Discorsi di Lisia

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DISCORSI DI LISIA

Due tempi

di MARIO PROSPERI E RENZO GIOVAMPIETRO

                                   

PERSONAGGI

Il Cancelliere

l’araldo

il mallevadore di Eratostene

lisia

Eratostene

il mallevadore di lisia

l’invalido

il pederasta

eufileto

Commedia formattata da

I testi dei discorsi sono nuovamente tradotti dall'originale. Le tre orazioni: «Per l'invalido», «Contro Simone ». e « Per l'uccisione di Eratostene », sono rese nella loro forma integrale. Per la « Contro Eratostene » argomento del primo tempo del nostro spettacolo, si è resa necessaria qualche integrazione di carattere storico, che è stata scrupolosamente ricavata da testi lisiani                 - (l'apocrifo « Epitafio », frammenti del­la perduta «Contro Ippoterse », la «Difesa per allo tradimento», la «Contro i rivenditori del grano», la «Contro Agorato »). Due citazioni di Aristofane, nel primo tempo, anch'esse in versione originale, provengono dalle «Rane», vv. 533-41 e 679-85.

Gli antichi conservavano sotto il nome di Lisia, 425 discorsi. A noi ne sono giunti 34, di cui tre ridotti molto male per guasti e lacune, e otto o nove non autentici o di dubbia autenticità. Alcuni importanti frammenti sono stati inoltre restituiti dai papiri in epoca recente. Il discorso «Contro Eratostene», con cui Lisia, nel 403 a.C, esordì nel Foro di Atene, è un'accusa contro uno dei Trenta Tiranni per l'arresto e la morte illegale del fratello Polemarco. Nel discorso «Per l'invalido», Lisia difende un bar­biere, invalido, dall'accusa di percepire illegalmente la sua pensione. In quello «Contro Simone», sca­giona il suo cliente, implicato in una rissa amorosa per un giovinetto, dalle accuse del rivale, Simone, ritorcendo le stesse contro di lui. Nel discorso « Per l'uccisione di Eratostene», Lisia difende un conta­dino, Eufileto, che ha scoperto l'adulterio della mo­glie e ha ucciso l'adultero. In tale attività di avvocato Lisia superò tutti i suoi contemporanei: asserisce lo pseudo-Plutarco che, in tutta la sua attività, di cause ne perse due sole.

Lisia nacque ad Atene verso il 445 (morì ottantenne, verso il 360) figlio di un grande industriale siracu­sano, Kefalos, che aveva trasferito la sua fabbrica di armi al Pireo su invito di Pericle. Egli crebbe nel­l'agio, fra la gioventù aristocratica e colta, col sorriso disimpegnato e cosmopolita del meteco, escluso dalla vita politica, ma trattato come un ospite di riguardo. Nel 425, morto il padre, si trasferì con il fratello Pole-marco in Sicilia, a Turii, una colonia ateniese appena insediata. Fu lì che intraprese lo studio della retorica; e si accingeva ad entrare nella vita pubblica, quando, per la sconfitta di Atene nella guerra siracusana, fu espulso con gli altri fautori del partito filo-ateniese e dovette tornare in Atene, nella condizione di meteco. L'esercizio dell'oratoria divenne così per lui tecnico e fine a se stesso; nel periodo tra il 412 e il 404 tenne una cattedra d'eloquenza, divenendo celebre per la sua argutezza sofistica e l'eleganza dello stile, tanto da essere ricordato da Platone, nel « Fedro », come « il più bravo degli odierni scrittori ». Un conferenziere brillante, arguto, ma non « necessario »: da buon ospite di lusso, insomma.

Il severo impegno e la sua carriera propriamente ora­toria dovevano nascere dagli eventi e dalle mutate circostanze della vita. Atene, nel 404, fu definitiva­mente piegata dalla potenza spartana, la democrazia ateniese abbattuta, e andarono al potere trenta oligarchi, passati alla storia col nome di Trenta Tiranni. Avidi di denaro, nella disperata situazione della città sconfitta, essi si diedero a depredare i cittadini più ricchi, e specialmente i meteci, che nel furore nazio­nalistico degli ultimi anni di guerra erano malvisti e diffidati dal popolo. Fu votato un decreto di perse­cuzione; Lisia fuggì a stento; il fratello Polemarco fu arrestato dal tiranno Eratostene e costretto a bere la cicuta.

Rifugiatosi a Megara, Lisia si unì ai partigiani di Trasibulo, e partecipò alla guerra di liberazione. Quando i democratici vinsero e in città fu restaurata la democrazia, egli vide giunto il suo grande mo­mento. I meriti acquisiti gli aprivano le vie della vita pubblica, la morte del fratello Polemarco diven­tava un simbolo dei sacrifici della sua famiglia. Quando l'uccisore di lui, il tiranno Eratostene, fidando nell'amnistia, si sottomise al rendimento di conti, per essere restaurato nei suoi diritti, Lisia si costituì come accusatore in nome del fratello. Un grande processo politico sarebbe stato il primo autorevole passo della nuova carriera politica. Almeno questo sperava Lisia. Ma il processo finì male per lui. Eratostene, come il più mite, tutto sommato, dei Trenta, fu assolto quasi a simbolo della riconciliazione delle fazioni. Lisia di contraccolpo perse la tanto ambita cittadinanza. Senza un soldo e senza neppure la prospettiva della vita politica, egli dovette ricorrere alla sua professione di retorica. Tornò professore e avvocato, «logo­grafo » come si diceva. Preparava cioè, a pagamento, i discorsi di accusa o di difesa che le parti, in tribu­nale, dovevano pronunziare di persona, imparandoli a memoria.

La sua attività si risolse in uno studio approfondito e comparato di situazioni e di caratteri, penetrando nei segreti del comportamento individuale come mai prima era stato fatto. I caratteri che nascono dalla sua penna hanno per noi, nella storia del teatro (che di teatro si tratta) il valore di una scoperta. I personaggi della tragedia si realizzavano nella ten­ sione metafisica dei grandi problemi spirituali, dei grandi conflitti politici e religiosi; la commedia di Aristofane sviluppa con ampiezza d'intenti la pole­ mica culturale e politica intorno ai medesimi pro­blemi: sempre nell'ambito storico del destino della città e della responsabilità collettiva. Come si passa, dunque, alla commedia di carattere, all'interesse psi­cologico e borghese della commedia di Menandro, all'umanesimo universalistico di Teofrasto? Il tra­ mite è proprio Lisia, che nell'Atene ancora echeg­giante di Euripide e di Aristofane, incurante, lui escluso, lui straniero, di un'anima nazionale in disso­luzione, cercò il rapporto personale del singolo con la legge, penetrando con senso realistico e malizia psicologica nell'anima individuale, finora straniata nelle trasfigurazioni esemplificative del mito religioso. Erede del migliore frutto della sofistica, scopre l'uo­mo, intravede l'umanesimo. Oltre il destino della Polis e della sua individua tradizione religiosa, ormai al termine, si apre la prospettiva razionale e univer­sale del mondo ellenistico. Mario Prosperi

PRIMO TEMPO

 (Musica).

Il Cancelliere                 - Siamo nel foro di Atene. Tra poco salirà alla tribuna Lisia, cittadino di parte demo­cratica e grande oratore, di cui questa sera voglia­mo riproporre la vita e i discorsi. Il suo avversario, in questa causa, sarà Eratostene, un uomo di rilie­vo, uno dei maggiori esponenti del passato regime. Ma facciamo il punto. Nell'anno quattrocentoquat­tro avanti Cristo, dopo una guerra di egemonia che aveva insanguinato la Grecia intera per venti­sette anni, ad Aigos Potamoi la flotta da guerra ateniese viene distrutta da quella spartana, la democrazia abbattuta, la città occupata. Trenta ateniesi della fazione oligarchica prendono il pote­re, col favore dei nemici, meritandosi il nome di Trenta Tiranni. Cominciarono le deportazioni, le condanne, le stragi. E sfruttando soprattutto i pre­giudizi razziali, i Trenta si accanirono contro i meteci, i cittadini cioè che non essendo di puro sangue ateniese, erano privi dei diritti politici. Lisia, figlio di siracusani, era appunto un meteco. Fatto segno in modo particolare alla crudeltà dei Tiranni anche per le sue ingenti ricchezze, riuscì a stento a sottrarsi con la fuga, riparando a Megara, ma suo fratello Polemarco, arrestato da Erato­stene, fu costretto a bere la cicuta. Intanto, sui monti al confine con la Beozia, attorno a Trasibulo si raccoglievano gli esiliati, i fuoriusciti, i meteci perseguitati; e iniziò la guerriglia. Lisia fece perve­nire ai partigiani armi e denari; finché, sconfitti i Tiranni nella battaglia di Munichie, potè tornare in patria con la rivoluzione vittoriosa. In Atene trovò Eratostene, il tiranno, che profittando della amnistia e della tacita protezione degli Spartani, tentava di essere riammesso nella vita pubblica della città come se niente fosse accaduto. Fu allora, per un principio di giustizia e per riabilitare la memoria del fratello, che Lisia salì la prima volta sulla tribuna del Foro di Atene. (Sale siparietto. Entrano e si dispongono i perso­naggi).

L'Araldo                       - Oggi, primo giorno del mese Pianepsiòn, anno secondo della novantatreesima Olimpiade. Cittadini, dopo sette mesi di aspre battaglie, la tirannide è stata allontanata dal cielo di Atene. Sotto il presidio della costituzione democratica, restituita alla città, e nella garanzia delle antiche leggi, si riapre, dinanzi al popolo di Atene, il sacro tribunale dell'Areopago.

Il Cancelliere                 - Cittadini di Atene, è doveroso oggi ricordare pubblicamente i partigiani di Trasi­bulo, che a prezzo della vita hanno riscattato la città, rendendola a tutti i cittadini, restituendo nei Templi e nel foro l'autorità delle sacre leggi. Gli dèi immortali benedicano questo giorno. (Si vol­ta. Tutti si alzano in piedi. Il Cancelliere invoca).

Vergine Atena,

che vegli sul sangue degli avi,

che hai stabilito

le nostre leggi eterne,

concedi che il peso di ogni colpa

sia misurato

secondo la giustizia di Zeus.

 (Tutti si siedono, resta in piedi solo il Cancelliere, che prende una tavola recante inciso il Decreto di Trasibulo) Prima di dare inizio al processo ricorderò alle due parti il decreto di Trasibulo. (Legge) Ateniesi, un solenne patto di amnistia è stato giurato dai cittadini delle opposte fazioni. Gli Spartani occupano il paese: ci osservano. Racco­mando agli amici e ai compagni di lotta, non meno che agli avversari sconfitti, di attenersi al sacro giuramento. Sarà punito chiunque, per privati rancori, tenterà di riaccendere gli odi politici. Solo i responsabili di delitti comuni saranno sottoposti a processo. (Depone il testo del Decreto) Ci illu­strino ora le parti le ragioni della causa. (Si siede. Si alza il mallevadore di Lisia).

Il Mallevadore di Lisia                                            - Ateniesi, giudici: Lisia, figlio di Kefalos, meteco, ha chiesto di comparire in questo foro per accusare dinanzi a voi Erato­stene, uno dei Trenta, quale responsabile della morte di Polemarco, suo fratello.

Il Cancelliere                 - Gli è stato concesso.

Il Mallevadore di Eratostene             - Eratostene, uno dei Trenta, ha chiesto di comparire in questo foro per difendersi dinanzi a voi dall'accusa mossa da Lisia.

Il Cancelliere                 - Gli è stato concesso. Lisia, conosci il sacro decreto di Amnistia?

Lisia                              - Lo conosco.

Il Cancelliere                 - Conosci le pene sancite per chi infrange il sacro giuramento?

Lisia                              - Conosco le pene.

Il Cancelliere                 - Insisti dunque nel volere questo processo?

Lisia                              - Lo voglio. (Siede).

Il Cancelliere                 - Eratostene, Lisia figlio di Kefalos, meteco, ti muove accusa di avere ucciso Polemarco suo fratello. Ti riconosci colpevole o innocente?

Eratostene                     - Il magnanimo decreto di Trasibulo mi consente di sottopormi a giudizio, perché possa, se assolto, ritornare nella città dei miei avi, alle mie occupazioni. Se aver preso parte al governo dei Trenta è una colpa, mi ritengo colpevole. Non sono colpevole della morte del meteco Polemarco.

Il Cancelliere                 - La parola al mallevadore dell'accusa.

Il Mallevadore di Lisia                                            - Mi sia concesso, citta­dini, ricordare un altro decreto di Trasibulo: quel­lo che conferiva a Lisia la cittadinanza di Atene, in riconoscimento dei suoi meriti democratici. Un decreto che aspetta ancora la vostra approvazione; così che Lisia si presenta ora da meteco, mentre il suo avversario rischia, se assolto, di risalire tutti i gradini della vita politica. Trasibulo ha reso la città a tutti i cittadini, ha ridato la concordia ad Atene, divisa in fazioni, ha restituito la libertà anche a chi era disposto a servire. Noi meteci abbiamo salutato con gioia il decreto di Amnistia, e ci uniamo ai voti di riconciliazione. Ma la pietà e l'amor di patria non devono consentire che i responsabili di tanti delitti siano ancora impuniti. Date ascolto, o giudici, alle parole di Lisia. Ricor­datevi che è venuto in esilio con voi, è rientrato in città con voi; ed era il più ricco dei meteci finché la sorte fu propizia; dopo il disastro navale, ebbe non piccola parte delle vostre sofferenze. Ricordate che in esilio arruolò trecento mercenari per aiutarvi a rientrare in patria, offrì duecento spade della sua officina ai fuoriusciti di Trasibulo; duemila dracme in contanti... Abbia dunque la gra­titudine del popolo e giustizia.

Il Cancelliere                 - Risponda, se crede, il mallevadore di Eratostene.

Il Mallevadore di Eratostene             - Capisco bene, o giudici, che ricordando il passato, siate sdegnati senza distinzione con chi partecipò al governo dei Trenta. Se si volessero però scaricare su Eratostene tutte le responsabilità dei Trenta non si terrebbe conto della verità: che Eratostene, stando al gover­no, in pieno trionfo oligarchico, non si vendicò di nemici, non favorì amici; durante la guerra com­batté quattro volte per mare, pagò i tributi straor­dinari e tutte le liturgie, meglio di tanti altri. Furono tutti dei criminali i Trenta? Se da una parte è nota la ferocia di Crizia, se c'è chi non osa venire qui a rendere conto delle sue azioni, ricordatevi tuttavia di Teramène, che preferì la morte anziché avallare lo sterminio dei meteci voluto da Crizia. E ricordate che Eratostene fu al fianco di Teramène, che fu sempre un moderato e sollecito dell'interesse comune. Cittadini, la di­scordia è l'origine di tutti i mali; saggiamente l'avete riconosciuto dopo la vostra vittoria. E nel ricordo delle passate sventure, avete sacrificato agli dèi perché torni in città la concordia. Non dovete applicare, o giudici, i metodi errati che avete visto usare dai Trenta. Non giudicate legit­time, contro di noi, le sanzioni che, applicate a voi, vi parvero inique. Ora che siete tornati in patria, vogliate avere per Eratostene la pietà che in esilio aveste per voi stessi. Questa è la sola via di giun­gere a un'intesa, di risollevare le sorti della città, d'incutere nuova paura ai nemici. Il passato, o giudici, vi serva d'esempio per il futuro: i veri amici del popolo sono coloro che si attengono ai giura­menti, sappiatelo, perché in essi vedono l'unica salvezza della città. C'è invece chi si appella alle divisioni e ai torti del passato per soddisfare i suoi personali rancori; vi ammonisca, oggi, il ricor­do dei patti stipulati non solo tra noi ma, come ben sapete, con gli Spartani... Accordate quindi ai cittadini con le mani nette, senza differenze di colo­re, i vostri medesimi diritti; è l'unico sistema per assicurare un buon numero di partigiani all'attuale governo. (Si siede).

Il Cancelliere                 - Lisia, la legge ti assegna il tempo misurato da questa clessidra. A te la parola. (Volta la clessidra).

Lisia                              - Non il cominciare questo atto d'accusa, o giudici, mi sembra difficile, ma terminare una volta cominciato. Tale è la natura e il numero dei loro delitti, che anche mentendo non potrei aggra­vare il loro peso, e volendo dire la verità non potrei dire tutto. O soccombere dunque al mio compito, o non avere il tempo sufficiente. Ed io dovrei giustificare il mio rancore, o giudici, verso i Trenta? Piuttosto chiederò a loro che rancore li ha animati contro la città, per vessarla con tanta prepotenza. E non lo dico soltanto per ragioni per­sonali, ma perché tutti voi, senza distinzione, avete ragioni di sdegno, a nome vostro e a nome dello Stato. Per questo, o giudici, io che non ho mai trattato cause in tribunale né per me né per altri, ora dai fatti sono costretto ad accusare costui; e molte volte ho disperato, per la mia ine­sperienza, di poter sostenere con onore la causa mia e di mio fratello. Proverò tuttavia a raccontarvi la cosa da principio, e più brevemente che potrò. Comincerò da dove sarà più facile per me esporre, per voi seguire. Appena le navi, ad Aigos Potamoi, furono distrutte, e la situazione all'interno divenne insostenibile, tanto che di ora in ora si aspettava che entrassero al Pireo le navi degli Spartani; ebbene, in quel momento, costoro, smaniosi di capo­volgimenti, cominciarono a tramare, pensando che era finalmente giunta l'occasione per insediare il governo che ambivano. Si tenne dunque, Ateniesi, la prima Assemblea per la pace. Dissero i legati di Sparta a quali condizioni erano disposti a trattare: e cioè la distruzione delle Lunghe Mura, per dieci stadi, da ambo i lati. A udire delle mura, voi, Ate­niesi, insorgeste. Cleofonte salì alla tribuna, e in nome di tutti voi rispose che le mura di Atene non si violavano. Allora Teramène, che complottava contro la Democrazia, salì a parlare. Disse che se gli aveste conferito pieni poteri per trattare la pace, avrebbe agito in modo da evitare la distruzione delle mura ed altre umiliazioni alla città. Anzi, spe­rava di ottenere dagli Spartani, così disse, « qual­che altra concessione ». Voi, convinti, gli conferiste i pieni poteri, mentre un anno prima, già eletto stratego per alzata di mano, gli invalidaste l'elezio­ne, temendo che fosse poco democratico. Egli andò a Sparta, e vi si tratteneva più del necessario; tre mesi... ben sapendo che la città era assediata, e in che bisogno si trovava il popolo, e come tutti, a causa della guerra, fossero privi del necessario; ma pensava che più vi foste consumati nell'attesa, più avreste anelato ad una pace, qualunque fosse. I suoi complici intanto, rimasti qui a tramare per la rovina della democrazia, citano in giudizio Cleofonte: per pigrizia - dicono - nel presentarsi alle armi, ma in realtà perché si oppose, in vostro nome, alla demolizione delle mura. Fu allestito così un tribunale speciale e, presentatisi a deporre con­tro di lui, i partigiani dell'oligarchia lo fecero con­dannare a morte. Giunse finalmente Teramène da Sparta. Ma gli strateghi e i tassiarchi che gli anda­rono incontro, fra cui Dionisodoro, mio cognato, e altri cittadini di parte democratica, rimasero forte­mente indignati. La pace che portava, infatti, l'avremmo sperimentata da lì a poco: tra i patti c'era l'obbligo di abbattere non dieci stadi, ma per intero le Lunghe Mura, dalle fondamenta; e conse­gnare la flotta e distruggere le mura di cinta del Pireo! Una pace di nome, di fatto era l'annienta­mento della democrazia. Questi uomini si opposero subito a che venisse ratificata e non per tene­rezza, o Ateniesi, delle mura da abbattere al suolo, non per attaccamento alle navi da cedere al nemico (questo non li riguardava più che ciascuno di voi) ma per amore della democrazia, per cui tante bat­taglie avevano sostenuto, e che vedevano alla fine... e non è vero che ebbri di guerra non desiderassero la pace: solo avrebbero voluto pattuirne una mi­gliore. E ci sarebbero riusciti, o giudici, se Agorato, la spia dei Trenta, non avesse rivelato il complotto e i nomi dei cospiratori. Trecento dei nostri, fra cui Dionisodoro, mio cognato, tutti già pronti a riprendere la guerra, furono arrestati e messi a morte; i vostri porti furono aperti alle navi nemi­che, e le vostre navi cedute; le mura abbattute al suono del flauto, quale sciagura fu risparmiata allo Stato?

Il Mallevadore di Eratostene             - Tu stai infran­gendo il sacro giuramento dell'Amnistia! Non devi ricordarci le sventure della patria, di cui furono colpevoli i democratici non meno che gli oligarchi. Trasibulo vuole la riconciliazione, Pausania vuole la riconciliazione. (E ci rammenti tu stesso che un presidio spartano, dall'Acropoli, veglia sui giura­menti). Passa dunque alla accusa per cui Erato­stene è citato in tribunale, senza divagazioni.

Lisia                              - Voi vi fate scudo del giuramento d'Amni­stia per non rispondere delle vostre responsabilità. Ad esse risale la morte di mio fratello, come tutto il resto; e su di esse è giusto che io fondi la mia accusa. La verità è che non avete argomenti per negare. (Pausa. Si alza Eratostene).

Eratostene                     - Dirò, quando sarà il mio turno, quan­to avrò da dire in mia difesa. Ma ti esorto, Lisia, a non sfidare le leggi. (Si siede).

Il Mallevadore di Eratostene             - Cita intanto, per chi non lo rammenti, il decreto del re di Sparta.

Lisia                              - Io non intendo, giudici, cedere il tempo a mia disposizione.

Eratostene                     - Le leggi democratiche mi concedono questo diritto.

Il Mallevadore di

Lisia                              - Si arresti, dunque, la clessidra.

Il Cancelliere                 - E' ferma.

Il Mallevadore di

Eratostene                     - Il decreto di Pausania.

Il Cancelliere                 - In nome di Sparta, il re Pausania proclama: Si rammenta che la città di Atene non fu rasa al suolo secondo il diritto dei vincitori; anzi, si tollera oggi che abbia un governo conforme alle sue tradizioni democratiche. Tuttavia: sarà mantenuta una guarnigione sull'Acropoli sotto il comando dell'armosta Callibio, finché ogni garan­zia non sarà data. Ogni tumulto verrà stroncato; ogni provocazione repressa. (Pausa) Lisia, la tua clessidra riprende a versare. (Pausa).

Lisia                              - Non insisterò, Ateniesi, sulle vostre sven­ture; vi parlerò di quelle dei meteci, delle mie. La mia famiglia è oriunda di Siracusa. Mio padre, Kefalos, per insistenza di Pericle, si trasferì in questa terra e vi abitò trent'anni: senza che mai, o noi o lui, citassimo qualcuno in tribunale o fossi­mo citati. Durante il regime democratico abbiamo vissuto senza offendere nessuno e senza essere molestati. Quando i Trenta, carnefici e delatori, andarono al potere, proclamarono che era neces­sario purificare Atene dalle erbe cattive. Teògnide e Pisone dichiararono in Consiglio che dei meteci, ostili alla costituzione, tramavano contro lo Stato; bellissima occasione, in apparenza, di punire dei rei, in realtà di arricchirsi. I loro complici non stentarono a convincersi; che vale la vita degli uomini al cospetto dei loro guadagni? Decisero dun­que di arrestare dieci meteci; di cui due poveri, per dare ad intendere che non le ricchezze li spin­gevano, ma l'interesse effettivo dello Stato. Come se avessero bisogno di queste ipocrisie!... Si asse­gnano le case e partono alla caccia; quella sera io avevo ospiti a cena; invadono la casa, li scacciano, e mi consegnano a Pisone; mentre gli altri vanno a saccheggiare l'officina e a fare l'inventario degli schiavi, chiedo a Pisone: «Se ti cedo una somma di denaro, sei disposto a lasciarmi la vita? ». Mi risponde che è disposto a farlo, ma vuole molto. « Va bene un talento in contanti? », gli dico. Lui si profonde in garanzie. Sapevo bene che non cre­deva né agli dèi né agli uomini, ma in un tale frangente mi sembrò indispensabile esigere un giu­ramento. E lui giurò, imprecando la rovina su di sé e sui figli, che per un talento mi avrebbe rispar­miato. Io vado in camera mia. Apro il forziere; Pisone mi segue, e vista la ricchezza del contenuto, chiama due sgherri e dà ordine di sequestrare tutto. Invece della somma pattuita ebbe così tre talenti, quattrocento ciziceni, cento darici, e quattro coppe d'argento. Gli chiedo se almeno mi lascia l'occor­rente per mettermi in salvo: « Ringrazia il cielo se ti salvi la vita », risponde. Appena usciti (Pisone ed io), ci fermano Melobio e Mnesitìde, due dei Trenta, che si erano occupati dell'officina. Chie­sero a Pisone dove stavamo andando. Rispose da mio fratello, a perquisire anche quella casa. Dissero a luì di andare, a me di seguirli: mi portavano da Damnippo. Pisone mi sussurra di tacere e di aver fiducia: mi avrebbe raggiunto là. La casa di Damnippo era piena di arrestati, li sorvegliava Teògnide. Mi affidano a lui e se ne vanno. Pensai che era il momento di rischiare, se volevo sottrar­mi alla morte. Chiamo Damnippo e gli dico: « Tu sei un amico; sono in casa tua, non ho fatto niente. Ti prego: usa la tua influenza per salvarmi ». Pro­mise di farlo. Ne avrebbe parlato con Teògnide, che per denaro - mi disse - era pronto a tutto. Si ritirarono a parlare. Io allora, che conoscevo la casa e sapevo che aveva un'altra uscita, decisi di tentare la fuga. Se mi riusciva, ero salvo. Se mi sorprendevano, o Teògnide, corrotto da Damnippo, mi avrebbe egualmente salvato, o se no... era la morte in ogni caso. Questa idea mi convinse; quelli bloccavano solo la porta di entrata. Dì tre porte che dovevo attraversare, le trovo aperte tutte e tre. Sono salvo. Scendo al Pireo, cerco di Arche-neo, l'armatore, e lo mando in città ad informarsi di mio fratello. Quando tornò, mi disse che Erato­stene, arrestato Polemarco per la strada, lo aveva gettato in carcere. Con questa notizia mi imbarcai quella notte per Megara. (Musica) Ma a questo punto, o giudici, ascoltate la vedova di Polemarco, qui presente. (Musica). La Vedova di Pole

Marco                            - Polemarco, mio marito, giudici, fu obbligato dai Trenta a bere la cicuta. Neppure gli dissero perché andava a morire. Senza processo. Senza difesa. Quando il suo corpo fu tolto dal carcere - noi avevamo tre case - da nessuna vollero che partisse il funerale; lo fecero esporre in una catapecchia fuori della città. Chie­demmo un manto, di tanti che avevamo, per avvol­gerlo dentro il sepolcro. Non ci fu concesso. Suppli­rono gli amici generosi: chi con un manto, chi con un cuscino ci hanno aiutato a dargli sepoltura. Trenta erano intenti a mettere le mani sul patri­monio: settecento scudi della nostra officina, una quantità d'oro e d'argento: bronzi, mobili, gioielli, vesti preziose, più della loro immaginazione; e centoventi schiavi (di cui si tennero i migliori, gli altri li dettero allo Stato). La loro cupidigia arrivò al punto che Melobio, appena entrato in casa, gli orecchini d'oro - un dono di Polemarco - me li strappò dalle orecchie! Per il denaro si accanirono contro di noi, come per il rancore di offese ricevute. Non questo ci aspettavamo dallo Stato, noi che pagammo tutte le coregie e molti contributi, e facemmo sempre il nostro dovere, con disciplina, senza mai un nemico; anzi dai nemici riscattammo molti Ateniesi prigionieri. Fummo migliori noi meteci, o giudici, di questi cittadini governanti. Dopo che tanti Ateniesi bandirono in terra nemica, che altri uccisi ingiustamente, lasciarono insepolti, altri di pieni diritti privarono della cittadinanza, alle figlie nubili impedirono il matrimonio; ora o giudici hanno il coraggio di venirsi a discolpare: non hanno fatto nulla dicono, di turpe e dì perver­so. 0 fosse vero! Per me e mio marito. Per me purtroppo la realtà è diversa, perché, come vi ho detto, Eratostene ha ucciso mio marito, senza aver sofferto un affronto da lui; né per colpe verso la patria: solo per servire le sue passioni perverse. (Pausa. La vedova scende dal palco).

Lisia                              - Eratostene, voglio interrogarti. So che la legge vieta di rivolgersi all'uccisore di un congiunto, ma in questo caso, o giudici, mi sia concesso: vo­glio che parli per la sua rovina.

Il Cancelliere                 - Ti è concesso, se vuoi, di interro­gare l'accusato.

Lisia                              - Eratostene, rispondi alle mie domande. Hai o non hai arrestato Polemarco?

Eratostene                     - Era un ordine del governo, ebbi paura di trasgredirlo.

Lisia                              - Eri presente nel Consiglio quando si discu­teva la nostra sorte?

Eratostene                     - Ero presente.

Lisia                              - Appoggiasti chi sosteneva la condanna, o ti opponesti?

Eratostene                     - Mi opposi.

Lisia                              - Perché fossimo uccisi o perché non lo fossimo?

Eratostene                     - Perché non foste uccisi.

Lisia                              - E ritenevi giusto o ingiusto ciò che subi­vamo?

Eratostene                     - Ingiusto.

Lisia                              - Così tu, sciagurato, da una parte ti opponi alla nostra condanna, dall'altra ci arresti per man­darci a morte? (Eratostene si siede impassibile) Prima ti opponi in Consiglio, al momento del voto, poi, quando dipende solo da te salvare o no Polemarco, lo getti in carcere? E credi forse, per questa opposizione che dici, priva di seguito, di essere giudicato un buon cittadino? Credi che di aver preso e ucciso Polemarco, non devi rendere conto a me e a costoro? Io dubito per prima cosa, o giudici, che egli abbia avuto un ordine, se è vero che si oppose; vi pare che un incarico del genere l'avrebbero dato a chi in consiglio aveva dissen­tito? E poi la scusa di avere agito per ordine dei Trenta, valga se mai per gli altri ateniesi: è inam­missibile che proprio i Trenta rigettino la colpa su se stessi. Se un'altra autorità, più forte dello Stato, li avesse costretti ad uccidere contro la legge, forse capirei la vostra indulgenza, ma chi volete dunque punire, se ai Trenta è consentito dichiarare che hanno obbedito ai Trenta? (Pausa) In voi è ancora vivo lo sdegno contro coloro che vennero a cercarvi in casa vostra, o voi o i vostri cari; eppure quelli correvano un bel rischio, avendo l'ordine di fare una perquisizione, a fingere di non aver trovato una persona. Ma tu hai sorpreso mio fratello per la strada! Bastava che dicessi: « Non l'ho incontrato » e poi: « Non l'ho trovato in casa », senza una prova né un controllo: nessuno te lo avrebbe contestato.

Eratostene                     - Non ero solo quando lo incontrai. Sarei stato denunziato, lo sai bene.

Lisia                              - Era il tuo dovere, se realmente ti ripu­gnava lo sterminio! Anzi, tu avresti dovuto avver­tire le vittime ingiustamente designate; invece che arrestare degli innocenti! Ma è molto chiaro, dalle tue azioni, che l'ingiustizia non ti addolorava; ti rallegrava! Oggi venite a proclamare la vostra buona fede; come mai non la provaste allora, sia col proporre il meglio, sia col distogliere gli altri dal male? Se davvero eri un buon cittadino, in­nanzi tutto non dovevi prendere parte ad un go­verno illegale...

Eratostene                     - Era il solo governo che godesse il favore degli Spartani: bisognava pure negoziare una pace. La città era allo stremo delle forze, i cittadini morivano di fame, dopo una sanguinosa guerra perduta.

Lisia                              - Voi li avete ridotti allo stremo! Teramène prolungò a posta le trattative di pace, per fiaccare la resistenza dei cittadini, e permettere a voi di prendere il potere!

Eratostene                     - Teramène dovette negoziare una pace in condizioni disperate, e ha salvato la città dalla completa distruzione!

Il Mallevadore di

Eratostene                     - I meteci hanno ri­dotto alla fame i cittadini, facendo incetta del grano!

Il Mallevadore di

Lisia                              - E' una calunnia che avete sempre usato per aizzare il popolo contro di noi!

Il Mallevadore di

Eratostene                     - Ma è noto che il vostro interesse contrasta con quello del popolo! Sono affari d'oro, per voi, quando una sciagura colpisce la città e potete rialzare il prezzo del grano. Provate così piacere alle nostre sventure, che siete sempre i primi ad averne notizia; se no l'in­ventate: le navi sono affondate nel Ponto, sono state catturate dagli Spartani durante la traver­sata, gli empori d'Oriente sono chiusi. Il vostro malanimo è tale, che nei periodi critici cospirate contro di noi come nemici!

Il Mallevadore di

Lisia                              - Come osate parlare di co­spirazione voi, che dopo il disastro navale orga­nizzaste le eterie clandestine per la rovina della democrazia?

Il Mallevadore di

Eratostene                     - La guerra l'ha volu­ta questa vostra democrazia! Siete voi i responsa­bili del disastro che ha colpito la città.

Lisia                              - La guerra fu votata liberamente da tutti i cittadini: la vostra pace piuttosto, e il governo dei Trenta, furono imposti contro la volontà e contro gli interessi del popolo, con l'odio tradi­zionale della vostra fazione.

Eratostene                     - Nulla ti autorizza a definirmi un nemico del popolo.

Il Mallevadore di

Eratostene                     - Riflettiamo intanto che nessuno, per natura, è oligarchico o democra­tico. Le simpatie per i vari governi sono determi­nate dall'interesse particolare; e non è difficile accorgersi, in definitiva, che le reciproche diver­genze riguardano la politica meno assai del per­sonale tornaconto.

Lisia                              - Sapevo che saresti ricorso a questo argo­mento, caro a certi sofisti: il personale tornaconto! Questo poneste al di sopra di ogni legge divina ed umana, aprendovi il varco ad ogni eccesso, fino alla rapina ed al sangue.

Eratostene                     - Il nostro governo degenerò, è vero, ma per le ambizioni di Crizia. Teramane fu con la vita garante della legalità, assassinato da Crizia proprio perché si oppose alla persecuzione dei meteci. Io lo sostenni nel Consiglio, io ho rischiato la morte con lui!

Lisia                              - Teramène, tu dici. Se fossi stato al go­verno con Temistocle, ti saresti vantato di aver costruito le mura, contro il volere degli Spartani; stando al governo con Teramène, ti vanterai di averle demolite, raggirando i cittadini? Ma venia­mo al motivo per cui vi opponeste a Crizia. Effet­tivamente un contrasto esisteva in seno al vostro governo. Ma per quali motivi? Se il contrasto na­sceva a causa dei perseguitati, potevate dare una mano a Trasibulo, quando tornò in patria e con settanta uomini si impadronì della fortezza di File: bastava questo per mettere Crizia in mino­ranza di salvare i meteci accusati. Invece andaste ad Eleusi tutti insieme, gettaste in carcere trecento cittadini e ne votaste la morte all'unanimità. I vo­stri contrasti riguardavano solo la gelosia del po­tere. Solo quando i settanta di Trasibulo diven­tarono settecento, e si capì che la loro ascesa era inarrestabile, alcuni di voi pensarono bene di tradire Crizia e l'oligarchia, con il pretesto dei me­teci. Teramène ha pagato giustamente sotto l'oli­garchia che già cercava di abbattere, come giusta­mente avrebbe pagato sotto la democrazia, per la pace che stipulò e per aver instaurato il governo dei Trenta. Due volte ha tradito la patria: sempre scontento del presente, sempre smanioso di rivol­gimenti, egli che, ostentando il sacro nome della patria, si era fatto maestro della più infida ambi­guità. (Pausa).

Il Mallevadore di Lisia                                            -

Un uomo di cervello

quando la nave rulla,

non se ne sta impalato,

va a destra, va a sinistra,

ma sempre da quel lato

che emerge...

Ecco un maestro

di opportunismo

un Teramène nato.

Il Mallevadore di

Eratostene                     - Non approfittare dei cori di Aristofane per insultare Teramène: ricor­dati che cosa disse nelle Rane del democratico Cleofonte: che dalle ambigue labbra garrisce come rondine di Tracia, quel bastardo, e quando lo condannano, piatisce come querulo usignolo, per scamparla...

Il Cancelliere                 - Lisia, l'acqua della tua clessidra seguita a versare. (Pausa).

Lisia                              - E' una partita, questa tra Eratostene e la democrazia, ad armi ineguali: Eratostene fu insieme accusatore e giudice dei suoi imputati, la democrazia sancisce un'accusa e una difesa. Egli potè, senza processo, far uccidere cittadini innocenti: voi avete il dovere di applicare la legge anche giudicando i traditori della patria; i quali, del resto, anche a costo di infrangere la legge, non potrebbero dare una riparazione degna del male che hanno fatto alla città. Quale pena è proporzio­nata ai loro delitti? Avete dimenticato che per colpa di Eratostene e colleghi era un grave rischio persino andare ai funerali delle vittime? Avete già dimenticato che, non contenti di avervi ban­dito dalla patria, i Trenta chiesero la vostra estra­dizione alle città ospitali che vi avevano concesso asilo politico? E non vi sembra dunque capace di tutto quest'uomo, che ora, essendo i giudici non altri che le sue vittime, viene a discolparsi davanti ai testimoni della sua malvagità? E' il disprezzo che nutre per voi o la fiducia che ha nei suoi so­stenitori? Riflettete, o cittadini: i Trenta non avrebbero potuto imperversare senza numerosi so­stenitori, né oserebbe Eratostene, ora, comparire qui, se non fidasse nell'appoggio di costoro: che poi, non tanto per aiutare lui sono qui, ma perché sperano, riuscendo a fare assolvere uno dei primi responsabili, di assicurarsi una piena impunità e licenza sfrenata nel futuro. Mostrate dunque che giudizio date degli avvenimenti. Se condannerete Eratostene, l'odio per il passato regime sarà chiaro, se lo assolverete mostrerete di essere compromessi con la politica dei Trenta, senza poter dire ora che agite per loro imposizione: oggi nes­suno vi costringe a votare contro coscienza. Non subite ricatti; se lo assolverete, avrete condannato voi stessi. Né confidate nella segretezza del voto, come avrete votato sarà chiaro a tutti. Vedo qui nel foro molti stranieri, convenuti da ogni parte dell'Eliade, per conoscere il vostro verdetto. Fate che imparino, prima di andar via, che i delitti po­litici si pagano; se no lo Stato sarà sempre di chi riesce ad impadronirsene; e chi non riesce godrà pieni diritti come prima. Sarebbe orribile che assol­veste Eratostene: mandaste a morte gli strateghi, vincitori di una battaglia navale, che non poterono per la tempesta raccogliere i naufraghi (perché - diceste - il valore di quei caduti andava ven­dicato), e questi, che fecero il possibile per farvi battere sul mare, non meritano da voi le pene più severe?

Eratostene                     - Ti rammento che sul mare ho com­battuto quattro volte di persona. Nel tempo in cui ero trierarca la mia nave fu il legno migliore di tutta la flotta. Persino Alcibiade, che per essere democratico non era certo legato a me da inte­ressi politici, né era mio amico, né della mia tribù, sceglieva sempre la mia trireme. E nella sua qua­lità di stratego con pieni poteri, non si sarebbe certo avventurato su una nave che non fosse dav­vero la migliore; specie dovendo esporsi di persona al pericolo. Quando poi, nell'ultima battaglia na­vale la vostra flotta fu distrutta, io riportai ad Atene la mia nave e salvai anche quella di Nausi-maco: due navi ricondussi io solo, su dodici che si salvarono. Ma quanti denari credi che sia co­stato armare una trireme con tanta cura? Sapete tutti del resto quali servizi abbia reso alla città, quanti danni abbia inflitto ai nemici.

Lisia                              - Tu cerchi di sorvolare sulle imputazioni, esibendo i tuoi meriti di guerra. Mostraci dunque, se puoi, dove hai mai ucciso più nemici che citta­dini, dove hai catturato più navi che consegnato! Se tolsero armi ai nemici, di più ne hanno seque­strate a voi; se hanno espugnato mura, non val­gono le mura della patria, che hanno distrutto. Anzi, abbattendo tutti i forti dell'Attica, fanno so­spettare che anche le mura del Pireo, non per vo­lere degli Spartani siano state demolite, ma per assicurare in questo modo il loro potere.

Il Cancelliere                 - Lisia!

Lisia                              - (fa un cerino al Cancelliere per rassicurarlo sulla sua intenzione a concludere) Prima di la­sciare la tribuna desidero ricordare alcune cose, sia ai cittadini che restarono in città sotto i Trenta, sia ai fuoriusciti del Pireo. Voi che restaste in città per prima cosa ricordate come la tirannia di que­sti uomini vi ha spinto contro i vostri fratelli, figli, concittadini; come specularono su questa guerra civile, che ha infetto danni gravissimi alle vostre sostanze; senza alcun vantaggio foste coin­volti nelle loro vergogne: complici involontari e disprezzati. Per cui, ora che siete al sicuro, quanto potete vendicatevi. Ricordate la tirannia subita, pensate che ora reggete lo Stato insieme ai mi­gliori cittadini, che potete far guerra ai nemici e prender parte alle deliberazioni politiche; ricor­date la guarnigione spartana che hanno fatto in­stallare sull'Acropoli, a guardia del loro dominio e della vostra servitù. Avrei molte altre cose da dirvi, ma mi basta. Voi, fuoriusciti del Pireo, ri­cordatevi anzi tutto delle armi che vi furono strap­pate non dai nemici sul campo di battaglia, ma in tempo di pace da costoro; poi, che foste banditi dalla città ereditata dai padri. Ricordate lo sdegno dei giorni dell'esilio e tutti i lutti sofferti: i geni­tori, le spose, gli amici, strappati a forza dalle piazze, dai templi, e messi a morte; persino le esequie proibite come se il loro arbitrio potesse sottrarsi alla vendetta degli dèi! Voi, scampati alla morte tra rischi e peregrinazioni, banditi da ogni parte, privi di tutto, abbandonati i figli nella pa­tria ostile o in terra straniera, con molte difficoltà raggiungeste il Pireo. Facendovi coraggio contro inauditi pericoli, restituiste agli uni la libertà, agli altri la patria. In caso di insuccesso, se l'impresa falliva, non vi restava che fuggire ancora, davanti a ciò che vi aspettava: né templi né altari vi avreb­bero protetti da costoro; sapete i loro costumi. Ma è inutile dire ciò che sarebbe avvenuto, quando neppure ciò che hanno fatto, costoro, io ho potuto descrivere: non è opera per uno o due accusa­tori, ma per molti. Comunque io ho impiegato tutte le mie risorse per amore dei sacri templi che costoro hanno venduto e profanato, degli arse­nali che hanno distrutto, dei caduti, che dovete soccorrere in morte poiché non poteste difenderli da vivi. Sono convinto che ora ci ascoltano, e che vi attendono alla prova del voto; chi assolverà i loro carnefici, ripeterà contro di essi il verdetto di morte; solo facendo giustizia di costoro saranno vendicati degnamente. La mia accusa è finita. Avete udito, avete visto, avete sofferto. Il colpevole è in vostro potere. Giudicatelo. (Va a sedersi).

Il Cancelliere                 - Eratostene, a te la parola. (Si alza silenziosamente Eratostene. Si ode un gong, e la luce resta solo sul Cancelliere, in pruno piano) Eratostene parlò in sua difesa, ma ciò che disse non ci è giunto. Sappiamo solo che fu assolto. Nella città disfatta, ancora in balia degli Spartani, pre­valse il consiglio dei pavidi, l'opportunismo, l'in­teresse delle persone compromesse con il passato regime. Gli stessi partigiani non sostennero Lisia come avrebbero dovuto. Dopo la vittoria, non più uniti contro il comune nemico, si erano divisi, come spesso avviene, di fronte al problema di rior­ganizzare lo Stato, e i più moderati votarono per Eratostene, Coloro che avevano sperato in una restaurazione radicale della democrazia, restarono delusi. Invano Lisia osò appellarsi alla coscienza del popolo, dei giudici, dei compagni di lotta. Ne uscì sconfitto, lasciando però la testimonianza e l'esempio di una protesta morale, anche oggi valida.

SECONDO TEMPO

Il Cancelliere                 - (apre un libro e legge in greco le pri­me due battute del « Fedro ») Socràtes: O file Fàidre, pòi de kài pòthen? - Fàidros: Para Lysìu, o Sòcrates, tu Kefàlu. (Leggendo traduce) Socrate: Fedro carissimo, da dove vieni? - Fedro: vengo da Lisia, Socrate, il figlio di Kefalos. - Di che cosa avete parlato? Lisia vi ha intrattenuto, naturalmente, con un suo discorso. - Se hai un po' di tempo e voglia di ascoltare, ti racconterò; non, certo, in modo degno di Lisia: tu sai il tempo e la pazienza che impiega nei suoi lavori; è il più bravo scrittore di oggi, « deinótatos tòn nyn gràfein ». (Solleva lo sguardo dal libro) Con queste parole inizia il « Fedro », di Platone. L'accenno a Lisia mostra la familiarità, e anche la considerazione, in cui il nostro oratore era tenuto nel più elevato ambiente intellettuale di Atene: l'ambiente, appunto, di So­crate, Fedro, Platone e Senofonte. Furono i suoi stessi amici a consigliarlo, dopo l'infelice processo contro Eratostene, a intraprendere la carriera di avvocato, o meglio, di « logografo », come si di­ceva. Le sue cause in tribunale furono sempre affollate da un pubblico colto e curioso. Del resto, in una città così sensibile al teatro come fu Atene, anche i processi avevano un Iato spettacolare. Per­ché non era l'avvocato a pronunciare la sua arrin­ga: i suoi clienti, imputati o accusatori, dovevano parlare di persona; l'avvocato, quindi, scriveva l'o­razione, e poi l'insegnava al suo cliente, comprese le pause e i gesti della recitazione. Costruiva quindi un personaggio, come farebbero un autore e un regista di teatro. E i personaggi di Lisia sono così autentici, che ancora oggi, dopo ventiquattro secoli, sembrano presentarsi vivi in tribunale. Essi mostrano un volto di Atene del tutto inconsueto: non templi, non statue, non sacre cerimonie, ma vicoli, casette di periferia, botteghe di artigiani. I sentimenti grandi e piccoli di una umanità nu­merosa e anonima, ma sempre agitata dalle sue contrarietà. Come un barbiere. (Sale il siparietto, mostrando il barbiere, seduto con due grucce) Forse proprio il barbiere di Lisia, che un giorno ricorse al celebre avvocato per un grave rischio che lo minacciava: essendo invalido, percepiva dallo Stato una pensioncina, ma un vicino invi­dioso l'aveva accusato di percepirla illegalmente: negava che fosse nel bisogno e che fosse veramente invalido. (27 barbiere si alza e viene sul proscenio).

L'Invalido                     - Dovrei quasi ringraziare il mio accu­satore, signori del Consiglio, per avermi intentato questa causa; non avevo mai avuto occasione di render conto della mia vita; ed ora, grazie a lui, l'ho trovata. E il rendiconto mostrerà che mente, e che la mia vita, fino ad oggi, è più degna di lode che d'invidia! Mi sembra infatti che, oltre l'invidia, non abbia altro motivo di espormi a que­sto processo. Ebbene, chi invidia persone che gli altri compatiscono, di quale cattiveria credete che non sarà capace? Se mi ha denunziato per avere la sua ricompensa di delatore... d'accordo: ma non racconti che vuole vendicarsi di una inimicizia! Con gente come lui, né amico, né nemico, io non ci ho mai avuto a che fare. Per questo è invidioso, signori del Consiglio; mi sembra chiaro: perché con tutta la mia disgrazia io sono un cittadino meglio di lui. Ai difetti del corpo, infatti, si può rimediare con le virtù dell'anima, almeno credo! Se con la ragione e la pratica della vita io colmerò la mia inferiorità, perché sarò meno di lui? Ma basta con le digressioni; vi dirò quello che devo dire e sarò più breve che potrò. Dice, questo mio accusatore, che non ho diritto al sussidio che prendo dallo Stato. Per lui, infatti, io sono in gamba... e per nulla invalido; ed ho un mestiere che mi frutta da vivere anche senza il sussidio che ricevo. Come prova adduce: della mia vigo­rosa sanità, che vado a cavallo, della ricchezza del mio mestiere, che posso frequentare gente ricca. Ora i guadagni del mio mestiere e le altre mie risorse, sapete tutti, credo, quali sono: ve le dirò in breve: mio padre non mi ha lasciato nulla, mia madre ho smesso quattr'anni fa di mante­nerla, quand'è morta. E figli che si curino di me, io non ne ho... per ora. Quanto al mio mestiere, mi frutta ben poco: ormai da me faccio fatica a lavorare e un sostituto che mi aiuti non posso certo procurarmelo Quindi, oltre il sussidio, altre risorse non ne ho, e se me lo togliete, io rischio di finire in una condizione penosissima. Perciò, signori del Consiglio, se potete salvarmi con giu­stizia, non rovinatemi ingiustamente. Quello che mi davate quand'ero più giovane e robusto, non levatemelo adesso che sono invecchiato e indebo­lito. Voi, che finora avete fama d'essere troppo teneri anche con chi non è malato affatto, non fatevi severi, per istigazione di costui, contro chi muove a pietà anche i suoi nemici. Se sarete cru­deli con me scoraggerete anche gli altri che sono nelle mie condizioni... E sarebbe strano vedere che avevo la pensione quando - in fondo - non avevo che questa disgrazia, adesso che si aggiun­gono vecchiaia e malattie, con quel che segue, mi viene tolta! Credo che lo stato della mia povertà il mio accusatore potrebbe mostrarvelo più chiara­mente di tutti gli uomini. Che se gli dicessero, lui che non vuol pagare la coregia, di cambiare con me le sue sostanze, finanzierebbe piuttosto dieci cori! E non mi rinfaccerebbe allora, per i miei guadagni, di frequentare i ricconi, anzi mi farebbe ancor più povero di quello che sono. Quanto poi... alla mia equitazione... di cui vi ha accennato - non so con che coraggio e con che pudore, dinanzi a voi - il discorso non è lungo. E' ovvio, signori del Consiglio, che un invalido cerchi e studi ogni mezzo, per far fronte meno dolorosamente alla sua inferiorità. Io che ho avuto questa disgrazia ricorro al cavallo per alleviarmi i percorsi un po' lunghi, che mi tocca fare. La miglior prova che vado a cavallo per necessità e non per ardore sportivo, come dice costui, è che, se fossi davvero ricco, avrei una mula con la sella comoda, non andrei coi cavalli da nolo. E' perché non posso comprarmela, che debbo ri­correre ai cavalli altrui. Non è buffo, signori del Consiglio? Che costui, vedendomi sopra una co­moda mula, tacerebbe (che avrebbe da dire?); siccome invece vado con cavalli da nolo, cerca di persuadervi che non sono invalido! Perché non dice pure che ho due stampelle, invece di una come gli altri? Due pesano: vuol dire che sono forte... invece lui s'è fissato che vado a cavallo, come prova del mio intatto vigore... e non s'ac­corge che stampelle e cavalli hanno lo stesso sco­po... E insiste, sfrontato, lui solo davanti a tutti voi, che sono in gamba! Se questo convincerà qualcuno di voi, che cosa m'impedisce più di es­sere eletto fra i nove arconti? L'obolo d'infermo se lo prenda lui! Se vi parrà che sono sano, in­fatti, e mi toglierete l'obolo, i testmoteti non mi escluderanno più, come invalido, dalle elezioni. Ma né voi ragionate come lui, né lui come voi, grazie al cielo. Viene a contestarmi la mia di­sgrazia come fosse una ghiotta eredità, e cerca di convincervi che non sono come tutti voi mi ve­dete; ma voi siete gente assennata, per fortuna, e crederete ai vostri occhi piuttosto che ai discorsi di costui. Dice che arrogante sono, e violento, e troppo in­solente; solo con terribili aggettivi può dire la ve­rità; non gli riesce, con un po' di moderazione. Ma voi saprete distinguere, spero, chi può permet­tersi di essere insolente, e a chi la cosa non con­viene. Sono insolenti, ovviamente, non i poveracci e le persone malridotte, ma chi possiede molto più del necessario; non gli invalidi e i mutilati, ma chi ha la massima fiducia nelle proprie forze; non chi è già avanzato negli anni, ma chi è gio­vane e animato da baldanza giovanile. I ricchi escono coi soldi da ogni rischio; i poveri, indifesi, debbono subire. E i giovani han diritto all'indul­genza dai più vecchi; i vecchi quando sbagliano hanno il rimprovero di entrambi. E i forti possono oltraggiare chi vogliono senza paura; i deboli, neppure se oltraggiati, possono rifarsi; né, se ol­traggiano, avere la meglio sugli offesi. Evidente­mente non dice sul serio il mio accusatore, che sono arrogante, lui scherza, né vuol convincervi che lo sono, ma solo prendermi in giro, bella for­za! Dice poi che nella mia bottega è pieno di mascalzoni che hanno dilapidato il patrimonio e cercano d'imbrogliare chi vuole conservarsi il suo. Capite bene che una tale accusa non riguarda me più di chiunque abbia bottega, né i miei av­ventori più di quelli degli altri. Avete tutti, più o meno, l'abitudine di andare dal profumiere, o dal barbiere, o dal calzolaio, o dove capita, e per lo più vicino al mercato, più raramente lontano; se qualcuno di voi, dunque, taccia di mascalzoni quelli che entrano da me, ovviamente vale anche per quelli che soggiornano dagli altri e quindi per tutti gli Ateniesi; che avete tutti l'abitudine di andare a perder tempo in qualche parte. Così, anche delle altre accuse, non merita che io mi difenda troppo attentamente, una per una, annoiandovi ancora per molto. Sui fatti principali ho già detto; perché dovrei prendere sul serio le sue fandonie? Vi prego solo, signori del Con­siglio, di avere al mio riguardo gli stessi senti­menti di una volta. Non mi private, per compia­cere costui, dell'unico vantaggio che la fortuna mi ha concesso in patria. Un tempo me lo accor­daste, tutti d'accordo; ora costui, da solo, non vi persuada a togliermelo. Gli dèi, signori del Con­siglio, m'avevano privato dei beni più grandi: per questo la città mi ha decretato una pensione, perché la sorte, buona o cattiva può toccare a tutti. Sarei davvero infelicissimo, se, già privo per la mia infermità delle cose più belle, perdessi an­che, per questa accusa, l'obolo che la città, solle­cita, accorda a chi è nelle mie condizioni. Assolu­tamente, signori del Consiglio, non votate per l'ac­cusa. Perché dovrei trovarvi così ostili? Forse per causa mia qualcuno è finito in tribunale e ha perso il patrimonio? Nessuno può provarlo. Perché sono intrigante, superbo, attaccabrighe? Ma non ho i mezzi per cose del genere! Sono violento e prepotente? Ma nemmeno lui potrebbe dirlo, a meno di non voler mentire, come in tutto il resto. Sono stato al potere con i Trenta Tiranni e ho danneggiato molti cittadini? Ma se fuggii con voi democratici a Calcide! Benché m'era possibile restare in città senza paura, io scelsi la via dei fuoriusciti, dei partigiani... insieme a voi! Dunque, signori del Consiglio, se non sono colpevole di nulla, voi non siate come con i veri colpevoli: votate a mio favore, come il Consiglio di allora; tenendo a mente che, né sto a render conto d'aver maneggiato il pubblico de­naro, né d'aver sostenuto qualche carica; ma solo per un obolo! Ecco il mio discorso. Così voi mi farete giustizia, io ve ne sarò riconoscente e costui imparerà, in futuro, a non mettersi con i più deboli, ma con i pari suoi. (Esce l'invalido).

Il Cancelliere                 - Non sappiamo se l'invalido perse o riottenne la sua pensione. A voi la sentenza. Come voi, i giudici ateniesi erano più spettatori e giurati che veri e propri magistrati. Non alla loro competenza giuridica, ma alla loro coscienza è rivolto il discorso preparato da Lisia. Il quale con tutta probabilità ebbe partita vinta, se è vero, come dice la tradizione, che di duecento trentatrè cause ne perse due sole, inclusa quella contro Eratostene. Un'altra volta soltanto, dunque, non gli riuscì di aver ragione della giuria. Certo doveva essere in partenza una causa persa. Comunque bisognava essere Lisia per rischiare la difesa di costui. (Entra il pederasta) Avete già intuito di che si tratta.

 Il Pederasta                  - Io che so le molte malefatte di Simone, signori del Consiglio, sono meravigliato che abbia il coraggio di accusare me - che sono la parte lesa! - per le violenze che, se mai, deve scontare lui. E ha fatto il solenne giuramento davanti a tutti voi! Certo, o giudici, se dovesse giudicarmi una giuria popolare, il rischio mi fa­rebbe molta paura, che, per gl'intrighi e accidenti che possono intervenire, le cause sono piene di sorprese. Ma innanzi a voi ho fiducia di ottenere giustizia. Io sono molto imbarazzato, signori del Consiglio, di dovervi mostrare certe cose... di cui mi vergogno; e per non farle trapelare in giro, avrei pure tollerato delle offese... Ma Simone mi ha talmente costretto, che non nasconderò più nulla e vi racconterò tutta la storia. Né chiedo, o giudici, se sono in colpa, la minima indulgenza, ma se dimostrerò che sono innocente delle accuse di Simone, vi prego... non guardate alle follie che ho fatto, alla mia età, per un ragazzetto... non fatevi un'idea troppo... negativa di me! Pensate che la passione dei sensi è molto forte, e già stimiamo eccellente un uomo che ne estingue il fuoco... con prudenza... come avrei fatto anch'io se non avessi avuto questo Simone sempre fra i piedi! Noi due, signori del Consiglio, Simone ed io, c'innamorammo di Teodòto, un ragazzo di Platea io cercavo di farmelo amico con molta gentilezza... lui invece con violenza voleva piegarlo alle sue voglie. Tutto quello che ha passato, poverino, non ve lo sto a dire... ma gli oltraggi che Simone ha fatto a me... quelli è utile che li sappiate. Quando venne a sapere che il ragazzo era da me, viene di notte a casa mia, ubriaco, sfonda la porta e piomba nelle stanze delle donne, con mia sorella e le mie nipoti così timide, che arrossiscono a essere viste dai parenti... Mica se ne voleva andare, questo prepotente! Finché i sopravvenuti, e i suoi stessi compagni, indignati che violasse la stanza di fanciulle vergini e orfane, lo buttano fuori a forza. Si pentì così poco di questa prepotenza che, sco­perto dove eravamo a cena, fece una cosa comple­tamente assurda e incredibile, per chi non sa la sua follia: mi fa chiamare fuori e, come esco, subito si mette a picchiare; poiché mi difendevo, lui si allontana e t;ra sassi a me... mi sbaglia e rompe la faccia ad Aristocrito, che era venuto con lui. Io, o giudici, ero molto indignato, ma poiché mi vergognavo, come vi ho detto, della situazione, così lasciai perdere: meglio rinunciare alla giustizia, piuttosto che mostrare le mie pazzie davanti ai cittadini. Tanto Simone che cosa è lo sanno tutti; di me avrebbero riso che mi sforzo d'essere un buon cittadino. Ero tanto imbarazzato, o giudici, dalle iniziative di costui, che pensai fosse meglio allontanarmi da Atene. Presi con me il ragazzo (poiché debbo dirvi tutta la verità) e partii. Quando mi parve il tempo che Simone avesse dimenticato e si fosse pentito delle sue azioni, ritornai. Ma me ne andai al Pireo. Ebbene: subito seppe che Teodòto era tornato, anzi che stava da Lisimaco vicino a una casa che Simone aveva in affitto. Così chiama gli amici e si piazzano a mangiare e bere con le vedette all'erta sopra il tetto, per cogliere il ragazzo appena uscisse dì casa. Io venni giusto giusto dal Pireo; mi fermo da Lisimaco, restiamo un po', poi esco con Teodòto; quelli, già ubriachi, ci saltano addosso. Alcuni rifiu­tarono di unirsi, ma Simone qui presente, e Tèofilo e Protarco ed Autocle abbrancarono il ragazzo. Lui gli lascia il mantello nelle mani e se la batte. Io invece (tanto ero sicuro che fuggisse, e, al primo passante, non avrebbero osato inseguirlo) mi allontanai per un'altra strada. Avrei fatto di tutto per evitarli: ero sicuro che mi avrebbero messo nei guai.Teodòto intanto si era infilato in una lavanderia; quelli irrompono dentro appresso a lui e lo tirano via a forza, che urla, protesta e chiama testimoni. Accorse molta gente e s'indignavano e dicevano che era uno scandalo, ma loro s'infischiarono di tutto, anzi Molone, il lavandaio, ed altri che cerca­vano di opporsi, le presero pure. Erano già alla casa di Lampone quando l'incontro io, che andavo solo. Mi sembrò vergognoso stare a guardare men­tre il ragazzo subiva tali prepotenze; e lo abbracciai chiedendo cosa volessero fargli; quelli, senza rispon­dere, lasciano lui e picchiano me: s'accese una zuffa, signori del Consiglio, e Teodòto che tirava sassi... io che mi riparavo dalle botte... quelli pure che tirano sassi... finché, ciechi di vino, picchiarono Teodòto; lui si difese, la gente che accorreva prese le nostre parti... nella confusione ci rompemmo la testa tutti quanti. Ora gli altri, che furono coinvolti da Simone in un momento di ubriachezza, appena mi videro dopo quel fatto, vennero a scusarsi come colpevoli, non come vittime! E nessuno, dopo quattro anni, si è sognato di farmi querela. Simone, invece, che è l'origine di tutto, è stato buono per paura fino ades­so; appena ha visto che mi è andata male la causa con il fisco, ha ripreso coraggio e mi ha intentato questo processo. Adesso i fatti da me li avete ascol­tati; e vorrei, o giudici, che anche Simone li con­fermasse; se da entrambi udiste la verità vedreste chiaramente chi ha ragione. Ma lui si infischia anche del giuramento che ha prestato: vedrò di illustrarvi un po' le sue menzogne. Ha osato dire che s'era già impegnato con Teodòto per trecento dracme - e gliele aveva date! - quand'io glielo avrei tolto con raggiri... Bene, poteva portarlo dal notaio questo contratto, chiamare testi­moni! E non offenderci e picchiarci tutti e due, fare cortei d'ubriachi, sfondarmi la porta di casa e piombarmi di notte nelle stanze di donne libere, orfane. Ecco la prova, o giudici, che mente e vi vuole ingannare. Guardate com'è inverosimile: tutto il suo reddito sono duecentocinquanta dracme (almeno così ha denunciato per le tasse). E' molto strano che abbia speso per l'amante più di quanto guadagna. Non solo, ma dice pure che se l'è riprese. Ma vi pare che se allora facemmo quello che lui dice, per le sue trecento dracme, poi, dopo la rissa, gliele avremmo restituite, senza farci rimettere la causa, senza neanche un'intimidazione? Signori del Consiglio, è tutta un'invenzione. Dice di averlo pagato per giustificare in qualche modo le sue prepotenze; perché allora non ci ha denunciato per truffa? Eh, dice lui, i soldi li ho riavuti! In realtà nessuno li ha mai visti questi soldi. Dice che è stato malmenato da me davanti alla porta di casa sua. Ma se s'è allontanato più di quat­tro stadi, inseguendo il ragazzo e nessuno l'ha toc­cato: l'hanno visto duecento persone, e lui nega! Sostiene che andammo da lui con un vaso di coc­cio in mano, e che io minacciavo di romperglielo in testa: ecco, per lui, la prova della premeditazione. Penso che sia facile, o giudici, accorgersi che mente, non solo per voi, che siete abituati a queste indagini, ma per chiunque. A chi sembrerà possi­bile che io abbia premeditato e ordito un'aggres­sione alla casa di Simone, di giorno, insieme al ragazzo, con tanta gente ch'era raccolta da lui; a meno ch'io non fossi impazzito a volermi battere da solo con tutti quelli. Anzi, lui avrebbe gioito di vedermi alla sua porta, dopo avermi appostato intorno a casa mia, esservi entrato con la forza e avermi dato la caccia senza curarsi di mia sorella e di due... orfane; dopo avermi trovato che mangiavo, e avermi picchiato. Ed io, che dopo quel fatto ero stato tranquillo (temevo lo scan­dalo), sopportando la sua prepotenza come una mia privata disgrazia; io, dopo un po' di tempo, come dice costui, mi sarei messo a rischio di finire sulla bocca di tutti? Certo, se il ragazzo fosse stato da lui, la sua menzogna avrebbe qualche fonda­mento; che, per la passione che avevo, avrei fatto la più grossa pazzia immaginabile; ma Teodòto a lui non gli parlava neppure, l'odiava più di tutti gli uomini e abitava da me. Ma vi pare che prima parto da Atene col ragazzo per non venire alle mani con lui, poi, appena torno, lo porto a casa di Simo­ne, dov'era il massimo rischio di prenderle? E pri­ma ordivo un'aggressione, poi venivo impreparato, senza far venire amici, servi e nessun altro, solo con questo ragazzino, che non m'avrebbe potuto sostenere, anzi, messo alle strette, era capace di denunciarmi? Sarei stato così stupido, se tendevo un'insidia a Simone, da non cercare di coglierlo da solo, di notte o di giorno? E andarmi a cacciare proprio dove molti potevano vedermi e bastonarmi, come se contro me stesso facessi questa premeditazione, per prenderne dì più dai miei nemici? Ma la prova più certa ed evidente che mente è questa: che essendo oggetto di oltraggi e d'insidie, come dice, da parte mia, per quattro anni non ha avuto il coraggio di citarmi. In genere chi ama ed è privato dell'oggetto amato, e in più le prende, non vede l'ora di vendicarsi: lui ci ha messo un bel po' di tempo! Quello che più mi sorprende è la natura di Simone; non si può, mi sembra, essere innamorato e insie­me fare il delatore; una cosa richiede animo schiet­to, l'altra il più incallito cinismo. Vorrei potervi dimostrare la sua malvagità anche con altre prove; perché sappiate che dovrebbe difendersi lui dalla pena di morte, prima di far rischiare l'esilio a qual­cun altro. Ma ora basta. Ricorderò soltanto un epi­sodio che credo sia utile ascoltiate, a proposito della sua insolenza e completa mancanza di ritegno. A Corinto dove era giunto dopo la battaglia e dopo la spedizione di Coronea, venne alle mani  - (per gli stessi motivi) col tassiarco Lachete e lo picchiò: fu il solo fra tutti i cittadini richiamati alle armi, che gli strateghi espulsero con pubblico bando, talmente era molesto e insubordinato. Potrei raccontarvi molte altre cose, se non mi vie­tasse la legge di uscire dal tema; dunque ricorda­tevi che è entrato a forza in casa mia, che ci hanno inseguito e ci hanno strappato a forza dalla strada; tenetelo presente al momento di votare e non lasciate che io finisca ingiustamente bandito dalla patria; per la quale ho fatto tanti sacrifici, soste­nuto tante liturgie, senza mai causarle alcun fasti­dio - neanche i miei antenati - anzi moltissimi benefici. Io avrei diritto alla vostra e all'altrui pietà, non solo se mi dovesse capitare quello che si augura Simone, ma per essere stato costretto a mostrare in un processo in pubblico le mie debo­lezze e le mie follie. (Esce il pederasta).

Il Cancelliere                 - Non sempre si tratta di insulsi clamori, di passioni indecorose e ridicole. A volte una vera tragedia mette a soqquadro la vita del quartiere. La gente scappa o accorre, grida di paura o di minaccia. Un uomo ha ucciso. La vittima si chiamava Eratostene come il tiranno. (Entra drammaticamente l'imputato. Lisia stesso ci dirà i termini dell'ac­cusa).

Eufileto                         - Vorrei, cittadini, che in questa causa voi mi giudicaste come si trattasse di voi stessi, se aveste sofferto tanto. Per queste offese, non solo ad Atene, ma in tutta l'Eliade, democrazie, oligarchie concedono di vendicarsi, anche ai più miseri contro i potenti: il diritto degli ultimi è uguale a quello dei primi, perché per tutti gli uomini essere disonorato è un'offesa tremenda. Eratostene ha sedotto mia moglie, me l'ha rovi­nata, ha coperto i miei figli di vergogna; mi ha fatto offesa dentro casa mia, e non c'erano motivi di odio fra noi, a parte questo... non ho ucciso un uomo per i soldi, per farmi ricco, da povero-solo per farmi giustizia come ho diritto. Vi racconterò la storia dal principio, senza lasciare nulla e senza bugie. Quando decisi di sposarmi e presi moglie, Ateniesi, i primi tempi io non l'affliggevo né le lasciavo troppa libertà... la sorvegliavo come fanno tutti i mariti... Poi ci nacque il bambino: allora fui tran­quillo e le affidai tutto quello che avevo, perché - pensai - ormai eravamo uniti dal vincolo più sacro; e in un primo tempo era la migliore delle donne: amministrava la casa con amore, rispar­miava, faceva le cose con scrupolo... poi morì mia madre, e, morta lei, cominciarono tutti i miei guai. Fu proprio al funerale infatti che mia moglie fu adocchiata da quell'uomo, che col tempo l'ha se­dotta. Appostò la serva al mercato, se la fece complice, le consegnò biglietti per mia moglie, finché non me l'ha rovinata. Dunque, o giudici, dovete sapere che io ho una casetta a due piani, uguali sopra e sotto: sopra stanno le donne e sotto gli uomini. Quando avemmo il bambino, la madre che lo allattava, siccome rischiava di ca­dere per le scale tutte le volte che doveva lavarlo, andò a vivere giù e io di sopra. Era diventata un'abitudine e spesso mia moglie restava giù col bambino tutta la notte per dargli la poppa e non farlo piangere. Le cose andarono così per molto tempo ed io non ebbi mai nessun sospetto: anzi ero così cieco da reputare mia moglie la donna più onesta della città. Un giorno, o giudici, dopo la vendemmia, tornai a casa dalla campagna. Mia moglie non mi aspet­tava... Dopo cena il bambino strillava, si agitava, punzecchiato a posta dalla serva, perché giù c'era quell'uomo: ma questo lo seppi dopo. Io dico a mia moglie di scendere a dare il latte al bambino, che la smettesse di piangere. Lei non voleva; sem­brava vogliosa di starmi accanto, dopo tutto il tempo ch'ero stato in campagna; io mi arrabbiai, le dissi di sbrigarsi, e lei: « Tu vuoi star solo con la serva - mi disse - già una volta mezzo ubriaco cercavi di abbrancarla ». Mi misi a ridere... Lei si alza, esce, mi chiude dentro e si porta via la chiave. Aveva voglia di scherzare quella sera. Ero stanco e me ne andai a dormire col gusto di chi torna dalla campagna. Tornò su che era quasi giorno. Le domandai perché il portone, la notte, aveva cigolato. Mi rispose che il lume del bambino s'era spento e che era andata dai vicini per accenderlo. Non dissi niente: perché non doveva essere vero? Mi parve, cittadini, che si fosse truccata la faccia, e suo fratello era morto neanche da un mese, ma non gli detti peso e uscii di casa senza far domande. Così il tempo passava e io ero sempre ignaro di quello che mi accadeva, finché un giorno mi si avvicina una vecchia mandata da un'amante di quell'uomo, come ho saputo dopo: la donna era furiosa perché lui non la frequentava più come prima, così l'aveva fatto pedinare e aveva scoperto il perché. La vec­chia dunque mi si avvicina presso casa mia, dove era appostata e mi dice: « Eufileto, non credere che io venga qui per il gusto di immischiarmi nei fatti tuoi, ma l'uomo che ha disonorato tua moglie è anche un mio nemico: se prendi la tua serva, quella che va al mercato, e la metti alle strette, saprai tutto... E' Eratostene - disse - della con­trada di Oe, e tua moglie non è la prima: ne ha sedotte molte altre: lo fa per mestiere ». Così la vecchia se ne andò, e subito, o cittadini, io mi sentii sconvolto; tutto mi tornava in mente e ripensavo che ero stato chiuso a chiave in camera e la porta di casa quella notte aveva cigolato, e la sua faccia truccata... Mi ritornava tutto nella mente ed ero gonfio di sospetti... Entro in casa, dico alla serva di accompagnarmi in piazza; invece la portai da un amico fidato. « So già quello che accade in casa mia - le dico - ora scegli, hai due possibilità: o finire alla macina sotto la frusta e non sollevarti mai più, o dirmi tutta la verità e non avere castighi, anzi il per­dono per quello che m'hai fatto. Bada di non mentire, voglio sapere la verità ». Lei da principio si tirava indietro; facessi quello che volevo, non sapeva niente lei. Ma quando feci il nome di Eratostene e dissi che era lui che veniva a trovare mia moglie, cedette, credendo che io sapessi dav­vero ogni cosa. Allora cadde alle mie ginocchia e, avuta la pro­messa che non l'avrei punita, cominciò a confes­sare: prima che egli l'aveva avvicinata al funerale, poi com'essa finì per parlarne a mia moglie, e che mia moglie col tempo acconsentì a vederlo; e come lui di notte penetrava in casa, e che mia moglie, alla festa di Demètra, mentre io lavoravo in campagna, era salita al tempio con la madre di lui, e del bambino che era obbligata a punzec­chiare. Insomma mi confessò ogni cosa. Quando ebbe finito: « Non fiatare con nessuno - le dissi -o io non manterrò la mia promessa. Ora devi mostrarmeli sul fatto, le parole non bastano: vo­glio avere le prove ». Ci mettemmo d'accordo. Bastarono quattro giorni, o cinque. E non fu ne­cessario ricorrere a una trappola: anzi voglio dirvi che cosa feci quel giorno. Sostrato è un mio caro amico. Lo incontrai che tornava dai campi dopo il calar del sole. Pensai che in casa a quell'ora non avrebbe trovato una cena decente e lo invitai da me. Arrivati a casa, salimmo al piano di sopra e cenammo insieme. Quando fu bello sazio, lui se ne andò e io mi misi a letto. Ma Eratostene, o giudici, entra in casa; la serva viene a svegliar­mi: « E' giù! » mi dice. Allora le ordino di stare attenta alla porta, scendo da basso ed esco in punta di piedi in cerca di amici... per avere i testimoni, come prescrive la legge... molti non erano in casa, certi neppure in città. Con quelli che trovai mi misi in marcia; alla prima osteria prendemmo delle torce ed irrom­pemmo in casa dall'uscio tenuto aperto dalla serva. Spinta la porta della stanza, i primi entrati lo vedono ancora coricato con mia moglie, gli altri ritto sul letto, nudo. Allora io, o cittadini, con un pugno lo sbatto per terra, gli torco le mani dietro la schiena, lo lego e gli domando perché veniva ad oltraggiarmi in casa mia. E lui ammetteva il torto, ma pregava e scongiurava di non ammaz­zarlo e mi offriva dei soldi. «Non io ti uccido - gli dico - ma la legge della città che tu hai violato per i tuoi piaceri, disono­rando mia moglie e mio figlio ». Così, o giudici, s'è avuto quello che la legge stabi­lisce per i delinquenti come lui; e non è vero che mentre lo colpivo ha abbracciato l'altare dome­stico; avrei avuto pietà degli dèi... Ma i miei accusatori, lo dicono a posta per com­muovervi, o giudici, per aizzarvi contro di me, che ho esercitato un mio diritto. Ho finito. (Gong).

FINE