Dal caos ai giganti

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DAL CAOS AI GIGANTI

Viaggio nel mondo di Luigi Pirandello

A cura

di

Annamaria Guzzio

DAL  CAOS AI GIGANTI

Viaggio nel mondo di Luigi Pirandello

A cura di A. Guzzio

“Una notte di Giugno caddi come una lucciola sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli di un altopiano d’argille azzurre sul mare africano.

 Quel luogo si chiamava Caos. Così fui figlio del Caos.”

Era il 28 Giugno 1867; in una campagna nei pressi dell’antica Girgenti, verso le tre e mezzo della notte, prematuramente, venne alla luce Luigi…

“Strappato dal sonno, forse per sbaglio, o buttato fuori in una stazione di passaggio. Di notte; senza nulla con me…”

“Figliu settiminu, o diavolo o parrinu…!”

Appena è in condizione di capire quello che la madre gli conta, Luigino apprende che è venuto al mondo in un posto e in un giorno diversi da quelli previsti…(Camilleri)

“Iniziò così il mio involontario soggiorno sulla terra…Io penso  che sarà cosa certa per gli altri che dovevo nascere là e non altrove e che non potevo nascer dopo né prima; ma confesso che di tutte queste cose non mi son  fatto ancora né certo saprò mai farmi un’idea…”

“Si nasce alla Vita in tanti modi, in tante forme: albero, o sasso, acqua o farfalla, o donna…e per una volta sola, e in quella data forma, unica, perché mai due forme erano uguali….”

“Avendo tutt’intorno, ignoto, l’enorme mondo, la vacuità enorme e impenetrabile dell’esistenza…”

Luigino è gracile, dissugato, cresce solo negli occhi, ha un ansioso bisogno di calore affettuoso che quel padre grande, massiccio, ululante non può dargli…(Camilleri)

“…un nonnulla bastava di tanto in tanto a farlo scattare selvaggiamente. Forse, subito dopo, se ne pentiva; non voleva però o non sapeva confessarlo…desiderava che gli altri lo indovinassero…ma poiché nessuno, nello sbigottimento, ardiva nemmeno di fiatare, egli si chiudeva, s’ostinava in una collera nera e muta per intere settimane…” (L’esclusa)

 “Unn addreva lu patri, ma la minna di la matri!”

“Casa senza birritta, nun po’ stari addritta!”

Appena in età di ragione Luigi comincia ad avere dei dubbi sulla sua appartenenza: non solo è nato nel posto sbagliato e nel giorno sbagliato, ma quella lucciola cadente e andata magari a finire in una famiglia sbagliata…il sanguecaldo del padre non è il sanguefreddo del figlio…

“Avevo udito urlare durante tutta la notte, e a una cert'ora fonda e perduta tra il sonno e la veglia non avrei più saputo dire se quelle urla fossero di bestia o umane.
         La mattina dopo venni a sapere dalle donne del vicinato ch'erano state disperazioni levate da una madre a cui, mentre dormiva, avevano rubato il figlio di tre mesi, lasciandogliene in cambio un altro”(La favola del figlio cambiato)

La Madre:

“Se volete ascoltare

Questa favola nuova,

credete a questa mia veste

di povera donna;

ma credete di più

a questo mio pianto di madre

per una sciagura…per una sciagura…”

Voci:

“Madri!

Creature di Dio

Per quanto indegne

Per i peccati nostri

E quelle, le Donne

che fanno a noi madri

i malefizi

e sono

figlie dell’inferno

streghe del vento

streghe della notte

bestemmiando

ululando

sghignazzando

o gemendo, gemendo

con voci lunghe, a lamento,

le notti d’inverno,

le notti senza luna

si chiamano dai tetti

il vento le tira

s’aggrappano ai camini

rovesciano i camini

scoperchiano i tetti

e tirano le tegole!

Entrano di notte nelle case

perla gola dei camini,

come un fumo nero.

Una povera madre, che sa?

Dorme, stanca della giornata;

e quelle, chinate, nel bujo,

allungano le dita sottili

e intrecciano nel sonno al bambino

la loro treccia;

o gli passano appena

sulle palpebre chiuse

la punta gelata gelata

di quelle dita; e il bambino

che non sa nulla, al mattino

apre gli occhi: li ha storti!

Li ha storti!

Li ha storti!

E quella povera mamma si mette a gridare:

Oh, figlio mio! Oh, figlio mio!

Che t’hanno fatto nel sonno!

Che t’hanno fatto!

La madre:

E voi, dite, dite com’era il figlio mio!,

il figlio mio che mi fu cambiato.

Cambiato dalle Donne,

in fasce cambiato,

una notte, mentre dormivo,

sento un vagito, mi sveglio,

tasto al bujo, sul letto, al mio fianco:

non c’è;

da dove arriva quel pianto?

Quando lo presi,

buttato, là sotto il letto…

Le voci: Caduto! Caduto!

La madre:

Ditelo voi, come fu trovato!

Voi che accorreste

Le prime alle mie grida:

come fu trovato?

Le voci:

Voltato

Voltato, coi piedini verso la testata,

Le fasce intatte,

avvolte strette,

attorno alle gambette…perfette

Preso, preso con le mani, d’accanto

Alla madre e messo per dispetto

là sotto il letto.

La madre:

…e il mio bambino, com’era?

Ditelo voi che lo sapete:

com’era? Com’era?

Le voci:

Bello, biondo come l’oro

Come un Gesù Bambino, di cera!

La madre:

E quello che presi da terra

Di sotto al letto, com’era?

Le voci:

Brutto, tutto nero!

Povera creatura!

Come un sole, quello,

bello in carne, tutto vivo;

e questo invece

patito patito,

un capino straziato

d’uccellino malato,

che faceva ribrezzo

a vedere e a toccare.

La madre:

Non lo potei vedere, non lo potei toccare,

lo porsi a loro e mi misi a gridare,

scappando nel vento,

scappando nella notte:

Figlio mio! Figlio mio!”  (La favola del figlio cambiato)

Durante l’adolescenza di Luigi la sua famiglia, a causa di un dissesto economico, si trasferisce a Palermo.

Al secondo piano c'era una famiglia della borghesia agiata, con una bambina di appena dieci anni, Giovanna, che frequentava l'aristocratico collegio Maria Adelaide. Nel periodo delle vacanze Giovanna, come Luigi, restava a casa. Da un balcone all'altro, i due ragazzi cominciarono a guardarsi con simpatia; e un giorno Luigi, seduto sulla ringhiera del balcone, intento a fissare la bambina, perse l'equilibrio e rischiò di cadere di sotto. Se la cavò, però, con un dente scheggiato.
Più tardi, alla fine delle vacanze, Giovanna venne a salutarlo. E Luigi, emozionato, fece un gesto incauto, ferendosi a un dito. Giovanna, avvicinatasi, gli prese il dito e se lo portò alla bocca per succhiarne il sangue. Eccitato, Luigi prese quel gesto come un bacio e scoppiò a piangere. Quasi subito gli venne la febbre e restò per tre giorni tra la vita e la morte, come smemorato. Non si nutriva, non si tratteneva nulla, non riconosceva nessuno. Rimase a letto due mesi, quando si alzò era quasi Pasqua. Si aggirava per la casa avvolto in uno scialle enorme, pallido, i capelli dritti. Fu così che lo vide la bambina, rientrata per le vacanze; Giovanna gettò un grido e svenne tra le braccia del padre. E Luigi restò dov'era, tremando come avesse avuto quaranta di febbre. Fu la scoperta dell'amore.(L.Lucignani)

“Diman ti giungerò, larva dei sogni miei,

lucifera fanciulla,

te che il mio tutto sei, eppur, forse, sei nulla…”

“Non dalla memoria però si tosto potranno

cancellarla altri affetti. Altre vicende…mai.”

Tra padre e figlio c’era un silenzio ostinato e lontano (Nardelli)

“Con mio padre m’appariva impossibile comunicare e non già mentre mi ci preparavo, ma all’atto della prova, che il più delle volte finiva miserevolmente…”

Era a conoscenza che il padre s'era messo con una vedova, popolana, sua cugina, ch'era stata sua fidanzata …

Sapeva che le domeniche mattina i due si davano convegno al parlatorietto riservato alla madre badessa del monastero di San Vincenzo, ch'era una loro zia. Fingevano d'andarle a far visita; e la vecchia badessa, che forse scusava con la parentela tra i due la tenera intimità di quei convegni, godeva nel vederseli davanti, l'uno di fronte all'altra, ai due lati del tavolino sotto la doppia grata: lui, diventato un signore, con l'abito turchino delle domeniche che pareva gli dovesse scoppiare sulle spalle rudi, il solino duro che gli segava le garge paonazze, e la cravatta rossa; lei d'una piacenza tutta carnale ma placida perchè soddisfatta, vestita di raso nero e luccicante d'ori nella penombra di quel parlatorietto che aveva il rigido delle chiese.

S'imbeccavano, un boccone tu, un boccone io, le innocenti confezioni della badia, e dai bicchierini il pallido rosolio con l'essenza di cannella, un sorso tu, un sorso io. E ridevano. E anche la vecchia zia badessa, come una balla dietro la doppia grata, si buttava via dalle risa.

Era andato a sorprenderli, una di quelle domeniche.

Il padre aveva fatto a tempo a nascondersi dietro una tenda verde che riparava a destra un usciolo; ma la tenda era corta, e sotto i peneri ancora mossi si vedevano bene le due grosse scarpe di coppale lisce e lustre; ella era rimasta a sedere davanti al tavolino, col bicchierino ancora tra le dita, in atto di bere.

Le era andato di fronte e s'era tirato un po' indietro col busto per scagliarle con più forza in faccia lo sputo. Il padre non s'era mosso dalla tenda. (Ritorno)

ELENA: “…ebbene, a tutti tranne che a lui avrei dovuto chiedere ajuto! Se l’ho chiesto a lui potete esser sicura che nulla di più vivo poteva esserci in me, da farmi provare poi un piacere in ciò che, dall’incontro con lui dopo tanti anni, purtroppo è seguito. Come, io stessa non lo so. Forse perché ciò che fummo rimane sepolto in noi. In un momento, da gli occhi che s’incontrano, può essere rievocato. Illusione di un momento…Tutto finito, quasi prima di cominciare. Se non si fosse dato il caso…la sciagura più grande…quella bambina” (Da La ragione degli altri)

“…ancora lo sputo le pendeva dalla guancia: un sorriso incerto, quasi di allegra sorpresa, che le luceva sui denti tra le labbra rosse; e tanta pena, invece, tanta pena negli occhi…” (Ritorno)

Forse a causa della tensione che c’è in famiglia Lina, sorella maggiore di Luigi, comincia a non starci più con la testa. Rapidamente s’attuffa nell’oscurità (o nella luce) della follia…

Questo è il primo, straziante contatto di Luigi con la pazzia…(Camilleri)

Tre anni dopo, altro fuoco, altro dramma. In Luigi divampa l'amore per la cugina Linuccia. figlia d'un fratello di Stefano, Andrea, ha quattro anni più di Luigi, è molto bella... Da principio lei lo rifiuta, si fa beffe di lui. Poi d'improvviso, forse a causa d'una delusione subìta, lo accetta e gli si promette. Ma i genitori di lei non sono d'accordo, non ritengono Luigi un buon partito, è ancora studente e, cosa più grave, ha sogni di poeta.

 Più tardi, per le insistenze di lei, che rifiuta ogni partito «serio», consentiranno al fidanzamento, ma a condizione che Luigi la pianti con gli studi e le poesie e si metta col padre nel commercio dello zolfo.
Luigi obbedisce, passa un'estate nell'inferno di Porto Empedocle nelle zolfare. Ma non resiste. La vocazione poetica è troppo forte (e forse la vita nelle zolfare troppo dura); torna a Palermo, si iscrive all'università e pubblica il primo libro di versi

“I giorni e le nubi io ho cantato, ma né con queste né con quelli le mie miserie sono andate via…Appunto in quei giorni l’Arte mi sorrideva di più, con la passione nel riso, e l’anima come atterrita dalla bionda crudezza di quel zolfo di cui Tu la mattina m’insegnavi il nome e la qualità, si rifugiava in Lei e nel sorriso di Lei viveva… “

Da Palermo passa a Roma e da Roma in Germania, a Bonn. Sempre più lontano da Linuccia che intuisce l'intiepidirsi del sentimento e teme il distacco;

“La passione per Linuccia, così cocente quand’era nascosta, contrariata e derisa, aveva perduto d’un tratto tutto il suo fervore…”

“Io non debbo, io non posso sposare…”

colta da crisi isteriche, la cugina smarrisce la ragione. Luigi è costretto a precipitosi ritorni, da Bonn e da Roma;… ha un altro duro incontro con la follia, e non sarà l'ultimo.

“L’ultima illusione che mi restava è caduta: l’Amore. No, no…io non amo più, io non posso, non riesco ad amar più quella povera malata…La rete finissima delle illusioni che compongono l’Amore e che solo un alitar più forte del consueto talvolta riesce anche a smagliare, la bella e dolcissima rete è tutta smagliata…

“La disgrazia di Linuccia può anche risiedere nell’essersi ella incontrata in un uomo che appartiene ad una ristretta categoria di disgraziati, per cui il tempo volge fatale, e che la vita va escludendo ogni dì dal suo seno…”

Dopo essersi laureato a Bonn in filologia romanza contro il volere del padre che voleva fare di lui un avvocato, Luigi ritorna a Roma.

“Biondo, con barbetta da Nazareno, capelli un po’ lunghi e spinti indietro sotto un cappello di castoro a larghe tese, aveva nella svelta e signorile persona e nella dolce espressione del viso quasi pallido, qualcosa che non faceva indovinare in lui un siciliano…” (L:Capuana)

A Roma Luigi arriva con la precisa volontà di essere un letterato di carriera, ma purtroppo tutto quello che riesce a guadagnare è qualche decina di lire attraverso stente collaborazioni giornalistiche. Passa quindi giornate e nottate a riempire fogli e fogli di poesie, novelle, commedie, drammi; ha scritto persino un romanzo, L’esclusa, ma non trova nessuno che glielo pubblichi…(Camilleri)

“Questo maledetto denaro sarà sempre il chiodo della mia vita…E’ un avvilimento! Ho il tavolino ingombro di manoscritti che mi potrebbero togliere d’imbarazzo! Ma non c’è un cane di editore che voglia dare un soldo…Venderei per quattrocento lire al più minchione dei diavoli l’anima mia!”

Ad un anno dalla rottura del fidanzamento con la cugina, Luigi riceve dal padre la proposta di prendere in moglie Maria Antonietta Portulano - Nietta - figlia d'un suo socio in affari. Nietta è bella, dotata d'un suo fascino ombroso e ha una dote di settantamila lire (grosso modo, alcune centinaia di milioni di oggi). Pirandello accetta subito, va ad incontrare la ragazza, si fidanza con lei e la sposa. Tutto avviene con un'incredibile rapidità. Tra l'incontro e il matrimonio non passano neppure due mesi. (L.Lucignani)

“…mi si lasciò intravedere questo: una ragazza piena di meriti con centomila lire in dote, da cui io avrei avuto un terzo degli utili netti, e poi tutto il tempo possibile per il conseguimento dei miei ideali. Accettai.”
        

 In realtà, i due non si conoscono. Lei è una ragazza siciliana, appena istruita, cresciuta in un ambiente dove il possesso, della «roba» come delle persone, è diritto naturale. Il tormento intellettuale del marito le è incomprensibile, la preoccupa. Luigi le scrive quotidianamente, narrandole per filo e per segno la sua giornata, i piccoli problemi che deve affrontare, i suoi progetti artistici le sue smanie filosofiche…. (L.Lucignani)

“In me son quasi due persone. Tu già ne conosci una; l’altra, neppur la conosco bene io stesso. Voglio dire ch’io consto di un gran me e di un piccolo me: questi due signori son quasi sempre in guerra fra loro, l’uno è spesso all’altro sommamente antipatico. Il primo è taciturno e assorto continuamente in pensieri, il secondo parla facilmente, scherza e non è alieno dal ridere e dal far ridere. Io sono perpetuamente diviso tra queste due persone. Ora impera l’una, ora l’altra…Quale dei due amerai di più, Antonietta mia?”

         Trascorrono nove anni, il matrimonio sembra funzionare. Da Luigi e Antonietta sono nati tre figli, Stefano, Lietta e Fausto. Pirandello insegna al Magistero, dà lezioni private collabora a giornali e riviste

“ E a questo punto sulla famigliola si abbatte la sciagura: la miniera nella quale il padre di Luigi ha investito tutto il suo denaro e quello della dote di Antonietta, si allaga. E' il disastro, il dramma, la tragedia. (L.Lucignani)

Io purtroppo non solo non voglio riposarmi, ma non posso, non posso più. Da circa un anno le condizioni finanziarie della mia famiglia per una improvvisa sciagura non son più quelle di prima.Una grande zolfara che dava a mio padre e a tutti noi l’agiatezza, s’è allagata…

Alla notizia, Antonietta è colta da paralisi; non si riprenderà più dal trauma, cadrà preda della follia…(L.Lucignani)

“…quella donna disgraziatissima non può guarire…ho potuto sentire e misurare l’orrido abisso di quell’anima. Non guarirà, non può guarire…”

. Messo con le spalle al muro dalla vita, Pirandello reagisce con una forza, una caparbietà e una capacità di lavoro impressionanti. Nasce un nuovo romanzo: «Il fu Mattia Pascal», (1904)

La storia di Mattia Pascal è quella di un uomo che, creduto morto suicida,tenta di dare inizio con un altro nome ad una vita diversa. Egli è convinto di essersi liberato così dalle convenzioni nelle quali il suo vero stato anagrafico e civile, i legami familiari e le abitudini lo hanno costretto, ma il conflitto con la propria identità sociale, invece che essere risolto, si rinnova più tragicamente nella simulazione, confinandolo in una insostenibile solitudine.”

“Le assurdità della Vita non hanno bisogno di parer verosimili perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili.

“Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia.
       Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s'uccise , c'è ancora la lapide:

COLPITO DA AVVERSI FATI
MATTIA PASCAL
BIBLIOTECARIO
CUOR GENEROSO ANIMA APERTA
QUI VOLONTARIO
RIPOSA
LA PIETA' DEI CONCITTADINI
QUESTA LAPIDE POSE

       Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s'accompagna con me, sorride, e - considerando la mia condizione - mi domanda:
       - Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?
       Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:
       - Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal.”

Nel 1910 per la prima volta vengono rappresentati due suoi testi teatrali:

 “La Morsa” e “Lumie di Sicilia”

Il calvario della follia di Antonietta continua fino a straripare nel fiume della gelosia…

“Mia moglie, caro amico, è da cinque anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io, io che ho sempre vissuto per la mia famiglia, esclusivamente, e per il mio lavoro, esiliato in tutto dal consorzio umano, per non dare a lei, alla sua pazzia, il minimo pretesto di adombrarsi…”

Ecco... vede là? dico là, a quel cantone... vede quell'ombra di donna? - Ecco, s'è nascosta!
L'avventore: Come ? Chi. . . chi era ?...
L'uomo dal fiore: Non l'ha vista? S'è nascosta.
L'avventore: Una donna?
L'uomo dal fiore: Mia moglie, già.
L'avventore: Ah! la sua signora ?
L'uomo dal fiore: (dopo una pausa). Mi sorveglia da lontano. E mi verrebbe, creda, d'andarla a prendere a calci. Ma sarebbe inutile. E` come una di quelle cagne sperdute, ostinate, che più lei le prende a calci, e più le si attaccano alle calcagna

Ciò che quella donna sta soffrendo per me, lei non se lo può immaginare. Non mangia, non dorme più. Mi viene appresso, giorno e notte, così, a distanza. E si curasse almeno di spolverarsi quella ciabatta che tiene in capo, gli abiti. - Non pare più una donna, ma uno strofinaccio. Le si sono impolverati per sempre anche i capelli, qua sulle tempie; e ha appena trentaquattro anni.

Mi fa una stizza, che lei non può credere. Le salto addosso, certe volte, le grido in faccia: - Stupida! - scrollandola. Si piglia tutto. Resta li a guardarmi con certi occhi... con certi occhi che, le giuro, mi fan venire qua alle dita una selvaggia voglia di strozzarla. Niente. Aspetta che mi allontani per rimettersi a seguirmi a distanza.

Ecco, guardi... sporge di nuovo il capo dal cantone.
L'avventore: Povera signora!
L'uomo dal fiore: Ma che povera signora! Vorrebbe, capisce? ch'io me ne stessi a casa, quieto, tranquillo, a coccolarmi in mezzo a tutte le sue più amorose e sviscerate cure; a godere dell'ordine perfetto di tutte le stanze, della lindura di tutti i mobili, di quel silenzio di specchio che c'era prima in casa mia, misurato dal tic-tac della pendola del salotto da pranzo. - Questo vorrebbe! (L’uomo dal fiore in bocca)

Il cervello devastato di Antonietta arriva a  guardare come una nemica anche la sua stessa figlia…

“La sciagurata donna che m’è moglie, dopo aver martoriato la mia povera figliuola Lietta, ora, in preda ad una sua terribile crisi, s’è voltata con inaudita ferocia contro di lei. E la mia povera bambina, presa d’orrore, in un momento di sconforto, s’è chiusa in casa ed ha tentato di uccidersi…”

Intanto i figli maschi Stefano e Fausto partono per il Fronte; quando giunge la notizia che il figlio maggiore è stato fatto prigioniero, la follia di Antonietta raggiunge il massimo livello.

Non può sentir dir nulla la madre disperata: grida, grida fino a stracciarsi la gola, levando le braccia e scotendo le mani…Non vede nulla; non ode nulla; di tratto in tratto s’avventa contro l’uscio dello studio; lo sforza a furia di manate, di spallate, di ginocchiate, e si scaglia contro il marito, gli si para davanti con le dita artigliate su la faccia, come volesse sbranarlo e gli urla feroce: “Voglio mio figlio! Voglio mio figlio! Assassini! Voglio mio figlio! Voglio mio figlio!” (Berecche e la guerra)

Luigi acconsentirà all’internamento in una casa di cura della moglie solo nel 1919, al ritorno dei figli dalla guerra. Vi morirà ventitré anni dopo il marito, senza aver mai più voluto rivederlo.

Per superare l’angoscia di  quei difficili anni Luigi si butta a capofitto nel lavoroNel 1917, in un solo anno, vengono rappresentati alcuni tra i maggiori lavori teatrali di Pirandello:

“Pensaci, Giacomino!”, “Liolà”, “IL berretto a sonagli”, “La giara”,  “Il piacere dell’onestà”

Agostino Toti, il vecchio professore protagonista di “Pensaci, Giacomino!”, sposa, con un gesto fortemente provocatorio della morale del tempo, la giovane Lillina, pur sapendola incinta e innamorata del giovane Giacomino. L’ironia crudele della situazione e il candore raziocinante con il quale il personaggio vi si muove dentro finiscono per incrinare dall’interno la compattezza del mondo com’è, lasciando intravedere un lampo del mondo come potrebbe e dovrebbe essere. (Corrado Simioni)

Il successo si ripetè a pochi mesi di distanza con “Liolà”. Lo sfondo della vicenda è un’aia siciliana: L’intreccio è quello del marito anziano che accetta di tenersi il figlio che la giovane moglie aspetta da Liolà, pavoneggiandosi di questa falsa paternità, pur di avere un erede a cui lasciare la “roba”. Per la perfetta misura ritmica e per la materia trasparente di questa commedia campestre Pirandello aveva adottato la parlata di Girgenti, su cui aveva svolto la sua tesi di Laurea.

Zia Croce: (venendo dalla porta del magazzino con una cesta di mandorle) Sù, sù, ragazze, siamo alle ultime! Con l’ajuto di Dio, per quest’anno, abbiamo finito di schiacciare.
Ciuzza: Qua a me, zia Croce!
Luzza: Dia qua!
Nela:
Dia qua!
Zia Croce: Se vi sbrigate, farete a tempo per l’ultima messa.
Ciuzza: Eh sì! Che messa più!
Nela: Prima d’arrivare al paese...
Luzza: E poi il tempo per vestirci...
Gesa: Eh già, avete bisogno di pararvi per sentirvi la santa messa?
Nela: Vorrebbe che andassimo in chiesa come alla stalla?
Ciuzza:
Io, se posso, ci scappo anche così.
Zia Croce: Brave, perdete intanto altro tempo a chiacchierare!
Luzza:
Su, cantiamo, cantiamo!

E ripigliano a battere e a cantare.

La Moscardina: Ci arriverete per la messa delle signore, al paese!
Zia Ninfa: Per carità, non mi parlate della messa delle signore! Sapete che domenica scorsa non me la son potuta vedere? Tentazione del diavolo. Gli occhi mi andarono ai ventagli delle signore; mi misi a guardare quei ventagli e non potei più vedermi la messa.
Ciuzza: Perché? Che vide in quei ventagli?
Luzza: Dica! Dica!
Zia Ninfa: Il diavolo, figliuole mie! Come se mi si fosse seduto accanto per farmi notare come si facevano vento le signore. State a vedere.

Siede e tutte le fanno cerchio.

Le signorine da marito, così:

Fa il gesto di scuotere fitto fitto il ventaglio, e dice precipitosamente, accompagnando il gesto, impettita:

"L’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò!" Le signore maritate, così:

Muove la mano con grave, placida soddisfazione:

"Io ce l’ho! io ce l’ho! io ce l’ho!" Mentre le povere vedove:

Muove la mano con sconsolato abbandono, dal petto al grembo:

"L’avevo e non l’ho più! l’avevo e non l’ho più! l’avevo e non l’ho più!"

Ridono tutte.

E avevo un bel farmi la santa croce, non riuscii a scacciare quella tentazione.
CIUZZA, LUZZA e Nela: (a coro, facendosi vento con le mani come se fosseroventaglini) Oh bella, sì! L’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò! l’avrò!
La Moscardina: Ih, come sono contente, guardàtele!

A questo punto, da lontano, si ode la voce di Liolà che ritorna col carretto dal paese, cantando.

Canto di Liolà:

Ventidue giorni e più che non ti vedo;
come un cagnolo alla catena abbajo...

Gesa: Oh, ecco Liolà che torna col carretto.
Ciuzza, Luzza e Nela: Liolà! Liolà! Liolà!

Liolà: (entrando, vestito da festa ) questo è LI, e questo è O, e Là
e tutt’e tre che fanno LIOLÀ:!

Mentre le ragazze ridono e battono le mani, s’accosta alla madre.

E lei, come? ancora qua?
Zia Ninfa: No, ecco, vado, vado...
Liolà: Dove? Al paese, a quest’ora? Eh via! Non pensi più alla messa per oggi. - Zia Croce, benedicite!
Zia Croce: Santo, e fatti in là, figlio!
Liolà: In là? E se mi volessi accostare?
Zia Croce: Prenderei il matterello e te lo sbatterei in testa.
Ciuzza: Per farne uscire il sangue pazzo, sì sì!
Liolà: Ci avresti gusto tu, eh? ci avresti gusto se mi facesse uscire dalla testa il sangue pazzo?(L’afferra per chiasso)

 (Liolà)

A meno di quindici giorni l’una dall’altra vengono messe in scena dal famoso attore siciliano Angelo Musco “La giara” e il “Berretto a sonagli”. La prima è una commedia festosa, coreografica e corale, basata sui dialoghi arguti tra zì Dima, il conciabrocche, e don Lollò,padrone della giara.

“Il berretto a sonagli” invece è un’opera impegnativa e rischiosa sul piano interpretativo per la complessità e il rigore tragico del personaggio di Ciampa, costretto a vivere nella dimensione mortificata della sua vita intima, dell’amore e dell’onore offesi e, parallelamente, in quella orgogliosa che il ruolo di marito tradito gli assegna.Nella logica capovolta dell’umorismo pirandelliano, basta dire la verità per essere creduti pazzi.

Ciampa:

Vuol che gliela spieghi io, la cosa com'è? Lo strumento è

scordato.

Beatrice: Lo strumento? Che strumento?

Ciampa: La corda civile, signora. Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d'orologio in testa.

La seria, la civile, la pazza. Sopra tutto, dovendo vivere in società, ci serve la civile; per cui sta qua, in mezzo alla fronte. - Ci mangeremmo tutti, signora mia, l'un l'altro, come tanti cani arrabbiati. - Non si può. - Io mi mangerei - per modo d'esempio - il signor Fifì. - Non si può. E che faccio allora? Do una giratina così alla corda civile e gli vado innanzi con cera sorridente, la mano protesa: - «0h quanto m'è grato vedervi, caro il mio signor Fifì!». Capisce, signora? Ma può venire il momento che le acque s'intorbidano. E allora... allora io cerco, prima, di girare qua

la corda seria, per chiarire, rimettere le cose a posto, dare le mie ragioni, dire quattro e quattr'otto, senza tante storie, quello che devo. Che se poi non mi riesce in nessun modo, sferro, signora, la corda pazza, perdo la vista degli occhi e non so più quello che faccio!

Fifì: Benissimo! benissimo! Bravo, Ciampa!

Ciampa: Lei, signora, in questo momento, mi perdoni, deve aver girato ben bene in sé - per gli affari suoi - (non voglio sapere) - o la corda seria o la corda pazza, che le fanno dentro un brontolio di cento calabroni! Intanto, vorrebbe parlare con me con la corda civile. Che ne segue? Ne segue che le parole che le escono di bocca sono sì della corda civile, ma vengono fuori stonate.

Mi spiego? - Dia ascolto a me; la chiuda. Mandi via subito il signor Fifì... (Gli s'appressa.)

La prego anch'io, signor Fifì: se ne vada.

Beatrice: Ma no, perché? Lasciatelo stare.

Fifì: Volete levarmi il piacere di starvi a sentire?

Ciampa (con intenzione): Perché lei, signora, qua - permette? - su la tempia destra, dovrebbe dare una giratina alla corda seria per parlare con me a quattr'occhi, seriamente: per il suo bene e per il mio!

Beatrice: Non sto mica parlando per ischerzo, io. Vi voglio appunto parlare seriamente.

Ciampa: Ah, e sta bene, allora. Eccomi qua. Badi però, signora, - mi lasci dire questo soltanto - badi che, chi non giri a tempo la corda seria, può avvenire che gli tocchi poi di girare, o di far girare agli altri la pazza: gliel'avverto.

Pupi siamo, caro signor Fifì! Lo spirito divino entra in noi e si fa pupo. Pupo io, pupo lei, pupi tutti. Dovrebbe bastare, santo Dio, esser nati pupi così per volontà divina. Nossignori! Ognuno poi si fa pupo per conto suo: quel pupo che può essere o che si crede d'essere. E allora cominciano le liti! Perché ogni pupo, signora mia, vuole portato il suo rispetto, non tanto per quello che dentro di sé si crede, quanto per la parte che deve rappresentar fuori. A quattr'occhi, non è contento nessuno della sua parte: ognuno, ponendosi davanti il proprio pupo,

gli tirerebbe magari uno sputo in faccia. Ma dagli altri, no; dagli altri lo vuole rispettato.

Esempio: lei qua, signora, è moglie, è vero?

Beatrice: Moglie, già! almeno...

Ciampa: Si vede dal modo come lo dice, che non ne è contenta. Pur non di meno, come moglie, lei vuole portato il suo rispetto, non è vero?

Beatrice: Lo voglio? Altro che! Lo pretendo. E guaj a chi non me lo porta!

Ciampa: Ecco, vede? Caso in fonte. E così, ognuno! Lei forse col cavalier Fiorìca, mio riverito principale, se lo conoscesse soltanto come un buon amico, potrebbe stare insieme nella pace degli angeli. La guerra è dei due pupi: il pupo-marito e la pupa-moglie. Dentro, si strappano i capelli, si vanno con le dita negli occhi; appena fuori però, si mettono a braccetto: corda civile lei, corda civile lui, corda civile tutto il pubblico che, come vi vede passare, chi si scosta di qua, chi si scosta di là, sorrisi, scappellate, riverenze - e i due pupi godono, tronfii d'orgoglio e di

soddisfazione!

Fifì (ridendo): Ma sapete che siete davvero spassoso, caro Ciampa!

Ciampa: Ma se questa è la vita, signor Fifì! Conservare il rispetto della gente, signora! Tenere alto il proprio pupo - quale si sia - per modo che tutti gli facciano sempre tanto di cappello! - Non so se mi sono spiegato.

Possiamo distinguere tre fasi nella produzione teatrale di Pirandello;      la seconda fase giunge fino al 1927 e comprende alcune tra le maggiori opere teatrali: “Così è (se vi pare)”,  “Il giuoco delle parti”, “Sei personaggi in cerca di autore”, “Enrico IV” e “Vestire gli ignudi”

L’azione del “Così è, se vi pare” si sviluppa con il ritmo ossessivo della tensione che cresce in paese di fronte all’incapacità di rintracciare un senso comune nelle vicende familiari del signor Ponza e dell’anziana suocera, signora Frola. La gente non accetta questi “diversi” e vuole squarciare a qualunque costo il velo di mistero che li avvolge, con crudeltà ottusa.

Laudisi:(Andrà un po' in giro per lo studio, sogghignando tra sé e tentennando ilcapo; poi si fermerà davanti al grande specchio su la mensola del camino, guarderà la propria immagine e parlerà con essa) Oh, eccoti qua!

La saluterà con due dita; strizzando furbescamente un occhio, e sghignerà.

Eh caro! - Chi è il pazzo di noi due?

Alzerà una mano con l'indice appuntato contro la sua immagine
che, a sua volta, appunterà l'indice contro di lui.
Sghignerà ancora, poi:

Eh, lo so: io dico: "tu", e tu col dito indichi me. - Va' là, che così a tu per tu, ci conosciamo bene noi due! - Il guajo è che, come ti vedo io, non ti vedono gli altri! E allora, caro mio, che diventi tu? Dico per me che, qua di fronte a te, mi vedo e mi tocco - tu, - per come ti vedono gli altri - che diventi? - Un fantasma, caro, un fantasma! - Eppure, vedi questi pazzi? Senza badare al fantasma che portano con sé, in se stessi, vanno correndo, pieni di curiosità, dietro il fantasma altrui! E credono che sia una cosa diversa.

La signora Frola s'introdurrà tremante, piangente, supplicante,
con un fazzoletto in mano, in mezzo alla ressa degli altri, tutti esagitati.

Signora Frola: Signori miei, per pietà! per pietà! Lo dica lei a tutti, signor Consigliere!
Agazzi: (facendosi avanti, irritatissimo) Io le dico, signora, di ritirarsi subito! Perché lei, per ora, non può stare qua!
Signora Frola: (smarrita) Perché? perché?

Alla signora Amalia:

Mi rivolgo a lei, mia buona signora...
Amalia: Ma guardi... guardi, c'è lì il Prefetto...
Signora Frola: Oh! lei, signor Prefetto! Per pietà! Volevo venire da lei!
Il Prefetto: No, abbia pazienza, signora! Per ora io non posso darle ascolto. Bisogna che lei se ne vada! se ne vada via subito di qua!
Signora Frola: Sì, me n'andrò! Me n'andrò oggi stesso! Me ne partirò, signor Prefetto! per sempre me ne partirò!
Agazzi: Ma no, signora! Abbia la bontà di ritirarsi per un momento nel suo quartierino qua accanto! Mi faccia questa grazia! Poi parlerà col signor Prefetto!
Signora Frola: Ma perché? Che cos'è? Che cos'è?
Agazzi: (perdendo la pazienza) Sta per tornare qua suo genero: ecco! ha capito?
Signora Frola: Ah! Sì? E allora, sì... sì, mi ritiro mi ritiro... subito! Volevo dir loro questo soltanto: che per pietà, la finiscano! Loro credono di farmi bene e mi fanno tanto male! Io sarò costretta ad andarmene, se loro seguiteranno a far così; a partirmene oggi stesso, perché lui sia lasciato in pace! - Ma che vogliono, che vogliono ora qua da lui? Che deve venire a fare qua lui? - Oh, signor Prefetto!
Il Prefetto: Niente, signora, stia tranquilla! stia tranquilla, e se ne vada, per piacere!
Amalia: Via, signora, sì! sia buona!
Signora Frola: Ah Dio, signora mia, loro mi priveranno dell'unico bene, dell'unico conforto che mi restava: vederla almeno da lontano la mia figliuola!

Si metterà a piangere.

Il Prefetto: Ma chi glielo dice? Lei non ha bisogno di partirsene! La invitiamo a ritirarsi ora per un momento. Stia tranquilla!
Signora Frola: Ma io sono in pensiero per lui! per lui, signor Prefetto! sono venuta qua a pregare tutti per lui; non per me!
Il Prefetto: Sì, va bene! E lei può star tranquilla anche per lui, gliel'assicuro io. Vedrà che ora si accomoderà ogni cosa.
Signora Frola: E come? Li vedo qua tutti accaniti addosso a lui!
Il Prefetto: No, signora! Non è vero! Ci sono qua io per lui! Stia tranquilla!
Signora Frola: Ah! Grazie! Vuol dire che lei ha compreso...
Il Prefetto: Sì, sì, signora, io ho compreso.
Signora Frola: L'ho ripetuto tante volte a tutti questi signori: è una disgrazia già superata, su cui non bisogna più ritornare.
Il Prefetto: Sì, va bene, signora... Se le dico che io ho compreso!
Signora Frola: Siamo contente di vivere così; la mia figliuola è contenta. Dunque... - Ci pensi lei, ci pensi lei... perché, se no, non mi resta altro che andarmene, proprio! e non vederla più, neanche così da lontano... Lo lascino in pace, per carità!

A questo punto, tra la ressa si farà un movimento; tutti faranno cenni; alcuni guarderanno verso l'uscio; qualche voce repressa si farà sentire.

Voci: Oh Dio... Eccola, eccola!
Signora Frola: (notando lo sgomento, lo scompiglio, gemerà perplessa, tremante) Che cos'è? Che cos'è?

SCENA NONA

DETTI, la SIGNORA PONZA, poi il SIGNOR PONZA.

Tutti si scosteranno da una parte e dall'altra per dar passo alla signora Ponza
che si farà avanti rigida, in gramaglie, col volto nascosto da un fitto velo nero, impenetrabile.

Signora Frola: (cacciando un grido straziante di frenetica gioja ) Ah ! Lina... Lina... Lina...

E si precipiterà e s'avvinghierà alla donna velata, con l'arsura d'una madre che da anni e anni non abbraccia più la sua figliuola. Ma contemporaneamente, dall'interno, si udranno le grida del signor Ponza che subito dopo si precipiterà sulla scena.

Ponza: Giulia !... Giulia !... Giulia!...

La signora Ponza, alle grida di lui, s'irrigidirà tra le braccia della signora Frola che la cingono. Il signor Ponza, sopravvenendo, s'accorgerà subito della suocera così perdutamente abbracciata alla moglie e inveirà furente:

Ah! L'avevo detto io i sono approfittati così, vigliaccamente, della mia buona fede?
Signora Ponza: (volgendo il capo velato, quasi con austera solennità) Non temete! non temete! Andate via.
Ponza: (piano, amorevolmente, alla signora Frola) Andiamo, sì, andiamo...
Signora Frola: (che si sarà staccata da sé, tutta tremante, umile, dall'abbraccio, farà eco subito, premurosa, a lui) Sì, sì... andiamo, caro, andiamo...

E tutti e due abbracciati, carezzandosi a vicenda, tra due diversi pianti, si ritireranno bisbigliandosi tra loro parole affettuose. Silenzio. Dopo aver seguito con gli occhi fino all'ultimo i due, tutti si rivolgeranno, ora, sbigottiti e commossi alla signora velata.

Signora Ponza: (dopo averli guardati attraverso il velo dirà con solennità cupa) Che altro possono volere da me, dopo questo, lor signori? Qui c'è una sventura, come vedono, che deve restar nascosta, perché solo così può valere il rimedio che la pietà le ha prestato.
Il Prefetto: (commosso) Ma noi vogliamo rispettare la pietà, signora. Vorremmo però che lei ci dicesse -
Signora Ponza: (con un parlare lento e spiccato) - che cosa? la verità? è solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora Frola -
Tutti: (con un sospiro di soddisfazione) - ah !
Signora Ponza: (subito c.s.) - e la seconda moglie del signor Ponza -
Tutti: (stupiti e delusi, sommessamente) - oh! E come?
Signora Ponza: (subito c.s.) - sì; e per me nessuna! nessuna!
Il Prefetto: Ah, no, per sé, lei, signora: sarà l'una o l'altra!
Signora Ponza: Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede.

Guarderà attraverso il velo, tutti, per un istante; e si ritirerà. In silenzio.

Laudisi: Ed ecco, o signori, come parla la verità

Volgerà attorno uno sguardo di sfida derisoria.

Siete contenti?

Scoppierà a ridere.

Ah! ah! ah! ah!     (Così è, se vi pare)

“Ma niente è vero, e vero può essere tutto,

basta crederlo per un momento, e poi non più, e poi di nuovo,

e poi sempre,o per sempre mai più.

La verità la sa solo Dio.

Quella degli uomini è a patto

Che tale la credano,

quale la sentano.

Oggi così, domani altrimenti.   (La favola del figlio cambiato)

È da tanti anni a servizio della mia arte (ma come fosse da jeri) una servetta sveltissima e non per tanto nuova sempre del mestiere.
         Si chiama Fantasia.
         Un po' dispettosa e beffarda, se ha il gusto di vestir di nero, nessuno vorrà negare che non sia spesso alla bizzarra, e nessuno credere che faccia sempre e tutto sul serio a un modo solo. Si ficca una mano in tasca; ne cava un berretto a sonagli; se lo caccia in capo, rosso come una cresta, e scappa via. Oggi qua; domani là. E si diverte a portarmi in casa, perché io ne tragga novelle e romanzi e commedie, la gente più scontenta del mondo, uomini, donne, ragazzi, avvolti in casi strani da cui non trovan più modo a uscire; contrariati nei loro disegni; frodati nelle loro speranze; e coi quali insomma è spesso veramente una gran pena trattare.
         Orbene questa mia servetta Fantasia ebbe, parecchi anni or sono, la cattiva ispirazione o il malaugurato capriccio di condurmi in casa tutta una famiglia, non saprei dire dove né come ripescata, ma da cui, a suo credere, avrei potuto cavare il soggetto per un magnifico romanzo.
         Mi trovai davanti un uomo sulla cinquantina, in giacca nera e calzoni chiari, dall'aria aggrottata e dagli occhi scontrosi per mortificazione; una povera donna in gramaglie vedovili, che aveva per mano una bimbetta di quattr'anni da un lato e con un ragazzo di poco più di dieci dall'altro; una giovinetta ardita e procace, vestita anch'essa di nero ma con uno sfarzo equivoco e sfrontato, tutta un fremito di gajo sdegno mordente contro quel vecchio mortificato e contro un giovane sui vent'anni che si teneva discosto e chiuso in sé, come se avesse in dispetto tutti quanti. Insomma quei sei personaggi come ora si vedono apparire sul palcoscenico, al principio della commedia. E or l'uno or l'altro, ma anche spesso l'uno sopraffacendo l'altro, prendevano a narrarmi i loro tristi casi, a gridarmi ciascuno le proprie ragioni, ad avventarmi in faccia le loro scom­poste passioni, press'a poco come ora fanno nella commedia al malcapitato Capocomico.

Posso soltanto dire che, senza sapere d'averli punto cercati, mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro, quei sei personaggi che ora si vedono sulla scena. E attendevano, lì presenti, ciascuno col suo tormento segreto e tutti uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende reciproche, ch'io li facessi entrare nel mondo dell'arte, componendo delle loro persone, delle loro passioni e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno una novella.
         Nati vivi, volevano vivere.


         E che cos'è il proprio dramma, per un personaggio?
         Ogni fantasma, ogni creatura d'arte, per essere, de­ve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragion d'essere del personaggio; è la sua funzione vitale: necessaria per esistere.

L'uscere: (col berretto in mano) Scusi, signor Commendatore.
Il capocomico: (di scatto, sgarbato) Che altro c'è?
L'uscere: (timidamente) Ci sono qua certi signori, che chiedono di lei.

Il capocomico e gli Attori si volteranno stupiti a guardare dal palcoscenico giù nella sala.

Il capocomico: (di nuovo sulle furie) Ma io qua provo! E sapete bene che durante la prova non deve passar nessuno! (Rivolgendosi in fondo): Chi sono lor signori? Che cosa vogliono?
Il padre: (facendosi avanti, seguito dagli altri, fino a una delle due scalette) Siamo qua in cerca d'un autore
Il capocomico: (fra stordito e irato) D'un autore? Che autore?
Il padre: D'uno qualunque, signore.
Il capocomico: Ma qui non c'è nessun autore, perché non abbiamo in prova nessuna commedia nuova.
La figliastra: (con gaja vivacità, salendo di furia la scaletta). Tanto meglio, tanto meglio, allora, signore! Potremmo esser noi la loro commedia nuova.
Qualcuno degli attori: (fra i vivaci commenti e le risate degli altri) Oh, senti, senti!
Il padre: (seguendo sul palcoscenico la figliastra). Già, ma se non c'è l'autore! (Al Capocomico): Tranne che non voglia esser lei...

La Madre, con la Bambina per mano, e il Giovinetto saliranno i primi scalini della scaletta e resteranno lì in attesa. Il Figlio resterà sotto, scontroso.

Il capocomico: Lor signori vogliono scherzare?
Il padre: No, che dice mai, signore! Le portiamo al contrario un dramma doloroso.
La figliastra: E potremmo essere la sua fortuna!
Il capocomico: Ma mi facciano il piacere d'andar via, che non abbiamo tempo da perdere coi pazzi!
Il padre: (ferito e mellifluo) Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d'infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere.
Il capocomico: Ma che diavolo dice?
Il padre: Dico che può stimarsi realmente una pazzia, sissignore, sforzarsi di fare il contrario; cioè, di crearne di verosimili, perché pajano vere. Ma mi permetta di farle osservare che, se pazzia è, questa è pur l'unica ragione del loro mestiere.

Gli Attori si agiteranno, sdegnati.

Il capocomico: (alzandosi e squadrandolo) Ah sì? Le sembra un mestiere da pazzi, il nostro?
Il padre: Eh, far parer vero quello che non è; senza bisogno, signore: per giuoco... Non è loro ufficio dar vita sulla scena a personaggi fantasticati?
Il capocomico: (subito facendosi voce dello sdegno crescente dei suoi Attori) Ma io la prego di credere che la professione del comico, caro signore, è una nobilissima professione! Se oggi come oggi i signori commediografi nuovi ci danno da rappresentare stolide commedie e fantocci invece di uomini, sappia che è nostro vanto aver dato vita - qua, su queste tavole - a opere immortali!

Gli Attori, soddisfatti, approveranno e applaudiranno il loro Capocomico.

Il padre: (interrompendo e incalzando con foga). Ecco! benissimo! a esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse; ma più veri! Siamo dello stessissimo parere!

Gli Attori si guardano tra loro, sbalorditi.

Il direttore: Ma come! Se prima diceva...
Il padre: No, scusi, per lei dicevo, signore, che ci ha gridato di non aver tempo da perdere coi pazzi, mentre nessuno meglio di lei può sapere che la natura si serve da strumento della fantasia umana per proseguire, più alta, la sua opera di creazione.
Il capocomico: Sta bene, sta bene. Ma che cosa vuol concludere con questo?
Il padre: Niente, signore. Dimostrarle che si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla... o donna. E che si nasce anche personaggi!
Il capocomico: (con finto ironico stupore) E lei, con codesti signori attorno, è nato personaggio?
Il padre: Appunto, signore. E vivi, come ci vede.

L’autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non potè materialmente, metterci al mondo dell’Arte. E fu un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più! Morrà l’omo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più.

Il copione è in noi, signore, il dramma è in noi; siamo noi; e siamo impazienti di rappresentarlo, così come dentro si urge la passione!”

(Sei personaggi in cerca d’autore)

Il protagonista dell’ “Enrico IV” è una creatura umana che, attraverso l’esperienza della follia, si trasforma in attore di se stesso…

Enrico IV: Già. Ma vedi? È che, cadendo da cavallo e battendo la testa, fui pazzo per davvero, io, non so per quanto tempo...
Dottore: Ah, ecco, ecco! E durò a lungo?
Enrico IV: (rapidissimo, al dottore). Sì, dottore, a lungo: circa dodici anni.

E subito, tornando a parlare al Belcredi:

E non vedere più nulla, caro, di tutto ciò che dopo quel giorno di carnevale avvenne, per voi e non per me; le cose, come si mutarono; gli amici, come mi tradirono; il posto preso da altri, per esempio... che so! Ma supponi nel cuore della donna che tu amavi; e chi era morto; e chi era scomparso... tutto questo, sai? non è stata mica una burla per me, come a te pare!
Belcredi: Ma no, io non dico questo, scusa! Io dico dopo!
Enrico IV: Ah sì? Dopo? Un giorno...

Si arresta e si volge al dottore.

Caso interessantissimo, dottore! Studiatemi, studiatemi bene!

Vibra tutto, parlando:

Da sè, chi sa come, un giorno, il guasto qua...

si tocca la fronte

che so... si sanò. Riapro gli occhi a poco a poco, e non so in prima se sia sonno o veglia, ma sì, sono sveglio; tocco questa cosa e quella: torno a vedere chiaramente...Ah! - come lui dice -

accenna a Belcredi

via, via allora, quest'abito da mascherato! questo incubo! Apriamo le finestre: respiriamo la vita! Via, via, corriamo fuori!

Arrestando d'un tratto la foga:

Dove? a far che cosa? a farmi mostrare a dito da tutti, di nascosto, come Enrico IV, non più così, ma a braccetto con te, tra i cari amici della vita?
Belcredi: Ma no! Che dici? Perché?
Donna Matilde: Chi potrebbe più...? Ma neanche a pensarlo! Se fu una disgrazia!
Enrico IV: Ma se già mi chiamavano pazzo, prima, tutti! (A Belcredi) E tu lo sai! Tu che più di tutti ti accanivi contro chi tentava difendermi!
Belcredi: Oh, via, per ischerzo!
Enrico IV: E guardami qua i capelli! (Gli mostra i capelli sulla nuca.)
Belcredi
: Ma li ho grigi anch'io!
Enrico IV: Sì, con questa differenza: che li ho fatti grigi qua, io, da Enrico IV, capisci? E non me n'ero mica accorto! Me n'accorsi in un giorno solo, tutt'a un tratto, riaprendo gli occhi, e fu uno spavento, perché capii subito che non solo i capelli, ma doveva esser diventato grigio tutto così, e tutto crollato, tutto finito: e che sarei arrivato con una fame da lupo a un banchetto già bell'e sparecchiato.
Belcredi: Eh, ma gli altri, scusa...
Enrico IV: (subito). Lo so, non potevano stare ad aspettare ch'io guarissi, nemmeno quelli che, dietro a me, punsero a sangue il mio cavallo bardato...
Di Nolli: (impressionato). Come, come?
Enrico IV: Sì, a tradimento, per farlo springare e farmi cadere!
Donna Matilde: (subito, con orrore). Ma questo lo so adesso, io!
Enrico IV: Sarà stato anche questo per uno scherzo!
Donna Matilde: Ma chi fu? Chi stava dietro alla nostra coppia?
Enrico IV: Non importa saperlo! Tutti quelli che seguitarono a banchettare e che ormai mi avrebbero fatto trovare i loro avanzi, Marchesa, di magra o molle pietà, o nel piatto insudiciato qualche lisca di rimorso, attaccata. Grazie! (Voltandosi discatto al Dottore:) E allora, dottore, vedete se il caso non è veramente nuovo negli annali della pazzia! - preferii restar pazzo - trovando qua tutto pronto e disposto per questa delizia di nuovo genere: viverla - con la più lucida coscienza - la mia pazzia e vendicarmi così della brutalità d'un sasso che m'aveva ammaccato la testa!

Ma lo vedete? Lo sentite che può diventare anche terrore codesto sgomento, come per qualcosa che vi faccia mancare il terreno sotto i piedi e vi tolga l’aria da respirare? Per forza, signori miei, perché trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti ad uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito attorno a voi, in voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni!”    (Enrico IV)

Nel “Giuoco delle parti” il vecchio triangolo della commedia borghese (Lei, Lui e l’amante) è analizzato da Pirandello alla luce di una razionalità spinta fino alle più estreme conseguenze: Leone sopporta con filosofica rassegnazione il tradimento della moglie Silia con Giudo; ma quando costoro vorrebbero costringerlo a battersi per vendicare un’offesa recata a Silia, Leone rifiuta: Guido è il marito di fatto, quindi a lui spettano gli obblighi che tale posizione comporta.

Atto Terzo

Scena terza  

Detti, Leone, poi Silia.

Leone si presenta, placidissimo, ancora un po' insonnolito, in pijama e pantofole.

LEONE Buon giorno.

GUIDO Come! Ancora così? Ma vai subito a vestirti, perdio! Non c'è un minuto da perdere, ti dico!

LEONE, Scusa, perché?

GUIDO Come perché?

BARELLI Non ricordi più che hai da fare il duello?

LEONE Io?

SPIGA Dorme ancora!

GUIDO Il duello! Il duello! alle sette!

BARELLI Ci mancano appena dieci minuti!

LEONE Ho capito. Ho inteso. E vi prego di credere che sono sveglissimo.

GUIDO (al colmo dello stupore, quasi atterrito) Come!

BARELLI (c.s.) Che vuoi dire?

LEONE (placidissimo) Ma io lo domando a voi.

SPIGA (quasi tra sé) Che sia impazzito?

LEONE No, caro dottore, compos mei, perfettamente.

GUIDO Tu devi batterti!

LEONE Anche?

BARELLI Come, anche?

LEONE Ma no, amici miei! Voi siete in errore!

GUIDO Vorresti tirarti indietro?

BARELLI Non vuoi più batterti?

LEONE Io? tirarmi indietro? Ma tu sai bene ch'io sto sempre fermissimo al mio posto.

GUIDO Ti trovo così...

BARELLI E se dici...

LEONE Come mi trovi? Che dico? Dico che tu e mia moglie mi avete scombussolato jeri tutta la giornata, per farmi fare ciò che realmente ho riconosciuto che toccava a me di fare.

GUIDO E dunque -

BARELLI - ti batti!

LEONE Questo non tocca a me.

BARELLI E a chi tocca?

LEONE A lui.

Indica Guido.

BARELLI Come, a lui?

LEONE A lui, a lui.

S'appressa a Guido, rimasto allibito, con le mani sul volto, e gliene stacca una per guardarlo negli occhi.

E tu lo sai!

A Barelli:

Egli lo sa! Io, marito, ho sfidato, perché non poteva lui per mia moglie. Ma quanto a battermi, no. Quanto a battermi, scusa,

a Guido, piano, scrollandogli un'ala del bavero e pigiando su ogni parola:

tu lo sai bene, è vero? che io non c'entro, perché via, non mi batto io, ti batti tu!

GUIDO (trema, suda freddo, si passa le mani convulse sulle tempie).

BARELLI Questo è enorme!

LEONE No, normalissimo, caro; perfettamente secondo il giuoco delle parti. Io, la mia: lui, la sua. Dal mio pernio io non mi muovo. E come me ragiona anche il suo avversario: lo hai detto tu stesso, Barelli, che ce l'ha con lui difatti, il suo avversario, non ce l'ha mica con me. Perché tutti lo sanno, e tu meglio di tutti, che cosa si voleva fare di me. Ah, volevate davvero portarmi al macello?

GUIDO (protestando con forza) Io, no! io, no!

LEONE Ma va' là, che tra te e mia moglie qua, jeri, pareva che faceste all'altalena, e su, e giù, e io nel mezzo ad aggiustarmi e ad aggiustarvi a punto. Ah! avete creduto di giocarvi me, la mia vita? Avete fallito il colpo, cari miei! Io ho giocato voi.

GUIDO No! Tu mi sei testimonio che io, jeri... e fin da principio...

LEONE Ah, sì, tu hai cercato di essere prudente. Molto prudente.

GUIDO Come lo dici? Che intendi dire?

LEONE Eh, caro; ma prudente fino all'ultimo, no, non sei stato, devi riconoscerlo! A un certo punto, per ragioni che io intendo benissimo, bada (e ti compiango!), la prudenza è venuta a mancarti, e ora, mi dispiace, ne piangerai le conseguenze.

GUIDO Perché tu non ti batti?

LEONE Non tocca a me.

GUIDO Sta bene! Tocca a me?

BARELLI (insorgendo) Ma come, sta bene?

GUIDO (a Barelli) Sta bene! Aspetta!

A Leone

E tu?

LEONE Io farò colazione.

GUIDO No, dico... non capisci che se io ora vado a prendere il tuo posto...

LEONE Ma no, caro: non il mio: il tuo!

GUIDO Il mio, sta bene. Ma tu sarai squalificato!

BARELLI Squalificato! Dovremo per forza squalificarti!

LEONE (ride forte) Ah! ah! ah! ah!

BARELLI Ridi? Squalificato! Squalificato!

LEONE Ma ho inteso, cari miei! Rido. E non vedete come vivo? Dove vivo? E che volete che m'importi di tutte le vostre... qualità?

GUIDO Non perdiamo più tempo, via! Andiamo! andiamo!

BARELLI Ma vai a batterti tu, davvero?

GUIDO Io, sì! Non hai inteso?

BARELLI Ma no!

LEONE Sì, credi, tocca a lui, Barelli.

BARELLI Questo è cinismo!

LEONE No, caro: è la ragione, quando uno s'è votato d'ogni passione, e...

GUIDO (interrompendo e afferrando Barelli per un braccio) Vieni, Barelli! Inutile discutere, ormai! Lei, dottore, venga giù con me!

SPIGA Eccomi, eccomi!

Entra a questo punto dall'uscio a destra Silia Gala. Si fa un breve silenzio, nel quale ella resta come sospesa e smarrita.

GUIDO (facendosi avanti pallidissimo e stringendole la mano) Addio, signora!

Poi, volgendosi a Leone:

Addio!

Esce precipitosamente seguito da Barelli e da Spiga.

In “Vestire gli ignudi” la protagonista Ersilia Drei tenta invano di ricostruirsi un passato morale che vesta di un abitino decente la sua misera esistenza. Incompresa e vinta Ersilia morirà “nuda” così come ha sempre vissuto…

“…e allora…volli farmela per la morte, almeno, una vestina decente…ecco perché mentii…non avevo potuto averne mai una per la vita, da poter figurare in qualche modo, che non mi fosse stata strappata dai tanti cani…dai tanti cani che mi sono saltati sempre addosso, per ogni via, che non mi fosse stata imbrattata da tutte le miserie più basse e più vili…me ne volli fare una…bella…per la morte…la più bella…quella che era stata per me come un sogno,là…e che mi fu strappata subito, anch’essa…quella di fidanzata…ma per morirci, per morirci e basta…ecco…con un po’ di rimpianto di tutti…e basta…

Ebbene, no! No! Non ho potuto avere neanche questa! Lacerata addosso, strappata anche questa! No! Morire…nuda! Scoperta, avvilita, e spregiata!

Ecco qua…siete contenti? E ora andate, andate. Lasciatemi morire in silenzio: nuda. Andate! Lo posso ben dire, ora, mi pare, che non voglio più vedere, che non voglio più sentire nessuno? Andate, andatelo a dire, tu a tua moglie, tu alla tua fidanzata, che questa morta…ecco qua…non s’è potuta vestire.” (Vestire gli ignudi)

Nell’Ottobre del 1924 nasce il Teatro d’Arte di Roma, di cui Pirandello assunse la direzione

Cerca un'attrice che possa interpretare la commedia di Bontempelli, «Nostra Dea» e incontra Marta Abba. Altro colpo del destino, l'ultimo. Dal primo istante in cui la vide Pirandello se ne innamora. È una passione senza scampo, la passione d'un celebre vecchio (Luigi ha cinquantotto anni) per una bella e giovane donna (Marta ne ha venticinque) destinata a diventare famosa. Da quel momento Pirandello non vedrà che lei, non scriverà che per lei; nascono «Diana e la Tuda», «L'amica delle mogli», «Trovarsi», «Come tu mi vuoi».,;da essi traspare la vicenda del suo amore, un amore violento, contorto, feroce, che non può (e forse non vuole) essere corrisposto. Nella solitudine in cui vive, questo sentimento è l'unica consolazione che resta al vecchio scrittore.

In “Trovarsi” la protagonista, Donata, è un’attrice che non sa “costruirsi”, non sa “consistere”, a trovare una sua forma, poiché ogni volta che recita si identifica pienamente in ognuno dei suoi personaggi. Quale sarà, dunque, la sua vera personalità? E come trovare comprensione e sostegno in un mondo che non le appartiene?  Condannata a vagare senza poter “trovarsi”, Donata resterà sola coi suoi fantasmi più vivi e veri di ogni cosa viva e vera.

Donata: “…l’unica possibilità di vivere tante vite…E’ tutta vita in noi: Vita che si rivela a noi stessi. Vita che ha trovato la sua espressione. Non si finge più quando ci siamo appropriati di questa espressione fino a farla diventare febbre dei nostri polsi…lagrima dei nostri occhi, o riso della nostra bocca…Io le dico che vivo in quei momenti la vita del mio personaggio! Non sono io! …sogni…pena di non essere…come dei fiori che non han potuto sbocciare…ecco, finchè si resta così, certo non si ha nulla, ma si ha almeno questa pienezza di libertà…di vagare con lo spirito…di potersi immaginare in tanti modi

L’orrore io lo vivo con gli occhi bene aperti ogni notte…davanti allo specchio…quando, appena finita la rappresentazione, vado a chiudermi nel camerino per struccarmi.

Salò: “Dev’essere effettivamente per voi il momento più triste…tornare voi…”

Donata: “…e non trovarmi…Il teatro si è vuotato…che squallore spaventoso…tutti se ne sono andati, con qualche cosa di me viva nel ricordo…ed io, entrando nel mio camerino, sono ancora accesa del respiro caldo della folla che s’è levata ad applaudirmi un’ultima volta sulla scena.

Ma ora lì, sola, a mani vuote,in quel silenzio, davanti a quel grande specchio sulla tavola che mi rappresenta intorno quegli abiti vani, che pendono immobili…e me seduta in mezzo…le spalle curve…le mani in grembo, e gli occhi aperti, aperti a fissarmi in quel vuoto…Non li chiuderò mai…mai!”   (Trovarsi)

Nel marzo 1929 Luigi Pirandello è chiamato a far parte della regia Accademia d’Italia. Ha ormai raggiunto una fama internazionale. Ha scritto ancora molti lavorii teatrali: “Questa sera si recita a soggetto”, “La nuova colonia”, “Come tu mi vuoi” ed ancora tanti altri…Nel 1934 riceve il premio Nobel per la Letteratura. Gli ultimi suoi lavori sono: “La favola del figlio cambiato” e “I giganti della montagna”, rimasto incompiuto

Cotrone: “…siamo qua come agli orli della vita, contessa,. Gli orli, a comando, si distaccano, entra l’invisibile, vaporano i fantasmi. E’ cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno: Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore…tutto l’infinito ch’è negli uomini lei lo troverà dentro e intorno a questa villa….Non bisogna più ragionare…qua si vive di questo. Privi di tutto, ma con tutto il tempo per noi…respiriamo aria favolosa…vediamo sorgere incanti figurati da ogni gomito d’ombra…

Ilse: “Voi non credete agli spiriti?”

Cotrone: Come no? Li creiamo!”

Ilse: “Li…create?”

Cotrone: “Perdoni, contessa, non m’aspettavo da lei che mi dovesse dire così. Non è possibile che non ci creda anche lei, come noi. Voi attori date corpo ai fantasmi perché vivano…e vivono! I fantasmi…non c’è mica bisogno d’andarli a cercare lontano: basta farli uscire da noi stessi! Non ho mai fatto altro in vita mia. Tutte quelle verità che la coscienza rifiuta le faccio venir fuori dal segreto dei sensi o a seconda, le più spaventose, dalle caverne dell’istinto. Con questi miei amici m’ingegno di sfumare sotto diffusi chiarori anche la realtà di fuori, versando, come in fiocchi di nubi colorate, l’anima, dentro la notte che sogna…

Cromo: “Come un fuoco d’artifizio?”

Cotrone: “Ma senza spari. Incanti silenziosi. La gente sciocca ne ha paura e si tiene lontana, così noi siamo qua padroni. Padroni di niente e di tutto.”

Cromo: “E di che vivete?”

Doccia: “Solo quando non hai più casa, tutto il mondo diventa tuo. Vai e vai, poi t’abbandoni tra l’erba, al silenzio dei cieli…e sei tutto…e sei niente…e sei niente e sei tutto.”

Cotrone: “Potevo essere anch’io, forse, un grand’uomo, contessa. Mi sono dimesso. Dimesso da tutto: decoro, onore, dignità, virtù…Liberata da tutti questi impacci, ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti…Nessuno di noi è nel corpo che l’altro ci vede; ma nell’anima che parla chi sa da dove…Non è più un gioco, ma una realtà meravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto…sciogliete i calzari e deponete il bordone: siete arrivati alla vostra meta!” (I giganti della montagna)

“C’è un olivo saraceno grande, in mezzo alla scena, con cui ho risolto tutto…per tirarvi il tendone…”

Con queste ultime parole, pronunziate qualche ora prima della sua morte, Pirandello fa calare la tela sull’involontario soggiorno sulla terra di colui che rimase per tutta la vita figlio del Caos.

Mie ultime volontà da rispettare:

 Sia lasciata passare in silenzio la mia morte.

 Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni.

Morto, non mi si vesta. Mi s'avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso.

 Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta.

 Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me.

 Ma se questo non si può fare sia l'urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui ».