

Spero, e sperando un tal pensier mi nasce

che di pietà ti vedrò aprir le porte:

ché, sperando, un che mor vive e rinasce.

Atto III

GIOVE parla a MERCURIO.

GIOVE

Mercurio, adesso cresce el mio desire

se ben Siro mi fa mesto e scontento.

Torna alla donna un'altra volta a dire

che fatto son per lei qual polve al vento;

di' che abbi compassione al mio languire

e che di ripregarla io non pavento,

e dalli in propria man questo sonetto:

tosto poi riedi, che risposta aspetto.

MERCURIO descendendo dice queste parole:

MERCURIO

Questo mandar di letre è un gran favore,

e non è il miglior modo o il più segreto

in tutto quanto el praticar de amore.

MERCURIO a DANAE.

MERCURIO

Madona, se al tuo ben sei pronta e amica,

fa' quel che vòl da te el signor mio caro.

Ha tanta crudeltà tua fama aprica

e quel tuo viso risplendente e chiaro,

che voglia darmi dì e notte fatica?

Indarno farai al fin ogni riparo.

Or leggi questa letra acciò che intendi

quanto la excelsa deïtade offendi.

Sonetto di GIOVE a DANAE.

Quando intese, madona, la gran fama

di tuo' costumi e ch'el vide quel viso,

el cor gli fu dal corpo alor diviso,

come quel che 'l suo mal desira e brama.

Giove è chi parla, che si struge e chiama

te sola, se bene è da te deriso;

tu gli rasembri in terra el paradiso,

per che lassando el ciel teco star brama.

Quei crini, quella boca, quei sembianti,

che sempre inanti al cor posti se vede,

gli dan tra vita e morte dubia spene.

Per forza avien che in alta voce canti

el vostro nome, e che a chiamar mercede

venga a colei che incarcerato el tiene.

DANAE lacera la letra e MERCURIO parla da se stesso.

MERCURIO

Aiutami, Fortuna, questo è un segno,

o non lo intendo ben, di andarse a scondere:

se non me porgi qualche tuo sustegno,

di vergogna m'ha costei a confondere.

Torna DANAE e così dice:

DANAE

Aciò che sapia ognun ch'io non mi sdegno

adesso al nostro dio Giove rispondere,

portagli la mia letra, con protesta

ch'io farò sì com se contiene in questa.

Sonetto di DANAE.

Altitonante Giove, s'el ti piace,

la vana voluntate ormai rafrena.

Vergogna è che da fiama aspetti pena

colui che porta el fulme e ha 'n man la face.

Danae è che ti scrive, e assai gli spiace

che guardi a cosa vil, bassa e terrena:

donna mortale a tal dolor ti mena

e sì scolpita in core ognor ti giace !

Ella non può, né vòl, né te conscente,

perché donna non è, ma marmo e smalto

si ben rimiri el suo stato presente.

Or guarda in luoco più eminente et alto,

che un principe glorioso et excellente

impresa aspetta da magior assalto.

GIOVE a MERCURIO.

GIOVE

Or lassa fare a me, che sì l'inganno

sì che oggi fornisco el mio lavoro.

Ella si siede sola sopra un scanno:

io mi vo' tramutare in pioggia d'oro

e pioverli nel grembo, e se arà affanno

dirò. — Madona, per tuo amore i' moro —.

E poi che l'arò in braccio e in mio domino,

quel ch'io mi voglia far nel cuor destino.

Tramutossi qui GIOVE in oro: e se vide un pezo piovere oro da cielo e GIOVE discomparve visibilmente: e qui sonorono tanti instrumenti che è cosa innumerabile e incredibile. Finito el terzo atto.

Intermezzo II

Capitolo recitato da uno che andava seminando per intermediare el terzo atto de la comedia.

Son stato un tempo in una folta selva,

per che la mia disgrazia così volse,

fuor d'ogni gusto uman come una belva,

dal dì che tanto dentro al cuor me avolse

el viso di colei che con bel modo

in preda ogni mio spirto e forza. accolse.

E benché gli sia stato un picciol lodo,

nondimanco lì m'ha tenuto e tiene,

benché non voglia amor inganno o frodo,

né ad una bella come lei conviene

promettere a uno amante e romper fede,

ché acquista un grande onor chi se mantiene.

Promissemi costei per mia mercede

servendola con fe' in quel loco strano,

che degno del suo amor me farìa erede.

Io l'ho servita e il mio servir va invano,

e degno ancor non mi fa del suo amore,

ma più che mai me par de esser lontano.

A gabar un che creda è un poco onore,

e gran vergogna fa tacitamente

qualunque donna inganna el suo amatore.

Tra me son stato assai nel cuor paciente

e mostro pur de non vedere, e il sordo

vado fingendo, e non me val nïente;

ché uno amante non de' mostrarsi ingordo,

se ben non ha sì come vòl risposta,

e se non segue quel che fu d'acordo.

Niente di manco questo assai mi costa,

ché dietro a questa che così mi sforza,

e la qual con le rete ognor m'aposta,

ho consumato el tempo al fin la scorza

e mutato in servirla el volto e 'l pelo:

tanto può amore e la amorosa forza.

Non ho temuto, per servirla, gielo,

né pioggia, venti, sassi, fiumi o caldo

che 'l più fedel di me non vede il cielo.

Sempre son stato a sua durezza saldo,

né per questo partir mi voglio ancora,

ché di sentirla più che mai mi scaldo.

Tra nui fu fatto un certo acordo alora

ch'io dovessi servirla per dieci anni,

et io sono come om che se inamora.

Sperando alfin de ristorar miei danni,

dissi che volunteri era contento;

così servita l'ho senza altri inganni.

Adesso ha fatto come foglia al vento,

e dice che la vòl dieci anni apresso;

io, che ad amarla ancor non mi scontento,

per non perdere el tempo ch'io gli ho messo

gli ho promesso i dieci anni un'altra volta,

e da me gli è quel che la vòl concesso.

Ma voglio ben che ognun, che qui me ascolta,

sapia come da lei m'è fatto torto,

e che mia vita è in le sue man racolta.

Però vado così smarito e smorto,

mostrando qualche fe', qualche speranza,

e pigliando di quel ch'io fo conforto.

Spendere voglio el tempo che me avanza

per raccogliere e andar ben seminando,

come degli amatori è ferma usanza.

Quel che mangiar per me se debbe, il mando,

con fede de raccoglier bene, in terra;

più sempre vo' nel mio sperar sperando.

E se la ninfa mia di fuor mi serra,

quando m'arà ben fatto ingiuria e scorno,

spero che un fin daràmi tanta guerra,

e che pietà mi arà di giorno in giorno.

Atto IV

ACRISIO re parla ad un suo SERVO.

ACRISIO

Perché già tanti dì non ho novella

che se faza in la torre mia figliola,

va tu, di' a Siro che vadi a veder quella,

acciò che non perdesse la parola.

Guardi se è sana e come ancor sia bella

e come se contenta de star sola.

Risposta del SERVO.

SERVO

Serà fatto, signor gentile e ornato;

se dio te guardi la corona e il stato.

Quello SERVO va alla torre e dice a SIRO.

SERVO

Siro, dice el signor che vòl sapere

quel che facci sua figlia; or corri presto,

corri te prego a spiccate bandiere,

acciò che 'l facci contento di questo.

SIRO al SERVO.

SIRO

Ubidirotti adesso: egli è il dovere,

e che ubedito sia me pare onesto.

SERVO a SIRO.

SERVO

Va donque presto, or su, presto gualoppa,

par che te movi come un om di stoppa.

Intrato SIRO in la torre quello SERVO che resta lì di fuore dice queste parole.

SERVO

L'ha ben poco da far colui che piglia

a guardar donne. Guardarà di botto

queste? Destrier non son da por la briglia.

Tu me pari già, Sir, qui mezo cotto.

O come guarderai, signor, tua figlia?

Bisogna ben che sii prudente e dotto,

ché chi al mondo guardar vòl una femina

accoglie il vento, e dentro a l'acqua semina.

Soliloquio de SIRO quando trova la puta gravida.

SIRO

O sorte iniqua de nui miser servi,

come comparir debbo o con qual volto?

Me trema el spirto, e tutte l'ossa e i nervi;

meglio è ch'io vadi in qualche bosco folto,

dove da tigri o altri animal protervi

ingiotito serò, dal duol risolto,

e forse me serà menor tormento

così morir, che stentar com'io stento.

Gravida certamente pare al pecto,

e il corpo ancor ne mostra magior segno.

Or serò io el traditore, or el sospecto,

or trattato da pazo e senza ingegno.

E come puòte andar cotale effecto?

Se gravida serà, di morte degno

giudicato serò, e serà mia colpa.

Già vedo come el re mi squarta e spolpa.

Che debbo far? El debbo dir? No'l dire?

Fugge! Sta saldo: e mette giù le chiave,

e lassa un altro che la vadi aprire,

e poi renunzii questo error sì grave.

E pur me va al cervel forte el fugire:

so che diman da qui parte una nave.

S'io fuggo, poi da l'altro canto i' veggio

che l'anderà a chi può di me dir peggio.

In fine in fine i' non son più uno uccello

qual di volar se pasce e se nutrica;

andar voglio, se ben vado al macello,

e legerli del facto la rubrica.

Indi da poi, com'mansueto agnello

due parole dirò de mia fe' antica

e come ai panni miei non fur mai macchie:

facciame poi mangiare alle cornacchie.

Risposta de SIRO ad ACRISIO.

SIRO

Gito son come fiera del cibo avida

e ditto: — El te saluta el tuo signore —.

Veduto ho poi che in volto è morta e pavida:

cercato ho la cagion di tal colore.

Rispuose presto che l'è facta gravida:

alor nel petto mi se scosse el core.

Da te ritorno angoscioso e mesto,

perché non so pensar como sia questo.

Desperazione de ACRISIO audita la novella.

ACRISIO

Ohimè, ohimè, ohimè, quanto me pesa

questa ambasciata che al presente fai.

Mal si può contra al cielo far difesa;

o tu guardata ben, Siro, non l'hai?

Questa m'è stata troppo grande offesa,

serà cagion de la mia morte e guai.

Quel che Apollo m'avea pronosticato,

come lo disse, cossì m'è incontrato.

La pena portarà chi fe' lo errore;

i' so che pigliarò qui altro partito.

Menatime in pregion quel traditore,

che con soi frodi m'ha così tradito.

Saltato qui altri servi SIRO parla.

SIRO

Questa signor m'è una ferita al core.

Chi non falla non debbe esser punito;

se giustamente questa infamia porto,

Giove fame cader qui in terra morto.

ACRISIO comanda che la figliola sia portata a negare.

ACRISIO

Quatro di voi che me sete intorno

sarete a me fidel s'io vi comando

presto, ché nel mal far non mi soggiorno.

Mia figliola ha commesso error nefando;

ad ciò che la non veda mai altro giorno,

ad quel ch'io ve dirò gite volando:

portatila in alto mar in questa corba,

dove un di pesci più crudel la sorba.

DANAE sentendo el strepito di quelli che la vano a tore così dice.

DANAE

Non me fati, compagni, forza o ingiuria;

perché con arme me venite adesso?

Non correti, per dio, vi prego, a furia.

Risposta de FAMIGLI.

FAMIGLI

Ciascun di noi con ragion s'è mosso.

Esser giù ne l'inferno ora t'auguria,

o nel Cocito turbulento e rosso !

Sopragionge un SERVO.

SERVO

El signor m'ha mandato in fretta a dire

che la portate in mare a far morire.

Lamento di DANAE guardando al cielo.

DANAE

Giove, da te son posta in abandono?

Pietà ti mova de mia tanta doglia.

Da questi che qui intorno armati sono

la vita per tuo amor mi si dispoglia.

Se mai ti offesi, or ti chiedo perdono,

padre: rafrena la tua cruda voglia.

O ninfe, o pesci, o terra, o genti accorte,

pietà vi mova de mia accerba sorte.

Qui è da sapere che GIOVE mosso a commiserazione de DANAE, doppo la fu portata via la converse in una stella, e lì se vide di terra nascere una stella e a poco a poco andare in cielo con tanti soni che parea che 'l pallazo cascasse. Finisse el quarto acto.

Atto V

Certe ninfe che andavano a cazza vedendo in cielo una stella inusitata con una musica demandarono a GIOVE che gli facesse intendere el caso. Per comandamento di GIOVE vene la dea de la immortalità così a mezo aria e disse queste parole:

EBE

I' sono Ebe che fo l'omo immortale,

e Giove padre mio me manda a dire

che contra al suo voler puoter non vale,

e che tu metta giù, Acrisio, tante ire.

Giove fu quel che in la pioggia fatale

per tua figliola volse giù venire.

Quel che non puòte aver con vie diverse

l'ebbe quando in quello oro el se converse.

Rafrena adonque la tua crudeltade

e da lui aspetta un gran conforto e bene:

tu diverrai di giovenile etade,

e Siro tra' fuor di tante catene;

lasselo andar u' vuole in libertade.

Danae è là su tra quelle alme serene.

Però s'alegri ognun ch'era turbato,

che di lui e di tua figlia Perseo è nato.

Qui cascata la barba, ACRISIO resta giovene. ACRISIO parla.

ACRISIO

I' te ringrazio, Giove, il vedo expresso,

contento son che Sir liber se facci,

che 'l più lieto omo son che viva adesso.

Qui SIRO salta fuor de le catene.

GIOVE per compiacere a quelle ninfe mandò in terra APOLLO con la lira quale dichiarò el caso alli spectatori.

APOLLO

Qualunche ha udito con qual psalmodia

e con qual gaudio ai dei, festa e concento,

quella stella su in ciel salita sia,

presti l'orechio a mie parole intento,

ché per contarvi questa tal novella

qua giù disceso sono in un momento.

Però donne e signor sapiate: quella

che poco inante par che qui moresse

è Danae vostra commutata in stella.

Per amata vivendo già la elesse

Giove, e come l'amò qui in terra viva,

non volse che morendo se perdesse.

E se ben par che sii de vita priva,

adesso vive lei come se vede:

di mortale, immortale è facta diva.

E questo advien chi serve con gran fede

e con sincerità dei e signori,

ché chi ben serve tutti gli altri excede.

Vengono, doppo le fatiche, onori,

e chi con leale servitude e pronta

serve, racoglie dietro a spine el fiore.

A gran gloria, a gran fasto non si monta

tutto in un tracto, ma come costei

che parve agli ochi nostri esser defonta.

A principi chi serve, omeni e dei,

siegua come costei constante e forte,

che or tutto el mondo ha sottoposto ai piei.

Perché, morendo, ricordosse in morte

di Giove, del suo dio, del suo signore,

or fatta è prima in la superna corte.

O solida fermeza, o caldo amore,

sì come el tuo signor già amasti tanto,

così lui t'ama con perfecto core.

Vedete che di grazia eterna è il manto,

vedete come sua bella persona,

doppo la crudeltà del padre e 'l pianto

in cielo è facta degna di corona !

E tra quelle alme lucide e immortale

non altro che di lei più se ragiona.

Costei proposta fia ad ogni animale

e comendata assai più che natura

poi che può sopra gli altri andar senza ale.

Sola costei de tutto el mondo ha cura

e del ciel la possanza in lei si serra

preposta al giorno et alla nocte oscura.

Da lei depende longa pace e guerra,

perché le cose a suo piacer comparte,

e come pare a lei dà legge in terra.

A lei sue vele drizarà e sue sarte

el vago marinar, che in barca strana

cerca de l'onde le diverse parte.

Questa serà sua fida tramontana

che apparirà per tutta questa spera,

e guida e scorta de la giente umana.

Farà volendo al verno primavera,

e l'omo fuor d'ogni tristeza sciolto,

tanto è di forza sopra gli altri altiera.

Exempio da costei per nui sia tolto

che servendo con fe' se acquista gloria;

chi fa bona semente ha bon racolto.

E legassi ciascun ne la memoria

che 'l ben servire al mondo mai si perde.

E qui sia el fin de la famosa istoria.

E viva el Moro triunfante e verde.

Finita la comedia che durò ore tre sonorono le trombe che avevano ancora sonato al principio.

FINE