Cordero Pasquale, detto Paco, operaio per una stagione

Stampa questo copione

Alberto Canottiere e Valerio Elampe

Alberto Canottiere e Valerio Elampe

CORDERO PASQUALE, DETTO PACO, OPERAIO PER UNA STAGIONE

(fine anni sessanta)

due atti

personaggi:

PACO

RITA

MADRE di Paco

PREVOSTO

ROMANO, amico di Paco

TONINA, sorella di Paco

GIANNI, cugino di Paco

MOGLIE di Gianni

PRIMA VECCHIA

SECONDA VECCHIA

MADRINA di Tonina

Dr. SCAVINO, dirigente

SEGRETARIA del dr. Scavino

UGO

PRIMO UOMO

SECONDO UOMO

TERZO UOMO

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

(Domenica mattina, all’uscita dalla messa. Spiazzo con scalinata antistante la chiesa.)

PACO. (è vestito con l’abito della festa; scende i gradini; si ferma; estrae il fazzoletto dal taschino della giacca e se ne serve per pulirsi le scarpe con gesti secchi, larghi, appena sfiorando; si rialza; soffia sul fazzoletto per mandare via la polvere; lo ripone nel taschino della giacca e lo riaccomoda per bene; cerca nelle tasche; vi estrae sigarette e accendino; accende e ripone)

PRIMA e SECONDA VECCHIA. (scendono i gradini, sfilandosi il velo dal capo)

PRIMA VECCHIA. Guarda chi c’è. Paco.

SECONDA VECCHIA. Paco dei Vecchi. (a Paco) Che giovanotto che ti sei fatto! Sembra ieri che andavi a scuola e servivi la messa prima.

PACO. Il tempo passa per tutti.

SECONDA VECCHIA. I giovani spingono e noi veniamo vecchi. Eh, destino! A te non dispiace ancora che il tempo vada avanti. Ma per noi, vedervi crescere ci fa pensare al camposanto.

PACO. L’età non vuol dire. C’è sempre tempo per andare al Creatore.

PRIMA VECCHIA. Sei venuto in licenza?

PACO. Sono tornato. La naia è finita, se Dio vuole.

PRIMA VECCHIA. Ma guarda! Chissà com’è contenta tua madre che sei arrivato per il grano e per dare l’acqua alle viti.

SECONDA VECCHIA. Però lo stato non dovrebbe. E che Tonina è poi solo una bambina. La gioventù di oggi non è come quella di una volta. Adesso, a quindici anni, sono piene di grilli. Non lo dico per tua sorella. Ma tanto se ha da essere, sono tutte quante a loro modo. Lavoro, sì sì, ma poi... Io so soltanto che, quando eravamo giovani noi, le pettinatrici non si facevano i soldi come al giorno d’oggi.

PRIMA VECCHIA. Adesso ci sei tu e non scappi. Però, se ci penso, con tanti lazzaroni che stanno a casa a far niente, dovevano prendere proprio te da soldato. E lasciare due donne da sole, senza uomini, a mandare avanti una cascina di sei giornate. Prendere un figlio, orfano di padre!

SECONDA VECCHIA. Cosa dici, adesso? Quando è partito, suo padre era ancora vivo. Non è vero, Paco?

PACO. Avete proprio ragione, Letizia. Sono otto mesi domenica che se n’è andato.

PRIMA VECCHIA. Eh, già! Solo otto mesi. Chissà che spavento! E chi te l’ha detto? Oh, che notizia!

PACO. E poi la maniera! Ma tanto, se un albero deve caderti addosso, è inutile che scappi.

PRIMA VECCHIA. Ah, tu ragioni bene! Guarda, se viene il terremoto, non te lo manda a dire. Eh, questa è proprio una valle di lacrime. Lo sa Ugo, se questa non è una valle di lacrime.

SECONDA VECCHIA. Ugo? Ugo, quale?

PRIMA VECCHIA. Ma tu non sai niente! Ugo dei Sordi. Il figlio di Marta, povera anima. Con la cascina di otto giornate, in riva alla Talloria, si trova da solo. Non c’è una donna che se lo sposi.

SECONDA VECCHIA. Ma dimmi solo! Un particolare come lui!

PRIMA VECCHIA. E pensare che si è messo sotto Pino della Francia. Lui ci sa fare e ne ha aggiustate di queste cose. Bene. Niente!

SECONDA VECCHIA. Come, niente?

PRIMA VECCHIA. Eh! Dice che quando venivano a sapere che Ugo le avrebbe portate nella sua cascina, niente!

SECONDA VECCHIA. Ma questo cosa resta? Più nessuno che voglia coltivare la campagna. Che idee si fanno le ragazze di oggi?

PRIMA VECCHIA. Non lo so proprio. Ma da queste cose non può mica venire del bene. Un giorno o l’altro Qualcuno ci manda il castigo. Ti ricordi l’alluvione del quarantotto? Vogliono andare tutti in fabbrica.

SECONDA VECCHIA. E Ugo? E Ugo? Cosa fa? Cosa dice?

PRIMA VECCHIA. Oh, io non so. Ma...

SECONDA VECCHIA. Ma?

PRIMA VECCHIA. Tu, Paco, non andrai in fabbrica.

PACO. Non guardo mica i soldi io. Mi piace l’aria buona.

SECONDA VECCHIA. Oh, lui non va in fabbrica, eh, Paco. Lui come donne è fornito!

PACO. Ho mia madre e Tonina. Una sta ancora bene, l’altra per un po’ non mi scappa. Ho tempo a sposarmi.

PRIMA VECCHIA. Per certe cose non bisogna aver fretta. Sbagliarsi è un momento. Guarda un po’ Stefano. Sono cose che non si devono dire, ma tanto lui li ha portati per tutta la vita. E come se non bastasse, alla fine lo hanno messo in manicomio per poter fare le cose in tutta comodità.

SECONDA VECCHIA. Ma prendi anche solo quel povero Ugo dei Sordi. Chissà come c’è stato male.

PRIMA VECCHIA. Eh, Ugo... qualcuno che l’aiuta ce l’ha anche lui.

SECONDA VECCHIA. C’è Qualcuno lassù che ci aiuta tutti.

PRIMA VECCHIA. Non così! Si è messo nelle mani del prevosto e il prevosto gli ha promesso di fare quello che può.

SECONDA VECCHIA. E’ proprio una brava persona! Se non fosse per lui, i giovani se ne sarebbero già andati tutti.

PRIMA VECCHIA. Ah, i preti, loro sanno! Ugo ha già visto la fotografia, ma era solo di faccia e di faccia gli piace. Ne ha parlato in gran confidenza con Camillo della bottega vecchia.

SECONDA VECCHIA. La fotografia?!?

PRIMA VECCHIA. Vedi, Paco, i giovani oggi possono star bene anche in campagna. Di domenica puoi andare in Alba a veder giocare al pallone. Non è più come quando eravamo giovani noi. Non dite niente di Ugo. La cosa non è sicura. La settimana che viene parte per Napoli. Se non ha le gambe storte, se la sposa e torna a casa con la moglie.

SECONDA VECCHIA. Uh, ma dimmi, ma dimmi!

PRIMA VECCHIA. Però il prevosto ha preso delle precauzioni. Se l’è fatta raccomandare dal prevosto di là. E così anche Ugo può stare più tranquillo.

SECONDA VECCHIA. Eh, guarda, i preti, loro sanno. Tu, Paco, prendi esempio. Devi andare alle adunanze del prevosto e farti vedere che sei un buon cristiano. Poi, quando ne hai bisogno, lui ti aiuta. Non c’è mai niente da perdere a essere amici dei preti.

PACO. Questo lo so già io! Hanno le mani lunghe. E poi loro vogliono solo farti camminare bene. E io sono già di quelli che non gli dispiace comportarsi come si deve.

(Rumore di moto che si avvicina)

PRIMA VECCHIA. Che rumore! Queste moto sono un pericolo costante.

SECONDA VECCHIA. Oh, è Romano di sicuro. Lui non è andato militare.

PRIMA VECCHIA. Se aveva ancora da fare il soldato, non lo prendevano in fabbrica a lavorare.

PRIMA VECCHIA. E’ meglio che scappiamo. Arrivederci, Paco.

SECONDA VECCHIA. Eh, con questi motori! Non comprarti mica la moto, Paco. Arrivederci. (esce)

PRIMA VECCHIA. Tua madre sa già di Ugo? Dille che, se passo dai Vecchi, mi fermo a trovarla. Eh, sono cose che non si devono dire, se non si è sicuri. Salutala per me.

PACO. Grazie, non manco. (si siede sul muretto)

PRIMA VECCHIA. Oh, che rumore! (esce)

(Si spegne il motore della moto)

ROMANO. (entra spingendosi coi piedi a cavalcioni della moto) Sei tornato, Paco.

PACO. Sì, Romano. La naia è finita, se Dio vuole.

ROMANO. E bravo, Paco! (scende dalla moto e la appoggia sul cavalletto) Sei di nuovo dei nostri. (siede sul muretto accanto a Paco e accende una sigaretta)

PACO. Dove l’hai tirata fuori quella moto?

ROMANO. L’ho comprata! Ha una ripresa che non ti dico. Ti piace?

PACO. Io ho la bicicletta di mio padre.

ROMANO. E bravo! L’altro giorno ho provato a lanciarla dalla cantina di Roddi a san Cassiano. Ha toccato i centotrenta.

PACO. Mi hanno detto che vai in fabbrica.

ROMANO. Ormai è un anno. Faccio i turni: otto ore tutti i giorni. Lavorare la campagna non mi è mai piaciuto. E non piace alle ragazze.

PACO. Non so se resisto a stare chiuso otto ore.

ROMANO. Io mi sono abituato. Mio padre mi ha già promesso che, se metto i soldi in casa per qualche anno, poi lui mi compra un alloggio in città. E allora mi sposo una che lavora con me e ci facciamo una vita da pascià.

PACO. Anche la fabbrica ha i suoi vantaggi, se no chi ci andrebbe a lavorare?

ROMANO. Mio fratello più giovane, pure lui fa i turni, oltre alla campagna. Così ci possiamo permettere quello che vogliamo. Sono già sei mesi che mio padre ha comprato la centoventotto.

PACO. Chissà che ragazze ci carichi su quella moto.

ROMANO. Certo che tu sotto la naia devi aver fatto la fame.

PACO. La naia passa.

ROMANO. Cercati una donna.

PACO. Voi della fabbrica siete avvantaggiati.

ROMANO. Per Roselda adesso ho dovuto comprare la moto. Sabato sera siamo andati alle Cupole. C’era Morandi.

PACO. Fai bene a divertirti. Io quest’anno, se la vendemmia va bene, dico a mia madre di comprare la televisione.

ROMANO. Lasciati dire una cosa, Paco. Tu sei un bravo ragazzo, ma a casa tua siete un po’ di una volta.

PACO. Noi alla campagna diamo ancora la stima che ci vuole. E poi, quando muore mia madre, divento io il padrone. La terra è già mia. Lei gode solo l’usufrutto.

ROMANO. (piano) Guarda chi arriva!

UGO. (entra; è vestito da festa; appesa ad un braccio, porta una borsa di foglie di granturco intrecciate; si ferma colle mani sui fianchi) Eh là, Paco, sei in licenza?

PACO. Sono tornato. La naia è finita, se Dio vuole.

UGO. Allora ci vediamo. Oggi scalda. Se vieni giù dalle parti dei Sordi, facciamo due parole.

PACO. Chi lo sa? La settimana che viene c’è la festa di Sinio. Magari passo a prenderti e ci andiamo a piedi. Dice che montano il palchetto. Andiamo a ballare, eh, Ugo.

UGO. Oh io le feste! La settimana che viene non ci sono.

PACO. Dove vai?

UGO. Faccio un viaggio. Ci parliamo. State bene. (esce)

ROMANO. Se continui con le tue idee, va a finire che ti devi sposare una napoli, come Ugo.

PACO. Anche là ci saranno delle belle ragazze. Lui può stare tranquillo. La sua gliel’ha cercata il prevosto.

ROMANO. (alzandosi) Eh, Paco, un giorno qualcuno ti sveglia e allora capisci.

PACO. Vai già via?

ROMANO. Tu sei robusto. Se proprio ci tieni, con i turni, puoi continuare a zapparti la poca campagna che hai.

                                                           

SCENA SECONDA

(Stesso giorno. Ora di pranzo. Casa di Paco. Cucina di campagna)

PACO. (seduto al tavolo, sta mangiando; è ancora vestito da festa, ma si è tolto la giacca; tiene il tovagliolo davanti, infilato nell’apertura della camicia)

MADRE. (nella zona di ombra, si immagina ai fornelli)

TONINA. (seduta al tavolo, di fianco, mangia leggendo un fotoromanzo)

PACO. (pulendo il piatto con un pezzo di pane) Mah! Quasi quasi, domani vado a parlare col prevosto. (pausa; mette in bocca il pane) Forse lui mi trova un posto in qualche fabbrica.

TONINA. (alza il capo a guardare il fratello)

MADRE. Domani c’è l’acqua da dare.

TONINA. (riprende a leggere)

PACO. (beve; poi, calmo) Do l’acqua di giorno e dopo mangiato vado a parlare al prevosto.

TONINA. (alza il capo a guardare verso la Madre)

MADRE. Fin che ci sono io qui, nessuno va a lavorare in fabbrica.

TONINA. Perché, mamma? Paco ha ragione.

MADRE. Se ci fosse lui qui, te lo direbbe lui il perché.

TONINA. Lui, lui, lui, sempre lui! Lui non c’è più e noi ci siamo ancora.

MADRE. Sta’ zitta! Parla con più rispetto di tuo padre.

TONINA. Oh, senti, mamma!

PACO. La mamma ha ragione.

TONINA. Sei una pecora, tu.

PACO. Stammi a sentire! La mamma ha ragione. Lui non c’è più, ma la vigna c’è ancora. L’uomo qui sono io e tocca a me lavorarla.

TONINA. E la tempesta? Anche quella tocca a te di prenderla sulla testa? L’altr’anno ti ha portato via anche le foglie.

MADRE. Abbiamo mangiato lo stesso. Questo prevosto è un po’ troppo moderno. Non ha più voluto le rogazioni. Qualcuno ha mandato il castigo.

TONINA. Sì! Quello lassù, se c’è, se la spassa e noi siamo scemi a pensarci.

MADRE. (piomba come un falco su Tonina e la colpisce sul viso con la mano aperta) Svergognata! Ti insegno io a bestemmiare in questo modo. Con i guai che abbiamo. Disgraziata! Te lo insegno io il rispetto per nostro Signore.

TONINA. Questo non dovevi farlo!

MADRE. E’ per il tuo bene. Una madre ha il dovere.

TONINA. No! Non dovevi! Non dovevi! (scoppia a piangere)

MADRE. Quando uno non sa, deve stare a sentire e imparare dai vecchi.

TONINA. E’ come buttarsi in un pozzo! Ma guardalo quello! Che pena! Sì, mi fai pena. Se parla lei, te la fai di sotto.

PACO. (si alza di scatto) Cosa ti prende?

TONINA. No! Non mi toccare! Non mi toccherete più voi. Vado via. Cosa ti credi? Di essere il padrone perché sei più grosso? La tua vita è sempre legata ai capricci delle nuvole, se non ti svegli una buona volta, alzi la testa e vedi che attorno gli altri stanno meglio di te. Vai a specchiarti! Sembri un terrone. Ti cola la brillantina fin dentro gli occhi.

PACO. (siede) Ah, te ne vai! E dove? Chi vuoi che ti prenda? Tu stai bene qui. Mi aiuti a voltare il fieno, a guardare le bestie e a caricare il letame.

TONINA. Vado a Torino. Giovedì viene la madrina di Carmagnola. Mi ha trovato il posto da una pettinatrice. Non provate a fermarmi. Tanto non ci riuscite. E’ come la tempesta. Doveva capitare.

SCENA TERZA

(Come la scena seconda. Due ore più tardi)

MADRE. Sono contenta che siete venuta, Lena. Facciamo la strada insieme.

PRIMA VECCHIA. Ho salutato Paco dopo la messa.

MADRE. Paco è di sopra che dorme. Poi si cambia e va nei filari.

PRIMA VECCHIA. Ve lo siete ritrovato al momento del grano. E’ Un giovanotto robusto.

MADRE. Non mi lamento.

PRIMA VECCHIA. E voi gli potete dare una mano, nevvero?

MADRE. Io sono vecchia. (chiama forte) Paco! Paco! Scendi, che è ora. Paco!

Voce di PACO. Ho sentito.

MADRE. E non girarti dall’altra.

PRIMA VECCHIA. Con questo caldo avrà sonno.

MADRE. Ha dormito abbastanza. Ora si alza e va dove deve andare.

PRIMA VECCHIA. Voi lo tenete duro e fate bene. I giovani hanno bisogno di una guida.

MADRE. Paco ce l’aveva la guida.

PRIMA VECCHIA. Povera Neta. Ve la siete vista brutta.

MADRE. Oh, nella vita basta guardarsi dietro. C’è sempre chi sta peggio.

PRIMA VECCHIA. Paco e Tonina devono ringraziare per avere una madre come voi.

MADRE. I figli, loro sono giovani e non sempre capiscono.

PRIMA VECCHIA. Cosa volete che capiscano? Questa gioventù, poi! Non hanno visto una guerra, che Dio ce ne scampi e liberi, e pensano solo a divertirsi. Le ragazze è peggio.

MADRE. Non dovete dirmi niente, Lena, che di questo argomento ne so già io da scrivere un libro.

PRIMA VECCHIA. Ah, sì?

MADRE. Ma non lo scrivo, state tranquilla.

PRIMA VECCHIA. Anche solo quel povero Ugo. Guardate, ora, cosa ci guadagna un bravo giovane a lavorare la campagna e a fare il suo dovere. Lui non li ha i grilli per la testa.

MADRE. A fare il suo dovere, la gente, al giorno d’oggi, sembra che gli dai un dispiacere.

PRIMA VECCHIA. Le donne non sono più come noi e si rifiutano di vivere in campagna.

MADRE. Non è un gran danno. La campagna ha bisogno di braccia forti. Le donne se ne possono anche andare a Torino. Chi resta non piange se loro se ne vanno.

PACO. (entra; indossa una camicia scozzese e pantaloni di fustagno, il tutto piuttosto malandato; ha il capo coperto da un cappello sgualcito di paglia color verderame) Scappo. Il temporale viene sempre più vicino. Non so se serve dare l’acqua adesso.

MADRE. Sulla credenza c’è una pagnotta e una fetta di toma. Per bere c’è l’acqua marcia. Il mese passato ha ricominciato a buttare.

PACO. Buondì, Lena. (esce)

PRIMA VECCHIA. Vai, Paco, vai che tu sei in gamba.

MADRE. (forte, per farsi sentire da Paco che è uscito) Non aver fretta per la cena. Si mangia quando è notte.

PRIMA VECCHIA. Lui non va in fabbrica.

MADRE. Deve coltivarsi la campagna che gli ha lasciato suo padre.

PRIMA VECCHIA. Ugo non c’è andato e adesso, se vuole sposarsi, se ne deve prendere una di Napoli.

MADRE. Il mio Paco, per il momento, al matrimonio non ci pensa.

PRIMA VECCHIA. E fa bene. Voi siete ancora in gamba. E poi, c’è sua sorella.

MADRE. Sta fresco se aspetta la sorella!

(Tuoni e lampi)

MADRE. Questo temporale non è niente di buono.

PRIMA VECCHIA. Se non era della tempesta, molti restavano in campagna.

MADRE. Noi la tempesta non ci ha fatti scappare.

PRIMA VECCHIA. Se viene una guerra, li vediamo tornare tutti. Come nell’ultima. Anche quelli che in campagna non ci hanno mai lavorato. Ve lo dico io, Neta. Avete ragione voi, non quelli che vanno via.

(Tuoni e lampi)

MADRE. Non vorrà tempestare!

PRIMA VECCHIA. Il torto è delle ragazze che non vogliono più sposare i nostri giovanotti. Quelle di una volta si leccavano i gomiti ad accaparrarsi un particolare come Ugo.

MADRE. Paco è giovane. I tempi possono cambiare.

PRIMA VECCHIA. L’anno scorso ha già tempestato.

MADRE.  Il tempo è brutto. State a sentire, Lena. A vespro tardiamo ad andarci. Accendo una candela e diciamo un Credo.

PRIMA VECCHIA. Lo dico di cuore. Se ci batte di nuovo quest’anno, la volontà non vi basta. Magari dovete partire.

MADRE. No, Lena. Noi la terra non la lasciamo. I nostri vecchi ci sono campati. Campiamo anche noi. (accende una candela)

PACO. (entra di corsa) Fuori diluvia!

MADRE. Prendi una sedia e mettiti in ginocchio. Diciamo un Credo che non tempesti.

(I TRE si inginocchiano su altrettante sedie attorno al tavolo. Di colpo si spengono le luci)

PACO. E’ saltata la valvola. (si alza) Vado a vedere.

MADRE. Vai dopo. Intonate voi, Lena. Noi vi veniamo dietro.

(si ode il martellare della grandine sui tetti)

PACO. Dio santo! Questa è tempesta!

MADRE. Non bestemmiare. Lena, intonate, per carità.

(PACO si inginocchia e tutti e TRE recitano il Credo, ma le loro voci sono coperte dai tuoni e dal rumore della grandine. Bagliori di lampi. Alla fine:)

MADRE.  Paco, apri le gelosie e guarda cosa fa il tempo.

PACO. (alla finestra) Viene che Dio la manda.

PRIMA VECCHIA. Recitiamo una Salve Regina. Ci mettiamo nelle mani della Madonna.

PACO. Per terra è bianca.

MADRE. Lascia perdere. Vieni a pregare con noi.

(Ma subito si ode una voce gridare da lontano)

VOCE. Maledetto! Ci hai rovinati. Guarda! Guarda cosa hai fatto! A Questo non sono bastati soldi per l’olio e per le messe! Ci rovina anche l’uva! Guarda, guarda, maledetto! Prendi tutto a noi poveri cristiani, e mantieni la macchina al tuo prete! Guarda, guarda, maledetto!

PACO. E’ Bastiano delle Delizie. Ha legato il crocifisso e lo trascina davanti ai filari. Questa volta è proprio rovinato.

MADRE. (spegnendo la candela) Siamo tutti rovinati.

PRIMA VECCHIA. Chissà se Ugo parte lo stesso?

SCENA QUARTA

(Come le scene seconda e terza. Dopo cena)

ROMANO. Se mi ascolti, vai dal prevosto e gli dici di cercarti un posto in fabbrica. Io devo ringraziare lui, se ci lavoro.

PACO. Non so. A me piace la campagna.

ROMANO. Ho sentito dire che la prossima settimana ne prendono dei nuovi. Se fai in fretta, entri quasi di sicuro.

PACO. Tu fai le cose facili. Non so se sopporto gli orari, i padroni e le sirene.

ROMANO. Gli orari ci sono anche a lavorare la campagna.

PACO.  E’ diverso, perché qui me li faccio da solo. E se ho caldo, mi fermo sotto un albero. Se ho sete, bevo alla fontana. E non sento la puzza della paraffina che si dà ai macchinari.

ROMANO. Perché? Quella del guano è meglio? O quella del letame?

PACO. Una volta ci sono passato davanti alla tua fabbrica. Quando è morta mia zia, la madre di Gianni.

ROMANO. Giusto quello! Lo vedo ogni tanto davanti ai cancelli della fabbrica.

PACO. Scommetto che fa l’impiegato, non l’operaio.

ROMANO. Né l’uno né l’altro. Non lavora lì, ma lo vedo sovente davanti ai cancelli. Basta! Lo so io dove si va a finire con gente come quella.

PACO. Io, se vengo in fabbrica, è perché mi manda la tempesta. Ho girato per i filari. Il danno è enorme e quello che resta ce lo pagheranno meno. Ma non andrò a vivere in città. Se fosse Torino, è lo stesso. Il mio mondo è qui, in questo vecchio paese nel quale siamo nati.

SCENA QUINTA

(Come la scena quarta. Mezzanotte)

PACO. (seduto al tavolo, tiene il capo tra le mani)

TONINA. (entra; indossa una spessa camicia da notte)

PACO. (alza gli occhi per un istante)

TONINA. La mamma si gira nel letto. Non riesco a dormire. Mi dispiace. Mi dispiace per tutto: per la tempesta, per me che me ne vado, e poi per le parole che ti ho detto oggi. Mi dispiace. E’ brutto dire quelle cose. E’ anche per questo che me ne voglio andare. La miseria mi rende cattiva. Non la sopporto. Basta con questa vita! Ho diciotto anni. Voglio alzarmi al mattino e mettermi le calze di seta, il reggiseno, farmi il trucco, darmi il rossetto, pettinarmi e sapere che c’è qualcuno che mi vede. La mamma era bella, sai. Ma poi si è sepolta qui, in campagna, e la terra le ha sfondato il corpo. Io ho sentito nostro padre gloriarsi delle vite da bestia che hanno fatto. Non voglio vivere come un animale: rovinarmi le mani con gli attrezzi, storpiarmi le gambe a camminare sui campi arati, ed a trent’anni sentirmi una vecchia. Mi odierei per tutta la vita. Ed anche gli altri odierei. Paco, non chiedere mai a una donna di rinunciare a se stessa. (esce lentamente)

PACO. (beve; quindi si china sul tavolo, a dormire col capo appoggiato sulle braccia)

SCENA SESTA

(Canonica. Studio del parroco. Il giorno seguente)

PREVOSTO. (alza il capo dal libro, depone gli occhiali e fissa Paco per un istante) Tu sei Paco dei Vecchi, vero?

PACO. Sì, signor prevosto. Ma non vorrei disturbare.

PREVOSTO. Non temere. Siedi.

PACO. Grazie. (siede)

PREVOSTO. Così ieri ha grandinato. Brutto affare.

PACO. Ho girato per le vigne dopo il temporale. La metà del raccolto è perduta.

PREVOSTO. Non ti ho visto a vespro.

PACO. Sono andato nei filari. Mia madre dice che Dio è al primo posto, ma anche la campagna non va dimenticata.

PREVOSTO. Santa donna, tua madre! Dunque, Paco, qual buon vento?

PACO. Cerco lavoro.

PREVOSTO. Ah!

PACO. Mi hanno detto che lei può aiutarmi a trovare un impiego in qualche fabbrica.

PREVOSTO. E la cascina?

PACO. Sono due anni di fila che va male. Qualunque lavoro, sa, signor prevosto. Basta che possa portare a casa una busta che non ci tempesti sopra. Io non sono uno scappa lavoro che io arrivo. Ringraziando il Signore, la forza non mi manca.

PREVOSTO. E tua madre?

PACO. Mia madre ha un’età. Se dico che voglio andare in fabbrica, lei subito pensa che intenda lasciarla per stabilirmi in città. Cosa che io non mi sogno neanche quando dormo.

PREVOSTO. (rimane un attimo sovrappensiero) Vedi, Paco, io posso tentare, ma non sono in grado di promettere niente. Conosco una brava persona. Uno di quelli che, quando possono fare del bene, non se lo lasciano dire due volte. Cercherò di parlare con lui.

PACO. Grazie, signor prevosto.

PREVOSTO. In ogni caso, non so se riuscirò a farti contento. Sono cose delicate. Adesso, poi, che tutti vogliono lavorare in fabbrica... Tu ne hai bisogno e ti capisco. Ma certi individui... Basta! Poi vedi i pasticci che capitano.

PACO. Gente che non ha voglia di lavorare.

PREVOSTO. Mah! Vedrò cosa posso fare. Una volta era più facile. Comunque, tentare si può tentare.

PACO. (si alza) Lei mi toglie dalla disperazione.

PREVOSTO. Vai subito a casa?

PACO. C’è ancora una bell’ora di sole. Mi volto due file di fieno prima che venga notte.

PREVOSTO. Ecco, bravo. Mai stare in ozio. Saluta tua madre e dille che per la rimanenza delle esequie non si dia pensiero. Tiriamo una riga sopra e va bene così.

PACO. No, questo no, non lo posso accettare. E’ per la buonanima di mio padre. Sarebbe come mancargli di rispetto.

PREVOSTO. (si alza) Va bene, va bene! Queste cose le sai tu. Vuol dire che se ti trovo il posto, mi darete quello che mi dovete.

PACO. E ci aggiunga pure qualche messa di suffragio.

PREVOSTO. Bravo. E’ il modo migliore per ricordare e onorare i nostri morti. Arrivederci, Paco.

PACO. Buona sera, signor prevosto. (esce)

PREVOSTO. (siede, inforca gli occhiali e fissa lo sguardo sul libro che gli sta davanti) Dunque: In nome del Figlio. Ah, Garaudy! Questa grande anima che sta sull’altro fronte.   

SCENA SETTIMA

(Casa di Paco. Pochi giorni dopo. Pomeriggio inoltrato. PACO, MADRE e MADRINA bevono il caffè. In mezzo al tavolo è collocato un secchio da cui sporge un bastone)

PACO. Ci sono fabbriche a Carmagnola?

MADRINA. Eccome! C’è la Fiat. Da quando l’hanno aperta, la città si è riempita di terroni.

PACO. Perché poi li fanno venire di laggiù... Così noi, ci rubano il lavoro.

MADRE. Quelli si cacciano dappertutto. Hanno la faccia come... basta! Lo so io come  cosa. (tra sé) Che fa quella? (forte) Vieni giù, Tonina. Non far perdere tempo alla madrina

MADRINA. Ma voi vivete in paradiso. Che pace che c’è qui!

MADRE. Sono sicura che adesso viene.

MADRINA. C’è tempo. (altro tono) Non sono come i nostri. Hanno la schiena di vetro. A chinarsi, si rompe. (offrendo) Fumi, Paco?

PACO. Magari una la prendo.

MADRE. Proprio così. Non hanno voglia di lavorare. Fanno gli scioperi e la roba aumenta anche per noi qui in campagna.

TONINA. (entra, reggendo una valigia) Sono pronta.

MADRE. Se ci va male, sappiamo a chi dire grazie.

MADRINA. Eh, come hai ragione!

MADRE. (a Tonina) C’era bisogno di metterci tanto? (a Paco) Ricordati le vacche, da dargli da mangiare.

PACO. (si alza e prende a rimestare nel secchio col bastone; gesto lento e rituale)

MADRE. (a Tonina) Eh, soffia, soffia! Te, se trovi chi ti sopporta, sei fortunata.

MADRINA. State tranquilli per Tonina. Ne facciamo una cittadina.

MADRE. Una cittadina, quella! (a Tonina) Va’ là va’, che ti drizzano, te.

MADRINA. Bene, (si alza) Possiamo andare. Non voglio perdermi il rischiatutto in tivù. (esce, seguita dalla MADRE)

TONINA. Arrivederci, Paco. Come arrivo a Torino, ti scrivo una cartolina.

PACO. Va’ là va’, che vai a star bene tu.

TONINA. Ciau. (esce)

PACO. Ciau, Tonina. (continua a rimestare)

Voce della MADRINA. Ah, ecco la nostra damina che arriva.

Voce della MADRE. Paco, vieni a salutare la madrina.

PACO. (esce)

Voce della MADRINA. Sali in macchina, Tonina. Allora siamo intesi, Neta. E non stare in pensiero. Sarà come in casa. Arrivederci, neh. Tu, Paco, ora rimani da solo con tua madre. Tutti i vizi sono per te.

(Rumore di motore avviato)

Voce della MADRINA. Arrivederci.

Voce di PACO. Arrivederci.

(Rumore di auto che si allontana. Muggiti)

Voce della MADRE. Paco, le bestie hanno fame.

Voce di PACO. Eh, vado. (entra e riprende a rimestare)

MADRE. (entra e si ferma alle spalle di Paco) L’altra volta c’era troppo mangime nel pastone. (esce dall’altra parte)

SCENA OTTAVA

(Casa di Paco. Una sera, durante la cena)

PACO. (sta mangiando) Era meglio aver fatto l’assicurazione. Se mio padre buonanima ci avesse pensato, adesso non eravamo alla disperazione

MADRE. Ti manca da mangiare? Un letto per dormire ce l’hai. Le galline, grazie a Dio, cantano tutte le mattine.

PACO. Voglio vedere se quest’inverno le galline continuano a cantare.

MADRE. Tuo padre di lassù un giorno o l’altro ti manda la maledizione, se persisti nel non lasciarlo in pace. Non metterti in testa di prendere esempio da tua sorella!

(Bussano. Apre la MADRE)

PREVOSTO. (subito, prima di venire avanti) Buone notizie. Disturbo? (avvicinatosi a Paco) Incominci domani mattina.

PACO. (si alza) Già domani?

PREVOSTO. Sta comodo, perdinci. Finisci di mangiare. Questa è un’ora poco indicata per far visita ai cristiani.

MADRE. Cosa dite, signor prevosto? Voi siete sempre il benvenuto in questa casa. Sedete, sedete. Vi preparo una tazza di caffè.

PREVOSTO. Se non è troppo disturbo.

MADRE. Ma no, ma no! Una tazza di caffè. (prende il macinino, vi metterà il caffè e incomincerà a girare la manovella)

PREVOSTO. Va bene. Io intanto scambio due parole con l’uomo di casa. (siede al tavolo, vicino a Paco) Ti prende il pullman domani mattina. Passa alle cinque. Cominci alle sei e finisci alle due. Poi ti riportano a casa. Ti mangi un bel pranzo e, se vuoi, alle cinque sei già nei filari. Tanto, più presto fa caldo. Ho parlato con quella persona. Non voleva. Dice che adesso non ne hanno bisogno. Ma poi gli ho descritto le tue condizioni. Allora ha deciso di aiutarti. E’ buono di cuore. Ha già fatto entrare tanti altri giovani.

PACO. Che lavoro mi danno?

PREVOSTO. Prima ti vuole vedere. E a noi non dispiace, vero? Significa che prende le cose sul serio. (alla Madre) Non fatelo troppo forte, eh, questo caffè! (a Paco) Io non so come la pensi tu, ma adesso laggiù in fabbrica c’è un po’ di pasticcio. Quella persona mi ha domandato se tu eri un ragazzo onesto e con la testa sul collo. Io gli ho detto di sì. Ho fatto bene?

PACO. Chiedo solo di lavorare.

PREVOSTO. Ecco, bravo! E anche di guadagnare. Ma gli scioperi... Ti parlo da amico e non come parroco. Se sono fatti per ottenere le giusta mercede e senza violenza, ben vengano gli scioperi. Ma il fatto è che a te non conviene. Quella persona mi ha detto che ti prendono in prova per sei mesi. Lo fanno con tutti. E allora è meglio che righi diritto e fai loro toccare con mano che sei un lavoratore.

PACO. Lo sciopero lo faccia chi vuole. Io non lo faccio.

PREVOSTO. Vedi come siete? Uno vi dice una cosa e voi ne capite un’altra. Va’ là, che sei in gamba lo stesso, tu! (alla Madre) E allora questo caffè, signora Neta?

MADRE. (immobile) Lui me l’hanno preso lassù. Quest’altro mi scappa in città. Ormai sono sola.

SCENA NONA

(Ufficio. L’indomani mattina. Ore nove, circa. Squilla il telefono)

SEGRETARIA. Direzione. Ufficio del dottor Scavino... Sì, dica... Cordero Pasquale, grazie. (posa la cornetta; quindi al dottor Scavino) C’è l’altro incontro per l’assunzione.

DOTT. SCAVINO. Chi è?

SEGRETARIA. Contratto uno ci. Stagionale.

DOTT. SCAVINO. Chi lo manda?

SEGRETARIA. Don Verrua, il parroco di Serralunga. Abbiamo qui allegata una sua lettera. Dottore, devo...?

DOTT. SCAVINO. No, non è il caso. Mi legga la scheda.

SEGRETARIA. Non è ancora completa, ma è stata compilata in parte sulle informazioni ottenute attraverso...

DOTT. SCAVINO. Allora!

SEGRETARIA. (leggendo dalla scheda) Anni ventidue. Orfano di padre. Capo famiglia. Servizio di leva assolto. Licenza di scuola media inferiore presso la scuola Martin Luter King di Monforte. Cattolico praticante. Scapolo. Fonti di reddito: agricoltura. Non ha carichi giudiziari pendenti.

DOTT. SCAVINO. Lo faccia entrare.

SEGRETARIA. (esce e rientra accompagnando PACO; il DOTT. SCAVINO si alza e stringe la mano a PACO, che appare emozionato)

DOTT. SCAVINO. (sedendo) Si sieda.

PACO. (siede sul bordo della sedia)

DOTT. SCAVINO. Lei è il signor Cordero. Sono lieto di conoscerla. Come ogni collaborazione e ogni intesa nascono da una sincera conoscenza, ora lei, caro signor...

PACO. Cordero.

DOTT. SCAVINO. Sì, certo. Caro signor Cordero, lei capirà dunque se ora noi ci conosceremo un po’ meglio. E’ in questo spirito che mi permetto di rivolgerle alcune domande. Vediamo, vediamo. Ah, ecco. Ha già avuto altre esperienze di lavoro?

PACO. Io ho sempre coltivato la terra.

DOTT. SCAVINO. Di sua proprietà?

PACO. Prima era di mio padre, ma adesso è mia. Mia madre gode solo l’usufrutto.

DOTT. SCAVINO. E come mai chiede di essere assunto nella nostra azienda?

PACO. La forza non mi manca e perciò la campagna non l’abbandono. Dopo il turno in fabbrica ho ancora il tempo per lavorarla come si deve. Ne conosco tanti che fanno in questo modo.

DOTT. SCAVINO. Quanti anni ha?

PACO. Ventidue.

DOTT. SCAVINO. Ha fatto il militare?

PACO. Sì.

DOTT. SCAVINO. Che scuola ha frequentato?

PACO. La scola media di Monforte. Ho il diploma.

DOTT. SCAVINO. Bravo. E’ cattolico?

PACO. Sì.

DOTT. SCAVINO. Bene. Ora compileremo la sua cartella personale. Raccogliamo questi dati per le nostre statistiche. Forse in seguito dovremo ancora farle qualche domanda. Il nostro ufficio ormai è diventato un centro di  informatica. Capirà, oggi l’organizzazione del lavoro esige una metodicità dei processi selettivi. Dimenticavo una domanda. Lei è iscritto a... 

(Squilla il telefono)

SEGRETARIA. (alza la cornetta)

DOTT. SCAVINO. ... lasciamo perdere. Mi dica piuttosto se ha parenti che lavorano in fabbrica.

SEGRETARIA. Dottor Scavino, mi scusi. La sua signora.

DOTT. SCAVINO. (solleva la cornetta del proprio apparecchio) Sì, cara... dimmi, cara... Certo, cara... Sì sì, hai ragione, cara. E’ il solito cafone!... No, non posso. Se facessimo sabato... Sai che a me non frega niente di quelle cose. A teatro mi addormento... No, no, tu vai... ma certo, lo sai che sono contento... Non con quello, e sai anche il perché. Cerca di combinare con tua cognata... Va bene, cara. Dimmelo prima, però. Ciao, cara. Smack smack dal tuo puffetto. (posa la cornetta) Sì, va bene, signor Cordero. Ora parleremo di noi, della nostra azienda. Essa è da poco salita a  standard produttivi di livello europeo ed è chiaro che, a questo stadio, la nostra organizzazione non può permettersi esitazioni produttive od incertezze di programma. La stessa tecnologia contribuisce a sfrondare tutto quanto, sia sul piano metodologico che su quello organizzativo, rallenti, impedisca e comprometta il ritmo produttivo. La nostra filosofia è il progresso. Il progresso a tutti i livelli, che permetta di fare meglio e di più. E questo come mezzo e come fine per la nostra azienda e per tutti quanti noi che siamo legati ad essa. Il lavoro dell’industria è il lavoro dei suoi operai. Essa è dei suoi operai, perché sono loro i primi a pagare le sue crisi.

(Squilla il telefono)

SEGRETARIA. (solleva la cornetta ed ascolta brevemente) Dottor Scavino, c’è l’assistente sociale.

DOTT. SCAVINO. (solleva la cornetta del proprio ricevitore) Dica, prego... Sì, ho presente... Veda, lei ha ragione, ma questa non è la San Vincenzo... Cara signorina, io non decido nulla. Il caso che lei mi ripropone è contemplato nel contratto di lavoro. Abbiamo altri casi del genere e non possiamo certo fare delle eccezioni... Tutti gli operai hanno bisogno di lavorare. Nessuno viene in fabbrica per far passare il tempo... No, guardi, la comprensione personale è un sentimento che occorre lasciare fuori dalla porta, e poi ci sono altre persone che attendono un posto... No no, non c’è nessun cinismo in questo. Se l’industria dispone di mille posti di lavoro, noi reclutiamo mille dipendenti. Né novecentonovantanove, né milleuno. E’ al di fuori di ogni calcolo di profitto. L’industria non toglie il lavoro a nessuno, ma nemmeno può permettersi di mantenere chi non produce. Non basta voler lavorare per meritarsi lo stipendio. Spero, cara signorina, di non doverle ripetere in seguito queste cose... Prego. Buongiorno! (alla Segretaria) Archivi pure il caso Giacardi come le ho detto ieri. (verso Paco) Lei viene assunto con contratto stagionale, a decorrere dalla prossima settimana e per la durata di sei mesi. Alla scadenza del semestre, lei potrà essere licenziato ed interrompere così definitivamente il suo rapporto di lavoro con la nostra azienda; oppure, essere riassunto alla prossima stagione. Oppure, ancora, non licenziato ed assunto con altro contratto in via definitiva. E sarà lei, caro signor Cordero, ad indicarci col suo comportamento di questi sei mesi, l’atteggiamento che la ditta dovrà assumere nei suoi riguardi alla scadenza del contratto. (si alza) In ogni caso, il compito che l’attende non è molto gravoso. Abbiamo dei tempi molto elastici. Sappia inoltre che non sarà mai solo. In ogni momento e in ogni situazione i nostri capireparto vigileranno sul suo operato... e l’aiuteranno, se ne avrà bisogno. Collabori sempre con loro e non avrà di che lamentarsi.

(Squilla il telefono)

DOTT. SCAVINO. (all’apparecchio) Pronto. Direzione. Qui, dottor Scavino.

SIPARIO

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

(Casa del cugino Gianni. Sono trascorsi circa due mesi)

PACO. Te ne ho portato di quella più bella, ma la tempesta quest’anno ci ha dato dentro che è un piacere. Guarda quanta roba secca ho dovuto tagliare. E dire che ne ho fatta passare dell’uva.

RITA. Ma, non si può fare niente contro la grandine?

PACO. Una volta, quando tempestava, mio padre se ne andava per i campi e le colline prima ancora che le ultime grane avessero finito di cadere. Partiva da casa e faceva il giro delle cascine. Parlava con la gente del danno che c’era stato. Quasi tutte le volte passava la notte  fuori e all’indomani mattina, quando tornava, si vedeva ancora che era ubriaco.

RITA. Vuol dire che quest’anno mangeremo la frutta d’Israele, sempre che non abbia grandinato anche laggiù.

MOGLIE. Lo sai, Paco, che cosa ho sentito dire una volta sul mercato? Era stata un’annata molto buona e tutti, o quasi, si lamentavano, e dicevano che era meglio se avesse tempestato un poco, perché così c’era troppa merce e il prezzo calava di un terzo e la tempesta non porta mai via più di un terzo.

PACO. Questa non è una ragione. Qualche volta porta via anche le viti.

RITA. E’ strano, però. Col progresso, gli altri prodotti scendono di prezzo e quelli della campagna salgono. Finirà che vivremo con le pillole.

PACO. Questi sono altri tempi. Se uno in campagna non fa come nell’industria, colle macchine e tutto il resto, conviene cercarsi un posto in fabbrica.

RITA. Tu, Paco, non hai mai visto uno sciopero?

PACO. Io è poco che lavoro e per certe cose preferisco starmene al di fuori.

GIANNI. Quelli che pensano come te sono la fortuna degli industriali.

PACO. Io col padrone non ho niente da dire. Io lavoro e lui mi paga. Se va bene a lui, va bene anche a me. Se lui va del culo, ci vado anch’io prima di lui.

RITA. Nessuno può fare a meno dei soldi della busta. Neppure io. Però, se uno ti sfila un diecimila dalla tasca, tu non reagisci? Fai finta di niente, perché te ne ha lasciati altri quattro?

GIANNI. Tra un mese c’è il rinnovo del contratto...

PACO. Ma tu lavori in fabbrica?

GIANNI. No.

PACO. Perciò, qualunque cosa capiti, tu non ci vai di mezzo.

GIANNI. Questo non c’entra.

PACO. Che lavoro fai?

GIANNI. L’assicuratore.

MOGLIE. E’ la stessa cosa per tutti i mestieri. Se pensi colla tua testa, non c’è nessuno che ti vuole.

PACO. Tu sei comunista?

MOGLIE. No, ma trovo ugualmente le mie difficoltà. Come se lo fossi. Vedi? Io faccio la commessa in un grande magazzino a Torino e non riesco a trovare un posto qui in Alba dove la gente mi conosce. E sai perché? Perché prima di prendermi vogliono avere delle informazioni. E allora vengono a sapere che convivo con un uomo da due anni, che non sono sposata in chiesa, che non abbiamo figli e tutte le cose che la gente per bene si sente in dovere di dire. Così, alla fine, preferiscono assumerne un’altra, magari raccomandata dal prete della sua parrocchia.

PACO. Ma tu e Gianni non siete sposati?

GIANNI. Non come intendi tu.

MOGLIE. Il matrimonio è soltanto un contratto.

RITA. E molti si bruciano in fretta, nonostante le firme e le più solenni cerimonie.

PACO. E se vi nasce un figlio?

GIANNI. Un figlio non è come la tempesta che arriva quando vuole.

MOGLIE. Se viene, è perché lo vogliamo e non gli mancherà il nostro affetto.

PACO. Certo che voi due, per avere del coraggio, ne avete.

RITA. In tutte le cose ci vuole del coraggio.

MOGLIE. Hai degli amici in fabbrica?

PACO. C’è Romano, che è uno del paese.

MOGLIE. E’ molto che lavora?

PACO. Più di un anno. Ma lui è come me. I problemi della fabbrica se ne frega. Ha una grande cascina e dopo i turni pensa solo a divertirsi. Non parliamo mai di queste cose, capisci?

MOGLIE. Sì, ti capisco.

PACO. (si alza) Devo andare. Ho la corriera che mi parte tra mezz’ora.

RITA. Vengo anch’io. (si alza) Ti dispiace se faccio un pezzo di strada insieme a te?

PACO. Ma no. Cosa dici? Mi fa un piacere della Madonna!

SCENA SECONDA

(Balera. Alcuni giorni dopo. Domenica pomeriggio. RITA e PACO tornano da ballare e si siedono a un tavolo)

RITA. Ah, che caldo! Balli bene, sai?

PACO. Mi piace la musica di una volta. Me la sento nelle gambe.

RITA. Non si direbbe a vederti.

PACO. I miei di casa mi hanno sempre legato stretto, e perciò io non ho grilli per la testa. Però divertirmi mi piace. Sempre senza gettare via i soldi dalla finestra.

RITA. Una donna con te si sente sicura. Non sei come gli altri che frequento.

PACO. Tu sei bella. Chissà i giovanotti che ti ronzano d’attorno.

RITA. I ragazzi di città sono troppo damerini.

PACO. Hai ragione. Tengono il borsello sopra una spalla e fanno i gesti come le donne. Me, mi devono vedere morto, prima che mi metta a portare la borsetta.

RITA. Sei proprio simpatico.

PACO. Adesso, con i soldi della busta, va a finire che mi compro la macchina. Però io ti ho capita, sai. Tu sei un tipo che il divertimento non gli dispiace.

RITA. Se una non si diverte quando è giovane, da vecchi non c’è più soddisfazione. Sei già stato al mare?

PACO. Ci sono andato una volta con mia madre. Avevo una zia al Santa Corona. Le facevano male le ossa. Adesso è morta. Aveva messo l’asse da fare la pasta sotto il materasso e dormiva tutta la notte senza voltarsi sopra i fianchi.

(Riprende la musica. Ritmo. Una coppia balla ai bordi della pista. PACO e RITA sono costretti ad alzare la voce)

RITA. Balliamo?

PACO. Preferisco di no. Il ritmo, non sono capace. Ho sete. Vieni che beviamo.

RITA. Tra un po’. Dimmi cosa fai di solito al paese. Hai degli amici?

PACO. Pochi. I giovani se ne sono andati quasi tutti.

RITA. Perché non te ne vai anche tu?

PACO. Per adesso non ci penso. Ho ancora mia madre e non voglio abbandonarla. E poi, la terra che lavoro è mia.

RITA. La terra puoi farla coltivare da un mezzadro.

PACO. Non conviene. Adesso non è come una volta. Pensano solo al raccolto. Alle viti gli danno lungo, per farne di più, e in pochi anni ti rovinano la vigna. E tu cosa fai di domenica in città?

RITA. Dipende. Una volta andavo al cinema.

PACO. E adesso?

RITA. Adesso ho degli amici e nei giorni festivi andiamo in giro con le macchine.

PACO. Ce l’hai il fidanzato?

RITA. Un ragazzo fisso, no. Ogni tanto qualcuno mi fa il filo e allora magari si esce un po’, ma non troppo.

PACO. Va’ là che ai giovanotti tu fai girare la testa, te lo dico io.

RITA. Oh, i più è meglio perderli che trovarli.

PACO. E perché ci esci insieme?

RITA. Tanto per passare il tempo.

(Il ritmo finisce. PACO e RITA possono riabbassare la voce)

PACO. Anche con me?

RITA. Con te è diverso.

PACO. I tuoi di casa non ti dicono niente?

RITA. Cosa vuoi che mi dicano. Mio padre e mia madre sanno prendersi la vita.

PACO. Non fanno grane che cambi ragazzo sovente?

RITA. Be’, intanto a casa mia non sanno con chi esco. Mi chiedono solo i soldi della busta, quando è ora. Pagato il debito, ognuno si fa gli affari suoi.

PACO. Tua madre cosa dice?

RITA. Mia madre ha altro per la testa. Da quando è venuta al Nord, non sa più quello che conviene e quello che no.

PACO. E’ una napoli?

RITA. Anche mio padre. Napoli! Sono calabresi. I primi tempi se la sono vista brutta.

PACO. E te?

RITA. Io sono nata ad Alba, quando il peggio era passato.

PACO. Non è che io faccia caso se uno è terrone o piemontese. Ma loro sono diversi da noi e mi fanno paura. Hanno sempre il coltello per le mani. Io a pugni non sto indietro con nessuno, ma se vedo un coltello, sudo freddo.

RITA. Sta’ tranquillo. I miei sono gente calma. Mio padre racconta quando è arrivato in Piemonte. La gente lo schivava. Non trovava lavoro e mia madre faceva le poste. Già erano nati i miei fratelli.

PACO. Hai anche dei fratelli?!

RITA. Due. Sposati. Uno a Carmagnola e l’altro a Rivoli. Ma non sanno nemmeno che io esista. Poi, finalmente, mio padre è riuscito a entrare nella fabbrica dove ha lavorato per tutta la vita. Gli altri non assumevano i meridionali. Dopo qualche anno, con l’Ina-casa, hanno potuto abitare in un alloggio decente.

PACO. Non è stato facile neppure per loro.

RITA. Anche adesso è dura per chi arriva dal Sud. Ma io capisco. Se avessi una casa, non so se gliela affitterei volentieri. Io mi sento piemontese e coi meridionali preferisco non avere nulla da spartire. Non si tratta di essere razzisti...

PACO. Tanto i tuoi si vede che non sembrano napoli, se ti lasciano uscire quando vuoi.

(Musica forte. Ritmo. Luci psichedeliche. PACO e RITA si parlano urlando)

RITA. Sabato è festa. Vieni al mare con noi.

PACO. Sabato raccolgo le mele. Che casino queste luci!

RITA. Alle mele ci badi un’altra volta.

PACO. Tu fai tutto facile.

RITA. Allora non ci tieni a stare con me.

PACO. Cosa ti salta in testa?

RITA. Io non resto da sola. Lo dico a uno dei tanti che muore dalla voglia di venire.

PACO. Io gli rompo il muso, se vedo un altro insieme a te.

RITA. Allora lascia perdere le mele!

PACO. Ne parlo a casa e domani te lo dico.

RITA. No. Decidi adesso. Devo combinare con quello della macchina.

PACO. E va bene, va bene! Andiamo al mare, va’! Alle mele qualcuno ci pensa.

SCENA TERZA

(Casa di Rita. Una domenica pomeriggio)

PACO. (in canottiera e pantaloni, seduto sopra un puff, fuma; quindi si alza, spegne la sigaretta, prende la camicia e se la infila lentamente, abbottonandola; infine a Rita, senza voltarsi) E vestiti!

RITA. (da dietro il divano) Ce l’hai con me?

PACO. Non voglio che arrivi tuo padre. Cosa resta se ci trova in casa da soli?

RITA. Papà e mamma sono andati a Carmagnola da mio fratello. Non torneranno prima di notte. (dopo un breve silenzio, sporgendo il capo al di sopra dello schienale del divano) Vieni qui. Stai ancora un po’ con me.

PACO. Se ti vesti, sono più contento. Poi usciamo a prenderci un caffè.

RITA. (si alza; ha le spalle nude e il corpo coperto da un plaid) Un caffè insieme? L’idea mi soddisfa. (si avvia)

PACO. Non hai paura, adesso?

RITA. (si ferma e si volta) Paura?

PACO. Guarda che ti sposo, se porta occasione.

RITA. Grazie tante!

PACO. Io mi preoccupo perché ti voglio bene.

RITA. La cosa è reciproca. Ma stai tranquillo. Queste cose le so io.

PACO. Ah, bene! Vai a vestirti.

RITA. Vado. (esce)

(Breve silenzio)

PACO. Mio cugino non mi piace come ha fatto. A me non va di sposarmi in comune.

Voce di RITA. Gianni ha le sue idee e fa tutto per la politica.

PACO. La politica sarà una bella cosa, ma io la donna che sposo voglio portarla all’altare.

Voce di RITA. Ti è piaciuta la gita a Spotorno?

PACO. Non dico di no. Però stamattina ho dovuto alzarmi alle tre per raccogliere le mele.

Voce di RITA. Alle tre?

PACO. Eh, sì. Noi di campagna ci siamo abituati alle vite!

(Breve silenzio)

Voce di RITA. Non mi  va di chiamarti Paco. Dimmi il tuo nome per intero.

PACO. Pasquale.

Voce di RITA. Ah, Pasqualino. Allora io ti chiamo Lino. E’ sempre meglio che Paco. (entra e viene davanti a Paco; indossa una minigonna) Ti piace?

PACO. Mi sembra corta.

RITA. E’ la moda di adesso.

PACO. Ma, fai vedere le gambe!

RITA. Perché? Le ho brutte?

PACO. No no... E’ solo che poi...

RITA. Ho capito. Sei un tipo geloso. Eh, Lino?

PACO. Mi sono deciso! Vado a comprarmi la cinquecento. Ho già duecentomila da parte. Gli altri glieli do con le rate, mese per mese. La voglio prendere con i sedili ribaltabili.

RITA. Fai bene. Oggi non si vive senza un’auto. Hai già la patente?

PACO. Romano ce l’ha. Se glielo chiedo, mi insegna a guidare sulla macchina di suo padre.

RITA. Sono contenta.

PACO. La compro per te. Adesso che ti ho trovata, non voglio lasciarti scappare. Io ti ho capita, sai? Il giorno che ti salta in mente di andare da qualche parte, vai a cercare chi ti porta, se non ti porto io. Sei il tipo che fa questo e d’altro.

RITA. Tu mi piaci. Ma se hai la macchina, mi piace anche la macchina.

PACO. Non sforzarti a spiegare. Mi vai bene come sei. Perché la vita di campagna ti abitua a stare da solo e diventi selvatico, se non trovi qualcuno da parlargli assieme, e con te uno parla, se ha la lingua in bocca.

RITA. La campagna! Sempre la campagna! Sono quasi tre mesi che fai l’operaio.

PACO. Io  la fabbrica la ringrazio perché mi ha permesso di salvare la cascina. Ma in quanto a lavoro, ci passo soltanto la notte e non vedo altro che sacchi. Certo che adesso, la domenica, non sono più obbligato a stare coi vecchi a contarci le storie di mia nonna.

RITA. Un giorno o l’altro vieni ad abitare in città. Ci facciamo la nostra casetta e magari col tempo ci sposiamo. Il posto lo abbiamo tutti e due.

PACO. Per ora non ci penso. Non posso lasciare la terra e neanche mia madre. Mi sono impegnato e non voglio mancare di parola.

RITA. (si siede sul divano) Lino! Vieni qui, vicino a me, Lino.

PACO. (raggiungendo Rita sul divano) Tu mi farai perdere il lume della ragione!

SCENA QUARTA

(Casa di Paco. Alcuni giorni dopo. Pomeriggio. PACO e TONINA seduti al tavolo)

PACO. Va meglio? Vuoi ancora dell’acqua?

TONINA. No. Per ora no.

PACO. Che diavolo, capitare a quest’ora?

TONINA. Ho fatto l’autostop.

PACO. Si capisce che ti senti male. Chissà il sole che hai preso su quelle strade. C’è qualcosa che non va?

TONINA. Potrei avere ancora dell’acqua fresca? Quella del pozzo.

PACO. Un’acqua così se la sognano a Torino in questi giorni. Cosa sono quei fogli?

TONINA. Sono incinta, Paco.

PACO. Incinta? Chi è stato?

TONINA. Non lo conosci.

PACO. Com’è potuto capitare? Non è mica come dirsi ciau.

TONINA. Oggi, a Moncalieri si è fermata una giulia di Asti. Era un signore gentile: per non lasciarmi in mezzo a una strada, mi ha portata fino in paese. Ha una figlia che studia filosofia. Ogni quindici giorni, con la scusa di portarle dei soldi, la va a trovare a Torino. Ivana, si chiama. Ma dice che lei i soldi di suo padre non li vuole e non sempre li accetta. Fanno supplenze a scuola. Danno lezioni, fanno le baby-sitter... guardano i bambini degli altri alla sera e d’estate vanno a lavorare come cameriere sull’Adriatico. Così fanno i bagni e si mettono da parte i soldi per la scuola.

PACO. Be’? E allora?

TONINA. Il padre le compra la mini, se Ivana torna a casa la domenica.

PACO. Ma perché mi parli di queste cose?

TONINA. Anche lui aveva una giulia bianca. Hai mai viaggiato su una coupée?

PACO. Quando lo saprà nostra madre...

TONINA. Contestatrici, dice che sono contestatrici. Che non cambiano mai i vestiti. Solo pantaloni di velluto tutto l’anno. Non vanno mai dalla pettinatrice.

PACO. Ma cosa c’entrano con te, quelle?

TONINA. A un certo punto avrei voluto essere sua figlia, proprio quando ho capito che lui avrebbe voluto essere con sua figlia. Era contento. Parlava della villa e della moglie, come se io le conoscessi. Diceva, sai, le rose del giardino, il dondolo che era da cambiare, come se io fossi sua figlia. Andare a casa, vedere le rose. Sedermi sul dondolo. Leggere i fumetti, fumando la mia sigaretta... Così è arrivato fino qui in paese, senza accorgersene. Capisci? Io voglio tutto quello che sua figlia rifiuta. Perché? Perché? Perché sogno queste cose?

PACO. Perché non le hai.

TONINA. Le voglio. Sì, le voglio! Ancora adesso. Altrimenti mi sarei buttata nel pozzo. Ci ho pensato, sai. Il pozzo. Non nel Po o con le pastiglie, ma qui a casa, nel pozzo, sotto le nocciole.

PACO. Cosa farai adesso?

TONINA. Non voglio arrendermi per questo. A casa non ci sto, né viva, né morta. Con me lavora una ragazza che ha capito tutto di me e mi ha detto che con trecentomila lire lei ha sistemato ogni cosa. Trecentomila e un giorno di riposo.

PACO. Vuoi perdere il bambino?

TONINA. Non lo so.

PACO. Ma è figlio tuo!

TONINA. Mio, sì, ma anche suo... di quel bastardo! Sono venuta a vedere se hai i soldi da prestarmi.

(Breve silenzio)

PACO. Adesso non li ho tutti. Ne ho duecento. Altri settanta tra un mese, posso cercarli. Ma tu è meglio che ci pensi. Qualche soldo da aiutarvi tuo fratello lo avrà sempre.

TONINA. Grazie, Paco.

PACO. (si alza) Perché l’hai fatto? (esce)

TONINA. L’ho fatto perché mi piacciono i giovanotti con le unghie pulite, le macchine belle, le giulie o le fulvie coupé, mi piace uscire di sera, andare nei bei posti a mangiare o nei cinema del centro. Lo sapevo ancor prima di essere là che mi piaceva divertirmi, vivere la mia vita. Ma per queste cose c’è un prezzo per me, per tutte quelle come me: è l’unico prezzo che possiamo pagare.

PACO. (rientra con in mano una busta che porge a Tonina) Tieni.

TONINA. (prendendo la busta) Appena posso, te li rendo.

PACO. Non c’è fretta. Mese prima, mesa dopo...

TONINA. Se una volesse, può farsi ricca in fretta in città.

PACO. Quei soldi non li prenderei indietro.

TONINA. (riponendo la busta dentro la borsetta) Vedi, Paco, ora tua sorella non è più una ragazza seria come lo era qui in campagna. Anche la figlia del signore di Asti vive lontano da casa e si guadagna quel poco per vivere. Ma a me quel poco non basta, perché per me è sempre stato poco ed ora: basta! Ecco quello che ti volevo dire, che non capivo bene. Io e lei abbiamo forse gli stessi pochi soldi, ma per lei non c’è pericolo. Io invece sono senza rete. Se cado, casco nel pozzo.

PACO. E’ dura anche per te, fuori da questi campi.

TONINA. Il mio posto è in città. Qui non potrei più stare. (si alza) Non dire a nostra madre che sono venuta. Avevo paura d’incontrarla.

PACO. (si alza) Ti accompagno giù per la strada. Fermiamo la corriera.

SCENA QUINTA

(Casa di Rita. Una domenica pomeriggio)

Voce di RITA. Com’è andato l’esame?

PACO. (seduto sul puff) Bene.

Voce di RITA. Sono contenta. E ora c’è la macchina finalmente, e non avremo più bisogno di nessuno. Nemmeno di quel tuo Romano che mi sta sulle corna.

PACO. (dopo un breve silenzio) Cos’ha Romano che non ti piace?

Voce di RITA. Be’, se te lo devo dire, il tuo amico è un gran ruffiano.

PACO. Lo sapevo che andavi a finire su questo tasto. E qui ci dobbiamo mettere d’accordo io e te. Perché voi di città fate gli scioperi e ve ne fregate. E se le cose vanno male, ci pensa il padrone.

Voce di RITA. E voi di campagna che fate gli operai non avete ancora capito chi siete. Vi credete dei padroni perché avete la terra, ma qui in fabbrica, coi vostri colleghi, vi comportate da servi. (entra, portando il caffè) Tieni, Lino. Ci ho messo il cacao, come tua madre. Dimmi se va bene di zucchero.

PACO. (dopo la prima sorsata) Sì, sì, va bene.

RITA. Scusami per quello che ti ho detto di Romano.

PACO. Tu i miei amici non me li devi toccare! Questo piantalo bene nella testa.

RITA. Non ti facevo così permaloso.

PACO. Lo so, tu mi facevi scemo.

RITA. Ma, Lino! Ho appena finito di chiederti scusa.

PACO. E allora, basta. Prendi esempio e la prossima volta pensa a quello che dici. Che poi io ero venuto per invitarti a mangiare da mia madre, la domenica che viene.

RITA. Ah, d’accordo.

PACO. L’ho detto anche a Gianni. Così hai chi ti porta.

RITA. Hai fatto bene. (siede vicino a Paco e lo accarezza) E’ passato tutto, vero? (facendo la civetta) Lui è il mio bambino e qualche volta fa i capricci. Ma in fondo è così bravo il mio Lino, con tutti i suoi fastidi! Rita invece sembra sovente una bimba cattiva, perchè gli dice parole che lo fanno arrabbiare. Ma adesso Lino compra la macchina per portarla a passeggio e allora lei diventa tutta d’un colpo buona come un angioletto. La prende con i sedili ribaltabili, perché gli piace fare le cose brutte con la sua Rita. E la sua Rita è contenta perché Lino, le cose brutte, le sa fare meglio di tutti gli altri.

PACO. La macchina, non la compro.

RITA. (staccandosi bruscamente) Eh?

PACO. E’ inutile che ti fai delle idee. La macchina, non la compro.

RITA. Che significa, la macchina non la compro?

PACO. Vuol dire che non compro più la macchina.

RITA. Ma se avevi già messo i soldi da parte!

PACO. Non li ho più.

RITA. Come? Cosa ne hai fatto?

PACO. Li ho dati a mia sorella.

RITA. Tua sorella? E perché?

PACO. E’ venuta a casa per dirmi che ne aveva bisogno.

RITA. Ma, tua sorella lavora.

PACO. Si è cacciata in un pasticcio e ha chiesto aiuto a me per tirarsene fuori.

RITA. Duecentomila le hai dato?

PACO. Sì.

RITA. Hai fatto male. Servivano a noi, capisci? Erano per la nostra macchina.

PACO. Ci sono cose più importanti di una macchina.

RITA. Non fare il moralista!

PACO. Tonina mi vuole bene anche se vado a piedi. Capito? Chi ha orecchie da intendere, intenda.

RITA. Intanto è venuta da te e ti ha sfilato un capitale!

PACO. E da chi doveva andare? Da suo padre, che non c’è più? Da sua madre, che la prende a schiaffi prima ancora che dica una parola?

RITA. Nei pasticci si è messa da sola e da sola doveva sbrigarsela. Hai fatto male a darle i nostri soldi.

PACO. E ragiona, Rita! Cosa sono in fondo duecentomila lire?

RITA. Erano tutto quello che avevamo. Te li renderà, almeno?

PACO. Quando può, mi ha detto.

RITA. Speriamo che sia presto.

PACO. Tonina è come me. Sui soldi degli altri non ci dorme volentieri. Nemmeno su quelli di suo fratello.

RITA. Meglio così. La macchina puoi ordinarla lo stesso. La paghi tutta a rate.

PACO. Preferisco aspettare un po’ di mesi. Anche soltanto una coppia. Capisco meglio quello che combino.

RITA. E va bene. Facciamo due mesi. Ma non un giorno di più!

SCENA SESTA

(Casa di Paco. Domenica pomeriggio. Sul tavolo, i resti di un pranzo abbondante)

MADRE. (spreparando) Lino, lo chiama! Adesso devo sentirmelo chiamare Lino! Tanti sacrifici per metterli al mondo e in cambio non ti danno che amari  bocconi da inghiottire. Questo mi sembrava di averlo allevato come Dio comanda, e invece è bastata la prima cittadina che ha conosciuto a riempirgli la testa di baggianate. Ma tanto adesso il mondo cammina come vuole. A sua madre non ci pensa più nessuno. E ha il coraggio di portarla in casa! E dopo mangiato se ne vanno a spasso. A spasso per la vigna! Sono finiti i tempi che in campagna ci andava soltanto a lavorare. Adesso, la fabbrica lo stanca. Sì, la fabbrica! In principio non era così. Una madre capisce certe cose. Questa svergognata gli tira via il filo della schiena. Le cittadine non sono serie come noialtre di campagna. Se prendiamo quelle che lavorano nelle fabbriche, poi... Nostro Signore! Fate, fate! Combinate pure un bel pasticcio! Ma a lei non conviene, perché lei se la sbriga da sola. Il mio Paco la figura non la fa davanti al paese, e io una come lei non la prendo dentro casa. Stefano se l’è voluta una cittadina! Adesso se la gode a Racconigi, in mezzo ai matti. La città, la città! La città è piena di miserie, ben di più che la campagna.

(Suono di campane in lontananza)

MADRE. Oh, santa Vergine, ribattono già vespro. Abbiamo fatto una bella ora a correre dietro alle farfalle. Perché adesso mi vesto e me ne vado alla funzione. Loro, la sua anima ci pensano loro. La mia ci tengo... Almeno di là una povera madre finirà di tribolare.

SCENA SETTIMA

(Casa di Rita. Una domenica pomeriggio)

PACO. (seduto sul puff, sta fumando e guarda per terra; dà le spalle a RITA) E’ quindici giorni che ci penso. Oggi ho preso una decisione. Tra fabbrica e vigna il tempo mi va tutto e alle volte non mi basta. Non so fino a quando riesco a trovare due ore per postarti a spasso. Adesso è più di tre mesi. Per conoscerci, ci conosciamo. La casa l’hai vista e mia madre pure. E’ arrivato il momento di fare delle parole precise. Dobbiamo sposarci, Rita. Io ho bisogno di una donna che mi aiuti e faccia la mia vita.

RITA. Lino, è meglio che ti fermi. E’ presto per questi discorsi. Oh, intendiamoci. Tu mi piaci. Se dovessi sposarmi, sceglierei te.

PACO. E allora?

RITA. Ci sono ancora troppe cose per aria. Specialmente per quanto riguarda il tuo lavoro e la tua famiglia.

PACO. Non ti ho detto di sposarci domani. Ma bisogna incominciare a parlarne.

RITA. Hai paura che ti scappi? Di te mi posso stancare solo se mi trascuri. Devi temere per come agisci tu, non per quello che posso fare io.

PACO. Ti chiedo soltanto di fidanzarci sul serio. In giro ci andiamo anche dopo. La macchina la compro. Non ti manco di parola. Ma io ho bisogno di sapere che tu sei per sempre la mia donna.

RITA. E va bene. Parliamone. Io ti posso anche sposare, tra un anno o due, diciamo. Ma prima voglio che tu mi parli chiaro...

PACO. Non chiedo di meglio.

RITA. ...che mi dica le idee che hai nella testa, come cambierà la mia vita quando sarò diventata tua moglie.

PACO. Be’, farai solo più quello che tocca a una donna. Lavi, stiri, cucini, tieni la casa in ordine. Queste cose le sai tu meglio di me. Se poi ti avanza del tempo...

RITA. Fammi capire bene. Io dovrei stare a casa da lavorare?

PACO. Sì. Se sposi me, fai la signora per tutta la vita.

RITA. Ah, la signora! Caro Lino, tu corri un po’ troppo! Intanto con una paga sola in città non si vive. Gli affitti sono molto cari. Guarda che io non entro in un alloggio che non sia nuovo.

PACO. Ma, Rita, cosa dici? Io la casa ce l’ho e non getto via i soldi per affittarne un’altra. Nuova non sarà, ma col tempo la facciamo aggiustare, con tanto di bagno in casa e magari anche coi termosifoni.

RITA. Ah sì? E allora stammi a sentire! Capo primo: io in campagna non ci vengo ad abitare. Capo secondo: tra me e tua madre hanno da esserci sempre dieci chilometri, almeno, di distanza. Perciò noi veniamo ad abitare in città, mentre lei se ne resta a Serralunga, e quando non può più vivere da sola, la metti al Cottolengo. Capo terzo, ce lo aggiungo perché ho capito dove vuoi arrivare: io e te lavoriamo tutti e due e lavoriamo in fabbrica. Capo quarto: figli nessuno per un paio di anni; così ci arrediamo l’alloggio. Capo quinto: la campagna la vendi e i soldi li mettiamo in banca.

PACO. Ma brava! Hai pensato proprio a tutto. Anche al Cottolengo.

RITA. So quello che dico! Non voglio seppellirmi in una catapecchia di campagna, a mangiare a due metri di distanza dalla stalla. Punto e basta!

PACO. L’odore dele vacche è sempre meglio di quello della fabbrica. E’ puzza di bestie. Puzza sana.

RITA. Io la mia vita me la voglio fare in città. E chi diventa mio marito, deve essere almeno un operaio. Contadina, io? Eh no, eh, questo no!

PACO. Tu? Tu sei una terrona! Cosa credi di essere? Sei sempre e solo una napoli. E’ inutile che mi fai capire che un contadino è una merda, perché tu sei meno di quella.

RITA. Vattene via e non venirmi più a cercare! Torna, torna pure da tua madre e tienti stretta la tua stalla!

PACO. Te, non ti cerca più nessuno. Non mi vedrai più, sta’ tranquilla. Ma non montarti la testa! Io ti sposavo soltanto perché al giorno d’oggi un contadino si deve accontentare, e con te mi accontentavo. Paco non è scemo. Paco le cose le capisce. Tu sei una... e ti sei fatta saltare la prima volta che ci siamo trovati da soli! Tu vai bene per uno che ti sposa e poi ti manda a battere. Almeno, porti a casa dei soldi

SCENA OTTAVA

(Casa del cugino Gianni)

PACO. Sono diversi da noi e Rita è come gli altri. Lo sai cos’è il guaio? E’ che io mi sono attaccato con l’anima e col corpo a quella ragazza e me la sposavo. La casa c’è già. E’ solo da darci un’aggiustata. E lei poteva smettere di andare in fabbrica. Oppure ci andavamo ancora per qualche stagione e ci facevamo mettere perfino il telefono. Tutto piano piano, un passo dopo l’altro. Mia madre è vecchia e finiva di fare quello che voleva Rita. Il bagno? E va bene, mettiamo il bagno. Cosa me ne fa a me? Io sono d’accordo. Tutta roba che resta, roba sul tuo. Lei, no! Fiato sprecato. In campagna, no! Niente da fare. La campagna è merda!

GIANNI. Dove hai fatto il militare, Paco?

PACO. E va bene. Andiamo al cinema, andiamo al mare, compriamo la macchina, andiamo al bar a sentire i dischi. Ma che voleva da me? Se mi chiedeva una cosa, per me andava bene. L’alloggio, l’alloggio, l’alloggio! Signore Iddio, che sarà mai questo alloggio in città? Montare su tutto quel casino per abitare dieci chilometri più in qua o più in là!

GIANNI. Ogni giorno capitano storie come la tua.

PACO. Mi sembra impossibile.

GIANNI. Vedi, Paco, Rita ha infilato il dito dentro la piaga. Ha messo in luce il tuo punto debole.

PACO. Cosa dici?

GIANNI. Tu e il tuo amico Romano venite in fabbrica, lui per avere i soldi da divertirsi e tu per tirare avanti senza la paura della tempesta. Ma mica ti prendono per tutto l’anno, no: solo per qualche mese. Mica diventi un operaio. Dai giusto una mano, senza pretese di qualifica o di scatti, giusto così, per quei quattro soldi.

PACO. Non saranno molti, ma per me sono stati una manna del Cielo.

GIANNI. Il tuo contratto è stagionale e quando scade tu te ne torni a casa e se hai fatto tanto così che non gli è piaciuto, il prossimo anno ti diranno che c’è una crisi e che non ti possono riassumere. Ma ci sono altri contadini, che scappano dalla campagna perché non hanno nemmeno una zolla di terra secca da zappare. Non hanno il dubbio come te: hanno la miseria alle spalle e la paura nello sguardo. Anche loro cercano lavoro, come te, in fabbrica e magari hanno anche una famiglia. E il padrone cosa fa? Dà il lavoro a te o al meridionale che scappa col fagotto?

PACO. I meridionali, loro non vengono per lavorare.

GIANNI. Non è possibile. Se uno è in fabbrica, ha i tempi da rispettare e, prima di iniziare, sa già quanti pezzi produrrà nella giornata: non uno di più, non uno di meno. Rita e i suoi fratelli sono passati tutti per la fabbrica, lavorando senza dire una parola. Poi hanno capito che dietro una macchina si è tutti uguali, del Sud o del Nord, e solo allora hanno incominciato a diventare operai. Rita, la vedrai allo sciopero a fare casino con il fischietto, la prossima settimana. Lo fa per avere cinquemila lire in più. Romano andrà a lavorare lo stesso. A lui interessa la simpatia del caporeparto, avere il posto sicuro.

PACO. E io? Cosa c’entro io in tutto questo?

GIANNI. Tu? Tu sei uno che tiene il piede in due scarpe. Vuoi la ragazza di città per vivere in campagna, vuoi lo stipendio della fabbrica per fare una piantagione nuova nella vigna, non stai né di qua né di là. Sono queste le contraddizioni che rendono debole la tua posizione, finché non cambi, ti trasformi e capisci quello che sei e quello che vuoi. Rita ti ha costretto a scoprire le tue contraddizioni. Devi decidere, Paco. Devi scegliere cosa ti sforzi essere.

SCENA NONA

(Casa del cugino Gianni. Tre uomini sono seduti con lui attorno al tavolo)

GIANNI. Come al solito siamo in pochi e dovremo fare molta attenzione agli uomini che impiegheremo. Se ce ne sono dei nuovi, voglio che chi li ha portati si renda garante per loro, e che non abbiano altri contatti con noi, se non tramite il compagno che li conosce. E speriamo che sia gente in gamba. A noi occorre agire in più modi perché, anche se dovessimo fallire in uno, ci sia sempre un buon margine di successo.

PRIMO UOMO. Il sindacato prevede un’astensione del settanta per cento. Il che, se fosse reale, sarebbe sufficiente. La CISL garantisce la presenza di parecchi elementi, tra i quali si contano numerosi operai conosciuti e stimati.

GIANNI. La CGIL?

PRIMO UOMO. Stavano organizzando striscioni, cartelli e tutto il resto. Pare che vengano anche da fuori.

GIANNI. Bisogna crederci?

SECONDO UOMO. Si vedrà dopo.

GIANNI. E’ chiaro che il trenta per cento dei lavoratori, quelli che entreranno, sono i contadini che arrivano sui pullman dalle campagne. Sono i più timorosi e, una volta chiusi sui bus, si lasceranno portare fino in reparto. Sono questi che bisogna fermare.

TERZO UOMO. E allora faremo come si era deciso la volta scorsa. Bloccheremo i pullman.

SECONDO UOMO. Ho cercato di mettermi in contatto proprio con quelli che arrivano dalla campagna, uno per paese. Hanno fatto tante parole. Qualcuno forse non verrà, resterà nella vigna a zappare, ma è tutto quanto mi è stato possibile ottenere.

TERZO UOMO. D’accordo. Nella notte spargeremo i chiodi a tre punte nelle curve. Alla destra, venendo verso la città. Dovrebbero forare almeno due volte. Ammesso che riescano a riparare i danni, accumuleranno un ritardo di almeno tre quarti d’ora, cosicché in fabbrica avranno tutto il tempo di spaventarsi e anche i più dubbiosi non avranno il coraggio di entrare. Una linea sola è rimasta scoperta. Quando questo pullman si presenterà davanti alla stazione, e arriverà di sicuro molto prima del solito, diciamo alla cinque, io e lui saremo lì al passaggio a livello. Non appena rallenta, per transitare  sopra le rotaie, tu e il tuo amico vi stenderete davanti alle ruote. L’autista sarà costretto a inchiodare all’istante e così con una scure ben affilata io avrò tempo e modo di tagliare tutte e quattro le gomme posteriori. In quel momento ci sarà bisogno di molti compagni per fare casino, e tocca a te Gianni. Tanto casino! Gente che corre intorno, qualcuno che si dà da fare coi fischietti, altri che gridano slogan contro i crumiri, perché proprio allora apriranno le porte del pullman e gli operai scenderanno, quando mancano ancora cinquecento metri per raggiungere i cancelli.

GIANNI. L’importante è di preparare dei gruppi di disturbo lungo questo percorso. La loro consistenza dipenderà dalla quantità e dalla qualità della polizia intervenuta. O meglio, se ci saranno soltanto i carabinieri o se arriveranno anche i questurini.

SECONDO UOMO. Il lavoro principale, però, resta quello davanti ai cancelli. E’ indispensabile creare un intoppo, anche per pochi minuti, una strozzatura. Basta  uno che si getti per terra, fingendo di essere colpito, per richiamare tutti quelli che si muovono nel raggio di cento metri. Per dieci minuti non entra più nessuno.

PRIMO UOMO. Mi raccomando a tutti: non portate nulla con voi che possa essere considerato pericoloso. Molto pane, questo sì, molto pane da tirare ai crumiri.

GIANNI. Le pagnotte si lanciano tutti insieme e quando arrivano i questurini, buttarsi per terra e rotolarsi. Urlate forte! (si alza)

TERZO UOMO. (alzandosi) E’ tutto?

GIANNI. Ancora una cosa. Ho saputo che il personale cercherà di filmare ciò che avviene davanti ai cancelli. Se qualcuno di voi mette le mani sulla cinepresa, buttatela in terra e saltateci sopra.

SCENA DECIMA

(Casa di Paco. Alcuni giorni dopo. Verso sera)

(ROMANO e PACO siedono attorno al tavolo; PACO si rade con attenzione; si è legato attorno al collo un asciugamani che cade a coprirgli il petto; indossa canottiera e pantaloni; in disparte, quasi alla ribalta, è una sedia, sulla quale sono stati collocati con somma cura giacca, camicia, cravatta, calzini e scarpe)

ROMANO. Ti ho visto io, con questi occhi, mentre tiravi una pagnotta a quelli che entravano a lavorare. Io ero contento se qualcuno ti scattava una fotografia e poi te la faceva vedere, per capire la figura! Tra Rita e Gianni, ti sei messo con le persone giuste!

PACO. Rita è meglio se la lasci dov’è, che ci sta bene.

ROMANO. Io sono entrato a lavorare. Be’? Se viene un altro sciopero, entro di nuovo. E tu, se vuoi stare fuori, sei padrone di farlo. Ma non a tirare il pane contro gli altri. Se sei libero tu di stare fuori, devo esserlo anch’io di andare dentro.

MADRE. (entra col secchio; a Paco) E falla corta! Grazie a Dio, oggi non vai dalla tua smorfiosa. Le persone di riguardo, a farle aspettare, hai tutto da perdere e niente da guadagnare. Fortuna che c’è qui Romano con la sua moto. Neh che lo porti il mio Paco in paese. A parlare vi trovate un’altra volta. (a Paco) E non dimenticarti di portare la fotografia.

PACO. So già da me quello che devo fare, senza che vieni tu a rompermi le scatole. Guarda le bestie, va’, che è meglio.

MADRE. Hai sentito cos’ha detto? Hai sentito cosa dice a sua madre?

PACO. Ha sentito, ha sentito. Va’, va’! Va’ di là nella stalla.

ROMANO. Non ve la prendete, Neta. Paco non ce l’ha con voi. La colpa è mia, che gli ho fatto venire il nervoso.

MADRE. Tu vuoi scusarlo, ma tanto non sono parole da dire a una madre. (esce)

PACO. (finito di radersi, si alzerà e si vestirà adagio, con cura) La disgrazia più grossa è che siamo nati in queste case, da questa gente che, a uscire dalla miseria, ha sempre  paura di doversi aspettare il castigo. Ai suoi figli non potevano far altro che preparare un indomani da pidocchi. Chiusi lì, a marcire con quei quattro vecchi che sono rimasti nel paese, a contarsi e ricontarsi le balle di Menelich. Una figlia non le dicono niente e se la lasciano andare allo sbaraglio, che come mette il naso fuori dalla porta, ti trova il suo e buona notte! Il castigo! Loro castigano. A questa gente, se gli togli il castigo dalle mani, non sono più capaci a vivere.

ROMANO. Tu sei stato sospeso in fabbrica, ti sei arrabbiato e adesso esageri le cose. Ma almeno con tua madre!...

PACO. Parla dello sciopero, che a mia madre ci penso io. Voglio vederla adesso che si troverà una sconosciuta dentro casa.

ROMANO. Come, una sconosciuta?

PACO. Non è neanche giusto se me la prendo con mia madre. Lei cosa ne può, in fondo? Cosa ne poteva mio padre? Ci sarà qualcuno che il castigo gliel’ha messo nelle ossa. Cosa non  mi va giù non è la campagna, perché, se devo fare il contadino, facciamo pure il contadino.

ROMANO. (si alza) Andiamo, va’. Parliamo in moto. A momenti ritorna tua madre e ho paura che sono di nuovo dolori.

PACO. Mia madre ne ha ancora per un po’ con le vacche. E il prevosto che aspetti. Quello che vado a fare non mi mette davvero il fuoco nei pantaloni. Sta’ seduto, che in fondo tu sei un amico e non me ne importa se non hai le mie idee.

ROMANO. Non ho capito perché adesso dobbiamo andare dal prevosto.

PACO. No no, non tu. Io! Sta’ seduto e ascolta. Io dico: e va bene, facciamo il contadino! Ma allora spiegatemi perché, per il solo fatto che lavoro la campagna, io devo essere creduto da meno di un altro. Perché per sposarmi sono obbligato a fare quello che faccio. Se c’è il motivo, qualcuno me lo dica!

ROMANO. Lo so io cosa ti frulla nella testa. La sospensione ti è restata sullo stomaco e fai dei discorsi esaltati. Ma poi ti passa e la lezione ti serve per l’avvenire. Il giorno che torni a lavorare ne riparliamo e rideremo insieme di queste fantasie. Perché poi a sposarti fai come gli altri. No?

PACO. Il giorno che c’è stato lo sciopero, le fotografie qualcuno le ha prese per davvero. Me le hanno fatte vedere in direzione prima di darmi la lettera. Vuoi che te lo dica? Io là sopra mi sono sembrato un operaio. E sono stato contento, perché a essere operaio starai anche male, però non ti senti solo. Ma come l’ho capito, era già troppo tardi.

ROMANO. Perché?

PACO. Io in fabbrica non ci posso tornare.

ROMANO. Cosa dici?

PACO. Me, non mi hanno sospeso. A me scadeva il contratto e loro non me l’hanno rinnovato.

ROMANO. Ma perché hai fatto sciopero? Non lo sapevi anche prima che non ti conveniva? Potevi startene tranquillo, a guardare i tuoi affari. E invece...

PACO. ... non me ne sono stato, vero?

ROMANO. Già! Be’, in fondo hai sempre Rita per consolarti.

PACO. Andiamo. (si alza) Con Rita ci siamo lasciati.

ROMANO. Ma va’! (si alza) Perchè?

PACO. Ti ricordi di Ugo? Rita un contadino non lo prende. E nemmeno le altre. Che cosa credevi? Se voglio sposarmi, devo fare come Ugo.

ROMANO. Ah, ma allora...

PACO. Sì, Romano. E’ per questo motivo che vado in paese a parlare col prevosto.

SIPARIO