Di tanti palpiti

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NOME

        

            

       Di tanti palpiti…

                                                                                                                                        di:  Claudio Trionfi

                                                                          e-mail: claudiotrionfi@tiscali.it    

                                                                                                                                    tel.:  0742-91115    cell.:  347-7663764

                            ‘Di tanti palpiti’

PERSONAGGI:             CARLO                 elegante signore di 67 anni

                                        DONATELLA      bella signora di 65 anni

Sera. Un salotto. Inizialmente viene illuminato soltanto il corpo di Carlo seduto su una poltrona che tiene in mano una foto raffigurante due adolescenti e sul retro una dedica: ‘Di tanti palpiti, di tante pene…’(i gesti della mano dovranno essere proiettati sul fondo). Squilla il telefono. La scena si illumina.

CARLO                     Sì?

DONATELLA           (voce effetto telefono) Eccomi. Sono al bivio che mi hai detto. Ora che devo fare?

C.                       Intanto ben arrivata.

D.                       (voce) Grazie.

C.                       Vedi la stradina in terra battuta sulla sinistra?

D.                       (voce) Sì, la vedo.

C.                       Bene. Imboccala. Tra cinquanta metri ti troverai ad un bivio.

D.                       (voce) Lo vedo.

C.                       Tieniti sempre a sinistra.

D.Fatto.

C.                       Prosegui e in fondo vedrai il muro di una casa.

D.                       (voce) Ci sono. Sei perfetto come navigatore.

C.                             Ora gira a sinistra e segui il viottolo. Io da casa ti apro il cancello.

D.                          (voce) Agli ordini.

C.                          Lo vedi? Si sta aprendo?

D.         (voce) Sì, si sta aprendo.    

C.             Bene. Ora entra con la macchina nel capannone che vedi, scarica quello che devi scaricare e poi ti dirò.

D.         (voce) Ma scusa non fai prima a venire qui?

C.             Impossibile. Non avrebbe più senso il gioco che ti ho detto di voler fare.

D.            (voce)  Mh. Che strano gioco sarà? Non so bene se accetterò di farlo. Io comunque non ho niente da scaricare. Ho solo un beauty case.

C.Benissimo. Sei scesa?

D.(voce) Sì.

C.Ora esci dal capannone dall’apertura opposta a quella da dove sei entrata.

D.(voce) Che bel posto! Ma quando avrò il piacere di vederti?

C.Bè, questo non lo so. Non si è mai parlato di vedersi.

D.(voce) Come sarebbe a dire?

C.Io ti ho detto che avrei voluto incontrarti, non vederti.

D.            (voce) Oh santo cielo! Ma che scherzo è questo?

C.             Non è uno scherzo, Donatella. E’ un gioco. E il gioco, se accetterai di farlo, prevede come condizione fondamentale che non ci si veda.

D.           (voce) E allora io che dovrei fare? Passare la notte qui fuori perché noi non ci dobbiamo vedere?

C.  No, stai tranquilla. Ti prego, segui le mie indicazioni.

D.(voce) Come vuoi. Dimmi.

C.Sei su un vialetto che costeggia un fabbricato.

D.(voce) Sì.

C.        Apri la porta ed entra.

D.(voce) Carino!

C.(solleva un citofono e suona)

D.(sente il suono) (voce)  Cos’è questo suono?

C.E’ il citofono. Se rispondi, possiamo spegnere il cellulare.

D.(voce) Va bene. (voce dal citofono) Pronto?

C.Eccoci qua. Benvenuta, Donatella.

D.(voce) Grazie, Carlo. Ma per favore mi vuoi spiegare qualcosa? Dove sei tu? E dove sono io?

C.      Io sono a casa mia che è quella che hai visto sul fondo, immagino. E tu sei nella casetta per gli ospiti.

 D.       (voce) E adesso che sono qui e tu sei lì, che facciamo? Continuiamo a comunicare    attraverso il citofono? Spero di no perché allora potevo continuare a sentirti per telefono da casa mia senza dover affrontare questo viaggio. 

 C.       Stai tranquilla, Donatella, non voglio che tu ti innervosisca. Voglio solo fare questo

gioco con te. Se tu non vorrai, non lo faremo. Ma per decidere se vorrai farlo o no, scusa, ma

devi prima accettare questi preliminari perché sono indispensabili.

D.        (voce) D’accordo. Come vuoi. Allora che devo fare adesso?

C.        Fai quello che vuoi. Se vuoi mangiare qualcosa, ti ho lasciato una specie di cena fredda. Poi, quando sarai pronta, mi richiami e continuiamo.

     D.       (voce) In effetti un po’ di fame ce l’ho. Ma scusa non possiamo mangiare insieme?

C.       E’ difficile mangiare allo stesso tavolo senza guardarsi in faccia e senza poter vedere i piatti.

D.    (voce) Oh, santo cielo, ancora questa storia! Va bene, mangio qualcosa e poi ti chiamo. Ciao.

C.    Non arrabbiarti, per favore. Non voglio che ti arrabbi. Il gioco dovrà essere una cosa bellissima. Almeno così è nelle mie intenzioni. Noi due saremo alleati contro un avversario che cercheremo di   sconfiggere.

D.    (voce) Ma come? Quindi non siamo soli? C’è pure un altro che giocherà con noi?

C.      No, no, stai tranquilla, non c’è nessuno. Saremo noi due soli. L’avversario contro cui giocheremo non è tangibile.

D.      (voce) Oh, mamma mia, che complicazione. Rinuncio a capirci qualcosa. L’importante è che se non avrò voglia di giocare, non mi obbligherai a farlo. Chiaro?

C.No, te lo prometto. Ma spero che accetterai perché, te l’ho detto, nelle mie intenzioni dovrà essere una cosa bellissima.

D.     (voce) Dammi dieci minuti di tempo.

C.     Tutto il tempo che vuoi. Aspetto con ansiosa calma. Ti è piaciuto l’ossimoro?

     D.     (voce) Che cosa mi deve essere piaciuto?

C.     Niente. Sto scherzando. Buon appetito.

D.     (voce) Grazie.

(qualche minuto in cui lui guarda la fotografia con i due giovani. Suona il citofono)  

C.    Sì?

D.    (voce) Ho mangiato. Tutto buonissimo: prosciutto, formaggio, insalata.

C.    Bene, sono contento. Sei pronta a venire?

D.    (voce) Sì, sono pronta.

C.    Allora, sul televisore c’è una mascherina per gli occhi. La vedi?

D.    (voce) Sì, la vedo.

C.    Ecco, prendila e vieni a casa mia. Quando sarai davanti alla porta di ingresso, metti sugli occhi la mascherina e suona. Io, che avrò come te la mascherina, verrò ad aprire e ti farò strada. Sono stato chiaro?

D.    (voce) Sei stato chiarissimo. Ma posso dirti una cosa?

C.    Certo. Dimmi.

D.    (voce) Io comincio ad avere un po’ di paura. Non so se posso fidarmi. In fondo si può dire che noi non ci conosciamo. Io praticamente non so chi sei. Tutte queste cose misteriose! Questa strana accoglienza, mi spaventa. Francamente in questo momento avrei voglia di scappare.

C.    Donatella, ti prego, non aver paura. Ti assicuro che non sono un maniaco, non sono un pazzo. Proprio perché non sai chi sono né io so chi sei tu, mi è venuta l’idea di fare questo gioco. Dobbiamo continuare a non conoscerci, a non vederci, se vogliamo che i due giovani si ritrovino.

D.    (voce) Mh! Forse comincio a capire.

C.    Bene. Sono contento. Vieni e sii serena. Noi due, anziani signori, avremo modo e tempo di conoscerci, se vorremo. Ma ora pensiamo a loro, ai due giovani.

D.    (voce) D’accordo. Arrivo. (riattacca il citofono. Dopo qualche secondo la si sente suonare)

C.    (Con la mascherina sugli occhi a tentoni va ad aprire la porta) Spero che tu non stia barando e che abbia gli occhi bendati perché altrimenti sarebbe una delusione immensa.

D.    (entra) Non mi piace barare. Se dico una cosa, è quella. 

C.    Ciao, Donatella. Ci possiamo dare un bacio?

D.    Che strano, ora non ho più paura ma sono emozionatissima. Sì, diamoci un bacio. ( si baciano sulle guance) Ora portami di corsa a sedere perché mi stanno tremando le gambe.

C.    A me non tremano le gambe ma in compenso non riesco a controllare i battiti del cuore. Vieni, dammi la mano. Ti faccio strada. (la accompagna all’interno fino a una poltrona) Ecco, siediti pure qui. Io mi siedo di fronte a te.

D.    Carlo!

C.    Donatella! Donum Telluris. Ti ricordi?

D.    Sì, mi ricordo. Mi chiamavi così. ‘Dono della Terra’.

C.    Incredibile: quel dono che la Terra mi aveva dato e poi mi ha tolto, in primavera, me lo restituisce oggi, in pieno autunno.

D.    Carlo! Dolce Carlo! Non sai quante volte ho pensato a te in tutti questi anni.

C.    No, no, no, per favore. Niente patetismi, niente romanticherie, eh? Aspettiamo un attimo che le gambe e i cuori ritrovino il loro equilibrio e poi cominciamo subito il gioco che serve proprio ad evitare questo, che si cada nel racconto della nostra vita, di questi 50 anni vissuti lontani l’uno dall’altra.

D.    Ah già, il gioco. Adesso me lo puoi spiegare. E mi puoi dire chi sarebbe il nostro avversario che è, non mi ricordo come lo hai definito.

C.    Non so. Quando?

D.    Prima, poco fa; hai detto che è intangibile. Ecco: intangibile. Hai detto così.

C.    Eh, sì infatti è intangibile e cosa più stimolante per me, è anche invincibile. Nessuno ha mai vinto contro di lui, a parte qualche personaggio del mito o delle favole. Ma nella realtà nessuno lo ha mai sconfitto.

D.    E allora dovremmo fare un gioco dove si sa in partenza che perderemo?

C.    E’ questo il bello, Donatella. Noi questa sera, se tu vorrai allearti con me, riusciremo a sconfiggerlo. Ci faremo beffa di lui.

D.    Va bene, mi alleerò con te. Ma adesso per favore dimmi finalmente chi è questo avversario e in cosa consiste questo strano gioco.

C.    Sì, forse è meglio cominciare subito. Anche perché non abbiamo molto tempo. Che ore sono?

D.    Dimentichi che ho gli occhi bendati. Non posso guardare l’orologio. So solo che quando sono arrivata erano le nove quindi all’incirca saranno le nove e un quarto.

C.    Il Tempo ci concede un’ora e un quarto. Dopo di che sapremo chi avrà vinto, se noi o lui. Perché è proprio il Tempo il nostro avversario.

D.    Che complicazione! Mi vuoi spiegare meglio, per favore? Che cosa dobbiamo fare in quest’ora e un quarto?

C.    Un salto. Un salto all’indietro di 50 anni. Lui, il Tempo ovviamente cercherà di impedircelo ma noi ci proveremo, se tu vorrai.

D.    Ma io l’ho fatto tante volte quel salto indietro, te l’ho detto. Non ho mai smesso di pensare a te e di ricordare quel periodo.

C.    Ma no, non si tratta di ricordare; si tratta di annullare il Tempo, di ucciderlo, si può dire. Vedi, il ricordo non è che il pensiero di cose o persone che ci sono state e non ci sono più e non potranno più esserci perché il Tempo appunto le ha uccise. Per questo dico che il Tempo è il nostro nemico invincibile, perché ci uccide inesorabilmente giorno per giorno, momento per momento. Vedi, la morte è nella vita; la vita è un continuo morire.

D.    Che discorso cervellotico e anche piuttosto macabro. Mi fa impressione.

C.    Ma no, è la realtà. La Donatella che c’era un attimo fa non c’è più e non potrà mai più tornare. Figurarsi la Donatella di 50 anni fa. Noi possiamo solo ricordarla, appunto. Questa sera, invece, voglio che siamo noi due ad uccidere il Tempo, ad annullarlo facendo un salto indietro, scavalcandolo. Non so se mi spiego.

D.    Poco. Molto poco. O meglio: ti spieghi in teoria ma non so, in pratica, che cosa vorresti fare. 

C.    Provo a spiegartelo in un altro modo meno macabro e forse anche più chiaro.

D.    Grazie, sei molto gentile.

C.    Fai conto che noi ora, in questo momento, siamo con i piedi piantati per terra e che intorno a noi ci sia il mare. E il mare che ci circonda è il Tempo, sono gli eventi della nostra esistenza passata e futura. Sono i ricordi e le aspettative. Ma non possiamo entrare in quel mare perché abbiamo le mani e i piedi legati quindi non potremmo nuotare e affogheremmo. Ecco, io questa sera vorrei fare insieme a te un salto che ci riporti a un isolotto lontano 50 anni senza rischiare di affogare nell’implacabile mare del Tempo. Hai capito?

D.    Non ho capito ma almeno questa spiegazione è più poetica di quella di prima. Mi piace di più. Ecco, ora ritrovo il Carlo che mi ha fatto innamorare. Ricordo che anche allora mi parlavi spesso per similitudini che a me piacevano tanto, mi sembravano così poetiche. Ti dicevo sempre che dovevi fare lo scrittore, ricordi? Invece che cosa hai fatto nella vita? Ancora non me lo hai detto. Mi hai detto solo che da dieci anni ti sei ritirato qui in campagna; ma cosa facevi, che lavoro hai fatto e cosa fai ora non lo so. Me lo vuoi dire?

C.    Un giorno, quando ci ritroveremo, se ci ritroveremo, te lo dirò. Ti racconterò del poco che ho fatto nella vita e del nulla che ho deciso di fare per il resto che mi rimane da vivere.

D.    Almeno dimmi se hai scritto qualcosa, dei romanzi, delle poesie, come ti chiedevo di fare.

C.    Come sei curiosa! Bè, visto che ti interessa tanto sapere che cosa ho fatto, posso dirti che ho scritto, sì, ma non romanzi né poesie. Ho scritto dei saggi che a dire la verità erano, io li chiamo così, degli assaggi di saggi; parole, tante vuote parole alle quali inizialmente credevo ma che col passare degli anni per me erano diventate solo caratteri scritti o tutt’al più suoni, se venivano pronunciate in qualche aula universitaria; che mi davano da vivere sempre meglio, diciamo materialmente ma sempre peggio spiritualmente. Mi sentivo come Dulcamara, sai quel ciarlatano dell’opera di Donizetti che vende falsi elisir d’amore. Non mi andava più di ingannare, bè ora sto esagerando, diciamo di prendere in giro i miei studenti e anche me stesso. E allora ho mollato tutto e sono venuto qui a chiudermi in questo silenzio della Natura che è molto più melodioso di quell’assordante silenzio degli agglomerati urbani. E con questo secondo ossimoro della serata chiudo la parentesi patetica delle mie considerazioni sulla miseria umana.

D.    Quindi eri professore universitario, se ho capito bene?

C.    Hai capito bene.

D,    E cosa insegnavi? Me lo vuoi dire?

C.    Sì. La materia si chiama ‘Storia dell’evoluzione delle tecniche di frittura dell’aria’.

D.    Dai, non scherzare. Che cosa insegnavi?

C.    Per favore, torniamo al nostro gioco che è il vero motivo per cui sei venuta qui. (si alza per prendere un whisky)

D.    Che stai facendo?

C.    Mi verso un goccio di whisky. Tu ne vuoi?

D.    No, grazie. Ma allora ci vedi! Non hai la mascherina!

C.    No, stai tranquilla, non ci vedo; ma conosco la mia casa e avevo messo sul tavolo bottiglia e bicchieri. (si risiede) Allora, dimmi, tu, in tutti questi anni e quando adesso, tornata in Italia, mi hai cercato e rintracciato a chi pensavi? al Carlo diciassettenne o al Carlo di oggi?

D.    Bè, io ho sempre in mente quel Carlo che ho lasciato cinquant’anni fa. Ma quando ti ho cercato, appena tornata dal Venezuela, certo non pensavo che avrei ritrovato quel ragazzino che ho tanto amato. Ma ero curiosa di conoscere te come sei adesso, di sapere che persona è diventata quel Carlo di allora.

C.    Perfetto. E infatti ci siamo scambiate alcune informazioni per telefono, abbiamo cominciato a capire chi siamo e chi siamo diventati. E forse un giorno ci conosceremo anche fisicamente e scopriremo come il nostro nemico, il Tempo, ci ha trasformato. Ma questa sera ti ho chiesto di venire non per ricordare i bei tempi andati e nemmeno per raccontarci la storia della nostra vita. Io questa sera vorrei che tu ti sentissi al fianco il Carlo di allora e vorrei sentire al mio fianco la Donatella di allora, il mio Donum Telluris.

D.    E’ difficile a questa età sentirsi al fianco di un giovane di 17.

C.    Non ho detto che sia facile. Ho detto che vorrei provarci insieme a te. E so anche che non sarà facile evitare i ricordi, dimenticare la storia della nostra vita e specialmente la Storia, con la esse maiuscola, dentro cui la storia della nostra vita è scivolata. Ma si può fare o perlomeno si può tentare di farlo.

D.    In che modo?

C.    Facendo quel salto, appunto. Il salto che ti dicevo. Dovremmo trovare la forza di elidere 50 anni di Storia; quella con la esse maiuscola e quella con la esse minuscola.

D.    Sei sempre astratto. Continui a parlare ma non mi hai ancora spiegato che cosa dovremmo fare in concreto, realmente. Hai detto che abbiamo tempo fino alle dieci e mezza. Allora sarà meglio sbrigarci perché non so che ore siano ma so che ci stiamo avvicinando allo scadere.

C.    Sì, hai ragione, non c’è tempo da perdere. Noi ci siamo amati, non è vero? Te lo ricordi il modo in cui ci siamo amati?

D.    Ma scusa, non mi hai detto un attimo fa che non dobbiamo ricordare, che i ricordi sono pensieri di cose morte? E ora sei tu a chiedermi di ricordare?

C.    E’ vero, ma ti ho anche detto che non sarà una cosa facile. Infatti per esempio non riesco a non pensare, e non ci sono riuscito per tutta la vita, come mai, visto che ci siamo tanto amati così teneramente, quando sei partita non ti sei più fatta sentire, sei sparita lasciandomi un vuoto che nemmeno il tuo riemergere dal baratro alto 50 anni potrà mai riempire. Ma appunto questo fa parte dei miei ricordi e quindi non c’entra col gioco di questa sera. Un giorno, quando ci incontreremo forse, il Carlo di oggi con la Donatella di oggi, sarà una di quelle domande che vorrò farti.

D.    No, te lo dico subito perché sono sparita. Interrompiamo per un attimo il gioco e te lo spiego. Dopo continuiamo. Sai quale è stata la prima cosa che mi è successa, appena arrivata a Caracas?

C.    No.

D.    Un incidente automobilistico. Non so se ti ricordi, ma non è importante, che mio padre era già partito da un mese quando io e mia madre siamo arrivate in Venezuela.

C.    Certo che mi ricordo. Tuo padre era in carriera diplomatica ed aveva avuto un incarico là.

D.    Appunto. Era partito prima di noi per farci trovare la nuova casa pronta e perché io finissi l’anno scolastico. Quel giorno, quando io e mia madre siamo arrivate, aveva mandato l’autista a prenderci all’aeroporto. Durante il percorso abbiamo avuto un incidente. L’autista è morto; io e mia madre ci siamo salvate. Ma la macchina è bruciata e con lei la mia valigetta dove tenevo le mie cose personali tra cui la rubrica degli indirizzi, compreso il tuo. Mi sono disperata perché non sapevo più come rintracciarti. Ricordati che avevo 15 anni, ero una ragazzina, non pensavo che potesse esserci qualche modo per ritrovare il tuo indirizzo. Per me, senza la mia rubrica, tu eri come perso. Il rapporto che avrei voluto continuare ad avere con te da lontano si era bruciato dentro quella macchina. Per anni, non ridere, per anni ho pianto dentro di me e ho giurato che prima o poi sarei tornata in Italia per cercarti. E come vedi ho mantenuto fede al mio giuramento. Ecco, ora sai perché sono sparita.

C.    Donatella, non so che dire. Sono commosso. Se non fosse che il nostro salto ci deve portare a prima della tua partenza, quel Carlo, già allora tanto innamorato di te, lo sarebbe molto di più, conoscendo questa dolcissima e tristissima storia. Io invece ero convinto che la bella vita di Ambasciata, ti avesse fatto presto dimenticare il tuo timido e imbranato spasimante romano; che qualche bel giovanotto sudamericano avesse preso il mio posto nel tuo cuore.

D.    Sì, certo, poi sono arrivati anche i bei giovanotti sudamericani; è arrivato un marito; sono arrivati  figli, nipoti a riempire 50 anni di storia con la esse minuscola, come l’hai chiamata tu. Perché quella con la esse maiuscola francamente io l’ho sentita poco: Te lo dico in tutta franchezza, non mi sono mai interessata di politica. Ma nella mia micro-storia sono successe tante cose che forse un giorno, se vorrai, ti racconterò, ma il ricordo di te non è mai svanito. Ti ho sempre tenuto dentro di me. Quasi mi vergogno a raccontarti queste cose, ma è la verità e in fondo ti ho cercato proprio per dirtele.

C.    Più parli e più mi convinco che è indispensabile portare a compimento il mio gioco, per la felicità di quei due giovani e per la serenità di questi due anziani. Perché, vedi, io credo che quando noi ci conosceremo non avremo tanta voglia di amarci come si amavano loro due e forse non avremo nemmeno tanta voglia di frequentarci, scopriremo di credere in valori diversi, forse addirittura ci detesteremo.

D.    Non dire così. Non è vero. Non voglio che sia vero. Non possiamo essere tanto cambiati, dico spiritualmente, da correre il rischio di disprezzarci.

C.    Oh, sì, possiamo. E come se possiamo. E detto con franchezza chi corre più il rischio di essere disprezzato sono io perché la mia micro-storia, come l’hai chiamata tu, la storia con la esse minuscola, è cresciuta dentro la macro-storia e più questa cambiava, più cambiava la mia. Tu non ti sei mai interessata di politica, hai detto. Vuol dire che le vicende di questo mondo non hanno toccato le vicende del tuo mondo. Sei cresciuta, come tanti, senza accorgerti che intorno a te esistevano altre realtà e quindi non hai mai modificato la tua struttura mentale. Io invece sono diverso, molto diverso, da allora perché ho cercato di conoscere altre realtà lontane dalla mia e man mano che le conoscevo mi uniformavo a quella che a me sembrava la migliore. Ma per favore, torniamo al gioco. Prepariamoci al salto e non parliamo più di chi siamo. Pensiamo a loro due, a rendere felici loro due. E chissà che non serva anche a noi, una volta tornati indietro.  

D.    (sorridendo) Ancora non ci capisco niente. La paura che mi era venuta prima, adesso è passata; ma veramente ancora non ho capito dove vuoi arrivare, che cosa dovremmo fare, in che cosa consiste questo gioco.

C.    Dovremo vivere, come dire? la realtà di una finzione. Ecco il terzo ossimoro della serata.

D.    Ma insomma si può sapere che cosa sono questi ossimori?

C.    (sorride) Già, dimenticavo che la tua lingua ormai è lo spagnolo. L’ossimoro è l’accostamento di due termini in contrasto tra loro. La finzione è l’esatto opposto della realtà. Quindi la realtà della finzione è un ossimoro. E noi dovremo cercare di realizzare questo ossimoro.

D.    Ma di quale realtà parli e di quale finzione? Mi stai confondendo con tutte queste parole. Non dico che mi sto irritando, ma un po’ stanca comincio ad esserlo, ti avverto.

C.    Scusa, lo so che sono vago e irritante, ma senza questo preambolo verboso e apparentemente inconsistente non possiamo accostarci con la giusta disposizione al gioco vero e proprio; perché in effetti il gioco in sé è già cominciato. Questi sono i preliminari, ma abbi pazienza; presto arriveremo alla contesa vera e propria contro il Tempo. Dobbiamo predisporci, spirito e corpo, perché la rappresentazione di una realtà diventi la realtà di quella rappresentazione.

D.    Una recita? Dobbiamo recitare la parte di due ragazzini che non ci sono più? Ma Carlo, è  ridicolo! Te ne rendi conto? Abbiamo più di 60 anni!

C.    Vedi, quando andavo a teatro e quando ancora ci vado, sempre più raramente, ho sempre pensato che gli attori dovessero rappresentare un personaggio senza per questo perdere la propria identità; ma che il rapporto del personaggio con gli altri personaggi sulla scena, invece, dovesse essere reale. Quindi, insomma, l’attore finge di vivere la realtà del proprio personaggio ma il rapporto del personaggio con gli altri personaggi deve essere reale. Mi capisci?

D.    No, non ti capisco. Ci rinuncio. Questo gioco è troppo complicato per me. Io non sono mai stata molto intelligente, mi dispiace. Tu anche allora eri bravo a scuola, eri uno che amava lo studio, sei sempre stato più intelligente della media. Io ti ammiravo per questo, anche per questo, per tutte le cose che sapevi, per i libri che leggevi, per le cose che mi dicevi e che mi scrivevi. In quell’incidente purtroppo ho perso anche il messaggio d’amore che mi avevi scritto, te lo ricordi?

C.    Sì, sì, me lo ricordo. E’ lì che ti ho chiamata Donum Telluris.

D.    Già. Ecco insomma tu continui ad essere anche adesso uno che ama le cose cervellotiche, da intellettuale.

C.    (sorridendo) Oh!

D.    Io invece sono terra terra come allora e non sono all’altezza di certi giochi troppo intelligenti.

C.    Donatella, amore mio!…Posso dirti amore mio?

D.    Ma dimmi quello che vuoi. Tanto non mi vedi, non sai come sono diventata, quindi è come se parlassi a quella Donatella là.

C.    Amore mio! Vedi che cominci a entrare nel gioco? Perché dici di non aver capito? Questi preliminari servono appunto ad allontanarci da quelli che siamo e ad avvicinarci, anche con l’aiuto dei ricordi, in questa fase del gioco, ai due giovani di allora. Per adesso, nella fase di avvicinamento, dobbiamo essere un po’ cervellotici, come dici tu, cioè usare il cervello, la ragione; ma poi, al momento del salto, sarà solo il sentimento a darci la spinta. Ti prego, non stancarti, resisti fino ad allora.

D.    Va bene usiamo il cervello. Andiamo avanti. Che cosa dobbiamo fare?

C.    Ti dicevo degli attori. Ecco, noi dobbiamo fare pressappoco quello che penso debbano fare gli attori quando costruiscono un personaggio. Ci sono un Carlo e una Donatella qui che debbono ricreare rispettivamente un Carlo e una Donatella che non esistono più i quali si dovranno incontrare nella loro realtà inesistente. Praticamente io attore Carlo creo, ricreo, un Carlo personaggio per entrare nella sua realtà e poter così incontrare realmente il personaggio Donatella che tu Donatella attrice avrai ricreato per la stessa ragione. Ecco perché noi due qui, ora, non dobbiamo vederci, non dobbiamo conoscerci: perché se ci conoscessimo, il passaggio dal Carlo qui alla Donatella lì avverrebbe attraverso la Donatella qui e non attraverso il Carlo lì. Mi spiego?  

D.    Mamma, mamma, mamma!  Mi sono persa del tutto! Chi sono io? Dove sono? Qui? Lì? Sono un’attrice ? Sono un personaggio? E tu chi sei? Dove sei, Carlo? Dove vuoi andare? Dove mi vuoi portare? Non capisco più niente!

C.    Amore mio! Ti conosco appena e già sento che contro ogni regola delle affinità elettive, mi innamorerò di te. Facciamo di corsa questo salto perché non vedo l’ora di tornare qui per togliermi e toglierti la mascherina, guardarti negli occhi e dirti ‘ti amo’. (sorride)

D.    Ridi, ridi, fai lo spiritoso. Ma intanto io continuo a non capire che cosa sono venuta a fare qui, questa sera. Non so se sono venuta a incontrare un vecchio amore o a fare acrobazie e salti mortali nel tempo.

C.    Non mortali. Vitali. Faremo un salto vitale, vedrai. 

D.    Bè, allora sbrighiamoci perché non ci resta molto tempo.

C.    Hai ragione, finiamo di corsa questa fase preliminare; costruiamo il trampolino e poi di slancio il gran salto vitale!

D.    E il trampolino di che materiale è costruito?

C.    Di ricordi.

D.    Ma come? I ricordi? Insomma ci sono o non ci sono questi benedetti ricordi?

C.    In questo caso servono. Perché ti ho spiegato che noi siamo come su un punto della terraferma e dobbiamo saltare su quell’isolotto lontano 50 anni senza entrare nel mare che ci avvolge. Ma per essere sicuri di arrivare proprio su quell’isolotto ormai perduto nel Tempo dobbiamo trovare le giuste coordinate che sarebbero appunto i ricordi di quel periodo. E questo è un lavoro intellettuale: la costruzione del trampolino sul quale prendere lo slancio. Ma quando saremo arrivati, non esisterà più il cervello, non esisterà la ragione. Non ci sarà più niente da spiegare. Dovremo solo abbandonarci alle sensazioni e ai sentimenti che nasceranno naturalmente. E ciò che proveremo dovrà essere più reale della realtà.

D.    Carlo, amore mio…Posso chiamarti ‘amore mio’?

C.    Certo. Tanto neanche tu mi vedi; quindi puoi ancora farlo.

D.    Amore mio, anch’io non vedo l’ora di tornare all’oggi per togliermi e toglierti la mascherina, perché sento che ti amerò come ti amavo allora. Facciamo presto a costruire il trampolino. Non vedo l’ora di saltare su quell’isolotto fantastico e di tornare indietro.

C.    Allora cominciamo a tracciare le coordinate. Cerchiamo di ricostruire quel periodo, quelle atmosfere. Quanto è durata la nostra storia? Ti ricordi?

D.    Non tanto. Sei mesi circa.

C.    Sì, da gennaio a luglio.

D.    Però ci eravamo conosciuti prima, verso settembre.

C.    Sì, alla festa a casa di Cesare che allora era il tuo ragazzo. E sai perché ero venuto a quella festa? Io di solito non andavo mai alle feste un po’ perché non mi divertivo ma molto di più perché mi vergognavo di stare lì come un allocco senza saper ballare, senza saper mai cosa dire alle ragazze. Ero venuto per vedere te; perché mi ero innamorato di te.

D.    Ma che dici? Se neanche ci conoscevamo. Non ci eravamo mai visti.

C.    No, non ci eravamo mai visti ma io mi ero già innamorato di te quell’estate.

D.    Eri venuto a Porto Ercole? Perché io andavo al mare là. Ci siamo incontrati là?

C,    No. Io ero a Fregene dove andavo sempre in villeggiatura da quando sono nato. E a Fregene veniva anche Cesare. Quell’estate, un giorno, mi ha parlato di te e mi ha chiesto, visto che io ero bravo a scrivere e lui era un asino, di scriverti per conto suo una lettera d’amore. Io te l’ho scritta senza conoscerti, o meglio: ti conoscevo attraverso la sua descrizione. I tuoi capelli, i tuoi occhi, la tua bocca. Insomma, alla fine di quella lettera io ero pazzamente innamorato di te. E allora, quando siamo tornati a Roma, e lui ha organizzato quella festa, ho deciso di venire se non altro per vederti anche se sapevo che non ti avrei rivolto la parola e che non mi sarei neanche avvicinato. Io a quel tempo non conoscevo ancora il ‘Cirano de Bergerac’. E, adesso ti faccio ridere, quando qualche anno dopo l’ho letto, mi sono talmente immedesimato nella sua figura, che ho deciso di pubblicare alcuni miei articoletti giovanili su un periodico culturale sotto lo pseudonimo Cirano.

D.    Perché? Che cosa ha fatto questo Cirano? Chi era?

C.    Era un poeta con un gran nasone che ha fatto innamorare di sé la bella Rossana scrivendole lettere d’amore come se fossero scritte da Cristiano l’aitante e illetterato fidanzato di lei.

D.    Oh, Carlo! Mi viene da piangere! E’ troppo bella questa storia! E’ capitata a me e non l’ho mai saputa. Adesso sinceramente non mi ricordo di aver ricevuto quella lettera da Cesare ma se ho smesso di stare con lui appena ci siamo ritrovati a Roma, evidentemente era anche perché sentivo che quella lettera non poteva essere sua e mi sono messa ad aspettare quello che me l’aveva scritta veramente. Carlo, amore mio! Che meraviglia! Comincio a sentirmi di nuovo su quell’isola perduta nel Tempo. 

C.    Ci stiamo solo avvicinando, mia dolce. Ancora un attimo e poi facciamo il salto. Pensiamo a come sono stati quei sei mesi, in cosa è consistito il nostro amore.

D.    Oh, è stato un amore tenerissimo, me lo ricordo perfettamente.

C.    Sì, tenerissimo: mano nella mano, baci o bacetti, abbracci; niente di più.

D.    Ero felice quando stavo con te, quando mi parlavi delle tue idee, dei tuoi progetti per il futuro, del tuo amore per la musica. Con Cesare non mi piaceva stare; infatti l’ho lasciato subito; perché con lui o si andava in giro con gli amici a parlare di moto o roba del genere oppure, quando eravamo soli, voleva fare cose che a me non andavano: voleva toccarmi. Insomma voleva fare quello che facevano gli altri e anche le mie amiche.

C.    Con me invece non correvi questo rischio, vero? Io ti parlavo di Dostoevskij e ti facevo ascoltare arie d’Opera. Altro non sapevo fare.

D.    Ma io ero felice così. Non volevo altro. Sai, dopo che ho lasciato l’Italia, laggiù a Caracas, Non ho più letto libri, non sono andata più a teatro, come facevo con te, non ho più ascoltato musica, la musica che piaceva a te; La vita che ho fatto, la gente che ho frequentato è sempre stata del genere Cesare e compagni. Solo una volta, ma tanti anni dopo, non so, avrò avuto 35 anni, sono andata ad ascoltare un’Opera; e sai quale?

C.    No. Quale?

D.    ‘Tancredi’ di Rossini.   

C.    ‘Di tanti palpiti…’! Ti eri ricordata?!

D.    Non l’ho mai dimenticato. Me lo avevi fatto ascoltare a casa tua qualche giorno prima che partissi. Era il tuo ‘ottimistico addio’, mi avevi detto. Quanto ho pianto quel giorno! Avevo imparato a memoria le parole di quell’aria. ‘Di tanti palpiti, di tante pene, dolce mio bene spero mercè. Mi rivedrai, ti rivedrò…’ e poi non ricordo più.

C.    E come vedi, ci siamo rivisti. Insomma, rivisti ancora no. Per ora solo risentiti.

D.    Quando ho letto che facevano ‘Tancredi’, ho costretto mio marito a portarmi. Non mi ricordo che scusa ho trovato perché era abbastanza assurdo che potesse interessarmi. E infatti per fortuna se non sbaglio quel pezzo viene cantato all’inizio dell’opera perché a un certo punto mio marito non ce l’ha fatta più e siamo usciti. Ma quando la cantante ha attaccato: ‘Di tanti palpiti’, non sai che emozione ho provato. Anche allora ho fatto quel salto indietro che stiamo facendo adesso e mi sono ritrovata all’improvviso a casa tua, tra le tue braccia e mi è venuto da piangere come avevo pianto quel giorno da te.

C.    Basta perché altrimenti ci mettiamo a piangere di nuovo.

D.    Sì, sì, basta. Hai ragione. Ma adesso a me viene da piangere per la felicità. Sono una vecchia signora; dovrei piangere per il tempo che è passato e che non torna più e invece piango di gioia per averti ritrovato.

C.    A sentirti parlare sembra che in confronto al nostro, quello di Romeo e Giulietta sia stato un amoretto da niente, una storiella all’acqua di rose.

D.    Non dico questo. Sarà stato un grande amore anche il loro. Con la differenza però che il loro, se non sbaglio, si è concluso male.

C.    Sì, è vero, si è concluso maluccio. Ma si è concluso. E’ questa la vera differenza. La loro storia d’amore si è conclusa. Ma non con la morte. Dico che si era conclusa prima.

D.    E cioè?

C.    Cioè: loro hanno avuto un frate Lorenzo che li ha sposati e una nutrice che li ha protetti durante la loro prima ed ultima notte di matrimonio. Noi no. Per noi non c’è mai stata una prima notte. Noi non abbiamo mai ascoltato, come Romeo e Giulietta, il canto dell’allodola che preannunciava l’alba dopo una notte d’amore.

D.    E ti dispiace? Ma scusa. Non abbiamo detto che eravamo felici così? Che è stato un amore grandissimo?

C.    No, io non l’ho detto.

D.    Ma come?…

C.    Aspetta. Non mi fraintendere. Sarà stato un amore grandissimo, non lo nego. Ma dico che non è stato completo, non si è concluso.

D.    Dunque eri come gli altri? Anche tu pensavi a quella cosa?

C.    Quale cosa? Io ‘quella cosa’ non l’avevo mai fatta, non sapevo nemmeno come si faceva, non mi interessava. Come fai a non capire? Io non volevo toccarti o farmi toccare come Cesare. Io volevo unirmi a te, sentirmi finalmente un tutt’uno con te. Ma non l’ho voluto sempre, durante i sei mesi che siamo stati insieme. Solo alla fine, prima che tu partissi, ho sentito questo desiderio. E abbiamo avuto anche il nostro frate Lorenzo e la nostra nutrice che ci hanno dato una mano. Ma noi non siamo riusciti a cogliere quell’occasione. E per tutti questi 50 anni mi sono portato dentro il rammarico di aver lasciato inconcluso il nostro amore.

D.    Non so di che frate Lorenzo stai parlando e di quale occasione. Me lo vuoi spiegare?

C.    L’occasione è appunto quell’isola dove voglio tornare con te adesso, se me lo consentirai. Ti ricordi di Sebastiano e Luciana?

D.    Sì, vagamente. Sebastiano era il tuo amico del cuore, mi sembra, e Luciana la sua ragazza.

C.    Ecco, loro sono stati il nostro frate Lorenzo e la nostra nutrice. Ti ricordi che cosa abbiamo fatto l’ultima sera che siamo stati insieme? il sabato prima del lunedì della tua partenza?

D.    Certo che mi ricordo. E’ stata una sera indimenticabile. Siamo andati a Fregene, nella villa di un tuo amico.

C.    Di Sebastiano, appunto. Eravamo tu, io, lui e Luciana. Siamo arrivati alle nove di sera e alle dieci e mezza dovevamo ripartire per Roma perché tu dovevi rientrare a casa alle undici e mezza. Ti ricordi?

D.    Sì, certo che mi ricordo. Mia madre era intransigente sull’orario del rientro.

C.    E ti ricordi cos’è successo? Che cosa abbiamo fatto in quell’ora e mezza?

D.    Oh, sì che mi ricordo! Ho sempre portato dentro di me il pensiero di quei momenti.

C.    Sì, ma di preciso, che cosa abbiamo fatto? Te lo ricordi?

D.    Quando loro si sono dileguati in non so quale stanza, anche noi siamo entrati in una camera, ci siamo distesi su un letto e siamo rimasti così, in silenzio, mano nella mano, felici ma tristissimi.

C.    (sorridendo) Vedo che anche tu cominci a fare degli ossimori.

D.    Quale ossimoro ho fatto?

C.    ‘Felici e tristissimi’ è un ossimoro.

D.    Oh!

C.    A parte gli scherzi, quella camera è l’isola su cui ti voglio portare. Voglio tornare con te su quel letto. E voglio che lì la Donatella e il Carlo di allora rivivano quei momenti e modifichino, se vogliono, gli eventi di quella sera.

D.    Ma Carlo, che dici?  E’ assurdo!

C.    Per favore, dammi la mano. (si alza e la fa alzare) Le dieci e mezza si avvicinano. Non abbiamo molto tempo. Portiamo i nostri due ragazzi là dove si sono lasciati 50 anni fa. Forse non succederà nulla. Forse rimarranno distesi mano nella mano come hanno fatto allora. Ma diamogli la possibilità di cambiare il corso della loro micro-storia, di portarsi nei prossimi 50 anni il ricordo di un amore compiuto, completo. Ti prego.

D.    Carlo, cominciano a ritremarmi le gambe.

C.    E a me comincia a ribattere il cuore. E’ buon segno. Vuol dire che siamo pronti per fare il salto. Vieni, mia dolce. Teniamoci per mano e quando saremo sulla porta di quella stanza lasciamo che siano loro due ad entrare con il loro amore, le loro paure.

D.    Io ho paura, adesso. Sono io di adesso, ad avere paura.

C.    Credi che per me non sia la stessa cosa? Te l’avevo detto che era un gioco rischioso, che il Tempo è un avversario temibilissimo. Non so come ne torneremo da questo salto ma so che dobbiamo farlo, che dobbiamo rischiare.

D.    Ma è imbarazzante. Io mi vergogno, Carlo.

C.    Anch’io, in questo momento. Ma quando avremo varcato la porta, non ci saremo più noi. Ci saremo annullati. Ricordati la Donatella attrice e la Donatella personaggio. In quel mondo irreale saranno i due giovani ad entrare e a vivere le loro reali paure e vergogne. Vieni, mia dolce, andiamo.

D.    Oh, Carlo, che stiamo facendo?! Che mi fai fare?

C.    Niente che tu non voglia.

D.    Dove stiamo andando?

C.    Facciamo un salto a Fregene una sera di luglio di cinquant’anni fa. Ecco, sto aprendo la porta di una camera da letto, di quella camera da letto. (escono e riappaiono al di là della parete di tulle che lascerà trasparire un letto matrimoniale riflesso da un grande specchio sospeso sul fondo) Amore mio, siamo dentro. Siamo due personaggi ma siamo reali, e reale è questo letto. Ecco stenditi. Io mi stendo accanto a te. (si stendono sul letto)

D.    Carlo, tienimi per mano, stringimela, non mi lasciare. Ho le vertigini.

C.    Non sono le nostre mani che si stringono. Ricordatelo. Tu stai prestando la tua mano a lei che stringe la mano di lui. Ora ci sono loro. Noi non ci siamo più. Non pensare a te e non pensare a me. Guarda lui, sentitelo vicino, con gli occhi di lei. (le parole cominciano a dilatarsi e a farsi appena percettibili) La stanza è buia, la luce è spenta. Ma la luna illumina il nostro letto e i nostri corpi. Ascolta! Il rumore del mare che entra dalla finestra! Senti il profumo dei pini? Ti vedo distesa accanto a me. Ti stringo la mano. Sono come paralizzato. Vorrei stringere il tuo corpo; ma non ho la forza di muovere un dito. Il cuore mi batte. Chissà a cosa stai pensando tu in questo momento.

(da questo momento si alterneranno o si accavalleranno le figure dei due corpi anziani e le immagini proiettate di due giovani. I tempi delle battute e dei movimenti si dilateranno)

D.    Io sento battere il tuo cuore sulle tue dita che pulsano. Non so cosa mi aspetto ma qualcosa mi aspetto anche se sono felice così, immobile, vicina alla tua immobilità.

C.    Vorrei parlare; vorrei dirti tante cose, invece non riesco ad aprire bocca e me ne vergogno. Cerco di distrarmi, di pensare ad altro. Ti sento distesa al mio fianco e penso a Ilaria del Carretto.

D.    Chi era Ilaria del Carretto? C’era un’altra?

C.    (sorridendo) No, no. C’eri solo tu, stai tranquilla. Ma quasi per giustificare la mia stupida timidezza mi dicevo che forse di fronte alla bellezza pura, assoluta, è normale che si perda la parola. Ma sapevo benissimo che non era così. Tu non eri una statua di marmo. Tu eri la mia Donatella calda e viva che domani avrei perduto forse per sempre e quindi avrei dovuto e voluto dirti tante cose. Ma non parlo e non riesco nemmeno a muovermi magari solo per abbracciarti.

D.    Lo faccio io. Sono io che ti prendo un braccio, te lo porto dietro la testa e mi lascio avvolgere dal tuo corpo, rannicchiandomi al tuo fianco. (d’ora in poi alle parole seguiranno le corrispondenti azioni alternate tra i corpi giovani e quelli anziani)

C.    Io ti guardo, sorrido e accenno un bacio. Dove? Sulla fronte? Sulla guancia? Non so, non ricordo. Ma non riesco a fare altro. E’ tremenda questa paralisi che mi attanaglia! Sono come inchiodato al letto.

D.    Anch’io sono timida e sento la tua timidezza. Ma mi piace sentirmi abbandonata tra le tue braccia.

C.    (con manifesta tensione) A me no! A me non piace questa situazione. Perché non sono come Cesare? Perché non so fare quello che fanno tutti? Ma non lo dico per me. Lo dico per te. Domani partirai delusa e felice di esserti liberata di un povero imbecille che sa solo parlare ma che all’atto pratico non sa muovere un dito!   

D.    Ma che dici, Carlo?! Tu per me sei splendido così come sei e per quello che fai o non fai. Non voglio che tu sia come gli altri.

C.    (con un urlo sussurrato) Ma io non lo so! Capisci?  Tu non me lo dici. Tu taci, qui al mio fianco. E forse aspetti che io faccia qualcosa.

D.    Amore mio, calmati. E’ vero, te l’ho detto, forse aspetto che succeda qualcosa. Ma non quello che pensi tu. Non voglio che mi tocchi come faceva Cesare. E’ diverso, non te lo so spiegare.

C.    Non me lo devi spiegare perché lo so benissimo. Anch’io vorrei la stessa cosa, te l’ho detto prima. Non sono mai stato con una ragazza e non mi è mai interessato. Ma ora vorrei fare l’amore con te con amore, per amore. Imparare insieme a te a farlo.

D.    E allora perché mi dici che hai paura che io resti delusa?

C.    Perché tu hai conosciuto Cesare, sei stata con lui; avrai già imparato tutto, avrai già fatto tutto.

D.    Carlo, ti prego, non parlare più. Tienimi stretta; stringimi forte con amore, per amore. Io mi sto abbandonando tra le tue braccia, lo senti?! Voglio che il mio corpo entri nel tuo; voglio sentire il tuo corpo entrare nel mio; voglio che diventiamo un corpo solo. Spogliamoci, amore e poi teniamoci stretti, stretti.

C.    Ma io…

D.    No, no! Taci, ti prego. Spogliati e stringimi. (la coppia anziana e quella giovane iniziano a spogliarsi) Lasciamo parlare i nostri corpi per bocca del cuore. (ha inizio una scena di amplesso senza nulla di pornografico, magari in controluce per gli anziani e sfumato per i giovani. In sottofondo l’aria ‘Di tanti palpiti’. Al termine un lungo silenzio immobile.) Che ore saranno?  

C.    L’ora di oggi o l’ora di allora?

D.    Non so più dove sono; ma so che sono piena di felicità. Anzi: siamo piene di felicità; io e lei. Oh, Carlo, che volo meraviglioso mi hai fatto fare! Sento ancora le vertigini! Non so come troverò la forza di alzarmi da questo letto, di staccarmi da te; da voi!

C.    Ormai il gioco è finito; abbiamo ottenuto quello che volevamo: abbiamo sconfitto il Tempo. Non hai più l’impegno di tornare a casa alle undici e mezza. Puoi rimanere stesa qui finché vuoi. Possiamo anche scoprirci gli occhi e accendere la luce.

D.    No! Non potrei togliermi la mascherina e guardarti in faccia, e farmi guardare. Per me è stata una cosa troppo seria, capisci?, un volo troppo importante. Come si può atterrare così all’improvviso da una quota di cinquant’anni fa? No, non voglio pensare che sia stato soltanto un semplice gioco che finisca qui, ora.

C.    Ma vedi, cara, la vita è un gioco, anzi è una ludoteca; ci entriamo per caso e la attraversiamo imbattendoci in vari giocatori che possono esserci avversari o compagni e dovendo impegnarci in vari giochi, alcuni piacevoli altri faticosi o addirittura dolorosi; ma tutti, nel bene e nel male, da affrontare seriamente perché solo così avremo dato un senso alla vita quando suonerà l’ora di chiusura. E’ stato serio il nostro amore di allora; è stata seria l’esperienza di questa sera; e sarà serio l’incontro di queste due persone che non si vedono da cinquant’anni e che per cinquant’anni hanno giocato a volersi bene.

D.    Sì, ma lasciami il tempo di assimilare il piacere di aver vinto, insieme a te, a questo strano, meraviglioso gioco che mi hai fatto fare. Non voglio che la luce di una lampadina distrugga in un istante l’incanto del buio così abbagliante in cui mi sento ancora immersa.

C.    Un ‘buio abbagliante’. Stupendo! Hai cominciato anche tu a fare uso di ossimori. Comunque hai ragione. Scusami. Mi inchino di fronte alla tua sensibilità. In fondo anch’io avrei avuto paura ad affrontare la realtà e a mostrarmi nei panni di questo anziano signore a te che ancora senti calda nella tua mano la mano di quel ragazzino.

D.    Grazie. Anche per me sarebbe stato imbarazzante. Ma non è questo che mi trattiene, perché tanto prima o poi dovremo scoprirci e conoscerci; almeno lo spero.

C.    Lo spero anch’io.

D.    Il fatto è che voglio rimanere immersa in questo stato d’animo ancora per un po’; voglio tornarmene a casa come se stessi lasciando la villa di Fregene; voglio continuare a vivere le sensazioni  del gioco di allora ma con le nuove regole di oggi e quindi con i nuovi esiti. A quel punto sì, potrò credere di aver sconfitto il Tempo e io anziana ritroverò te anziano come se il gioco di oggi lo avessimo giocato veramente allora.

C.    Amore mio, lascia che continui a chiamarti così, amore mio, ho passato la vita seduto sul ciglio del tempo in tua attesa; ora, dopo un lungo cammino, sei finalmente arrivata. Ci rivedremo presto, ci prenderemo per mano e insieme, se vorrai, percorreremo il resto della vita.

D.    ‘Amore mio’! Che bello sentirtelo dire! E che bello potertelo dire! Nella mia ‘ludoteca’ ho dovuto affrontare giochi belli e brutti, come te, come tutti in fondo. Ma il pensiero che la nostra ormai prossima ora di chiusura ci troverà a giocare, alleati, questo stupendo gioco che ci ha accompagnato tutta la vita mi riempie di una gioia così grande che mi viene da piangere.

C.    Bè, adesso non esagerare. Prima di tutto chi ti dice che l’ora di chiusura sia così prossima? In fondo Matusalemme ha vissuto più di 900 anni; perché a noi non dovrebbe accadere lo stesso? E poi chi ti dice che quando ci rivedremo non ci si accorga di aver giocato tre giochi diversi: il gioco del sogno d’amore, il gioco dell’attesa e il gioco del risveglio? In fondo tu non mi conosci, né io ti conosco; non tanto fisicamente quanto caratterialmente. Potremmo scoprirci distanti e distinti e potremmo accorgerci che quel filo che pensavamo dovesse unire i due giovani a noi, si era già spezzato chissà dove e chissà quando.

D.    Perché mi parli così? Perché un minuto fa mi hai detto che avremmo affrontato insieme il cammino che ci resta da percorrere e ora mi dici con tanta durezza che bisogna svegliarsi e dimenticare il bel sogno che stavamo facendo?

C.    No; con tanta durezza, no. Con tanta paura, forse. La paura provocata dall’insicurezza. Quando un gioco è bello vorremmo che non finisse mai. E questo nostro gioco, che forse dura da sempre o forse sta iniziando ora, è troppo bello perché debba finire; e il mio timore è appunto che conoscendomi meglio, tu rimanga delusa da me che sono tanto diverso da quel Carlo di allora.

D.    Carlo, Carlo! Sei esattamente lo stesso di allora, non te ne rendi conto? Con le stesse paure, le stesse insicurezze. Che vuoi che mi importi se oggi mi sono sentita stringere e mi sentirò ancora stringere da due braccia deboli ma con una forza vitale immensa?! Che vuoi che mi importi se le tue idee politiche o religiose sono cambiate quando i sentimenti che mi trasmetti sono gli stessi di allora? Io non mi pongo questi problemi. Ti ho amato in un modo a quindici anni; in altro modo per cinquant’anni fino ad oggi; e ti amerò in modo ancora diverso da oggi in poi. E so che per te è la stessa cosa. Ma non dirmi che abbiamo giocato tre giochi diversi. E’ sempre stato lo stesso; ci siamo soltanto dovuti adeguare alle circostanze e alle persone che di volta in volta si sono frapposte tra noi. Fammi andare via con la certezza che il filo non si è spezzato. Non lasciarmi nel dubbio che al nostro prossimo incontro potrei trovare un altro uomo, diverso da quello che ora mi sta stringendo al suo fianco.

C.    E’ strano, neanche io riesco a tornare completamente in me. E’ come se mi sentissi ancora addosso la sabbia di quell’isolotto dove i nostri due eroi si sono rotolati cinquant’anni fa. Che buffo! Se qualcuno ci vedesse ora e ci sentisse parlare  d’amore come stiamo facendo, forse riderebbe di noi e probabilmente risulteremmo patetici. Eppure tutti i pudori, tutte le paure che hanno sempre condizionato i miei comportamenti, in questo momento si sono come liquefatti; non provo nessuna vergogna a stare nudo al tuo fianco e ad amarti con lo spirito di un diciassettenne. Hai ragione: non possiamo, non dobbiamo scrollarci di dosso quella sabbia così all’improvviso come se ci fossimo ridestati da un sogno; il nostro non è stato un sogno; stiamo vivendo un gioco reale; il filo che ci unisce a quei due giovani non si è spezzato, anzi è diventato un ponte che unisce  l’isolotto lontano alla nostra terraferma e noi d’ora in poi saremo padroni di muoverci liberamente da un luogo all’altro senza nessuna vergogna, senza timore di essere derisi o addirittura biasimati.

D.    Stiamo facendo tardi, amore mio. La mamma mi aspetta. Devo tornare di corsa a casa.

C.    Tu scherzi, ma in me si è creato davvero l’incanto dell’annullamento del tempo. Non mi sento più nel mio corpo, né ti sento nel tuo; è come se per me fosse plausibilissimo che tua madre ti stia aspettando. Non è strano?

D.    E’ una meravigliosa stranezza!

C.    Sì, hai ragione, dobbiamo rivestirci e lasciare questa stanza di Fregene senza toglierci la mascherina dagli occhi.

D.    Mi dai un bacio prima che ci alziamo? (si stringono e si baciano appassionatamente)

C.    Mia dolce Donatella! Mi sta tornando la voglia di fare l’amore con te.

D.    No, ti prego, no, non lo facciamo. Saremmo noi due, ora, qui, a farlo. Non saremmo più a Fregene; non saremmo più fuori dal tempo. Noi due, così come siamo, ci ritroveremo presto e allora, se ne avremo ancora il desiderio, potremo fare l’amore dove e quando vorremo. Ma adesso no, ti prego, lasciami tornare a casa dalla mamma in orario; lascia che parta per Caracas; lascia che passino cinquant’anni e teniamoci nel cuore il ricordo di questa notte di incanto.

C.    Arrivederci, mio dolce Dono della Terra. Torna presto. Io continuerò ad aspettarti seduto sul ciglio del Tempo. (si tengono stretti a lungo mentre lui sussurra l’aria del ‘Tancredi’. Poi lentamente le due coppie si alzano e cominciano a rivestirsi)

D.    Sarà difficile ritrovare gli indumenti in questo buio totale!

C.    Se ti accorgerai di aver dimenticato qualcosa qui a Fregene, te la restituirò fra cinquant’anni, quando verrai da me in campagna per fare la mia conoscenza. 

D.    Allora lascerò qualcosa volutamente per avere la scusa di tornare da te.

(quando si sono rivestiti tornano nell’ambiente dell’inizio tenendosi per mano e  l’immagine della stanza da letto svanisce)

C.    Quando ci rivedremo?

D.    Non so. Presto, spero.

C.    Perché dici ‘spero’ e non solo ‘presto’?

D.    Perché non so di quanto tempo avrò bisogno prima di ritrovare i miei veri connotati e di potermi presentare a te con la mia età anagrafica.

C.    Posso chiederti una cosa?

D.    Certo; puoi chiedermi quello che vuoi.

C.    Ti andrebbe di farmi avere una tua foto prima che ci si riveda?

D.    Così potrai decidere se ti andrà di rivedermi o no?

C.    No, non per quello. Ci mancherebbe altro! L’amore non bada all’estetica. E’ che se avessi almeno una vaga idea del tuo aspetto attuale, potrei ritrovarti come se non ti avessi mai perso, come se  quel filo, o quel ponte, che unisce il nostro oggi a quell’isolotto di cinquant’anni fa non si fosse mai spezzato.

D.    Non che sia come certe  persone che portano nella borsetta o nel portafogli album di famiglia interi, animali compresi, ma per combinazione ho un mia fotografia nel beauty; se proprio ti sembra necessario, te la posso lasciare nella casetta degli ospiti prima di andarmene.

C.    Che bello! Ti ringrazio. Quando avrò sentito partire la tua auto, andrò a prenderla, così ti avrò subito ritrovata.

D.    Però…

C.    Ahi, ahi! C’è un però?

D.    Però, a questo punto, dato che mi hai convinto che per te non è giusto spezzare quel filo, allora non è giusto che si spezzi nemmeno per me. E quindi, mio caro amore ritrovato, se vuoi la mia foto, in cambio devi darmene una tua.

C.    Mi spiace, vorrei poterti accontentare, ma di me ho sempre solo sopportato a mala pena il mio riflesso nello specchio; non ricordo quando mi sia stata scattata l’ultima fotografia, ma so per certo di non averne mai conservata nemmeno una.

D.    Peccato.

C.    Ma no, che dico?! Certo che ce l’ho! Come ho fatto a non pensarci?! Però non sono solo, sono ritratto con un’altra persona.

D.    Non importa; sono sicura che ti riconoscerò.

C.    Oh, per questo non c’è problema: l’altra persona è di sesso femminile, quindi non puoi sbagliarti.

D.    Ma tu come farai per farmela avere?

C.    Anche per questo non c’è problema; te la consegno all’istante, prima che te ne vada.

D.    Perché? Dove ce l’hai?

C.    La uso come segnalibro e andando a tastoni la ritrovo in un attimo. (cerca e trova la foto dei due giovani che abbiamo visto all’inizio, la infila in una busta) Eccola. Tieni, mia dolce Donatella. Ora sono tutto tuo!

D.    Ti lascio, Carlo. Stringimi forte, ti prego, prima che me ne vada. Fammi sentire che non ti perderò più.

C.    (abbracciandola con passione) Non mi hai mai perso, amore mio. Non ci siamo mai lasciati.

D.    (staccandosi dall’amplesso) A presto.

C.    A prestissimo.

D.    Ti amo.

C.    E io ti amo?

D.    Lo domandi a me? Dovresti essere tu a dirmelo.

C.    No, perché, al contrario dell’innamoramento che è un moto dell’animo individuale, unidirezionale; ci si può addirittura innamorare di una persona a sua insaputa; al contrario dell’innamoramento, l’amore è un sentimento che non può sussistere senza reciprocità e quindi, potendo amare solo essendo amati, si deve chiedere: ‘ti amo?’ invece che ‘mi ami?’

D.    E va bene, riesci a convincermi sempre. Dunque: Ti amo?

C.    Sì, sì, sì! Sì, amore mio! Mi ami alla follia. (si riabbracciano festosamente)

D.    Oh dio, dio! Se mi vedessero e mi sentissero i miei nipoti che hanno ormai l’età nostra di allora, forse riderebbero di noi, o forse addirittura si scandalizzerebbero e si vergognerebbero di avere una nonna come me.

C.    Dovresti spiegare loro che, come ho letto da qualche parte, ‘l’amore è un frugoletto che nasce e cresce all’interno di una coppia a prescindere dall’età degli amanti’.

D.    E’ vero. Ma forse lo capiranno solo quando avranno i nostri anni e se avranno la fortuna di aver saputo conservare per tutta la vita un amore adolescenziale come abbiamo saputo fare noi. 

C.    Ora vai, fanciulla; altrimenti rischiamo di recitare un’altra scena del ‘Romeo e Giulietta’ quando lui, sotto il balcone di lei, non riesce a lasciarla e trova tutte le scuse per ritardare il distacco.

D.    Questa volta però è Giulietta che deve andarsene lasciando al balcone Romeo.

C.    Ti aspetterò qui. Non mi muoverò da questo balcone fin quando non sarai tornata.

D.    Addio, mio dolce Romeo.

C.    Arrivederci, mia dolce Giulietta. (si riabbracciano) Ti accompagno alla porta. Non scordarti di lasciare la foto.

D.    No, stai tranquillo. La metterò sul televisore insieme a questa mascherina magica.

C.    Non sei ancora partita e già sento la tua mancanza.

D.    Tornerò presto. Ciao, e grazie di tutto.

C.    Grazie a te di esistere e di aver illuminato la mia ludoteca. (lei esce. Lui, udito il rumore dell’automobile che passando lo saluta con uno squillo di clacson, esce di corsa e dopo poco tempo rientra, si risiede e sorridendo guarda l’identica fotografia che aveva dato a Donatella ma con una dedica diversa: ‘…Mi rivedrai, ti rivedrò’. Squilla il telefono)

C.    Sì?   

D.    (voce) E’ giusto così. Il gioco non poteva finire stasera. Io parto per Caracas. Ciao, amore mio. Ci rivediamo presto.

C.    Sì, fra cinquant’anni. Ti amo. Ciao.