Da
uno a dieci
Monologo di
Silvia
Calamai
UOMO alto, di circa ottanta anni, indossa un abito marrone, un po’ consumato
sui gomiti e sul collo. Ha tutti i capelli bianchi. Tra le mani tiene un
cappello.
UOMO - Da uno a dieci, se dovessi dire da uno a dieci le cose che mi piacciono
di più, direi, anzi non direi, perché non saprei da dove partire. Da dietro,
dalle cose vecchie del passato che mi sembrano più belle perché non ci sono più
e le posso anche un po’ cambiare, quando le racconto, ora che sono passati anni
e resto io da solo a dire quello che è stato. Da uno a dieci: in fondo metterei
il lavoro, in cima una bella donna. Ma senza lavoro le belle donne si possono
soltanto guardare e nemmeno troppo, e allora dico del lavoro, del lavoro che mi
ha dato da campare. Da uno a dieci: nel mezzo posso mettere una mangiata come
si deve, o un caffè fatto con il cuore, senza zucchero, nero, o un bicchiere di
vino rosso quando uno ha la sete in corpo e l’acqua non serve a nulla, non la
fa passare. Da uno a dieci: senza lavoro non ci sarebbero state mangiate come
si deve né caffè senza zucchero, nero, fatto con il cuore, né bicchieri di vino
rosso da bere. E allora parto da lì: da uno a dieci il lavoro è stato dieci. In
officina mi prendono a quattordici anni: mille e novecentotrentanove, era
primavera. Da uno a dieci l’aria di primavera è quasi dieci, non è il caldo
soffocante dell’estate, il caldo ostile, cattivo, e non è nemmeno il freddo
indifferente dell’inverno: è l’aria di primavera, sono gli alberi in fiore. Nel
quarantadue richiamano quasi tutti, non sono più tanti gli uomini nella
fabbrica e dopo poco tempo caporeparto nominano me, caporeparto, proprio me:
avevo vent’anni e stavo bene. Da uno a dieci la salute è dieci, lo puoi dire
dopo che sei stato male, quando fai il confronto e ti ricordi e pensi, con
sollievo pensi Ora il peggio è passato. Avevo vent’anni e in mezzo ai
lavoratori che facevano i turni c’era anche la mia donna che all’epoca non era
la mia donna, era una ragazza che solo guardavo con insistenza, la fissavo, con
gli occhi e con il cuore. Da uno a dieci ecco mia moglie è più di cento. Là
dentro mi dovevano apprezzare un po’ se poi mi fanno caporeparto, il turno
dalle sette la sera alle sette e mezzo la mattina, con un’ora di sospensione tra
mezzanotte e l’una, con una quarantina di persone da guardare: gente alle
macchine, lei era allo stampaggio, alle presse, con altre donne, io la vedo
ancora lì. Da uno a dieci comandare è poco, ti pare sempre di aver detto
troppo, di aver alzato la voce, ti pare di aver superato il limite, ti pare che
gli altri comincino a pensare: Guarda quello si è montato la testa, ha perso la
misura. Poi c’è il militare e da uno a dieci il militare è niente, ma per
questo niente lungo mesi e mesi mi tocca anche di partire. Nel quarantasette
ritorno anch’io, come gli altri, ma non tutti, e da uno a dieci non ritornare
dopo una guerra è solo silenzio, non c’è niente da dire. Nel quarantasette
ritorno anch’io e in officina mi dicono che non mi possono riprendere: caporeparto
ero prima, ora non sono più, e con un po’ di pietà mi mandano da altri, da
amici, dicono loro, dal quarantasette al quarantotto, di luglio, quando poi mi
buttarono fuori, anche da lì, insieme a un altro. Da uno a dieci essere buttato
fuori è meno mille: non ci si scorda più. Buttati fuori in due dall’officina,
lui comunista io socialista: perché si faceva sciopero, un po’ di propaganda,
si metteva agitazione. E fare sciopero da uno a dieci è più di dieci. Mi
rimandarono alla prima officina, perché erano amici, erano la stessa società, e
il padrone mi fece un contratto corto, a tre mesi, perché mi doveva ripigliare,
va bene, ma doveva anche trovare il modo svelto di mandarmi via. Dopo tre mesi:
sulla strada, e da uno a dieci la strada è dieci se hai soldi in tasca e se hai
un lavoro, è meno di zero se non hai più scelta, come quei giorni io, quando
andavo a lavorare da un amico, che aveva una officina piccola, senza finestre,
che mi faceva lavorare qualche ora ogni tanto, per non essere del tutto disoccupato,
per poter dire a voce alta: Un po’ lavoro anch’io. Da uno a dieci la
disoccupazione non ha numero, non la so definire. Poi viene uno a raccontarmi
che da qualche parte cercano un tornitore, ha sentito dire, all’inizio per tre
giorni, ma non si sa mai. Dal mio amico lavoravo un giorno, là ne potevo
lavorare tre: tre giorni sono meglio di uno, in qualunque scala si decide di
misurare, e allora vado là e mi pare di capire che non sono tre giorni ma
possono diventare anni: avevo preso il posto di uno che era andato a fare il
militare. E devo essere grato io, all’officina, a tutti loro: da uno a dieci la
gratitudine è tanta roba, anche se non ci piacevano le stesse bandiere e loro
erano padroni e io no. Certo anche mi fregavano, e nemmeno poco, perché se per
andare in pensione io aspettavo le marchette che mi avevano pagato loro a
quest’ora stavo sempre a lavorare, a ottant’anni e passa, nella stessa
officina, e la pensione da uno a dieci non so a che punto può stare, non so
come chiamarla, se l’anticamera della morte, o la domenica della vita. Così
posso anche un po’ capire cos’è veramente quella cosa che chiamano poco
adattamento di chi torna dalla guerra, come scrivono sui libri: di chi non ha
modo di seguire il cammino della vita nel suo corso normale, e torna a casa con
una fotografia del mondo che ha fatto tre, quattro, cinque anni fa, e ritrova
tutta un’altra cosa. Da uno a dieci tornare a casa e vedere facce che non si
riconoscono, ascoltare discorsi che non si sono mai sentiti, amici che non
c’erano prima e nemici nuovi, da uno a dieci tutto questo è zero, e fa anche
male. Così sto a fare il tornitore, per undici anni, insieme a quello che la
mattina quando entravo in officina mi faceva trovare un ritrattino del duce e
poi sghignazzava, contento, a vedere la mia reazione. Da uno a dieci questi
sono scherzi che stanno a metà, e non fanno male. Nel mille e
novecentocinquantasei, era il ventotto di ottobre, e stavo lì, in una stanza,
quando arrivano dalla federazione dei manifesti, per uno sciopero: si parlava
dello sfratto, avevano dato lo sfratto anche alla mutuo soccorso, anche lì non
si sapeva più dove andare, cosa fare, alla camera del lavoro si parlava solo di
quello, e da uno a dieci lo sfratto è da vigliacchi, non lo so classificare.
Siamo in tre o quattro, oppure otto o nove, comunque non si arriva alla decina:
pochi ma il partito si sentiva, si sentiva dentro come una donna: da uno a
dieci il partito era nove, o anche dieci, e io stavo in tuta, a aspettare, e
poi c’era un amico che aveva fatto l’impiegato, buttato fuori da una fabbrica,
lui era vestito bene, mi pareva tanto elegante, un signore, aveva anche la
cravatta, la vedo ancora davanti a me, a quadretti blu e bianchi, distinto: un
vero signore. Mi chiedeva Si va io e te, diceva Si va io e te. Sì, gli
rispondevo, si va insieme, te li attacchi e io li incollo, con la tuta, con il
pennello, con il secchio pieno di colla. Da uno a dieci attaccare i manifesti è
sei o sette, o anche otto, e dieci se lo fai con un amico, in piazza Dalmazia,
dalla parte della strada, sull’angolo dove ci sono quei riquadri di metallo:
quando tu passi di lì pensi, non puoi fare a meno di pensare che un manifesto
lì sopra ci sta proprio bene, un incanto, sembra fatto apposta per stare lì. La
colla c’era sempre, in questi tempi, tempi epici, mi viene da usare parole
grandi così, per quei tempi: da uno a dieci la colla in questi casi è più di
dieci. Mentre stiamo lì a attaccare manifesti, uno da dietro mi tocca le
spalle, mi chiede: Cosa fa? E io gagliardo: Non lo vede? Attacco il manifesto,
gli dico, avevo un pennello enorme, con un secchio di colla come un
imbianchino, e quello mi chiede cosa faccio, domande inutili tanto per dare
fiato alla bocca, per dire subito da che parte sta la ragione. Risposte così da
uno a dieci sono tanto e ora le ridico anche per gloriarmi un po’: Cosa vuole
che faccia, attacco un manifesto, invito a scioperare. Così ci caricano sulla
camionetta, noi e il secchio e i pennelli, e ci portano in questura. Dopo una
mezz’ora, tre quarti d’ora viene fatto un interrogatorio, di fretta, e alzando
la voce in maniera brusca: Via, levatevi la cintura, i lacci alle scarpe,
dicono così, dicono sempre così: la cintura e le scarpe. Da uno a dieci alzare
la voce è meno due, meno tre. In arresto, ci dicono: cinque giorni di prigione.
Per affissione arbitraria, si dice così. Arbitraria: cioè non consentita, ci
spiega uno. Ne arrestarono sette quella notte: ce n’erano altri cinque in giro,
con i secchi di colla e i pennelli. Vengono a saperlo in sezione, e qualcuno andò
a dirlo alla mia donna, che stavo in prigione, che avevo fatto una affissione
arbitraria. E ora non so se queste cose le rifarei, se mi immagino lo sguardo
di questa donna davanti ai compagni, o forse le rifarei tutte senza pensarci
due volte: io in tuta e quell’altro con la cravatta, colla e pennello in piazza
Dalmazia, e allora sì, forse le potrei anche rifare. E poi passo la notte su
quel tavolaccio, da sveglio, e la mattina dopo mi portano alle Murate, con il
cellulare, mi portano all’ufficio matricola, mi danno tutta la roba, il
pacchettino dei lenzuoli e mi assegnano alla terza sezione, un numero di cella
che non mi posso più scordare, nella cella insieme a due che assommavano a
cinquant’anni di prigione, anno più anno meno: lì dentro c’era per loro tanto
tempo da passare. Non sapevo dove guardare lì dentro, come iniziare. Non avere
le parole giuste da dire in questi casi da uno a dieci è uno e basta. E non si
mangia in quella cella, io mi domando perché non mi danno da mangiare, e la
roba del carcere a quell’epoca era una cosa indegna o quasi: un pezzettino di
pane, infilato in uno stecchino, roba terribile, non è facile nemmeno da
raccontare. Da uno a dieci la fame è meno mille: non ci vedi più. Allora chiedo
a uno, busso alla porta, lo chiamo superiore, gli dico: Superiore io qui non ho
da mangiare, ma il mio amico, il mio amico che dev’essere qui nei paraggi, lui
ce l’ha qualcosa da mangiare, lui cosa fa? E quello risponde che va a
controllare. E quando torna mi dice: Il tuo amico ha dei vassoi pieni, il tuo
amico: vassoi pieni di roba. Da uno a dieci i vassoi pieni di roba in una cella
di prigione sono più di mille. La sezione aveva portato da mangiare in
abbondanza, perché si poteva fare, anche in carcere queste cose si potevano
fare, aveva portato vassoi pieni di roba la sezione, erano andati in un
ristorante lì vicino e si erano fatti preparare una cena da signori. Allora che
me ne mandi un po’ anche a me, gli dico, Superiore gli dica che me ne mandi un
po’ anche a me, che sono digiuno. E così ritornò il superiore, con dei vassoi
stracolmi di roba, tortellini penne risotto pollo arrosto patate tartine dolci
frutta vino e quei due compagni di cella che erano a letto sentirono l’odore,
sentirono che c’era qualcosa di nuovo, un diversivo: Ragazzo, sei fortunato, mi
dicevano, sei fortunato. Stai bene, ragazzo. Alzatevi, venite giù, venite a
mangiare anche voi, dissi. No, ragazzo. Venite giù, ce n’è per tutti. E si fece
una cena lunga ore, come a casa nelle feste rosse del calendario, con i
tortellini le penne il risotto il pollo arrosto le patate le tartine i dolci la
frutta e il vino: una cena così da uno a dieci è tanto. La mattina ci portano
in tribunale, si passa da piazza San Firenze, ci fanno scendere tutti
ammanettati, ai lati, uno attaccato all’altro, e la gente intorno fa ala, è la
curiosità mi dico è la curiosità che spinge a guardare. Da uno a dieci la
curiosità è due o tre e fa male, e a me mi viene la spinta di dire che sono un
politico, che non sono un ladro, una difesa un po’ ingenua, penso ora, ma vera.
Per un manifesto, dico, io ho attaccato un manifesto. Tutti con le manette al
processo, quelle coi chiavistelli intendo, tutti in fila, senza parlare, e al
processo ci condannano a cinque giorni, e io subito a chiedere la condizionale.
Ma il giudice più saggio di me a dire che la condizionale non me la concede,
perché mi può far comodo poi, per cose più serie, ma io avevo paura per il
lavoro, perché da uno a dieci il lavoro è dieci, e anche il giudice anche lui
lo dovrebbe sapere. E così si fanno questi cinque giorni, e poi ci riportano in
questura, per prendere le impronte digitali, per la fotografia. Così ritorno a
lavorare, in questa officina, da questi fascistini, uno era un vecchio
proprietario terriero scappato da Castelfiorentino perché vedeva troppe
bandiere rosse, diceva queste parole, il rosso lui lo trovava dappertutto, in
cielo e in terra, e lo faceva ammalare. Da uno a dieci la bandiera rossa è
dieci, quando c’è vento e sta su. Lui mi avrebbe volentieri buttato fuori, mi
dissero poi, a distanza di anni. Quando arrivai lì all’officina dopo quei
cinque giorni mi fecero un po’ di festa, mi rincuorarono, mi chiesero di
raccontare: Racconta la prigione com’è, dì qualcosa, racconta della cena. E con
una pacca sulla spalla poi mi dicono: Via a lavorare, è tutto finito, ritorna a
lavorare, non ci pensare più. Mi viene da piangere anche ora, al pensiero. Le
lacrime da uno a dieci sono dieci quando dicono grazie, ma sono dieci anche
quando sanno di dolore. Come se nulla fosse stato, la mattina trovavo sempre la
foto del duce, che quell’altro mi metteva quando alla fine del turno staccava
lui, e cominciavo io. Ma non ho mai dimenticato, e anche dopo passavo di lì a
fare due chiacchiere sul calcio e sulla politica, che è a volte un modo di dire
grazie, anche dopo passavo di lì, quando decisi di salutarli tutti, buttare in
aria il cappello e seguire il cappello, dove va a cascare. Quando decisi di
smettere di fare l’operaio, quando nel sessanta entrai nel sindacato. Perdere i
capelli in questi casi da uno a dieci è troppo poco e io li persi tutti, per il
cambiamento, per la paura. Un operaio quando è in fabbrica anche se è nella
fabbrica peggiore, con il padrone cane, il più cane di tutti, anche così, con
un lavoro duro, a catena, che non ha fine, perché un tornio non si ferma mai,
non c’è modo, un operaio quando finisce il turno per un po’ di ore ha chiuso,
staccato, non ci pensa più: che ci pensi qualcun altro, al tornio, o che ci
pensi il padrone, o meglio nessuno: che non ci pensi più nessuno, almeno per
qualche ora. Ma a me non mi riusciva più di chiudere il cervello, di staccare,
e si staccarono soltanto i capelli, a uno a uno: tutti i capelli, a
trentacinque anni. Da uno a dieci questo è tanta rabbia, quando nel sessanta,
era agosto, metà d’agosto, con quel caldo sornione e il sudore sulla fronte, io
viaggiavo con il basco in testa, perché mi vergognavo. E tutti a dire: Ma non
ti fa caldo, con codesto cappello, tutti a guardare i rivoli di sudore, a
indicarli con la mano. Da uno a dieci camminare con il basco in testa il mese
d’agosto è zero, poco più di zero. Ma la sera prima di dormire, quando dormivo,
mi dicevo che ce la dovevo fare, che ce la dovevo fare in tutte le maniere, e
un po’ ce l’ho anche fatta, forse, mi viene quasi da dire, a voce bassa. Se
penso da dove sono partito, con la quinta elementare, avevo letto solo qualche
libro, ma senza regola, pigliavo un libro e lo leggevo, poi ne pigliavo un
altro e lo leggevo, poi ancora un altro, così come capitava, senza pensarci
troppo, senza riflessioni, perché di tempo ce n’era poco anche per pensare. E
pensare da uno a dieci è dieci, ma anche dire, dopo che si è pensato, è dieci
anche quello, dire quello che sto dicendo, che dico di dire, che voglio dire, è
dieci.