Dietro le quinte di ogni vita

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DIETRO LE QUINTE DI OGNI VITA

di

Ester Annetta

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DIETRO LE QUINTE DI OGNI VITA

Il camerino come terra di confine tra realtà e finzione, lo spazio dove le identità celate si rivelano e si confrontano, e in uno scambio di ricordi e riflessioni, percorrono un cammino che dall’esperienza individuale insegue tracce comuni al vissuto di molti.

Complicità, amicizia, amore raccontati con autenticità e delicatezza.

(ESTER ANNETTA

Via del Casale Giuliani n. 46

00141 Roma

Cell. 339 3034840

Posizione SIAE n. 212341 – Sez. D.O.R. Autori)

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ATTO UNICO

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Personaggi:

Attore: (A.)

(sui quarant’anni; non bello, fisico robusto, trasandato in modo affascinante; sempre molto presente a se stesso. Cita continuamente O. Wilde. Ed è segretamente innamorato di lei.)

Attrice: (E.)

(sui quarant’anni; minuta, d’aspetto anonimo; a tratti esuberante a tratti sotto tono).

Scena Unica

La scena si apre sulle battute finali di una rappresentazione. Si tratta di un testo che ha scritto E. e che viene messo in scena per la prima volta. E’ la sera della prima; c’è molto pubblico e la rappresentazione sta avendo un grande successo.

I due attori sono al centro della scena; tra loro è in corso una discussione rivelatrice.

(Recitato)

E. – …. Perché per tutto questo tempo mi hai lasciato credere che fossi innamorato di Giulia? Venivi a chiedermi consigli ed io ti ascoltavo e ti suggerivo linee di condotta e tu….. Oh! (Sorpresa, come di fronte ad un’improvvisa rivelazione) Ora capisco: possibile che non me ne sia accorta prima? Ti comportavi con me esattamente come ti indicavo di fare con lei, ma …non stavi provando la parte…era tutto vero! 

A. – Era tutto così bello, così perfetto tra noi che quando qualche mese fa mi hai detto: “Per favore, non innamorarti di me!...Spezzeresti l’incantesimo…” (Te lo ricordi vero?).....Beh, ecco, ho avuto paura.

Ti amavo già. Ti ho amato da subito. Ma, prima la mia timidezza, poi quella tua richiesta, mi hanno sempre impedito di dirtelo.

E. – Ma perché fingere che amassi un’altra? Perché confidarti con me? Mi hai raccontato un mucchio di bugie!

A. – (Alterato) Ma non capisci? Era il solo modo di tenerti con me: lasciare che mi accudissi, che ti preoccupassi di me, come hai sempre voluto fare…. Non mi serviva una madre, né un angelo custode. Ma sembrava che tu avessi deciso di avere quel ruolo per me, e ti ho lasciato fare. E intanto speravo che un giorno avresti capito. Giulia non esiste. Non è mai esistita. Giulia sei tu!

E. – E cosa ti aspetti che faccia ora? Vuoi sentirti dire che anch’io ti amo? Credi che funzioni così?

A. – Non umiliarmi, ti prego! Senza la finzione che mi ha protetto per tutto questo tempo non ho scampo. Ma sono finalmente libero di dirtelo: SI, IO TI AMO! (grida)…. Ora scegli tu cosa farne di questo amore.

(Esce)

E. – (Tra sé, verso il pubblico) Rifiutare un amore è forse un delitto minore che uccidere?

No. Lo so bene: un tempo sono morta anch’io allo stesso modo….

Devo allora scegliere se macchiarmi della stessa colpa e aggiungere alla mia pena anche la dannazione….

(Grida verso le quinte) Aspettami! (Esce)

Buio. Applausi registrati.

Luce. I due attori rientrano in scena e si inchinano al pubblico come fosse la fine dello spettacolo.

Buio. Luce.

La scena si apre sull’interno di un ampio camerino, in cui soltanto delle tende creano una divisione degli spazi destinati a ciascun attore. Per ognuno c’è uno specchio con luce, un ripiano, una sedia; vestiti ed oggetti sparsi intorno.

I due personaggi sono abbracciati, contenti ed emozionati.

E. – Allora? Come ti sembra che sia andata?

A. – E me lo domandi? Dico: ma hai visto quanta gente c’era? E li hai sentiti gli applausi? Quale altra conferma ti serve? Hai fatto un lavoro straordinario!

E. – Tu sei stato straordinario! Così convincente, così vero….! Hai emozionato perfino me…

A. – Grazie. Ne sono felice….!

(Sorridono, si abbracciano ancora. Nello staccarsi c’è un momento di imbarazzo mentre si guardano.)

E. – Su, fammi togliere tutto questo stucco dal viso altrimenti mi viene l’orticaria…

I due vanno quindi ad occupare i rispettivi spazi nel camerino Lei, si siede di fronte allo specchio,  spalle al pubblico, e comincia a struccarsi. Lui inizia a togliersi gli abiti di scena.

E. Prima che iniziassimo, ero talmente curiosa di vedere quanta gente ci fosse che avrei voluto sbirciare dal sipario. Però dicono che porti male!

A.-  Certo! Metti che ti capiti quello che è capitato al mio amico Silvio Spaccesi…..!

E. Perché, che gliè successo?

A. Era la sera della nostra prima de “L’Avaro” di Molière; Silvio – che aveva già quasi ottant’anni -, preso dalla curiosità di spiare quanta gente ci fosse in sala, non si accorse di essere andato troppo oltre il sipario.  E così cadde di sotto, quasi in braccio a quelli della prima fila. Ci fu un attimo di silenzio e di preoccupazione, ma lui, con incredibile presenza di spirito, si rialzò e, rivolto al pubblico, nel suo idioma marchigiano e con fare divertito disse: “Non cumincia sempre così lo spettacolo!”.

E. (Ride divertita) Che fenomeno! L’ho sempre detto che recitare è il sistema migliore per prevenire l’Alzehimer!

E. –Ma piuttosto, com’è che eri tanto agitato prima di iniziare? Non ti avevo mai visto così! Continuavi ad andare avanti e indietro con quella sigaretta spenta in mano e trasmettevi così tanta ansia che quasi quasi me ne sarei andata nello sgabuzzino pur di non dividere il camerino con te!

A. – Mi dispiace, scusami. Sono molto più nervoso da quando ho smesso di fumare; e quella stupida teoria di tenere in mano una sigaretta spenta per agevolare il rifiuto psicologico mi innervosisce ancora di più.  E’ come se mi prendessi in giro da solo: vediamo quanto sono bravo: tengo una sigaretta in mano ma non l’accendo;  risparmio un sacco di soldi ….però poi li spendo in tonnellate di caramelline alla menta! Mah!

E. – (Ride) ….E’ passato quasi un anno da quando ci siamo ritrovati…e ancora ti trovo divertente!

A. – Vuoi dire che ho la scadenza come le mozzarelle e dopo qualche tempo divento acido?

E. – (Ride di nuovo) Ma no, scemo! Volevo solo dire che in tutto questo tempo non ti ho ancora scoperto grossi difetti…tranne quello di riuscire a telefonarmi sempre nei momenti meno opportuni: durante la messa o i colloqui con gli insegnanti dei miei figli o mentre sono in bagno… sembra quasi che tu ci prenda la mira!!! 

A. – Ma tu perché non lo spegni il telefonino quando sai di non poter rispondere?

…un po’ di creanza!....(Ride)

E. – Questa l’ho già sentita… Non è la battuta di Cetto Laqualunque quando gli squilla il telefono in chiesa mentre tu – nei panni del prete – celebri Messa, in quel film che hai girato poco tempo fa?

A. – Brava! Ma allora sei una mia fan?!

E. – La più fedele!

A. – Non sai quanto io lo sia a te…. (tra sé).

Vabbè, lo sai, sono fatto così: ho bisogno di continue conferme, di vicinanza…e tu sei la sola che non abbia mai scambiato questo mio bisogno per invadenza ….ma (tra sé, con amarezza) neanche per altro…., anche se non controllo mai che sia un’ora opportuna, prima di chiamarti….

E. – Ho imparato a conoscerti…o forse semplicemente a riscoprirti, quasi ti conoscessi da sempre. Ho avuto questa sensazione sin dalla prima frase che ci siano scambiati quando ci siamo rivisti dai tempi del..del… del giurassico?…!

A. – (Sorride) Me lo ricordo ancora: non sapevo che aspetto avessi, mentre tu mi avevi detto al telefono di ricordarti perfettamente di me, benché fossero passati quasi vent’anni.

E non potevo credere che fossi tu quell’esile figura che avanzava sorridente, con passo deciso, portando in mano una torta impacchettata…..

E. – Era la merenda che preparavo ogni settimana per i miei compagni del  laboratorio teatrale: era lì che ci eravamo dati appuntamento. E tu, invece, (con tono sarcastico) immaginando che fossi la solita meridionale emigrata che, nonostante  l’emancipazione  metropolitana mantenesse le usanze ospitali della sua terra, avevi creduto che la torta fosse per te!

A. – Siamo stati subito in sintonia …e meno male! così poi le torte hai cominciato a farle pure per me!

Lo sai che conservo ancora il messaggio che mi hai scritto qualche giorno dopo quel nostro primo incontro?

Aspetta…. (prende il cellulare che dalla tasca di un borsello appeso alla spalliera della sedia, cerca e legge): “Forse ci siamo conosciuti in un’altra vita e, nel nostro inconscio, non ci siamo mai dimenticati.”…

E. – Non mi dire? Davvero l’hai conservato?

A. – Ho conservato tutti i tuoi messaggi più belli….! Sono 83…

E. – (Resta un momento interdetta, un po’ imbarazzata)

…Vedi, te l’ho detto! Era esattamente l’impressione che avevo avuto.

A. – E poi è stato un rapido susseguirsi di eventi, un vortice che mi ha risucchiato: sarà stata la tua vitalità, il tuo entusiasmo, la tua energia…ma ho ricominciato a sentire una gran voglia di fare.

Non era un bel momento per me quello. Lavoravo poco, palleggiato tra promesse e rifiuti. Stavo male.

Quando ti ho incontrato è stato come il riaccendersi della luce dopo un lungo black-out: basta con le attese! Dovevo essere io a proporre, a creare e, soprattutto, a ritrovare motivazioni.

Neanche immagini quale grande aiuto, inconsapevolmente, tu sia stata per me.

E. – (Con aria triste) La mia vitalità… il mio entusiasmo…. la mia energia…..

A. – Cosa?

E. – (Come scuotendosi) Nulla. Pensieri...

Anche a me piaceva l’idea di lavorare con te.

Non ti nascondo che all’inizio la cosa mi preoccupava un po’;  mi sentivo quasi in imbarazzo nei tuoi confronti:  tu eri un attore vero, e io un’attrice “da diporto”. Il tuo era un lavoro e la mia solo una passione.

Perciò, quando la scorsa estate mi hai proposto di fare quelle serate con te, proprio lì, dove vent’anni prima avevamo trascorso le vacanze insieme giocando sulla stessa spiaggia, l’idea mi è subito piaciuta: mi sembrava un segno, quasi un anello di congiunzione tra quel passato comune e il tempo nuovo.

Però mi sembrava anche una provocazione, una sfida. Mi domandavo come potessi fidarti delle mie capacità senza mai avermi visto recitare…quasi mi avessi “provinato” col solo osservarmi.

A.- Ricordiquello squallido Bar del mio amico Denis dove ti avevo dato appuntamento per illustrarti la mia idea e consegnarti qualche brano da esaminare?

E. – Altrochè! Quando sono arrivata non c’eri ancora e ai tavolini erano seduti solo  extracomunitari. Ti confesso di aver avuto un po’ paura e sono uscita di fuori a chiamarti credendo di aver sbagliato posto…

A. – …Eri seduta di fronte a me e mi ascoltavi attenta e curiosa mentre ti parlavo.

Avevi uno sguardo così vivo, dolce e gentile, che non ho avuto bisogno d’altro. E’ stato quello il vero provino.

E. – E se avessi fallito?

A. – Non avevo nulla da perdere…se non la mia faccia….che è già quel che è! (Ride amaramente)

E. – (Piccata e divertita) Antipatico!....e pure scemo!...

Io ho sempre trovato interessante la tua faccia. E’ così….caratteristica!

A.- Sei inattendibile. Parli così solo perché mi vuoi bene…!

E.- E’ vero che ti voglio bene ma è vero pure che la tua faccia mi piace!

A. – Vabbè… (poco convinto).

Sei la sola che non mi abbia mai trattato come fossi un lebbroso e, anzi,  mi hai riempito di affetto dal primo momento. Forse è anche per questo che…. (lascia la frase sospesa. Lei no ci fa caso)

Il mio aspetto non mi agevola in questo mestiere; lo sai che una volta un regista ha modificato il copione perché l’attrice che, secondo la scena, avrebbe dovuto darmi un bacio si rifiutava di farlo?

E.- Ma dai! E chi era ‘sta fata, Bo Derek?

A. – Giuro che è vero!

Un  aforisma di Oscar Wilde dice:

 “E’molto meglio essere bello che buono; ma è meglio essere buono piuttosto che brutto”.

E. – Oddio! Eccolo che riparte con gli aforismi di Wilde!!!

A. - Ti ho mai raccontato qualcosa della mia infanzia?

Sono cresciuto nascosto, convinto di essere …diverso dagli altri pur non avendo alcuna malattia o deviazione….

Semplicemente ero brutto!

A me nessuno diceva mai: “Che bel bambino!”….sarebbe stata una menzogna davvero spudorata! (Quasi divertito). Avevo già allora lo stesso testone che ancora oggi mi ritrovo, e sembrava stesse in bilico sul mio corpo gracile e minuto.

E. - ….quello almeno è cambiato! (divertita)

A. – Spiritosa! Vorresti dire che sono grasso? Guarda che è la maglietta che fa difetto…!

(dopo un breve accenno di sorriso riprende con amarezza) I miei coetanei mi prendevano in giro, cose tipo: “Picchi ‘un camini capusutta ca’ forsi ti pisa di menu?”(Perché non cammini a testa in giù che forse ti pesa meno?) oppure: ”Ci su i cappiaddri da’ misura tua?”(Ci sono i cappelli della tua misura?)….cattiverie così, tanto più dolorose perché lasciate lì, appese, gratuite, non legate ad alcuna provocazione.

E. – (Seria, come se lo dicesse anche a se stessa) Le offese dei bambini sono molto più dolorose di quelle degli adulti: la loro innocenza li rende spietati!

A. – Già. Sono cresciuto senza amici.

Trascorrevo tutti i pomeriggi dopo scuola chiuso in casa, spiando dalla finestra della cucina i giochi degli altri, giù in strada …precluso a quel mondo, a quell’unico luogo d’incontro.

Lo sai bene, sei cresciuta anche tu in un paese del Meridione così minuscolo che i cartografi neppure lo riportano sulle mappe; posti di una bellezza antica e solitaria,  dove, trent’anni fa, dopo scuola, i soli, veri luoghi d’incontro erano la strada, il vicolo, la piazza…altro che i circoli e le palestre! A pallone si giocava nel cortile dell’oratorio, sul cemento, senza la pretesa che una maglietta numerata o un tizio chiamato “mister” trasformasse un gioco in una “Scuola di Calcio”…(ironico).     …ma questa è un’altra storia….

E. – (approfitta di quella divagazione per distrarlo dal suo doloroso racconto)

Me lo ricordo bene! Che dolce nostalgia…!

Quando si giocava a nascondino,  erano “tane” anche le case dei vicini; si correva per quelle anguste stradine - che allora ci sembravano grandissime – senza timori né pericoli e, se si cadeva, si strofinava la ferita con la mano e… di nuovo via!

Io avevo sempre le ginocchia sbucciate!

Poi, quando cominciava ad imbrunire, il richiamo della madri si levava come un coro di nomi per tutto il paese….

A. - Sembrerà un luogo comune, ma è la verità:  forse è perché avevamo davvero poco che siamo cresciuti con più rispetto e senso del valore delle cose, a confronto di queste generazioni moderne, così povere d’animo ed indolenti.

E. - Certo, saranno tutti dei maghi del computer e avranno un’intelligenza più sviluppata,  ma li hai visti scrivere? Si fanno gli sconti sulle parole, hanno abolito le vocali e non usano accenti né apostrofi…. Insomma, hanno pensionato la grammatica italiana, ma grazie alle vacanze studio all’estero, parlano l’inglese benissimo!

A. – E vogliamo parlare del loro concetto di “amicizia”, così abusato grazie a quel diabolico strumento aggregativo chiamato “Facebook”?

E. – (Sorride) La nostra sì che era una comunità vera, dove tutti si conoscevano, si sapeva tutto di tutti (forse anche troppo…) ed i legami erano autentici.

Ma te lo ricordi che gli usci delle case erano sempre aperti con le chiavi infilate nelle toppe? L’espressione forse più bella della condivisione e della fiducia reciproca, sentimenti che da noi, al Sud sono sempre stati sinceri.

Quando lo racconto ai miei figli mica ci credono!

A. – “E’ un peccato che noi teniamo conto delle lezioni della vita soltanto quando non ci servono più a niente”. Wilde!

E. –Che c’entra?

A. – (Canzonatorio) Niente? ... Mi pareva!

E. - ….

(Smorfiosa) Ce l’avevi una fidanzata? (Poi vorrebbe rimangiarsi le parole rendendosi conto di aver fatto una domanda inopportuna che può riaprire il racconto).

A. – (Se ne accorge e le va in soccorso replicando con ironia, imitando una cadenza siciliana) Me pigghj p’ ‘o culu? Guarda che mica è vera la storia del “Brutto Anatroccolo”!

Manco mi guardavano! E pensa che alle superiori mi ero apposta iscritto alle scuole magistrali, confidando nella netta superiorità numerica delle ragazze: Ahò! Qualcuna,….una… mi avrebbe pur guardato!

Niente!

(Torna serio) E il timore del rifiuto mi ha reso timido.

E. – (Ridendo) Timido tu?... ma falla finita!

Sei così brillante,  socievole…..anche un po’ cazzaro a volte (ironica)…e per giunta fai l’Attore!..Un mestiere in cui mostrarsi è tutto!

A.-  Sembra un paradosso, vero?  Eppure, se ci pensi bene, è quasi una conseguenza naturale: scegli di poter interpretare tante vite quando ti è difficile vivere la tua…! (Con amarezza) Io l’ho capito presto…

E. – Che intendi?

A. - Quando, da ragazzo,  la mia tenera vocetta cominciò a trasformarsi, mi accorsi che, pure lì (marcato), con me la natura c’era andata pesante: vedi che trombone che mi ritrovo??? (emette un profondo suono vocale).

In cambio, però, mi aveva dato il dono di poter modulare la voce per imitarne altre.

Mi esercitavo a lungo, e riproducevo benissimo i tormentoni più noti di attori e comici.

Un giorno, al mio barbiere intento a lavorare di forbici e pettine sul mio capoccione…-  (ironico) capirai che di tempo ce ne voleva…! - rivelai questa mia abilità e mi esibii nel mio intero repertorio.

Fu un successo! Nel giro di un giorno, in paese tutti l’avevano saputo e mi fermavano per strada per avere una dimostrazione.

Per la verità mi sembrava di essere un po’… diciamo “sfruttato”.  Però ero così contento! Sembrava che, da ombra nascosta che ero stato da bambino, da invisibile, all’improvviso fossi apparso a tutti!

E. – E’ stato allora che ti è venuto in mente che potevi fare di quel dono speciale della tua voce un’arte o un mestiere, suppongo!

In fondo la vita non è poi così ingiusta: per ogni cosa di cui ti priva un’altra te ne regala. L’infelicità nasce solo dal giudizio soggettivo sul valore dello scambio: se si apprezza ciò che si è avuto più di ciò che è mancato, si può essere contenti!

A. – Bella questa!...anche se non è di Wilde!

Beh, comunque non è proprio cosi automatico! Prima di capire che ti si sta offrendo un’opportunità devi sondare la tua convinzione;  poi tracciare i tuoi obiettivi, e da quel momento in poi lavorare sulla rimozione degli ostacoli. …E se c’hai pure un po’ di culo…. magari riesci ad arrivare dove avevi pensato! (sardonico).

Da te dipendono solo i mezzi, non anche il risultato…!

E. – Per te gli ostacoli quali sono stati? …. E non rispondermi: la faccia! (ride divertita).

A. – (Sorride) La mia famiglia, anzi, mia madre.

Un’idea come la mia, trent’anni fa, sembrava davvero trasgressiva. Era folle quasi quanto quella di voler “diventare principessa” che tu ripetevi sempre da bambina: me lo ricordo sai? Ancora mi fa ridere…

Oggi le madri e i padri fomentano i figli a fare le veline e i calciatori. A quei tempi i nostri genitori mantenevano ancora la convinzione che solo studiando si potesse ambire a diventare qualcuno, a vivere dignitosamente, ad essere rispettato.

Mia madre è sempre stata una persona decisa ed autoritaria; persino mio padre si è sempre rimesso alle sue scelte senza mai riuscire a contrastarla. … L’ho visto invecchiare così, chiuso nei suoi lunghi silenzi, sordo a ciò che col tempo non ha più voluto sentire, ma all’erta e vigile in quel mondo astratto, tutto suo, in cui si era rifugiato…(con dolcezza).

E. – E quale futuro aveva deciso per te?

A. - Voleva che facessi l’insegnante,  come’erano lei e papà. Il diploma da maestro l’ho preso; per qualche tempo ho pure insegnato …anche se la sola cosa che mi piaceva davvero erano le recite scolastiche……(divertito).

Per tutto quel tempo mi sono sentito una vittima, un suo prigioniero quasi. Odiavo la sua rigidità e odiavo me stesso perché non riuscivo a ribellarmi. Ero così arrabbiato!

Non accettavo che mi impedisse di decidere per me stesso, che mi costringesse ad una vita scontata e banale, che non mi lasciasse libero di correre rischi….

Povera mamma…!

E. – “Povera mamma”?  Scusa, non ti seguo….: hai appena detto che ce l’avevi con lei!

A. – Davvero non capisci? Eppure sei madre anche tu, dovresti sapere che  – d’istinto –  una madre morirebbe piuttosto che veder soffrire un figlio….

Nella sua disperata necessità di proteggermi, forte di quella fierezza di carattere che la rendeva così autoritaria, aveva scelto per me una vita, si, ordinaria, ma che mi avrebbe tenuto lontano da ulteriori delusioni e sofferenze.

Quello che io avevo creduto egoismo era invece il suo modo di difendermi, l’essenza del suo amore: non era una madre possessiva, ma una madre coraggiosa, disposta a farsi odiare da suo figlio pur di salvarlo.

E. – E quando l’hai capito?

A. – Il giorno in cui mi ha lasciato andare.

Mi aveva osservato in quegli ultimi tempi, quando la gente aveva cominciato ad avvicinarmi per farmi esibire.  Mi vedeva sereno, e aveva capito ancor prima di me, che il vero problema  ero io: ero rimasto prigioniero delle mie paure, avevo costruito da solo il mio isolamento…. I miei coetanei non erano più bambini che mi prendevano in giro;  loro, con tutti gli altri, mi volevano bene, mi stimavano…e quei sorrisi che un giorno avevo cominciato a regalare con le mie battute, erano stati il ponte con cui avevano potuto scavalcare la mia solitudine.

E. – Davvero non te n’eri accorto?

A. – Forse si, ma non l’avrei mai ammesso. Credi che sia cosa da nulla mutare le convinzioni che ti hanno accompagnato per una vita?

Mi serviva un aiuto e a darmelo fu proprio mia madre.

Era una domenica mattina – me lo ricordo ancora – entrò nella mia camera e disse: “Ci vuole più coraggio a lasciare libero qualcuno che ami che ad accettare che resti, senza amarti. C’è una vita nuova che ti aspetta lì fuori e del tempo da recuperare: sei pronto, vai pure. Io resto.”

E. – Dev’esserle costato un dolore immenso quella scelta.

Mi domando spesso se noi madri moderne abbiamo la stessa qualità di sentimenti delle nostre…e se loro ci giudichino buone madri...

A. – Tu sei una madre straordinaria. Ti ho visto, sai?!

E. – (Sorride malinconica)

A. – …E così un giorno sono partito. Il resto più o meno lo conosci: ho iniziato l’accademia teatrale e di lì a qualche anno a lavorare in qualche spettacolo con varie compagnie, fin’anche alle partecipazioni cinematografiche.

Certo nessuno mi ha mai offerto di interpretare la parte del bel Bassanio o di Lisandro (sorride), ma ho avuto lo stesso grandi soddisfazioni con ruoli brillanti o comici.

E. – Sei un esempio di tenacia e determinazione!

A. – Io lo amo questo mestiere; ci metto l’anima, nonostante le umiliazioni dei rifiuti e delle false promesse, cercando di rimanere corretto anche tra invidie e gelosie!

Sai quant’è più semplice per chi è disposto a scendere a squallidi compromessi o a vendersi… e non solo l’anima…?

Ma io credo che la fama davvero meritata non sia quella che ti procura “lo sponsor che ti mantiene”,  ma quella che ti conquisti con la fatica, il talento, la passione. E’ l’unica autentica, la sola davvero tua,  quella che resta anche nel tempo, solidamente ancorata al ricordo di ciò che sei stato… e non finisce dimenticata quando la tua giostra ha smesso di girare…

E. – Ti ammiro per questo, davvero.

Non è edificante l’idea che il mondo dello spettacolo molleggi su cuscinetti di silicone e botulino….o transiti per camere da letto o banche svizzere…e che il talento sia l’ultimo dei requisiti!

Il teatro è il solo pianeta che ancora brilla di luce naturale e dove non si acquista residenza senza reali meriti.

Su queste tavole non si finge se non ciò che impone il copione e per cui si studia, e non ci sono recuperi né margini d’errore. C’è quell’unica possibilità, che si gioca tutta nell’istante in cui la voce, coniugata all’intenzione, crea e sostiene un’emozione che va consegnata al pubblico.

Ogni battuta è un regalo che va donato con l’anima, e riproposta ad ogni successiva replica sempre come nuova, carica ancora come la prima volta, mai scontata.

La magia del teatro è questa: riuscire a trasmettere emozioni vere utilizzando la finzione, ricercare nelle viscere l’intenzione più adeguata al motivo che si vuole comunicare e liberarla, sostenere un ruolo con autentica convinzione e verità: non è forse la più superba delle contraddizioni questa? Essere i se stessi più veri mentre si finge di essere altri….

A. – E’ magnifico, si. E forse anche ora stiamo usando un ruolo per rivelare chi  siamo….

Tu chi sei davvero?

E. – (Sospira) Una che ha cambiato vite mille volte senza aver mai trovato la propria…o forse una che ha un po’ della sua vita in ognuna di quelle che ha interpretato.

A. – Vuoi confondermi? (Ride)

E. – (Seria, quasi avvilita) Ho più di quarant’anni, e mia madre ancora si domanda cosa vorrò fare da grande!

In verità me lo domando anch’io; mi sembra di essermi  impegnata sinora ad iniziare mille diverse cose senza averne mai portato alcuna a compimento.

Un po’ come quel libro che da anni tento di scrivere: ho tantissimi begli inizi…. prima li scrivevo su quaderni; poi sono arrivati il “files”, quelle pagine elettroniche che quando cancelli non appallottoli ma trascini in un cestino virtuale….

(divagando) Ah…! Com’era bello l’odore dell’inchiostro sull’interno delle dita che si macchiavano strisciando sul foglio…..!

 (tornando in sé) qualche seguito l’ho scritto pure; ma mai un bel corpo centrale né tanto meno un finale….

Sai quel romanzo di Calvino “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, fatto di tanti inizi di storie che un tizio, il “Lettore”, è costretto ad interrompere continuamente?....ecco, un po’ così…

A.- Eppure sembri una persona così sicura di sé, così determinata….e trasmetti così tanta positività!

E. – Già, era il pensiero che poco fa mi aveva incupito…

A. – Ho colto dei tuoi turbamenti più volte, durante questa conversazione….

E. – Come sei attento… premuroso … riservato. Saresti proprio un compagno ideale!

A. – Però sono arrivato tardi... (quasi tra sé)

E. - C’è un dietro le quinte nella vita di ognuno – e il tuo racconto lo conferma - una verità nascosta e pietosamente tenuta al riparo dalla compassione degli altri…che è l’aspetto forse più deprimente di ogni fatica e di ogni fallimento. 

Quando hai la sensazione  di esserti fermato tante volte un passo prima della fine di un’impresa, quando ti senti come il “quasi” che limita il “tutto”, il numero dispari prima della decina, inizi a camminare sul bordo sottile e incerto di quel baratro che si chiama depressione…quel male dell’anima oggi così diffuso e altrettanto mortale quanto quelli definiti incurabili.

La morte dello spirito, anzi, è ben peggiore di quella del corpo…perché si resta vivi, la si vede, la si tocca, la si subisce impotenti….

Allora diventa  fondamentale avanzare oltre le quinte e mettere in scena quella farsa che trasmettendo allegria e vitalità a chi ti guarda, altrettanta te ne rende sotto forma di applauso, di apprezzamento….

Non serve una medicina chimica a guarire un male che non è fisico, e neppure affidarsi ad un manipolatore della tua mente che ti lasci parlare a ruota libera, solo perché ti convinca che la causa del tuo malessere sia tua madre o tuo padre…..

Non credo a certi affabulatori, non credo alle terapie che creano dipendenza …foss’anche solo quella di potersi raccontare a qualcuno una o due volte a settimana, comodamente sdraiati su un lettino.

E’ la propria volontà, spesso faticosamente sostenuta, a poter vincere quei mali di cui essa stessa, prima, magari sotto forma di “determinazione”, è pur stata la causa.

A. - Mi fai venire in mente dei bellissimi versi di….

E. – Oscar Wilde, scommetto! (sorridendo).

A. – Stavolta no; di Dino Campana:

“Fabbricare  fabbricare  fabbricare

Preferisco il rumore del mare

Che dice fabbricare fare e disfare

Fare e disfare è tutto un lavorare

Ecco quello che so fare.”

E. Ci si crea e ci si distrugge da soli. Si possono avere dei complici, si. Ma mai un colpevole diverso da se stessi.

Ho dedicato gran parte della mia vita allo studio ed ero davvero brava e coscienziosa; incoraggiata dai miei genitori, per primi, e da tutti coloro che mi avevano sempre ripetuto di avere grandi capacità,  sostenevo la mia ambizione e le loro aspettative di “diventare notaio”, affascinante formula che evoca quasi la metamorfosi della propria condizione.

Era stata una mia scelta, ma quando a distanza di anni ho provato a ricercarne le motivazioni, di veramente concrete non ne ho trovato.  Forse avevo dato più peso alle illusioni che non alle convinzioni…: immaginavo che con una professione così redditizia avrei potuto avere una vita comoda, tante cose davvero mie….

A. – Ma non mi sembri una che insegua questo genere di miti…

E. – Infatti!

Venivo da una famiglia non propriamente agiata, sebbene in rapporto all’economia di un posto come quello in cui sono cresciuta, passasse per benestante.

Ma io indossavo i vestiti smessi (comprati in costosissime boutique!) di una mia cugina che viveva in città, e che ascoltavo rapita quando mi raccontava di gare di pattinaggio, corsi di equitazione, shopping per i negozi e feste in discoteca…

Forse volevo solo essere come lei e ripagare i miei genitori che ancora replicavano quella formula mai mutata da generazioni: “Quanti sacrifici si fanno per i figli…!”

A. – (Ride annuendo)

E. - Ho perseverato a lungo, ma più tempo passava senza che riuscissi a raggiungere il mio obiettivo, più mi rammaricavo di aver dedicato tante energie ad una sola finalità, trascurandone altre,  e ripetendomi che ormai era troppo tardi per rimettermi in gioco.

Avrei forse dovuto capire che quegli impulsi creativi che mi portavano spesso a cambiare le vetuste formule che avrei dovuto scrivere, quasi a volerle sentire più vive, a volerle adeguare alle situazioni e alle persone, fossero un chiaro segno d’anarchia incompatibile con i canoni imposti da quella professione.

A. -  E’ stato dunque perché volevi liberare la tua creatività repressa che hai scoperto il teatro…!

E. – Beh, non è stato così semplice…anzi, ci sono arrivata per gradi.

Continuavo a cambiare lavoro: o meglio, il lavoro era sempre lo stesso, erano i datori di lavoro a cambiare….!(quasi divertita). Finchè ho smesso.

Mi sentivo invecchiare, eppure ancora ero incompiuta.

(Sommessa) Il mio senso di insoddisfazione cresceva smisuratamente, tanto che avevo cominciato a riempirmi le giornate dei più svariati impegni: dai corsi di equitazione - che tanto avevo invidiato a quella mia cugina -, a quelli di ballo, al laboratorio teatrale, cantavo perfino nel coro della parrocchia e infilavo collanine che poi vendevo ai mercatini di Natale! (sorride)

…insomma, una montagna di cose che mi distraeva e mi stancava, così che la sera potevo vincere l’insonnia….(con turbamento)

A. – E potevi permetterti tutto questo?

E. – Bella domanda!

Forse proprio perché potevo permettermelo non ne traevo un reale beneficio.

Quando si è costretti a farsi bastare ciò che si ha e tutto il resto rimane  confinato nella sfera dei desideri, si impara ad apprezzarlo e a trarne il profitto maggiore.

Ma se ti è capitata la “sventura” di poter vivere dei profitti altrui (un marito, nel mio caso) e poter sostituire le passioni - anche passeggere - alle necessità… senza privazioni che non siano quelle che impongono il tuo stesso buon senso e la tua pregressa e consolidata pratica dell’essenziale;  nell’agio che hai sempre desiderato, ma che non è una tua conquista, …allora il tuo personale senso di fallimento diventa un macigno….

…E ti disorienti. L’affannarti compulsivo dietro decine di impegni che, a turno, ti regalino un effimero benessere ti fa perdere di vista le priorità.  Finisce che la casa, i figli, il matrimonio si trovino all’improvviso come un tavolo con una gamba rotta…

Ed è tua la colpa se ti senti ingannata da quei troppi, improvvisi amici attratti dalla tua frenesia che poi, invece, rivelino intenti poco nobili; è tua la colpa se tuo figlio arriva a casa con una pagella disastrosa o ti rimprovera che hai lasciato il frigo vuoto pur non avendo nulla da fare tutto il giorno; è tua la colpa se tuo marito spesse volte la sera torna tardi e con addosso un profumo che non è il suo…..

A. – “L’uomo può sopportare le disgrazie, esse sono accidentali e vengono dal di fuori; ma soffrire per le proprie colpe:.. ecco l’aculeo della vita!”

Sempre Wilde (tra sé).

Eppure stento a credere che stia parlando proprio di te e questi non siano discorsi astratti…

E. - C’è voluta una gran forza di volontà, una grande violenza per scuotermi e riprendere il controllo di ciò che stavo perdendo.

Ma, sai, ci son dei guasti che, se intervieni troppo tardi, purtroppo non puoi più riparare:  si rattoppano per consentire ancora un impiego, ma con la consapevolezza di un possibile nuovo cedimento.

Accade quando parte del tuo cuore è ormai irrigidita; quando ti accorgi che una solida e compatta cornice di rabbia avvolge costantemente i tuoi pensieri e condiziona le tue azioni; quando provi repulsione per ciò che resta di scelte che sono appartenute ad un tempo diverso e ora non ti sembrano più tue; quando ti sembra di avere nell’anima il tumulto di una mandria di cavalli imbizzarriti, un grido imprigionato di libertà…

Ora è così; mi mantengo in equilibrio su ciò che sono e ciò che ancora potrei essere. Ho dedicato molto impegno al recupero delle responsabilità maggiori, quelle verso i figli, ai quali va pagato l’incondonabile debito d’egoismo d’averli voluti al mondo. Su altre ho lavorato più stancamente e meno amorevolmente, rimettendole comunque in piedi, anche se traballanti.

A. – Ti comprendo. Alcuni doveri sono imprescindibili e tuttavia sono parte di uno scambio: i figli di oggi dovranno domani rendere le stesse cure che hanno ricevuto da coloro che li hanno generati.

Su altri doveri, invece, che non nascono da necessità ma da scelte, e che col tempo possono diventare gabbie, si  può  tentare la rivolta e chiedere la revisione delle regole ….se non è troppo tardi,  se  l’adattamento non sia ormai così radicato da annullare l’illusione di essere ancora padroni della vita che resta.

C’è un tempo di fatica e c’è un tempo di paga. Ma non possiamo sceglierli.

Pausa. Silenzio

E. – …E così, quando sono ritornata dal “Paese delle Meraviglie” e ho smesso di “cazzeggiare”, ho pensato che fosse ormai tempo di concludere qualcosa. Ne sarebbe bastata una, che funzionasse un po’ come rampa di lancio per poi seguitare con altre.

A. – E scommetto che è stata questa: la scrittura del lavoro che abbiamo  messo in scena…!

E. – Si. E stavolta non era un passatempo, non potevo fermarmi poco dopo l’inizio. Era una sfida da vincere a tutti i costi.

Hai detto che sia stata una fortuna ritrovarmi, perché ho riacceso la tua voglia di fare, ti ho dato nuovi stimoli. Ma forse la vera fortuna è toccata a me…. Se non avessi avuto quell’idea – inizialmente così folle e audace - di mettere su uno spettacolo tutto tuo, senza  obblighi con registi, sceneggiatori, diritti, e fidandoti ancora una volta di me, addirittura come autrice, non mi sarei mai convinta di potercela fare e di poter provare la soddisfazione di aver creato….

A. – Avrei inventato qualunque cosa pur di continuare ad averti vicino…

E. – E smettila! …ci manca solo che ti inginocchi e dichiari il tuo amore!

A. – (Si inginocchia prendendole una mano tra le sue).

E. – (Resta immobile, sorpresa e confusa).

A. – (Scoppia in una sonora risata e si rialza). Ci avevi creduto, eh!?

E. – Ma sei proprio scemo!!!  Lo sai cosa ho pensato in un millisecondo?  “Mio Dio ti prego fa che non sia vero! Lo sa che non è possibile e sarei costretta ad allontanarmi, a non rivederlo più…”

A. – (L’abbraccia) Tranquilla! Scherzavo, volevo vedere che faccia avresti fatto!

E. – Non farlo più!

Sai, io credo nei segni; nessuno di noi due è apparso per caso nella vita dell’altro: c’era un disegno predefinito, di riscatto per ognuno di noi, da realizzare insieme.

Ma non può esserci altro.

Abbiamo avuto la nostra occasione: questo è il tuo spettacolo; ed è anche il mio nuovo inizio, nato dalla parola “Fine” scritta in fondo ad un testo finalmente concluso

….. e poco importa se sia su una pagina di carta o una elettronica! (ride)

A. – Ne abbiamo avuto anche un’altra, comune: quella di esserci raccontati,  qui, ora, in questo camerino, regno di confine tra realtà e finzione.

E. – E’ vero! Magari la prossima cosa che scriverò sarà proprio questo nostro racconto! Pensa che fantastica alchimia sarebbe tra realtà e rappresentazione della realtà…(con aria sognante).

A. – C’è forse una sola verità? o una realtà che in parte non si confonda con la farsa?  vivere una vita che altri hanno voluto per te, essere come serve che ti vedano (qui sottolinea la frase) e non come davvero sei,  assecondare queste ipocrisie o necessità, non è forse una sublime arte drammatica?

Allora si, certo, si può portare sul palcoscenico la propria verità, quella che di solito si lascia dietro le quinte: che differenza fa? Lo spettatore crederà comunque che sia una finzione…

(Pausa)

E. – Vabbè, io vado. S’è fatto tardi. Grazie della piacevole chiacchierata. Ci voleva proprio per allentare la tensione dopo questa prima. (Lo bacia su una guancia) A domani!

A. – A domani. Controllo di aver preso tutte le mie cose ed esco anch’io tra un secondo. Attenta a non farti rapire dai fans, lì fuori! Credo che siano comunque rimasti ad aspettarti per tutto questo tempo!

E. – Stai tranquillo, mi so difendere!!! (Lo prende in giro) Ah, guarda di non dimenticare il telefonino con tutti quei preziosi messaggi che conserva! (Ride)

E. esce; A. avanza verso il bordo del palcoscenico. Luce centrale solo su di lui.

A. –(Al pubblico) Continua ad ignorare che dal suo riso nascono le mie lacrime…

Ma va bene così: il teatro è la magia che dà voce ai segreti inconfessati, ai desideri non rivendicati, ai dolori nascosti; è l’abile finzione che rende semplice ogni verità, anche una immensa come: Ti amo.

…Ho potuto urlare il mio amore per lei solo recitando, e solo recitando potrò ancora dirglielo…..affinchè non ci creda…. E resti.

(Buio)

V.F.C. - "Quanto sono fortunati gli attori! Sta ad essi scegliere se vogliono aver parte nella tragedia, o nella commedia, se vogliono soffrire o godere, ridere o spargere lacrime; non così nella vita vissuta. La maggior parte degli uomini e delle donne sono costretti a recitare parti, per le quali non hanno alcuna inclinazione. Il mondo è un palcoscenico, ma le parti vi sono male distribuite...". -  Oscar Wilde

F I N E