Due fratelli rivali

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I DUE FRATELLI RIVALI

Commedia in tre atti

di GIAN BATTISTA DELLA PORTA

Riduzione di Gerardo Guerrieri

PERSONAGGI

DON IGNAZIO DI AMENDOZA

SIMBOLO, suo cameriere

DON FLAMI­NIO DI MENDOZA, fratello di non Ignazio

PANIMBOLO, suo cameriere

LECCARDO, parassito

MARTEBELLONIO, capitano

CARIZIA, giovane figlia di Eufranone e Polissena

EUFRANONE, nobile decaduto

POLISSENA, sua moglie

DON RODRIGO, viceré della provincia e zio di don Igna­zio e di don Flaminio

ANGIOLA, vecchia parente di Carizia

CHIARETTA, fantesca

AVANZINO, servo

ALCUNI BIRRI

L'azione si rappresenta a Salerno.

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

QUADRO PRIMO

(Una piazza di mattino. Sono in scena don Ignazio e Simbolo).

Ignazio                          - E' possibile, o Simbolo, che avendoti racco-mandato di tornar presto, mi faccia tanto penar per la risposta?

Simbolo                         - A far molti servigi, occorre molto tempo, né potevo volare.

Ignazio                          - In tanto tempo avrei .camminato tutto il

mondo. Simbolo           - Col cervello, non con le gambe!

Ignazio                          - Non farmi penare di nuovo ad ascoltare le tue scuse. Che hai fatto?

Simbolo                         - Sono stato al maestro delle vesti...

Ignazio                          - Quello che manco m'importa!

Simbolo                         - ...Da don Flaminio vostro fratello, per sapere se ha concluso il matrimonio con la figlia del .Conte di Tricarico...

Ignazio                          - Questo m'importa meno del primo.

Simbolo                         - -E poi sono stato da madama Angiola...

Ignazio                          - Ebbene?

Simbolo                         - ...ma era in chiesa; allora per avanzar tempo agli altri negozi non l'aspettai.

Ignazio                          - Ma dovevi lasciare tutto per aspettare lei.

Simbolo                         - Che ne sapevo io? Se potessi indovinare il vostro cuore, sareste servito senza che me lo diceste. Ma voi vi affidate a me soltanto per danaro, argento e gioie... E non potete fidare parole e segreti?

Ignazio                          - Bisogna che tu mi aiuti, Simbolo. Mi oc­corre il tuo consiglio.

 

Simbolo                         - Sono qui, vi offro fedeltà e franchezza.

Ignazio                          - Ho celato finora il desiderio del mio cuore, ma or sono risoluto a fidarmi di te. Un segreto così grande sia custodito da te sotto un onorato silenzio.

Simbolo                         - Fidatevi di me, don Ignazio.

Ignazio                          - Io ardo d'amore, Simbolo. E' così bella che tu non sai se la bellezza fa bella lei o lei bella la bel­lezza. Uno desidera essere tutto occhi per mirarla, tutto orecchi per ascoltarla.

Simbolo                         - Così avviene, signore. Ma da quanto tempo è cosi? , .

Ignazio                          - A carnevale. (Pausa) Ricordi i giuochi ordinati in piazza da mio zio nominato Viceré? Fra le gen­tildonne radunate in sala, vennero due sorelle. Fu come un folgore che, lampeggiando, offuscò la bellezza di tutte le altre. Callidora era stupenda, ma di fronte a Carizia la sua bellezza impallidiva. Carizia...! Lo stu­pendo spettacolo rapì gli animi di tutti. Soltanto si sen­tiva un tacito mormorio. Furtivamente guardai gli occhi di Carizia, così vaghi a riguardarsi, per quanto punges-sero... Ma quanto più pungevano, tanto più ti sentivi di rimirarli: come fossi legato con una fune!

Simbolo                         - E vostro fratello dov'era?

Ignazio                          - Lì accanto. Abbiamo sempre gareggiato, dac­ché siamo nati, di lettere, scherma, cavalcare; ma soprattutto nell’amoreggiare. Ci siamo fatta una professione di torre l'innamorata dell'altro...

Simbolo                         - Ma se avvenisse cosi anche adesso?

Ignazio                          - Si accenderebbe un tale odio fra noi, che ci ammazzeremmo senza pietà.

Simbolo                         - 'Non vide nulla, speriamo!

Ignazio                          - No, perché Io presi per mano e lo condussi nello steccato, sapendo che mi osservava. O strana e mai più intesa battaglia! Appena entrammo nello stec­cato, i tori ci vennero incontro furiosi e spiranti fuoco dalle narici... Ne stesi e ne uccisi molti, ma l'amore com­batteva con me, come io con i tori. Il toro mi feriva nella pelle e il popolo ne aveva compassione: ella con i giri degli occhi suoi mi fulminava nell'anima, ma ninno aveva compassione di queste ferite senza sangue. Alla fine, io rimasi vincitore del toro, ella vincitrice di me.

Simbolo                         - Faceste così gagliarda resistenza agli scontri dei tori, e non poteste resistere ai molli sguardi di una

vacca?

Ignazio                          - Ritrassi don Flaminio dallo steccato fin­gendomi stanco, e ci riducemmo a casa. Che notte passai!... col cuore pieno della bella immagine, degli occhi dolci di Carizia!

Simbolo                         - Ma chi era infine?

Ignazio                          - Intesi poi la mattina che era una gentil­donna di casa Della Porta, nobilissima, ma povera, perché Eufranone suo padre aveva seguite le parti del principe di Salerno.

Simbolo                         - Se state così invaghito di costei, perché trattar matrimonio con la figlia del Conte di Tricarico?

Ignazio                          - Per ingannare mio fratello! Lo fo trattare matrimonio con la figlia del Conte di Tricarico, perché non s'immagini ch'io amo costei.

Simbolo                         - E che avete deliberato di fare?

Ignazio                          - Torla per moglie.

Simbolo                         -  'Ci avete pensato bene?

Ignazio                          - Come, non ci ho pensato?

Simbolo                         - Chi prende moglie, cammina sulla strada del pentimento, pensateci bene.

Ignazio                          - Ci ho tanto pensato, che a furia di pen­sare si è stancato lo «tesso pensiero.

Simbolo                         - Che sapete «e vostro fratello se ne con­tenta, o vostro zio, che vi vuol maritare con una figlia di grandi di Spagna? Poi, povera e senza dote!... Si sdegnerà con voi e vi priverà dell'eredità che Voleva lasciarvi. Un errore, in un matrimonio, si tira dietro l'odio di fratelli, zii e tutto il parentado.

Ignazio                          - Purché abbia costei per moglie, perda pure l'amore del fratello, dello zio, la roba e la vita! Che mi «uro io di roba? Ricchezze ne ho tante che bastano per me e per lei. E se, trattenendomi, don Flaminio mi previene, e se la prende per moglie? Dovrò uccidermi con le mie mani dalla disperazione. Ho così deliberato, e le cose deliberate si devono subito eseguire.

Simbolo                         - Ecco don Flaminio vostro fratello. Presto, presto, scappiamo via, che non ci vegga qui. (Via).

Flaminio                        - (entrando con Panimbolo) Insomma, Panimbolo, quando vedesti Leccardo che ti disse?

Panimbolo                     - Voialtri innamorati volete sentire una risposta mille volte.

Flaminio                        - Che ti disse, ho detto.

Panimbolo                     - Quello che disse l'altre volte.

Flaminio                        - Non puoi ridirmelo? Non vuoi dare un gusto al tuo padrone?

Panimbolo                     - Cose di vento.

Flaminio                        - E udire cose di vento mi piace.

Panimbolo                     - Che Carizia non stava di voglia, che ra­gionava con la madre, che c'era il padre, che venne la zia, sopraggiunse la fantesca, che quando potrà parlerà, farà e cose simili. Quel Leccardo è un furfante, e per essere pasteggiato e pasciuto da voi di buoni bocconi, pasce voi di bugie e di vane speranze.

Flaminio                        - Ben conosco che è un bugiardo, pure sento da lui qualche refrigerio e conforto.

Panimbolo                     - Bel conforto e refrigerio!

Flaminio                        - Il sentir ragionare di lei, dei suoi pen­sieri, della sua casa, mi dà non poca felicità. Leccardo mi ha promesso di darle una mia lettera.

Panimbolo                     - O, Dio, non v'è stato affermato per  tante bocche di persone di credito che non esiste donna in Salerno più onesta di Carizia? Voi in tanto tempo che la servite, non ne avete avuto un buon viso. Invano spe­rate di comprarla.

Flaminio                        - Tutto questo so bene, ma che vuoi che faccia? Così vuole chi può più del mio potere.

Panimbolo                     - Chetatevi e abbiate pazienza.

Flaminio                        - Lascia la pazienza ai santi o agli animi vili.

Panimbolo                     - E voi amate...! Che bell'amore! Adesso non vi godete niente, e al futuro non avete nessuna spe­ranza.

Flaminio                        - Almeno, se non ama me, non ama don Ignazio: chè se io sospettassi questo, le mie pene sareb­bero troppo aspre e insopportabili.

Panimbolo                     - Io temo che don Ignazio, avendo tentata la via che voi tentate, non sia riuscito, e ora ne tenti una più riuscibile.

Flaminio                               - Don Ignazio non vi pensa, né l'ha vista!

Panimbolo                     - Son speranze con che ingannate voi stesso.

Flaminio                        - Quel giorno spiai ogni gesto di lui, eti posso dire che non si accorse di niente. Dove girava gli occhi li giravo io, dove mirava miravo io, non parlava senza che io lo ascoltassi. Acciocché non si accorgesse di lei, lo condussi allo steccato, e dopo il gioco cenammo e ce ne andammo a letto, ragionando di tutto salvo che di quelle giovani. Non sono così goffo come pensi. E Lec­cardo non me lo avrebbe riferito, se avesse inteso qualche cosa?

Panimbolo                     - Il parassita Leccardo? State fresco! Di ventiquattr'ore del giorno sta ubriaco e dorme più di trenta! Macché! Vostro fratello può stare senza fare al­l'amore quanto il cielo senza stelle o il mare senza tem­pesta.

Flaminio                        - Ma se egli sta invaghito morto della figlia del Conte di Tricarico e mi ha fatto mezzano del matri­monio! La sposerà con una dote di quarantamila du­cati, ma quello non vuol darne più di trentamila.

Panimbolo                     - Ma come può starne invaghito morto, se è brutta come una scimmia? Non credo che la spose­rebbe per centomila! Senza dire poi che egli se li giuoca in mezz'ora diecimila ducati! Dubito che dica questo per ingannarvi; e non aspiri lui a possedere Carizia.

Flaminio                        - Dio non voglia! Che se per cortigianucce da nulla ci siamo azzuffati insieme, pensa che faremmo ora! Questa ingiuria io la sopporterei da ogni uomo tranne che da mio fratello!

Panimbolo                     - Da quel giorno della festa è divenuto un altro. Parla poco, sta malinconico, mai ride, mangia e si dimentica di mangiare, la notte non dorme, sta solitario e sospira, s'affligge e si cruccia tutto.

Flaminio                        - Io ho osservato in lui tutto il contrario.

Panimbolo                     - Perché si guarda da voi! Non lo vedo mai ridere e stare allegro altro che con voi. Di più: non è mai giorno che non passi mille volte dinanzi alla casa di lei.

Flaminio                        - Io non ve l'ho incontrato mai.

Panimbolo                     -  Deve tener le spie, per non esservi colto da voi. Giuro che quante volte m'è accaduto passarvi, sempre ve l'ho incontrato.

 

 

 Flaminio                       - Su, fammi questo piacere. Il cuoco ti apparecchierà tutto quello che vorrai.

Leccardo                       - Bè, voglio ingannarli per amor vostro! (Via).

QUADRO SECONDO

                                      - (Interno della casa di don Ignazio, da cui si esce sulla strada).

Ignazio                          - Che dici, Simbolo?

Simbolo                         - Incontrandomi con don Flaminio, mi do­mandò con grande istanza di voi, dicendo che voleva parlare a voi solo-. Mi lascia, e m'incontro con Panimbolo, il quale altresì mi domandò di voi. Pregandolo mi dicesse che «osa chiedeva da voi, mi disse in gran se­greto che don Flaminio aveva concluso col Conte di Tricarico il matrimonio della figlia, e che vi vuol dare i quarantamila ducati purché foste andato a sposarla questa sera...

Ignazio                          -  Ohimè, che pugnale è questo che mi spingi nel cuore?

Simbolo                         - Io, acciocché non vi trovasse prima di me e non vi cogliesse all'improvviso, corsi di qua, di là per trovarvi, ma d'un tratto mi viene in mente che sia un fingimento di vostro fratello di scoprir se siete inna­morato di quella donna...

Ignazio                          -  Buon pensiero, per la mia vita!

Simbolo                         - Allora me ne vo in casa del Conte di Tricarico, non vedo gente, né apparecchi di nozze, né in cucina cuochi e sguatteri... Domando di don Flaminio, e mi rispondono che è più d'un mese che non l’han ve­duto... Veggo il cappellano: entro a ragionare con lui, e mi dice che il Conte è andato a Tricarico a caccia, e che del matrimonio più non si tratta, anzi stima che don Flaminio vuol dargli la baja.

Ignazio                          -  Oh, Simbolo, tu sia benedetto...! M'avevi tolto l'anima, ora me l'hai riposta in corpo!

Simbolo                         - Ordunque, venendo don Flaminio a farvi la proposta, acciocché lo inganniate e confermiate nel suo Sproposito, mostrate grandissima allegrezza, e accettate l'offerta. E se dice per questa sera, voi dite per questa sera.

Ignazio                          - Questo non lo farò mai, che non mi baste­rebbe il cuore.

Simbolo                         - Sarà forza che lo facciate!

Ignazio                          - Mi farei uccidere piuttosto.

Simbolo                         - Sta bene. E così vostro fratello s'accorgerà che state innamorato di Carizia e, precipitoso com'è, vi preverrà a torsela in moglie….!

Ignazio                          - Dubito di non incorrere in qualche incon­veniente peggiore.

Simbolo                         - Che ne può venir di male? Ecco Madonna Angiola che viene a casa.

QUADRO TERZO

                                      - (Scendono in istrada, incontro ad Angiola)..

Simbolo                         - (chiama) Signora Angiola...?

Angiola                         - (a parte) Gesù, sono inciampata in don Ignazio, che ho cercato di fuggir con ogni industria...! Ora mi parlerà di Carizia mia nipote, e non si sa che proposte poco oneste mi vuol fare.

 

Ignazio                          - (inchinandosi) Signora Angiola...

Angiola                         - Eccomi al vostro comodo.

Ignazio                          - Da gran tempo desidero, ragionar con voi di cosa importantissima.

Angiola                         - Ben vi prego a non trattarmi di cosa meno che onesta, da quel cavaliere che voi siete.

Ignazio                          - Non farei tanto torto alla vostra bontà, ne a me stesso.

Angiola                         - Dio voglia che siano vere le vostre costu­mate parole!

Ignazio                          - Dal giorno, madie mia, che vidi la bellezza di Carizia vostra nipote, non so se sia giorno felice o infelice, ho impiagata l'anima a tal modo che, se voglio guarire...

Angiola                         - Signor don Ignazio, so dove va a finire il vostro -ragionamento...

Ignazio                          - Non ad altro che ad onesto e onorato fine.

Angiola                         - Carizia, mia nipote, è giovane, ma nasconde sotto quella sua età acerba, virtù matura. E sebbene povera, l'onore non le fa conoscere il bisogno, perché si stima ricca d'onore e di stessa. Non sperate che il falso splendore dell'oro le appanni gli occhi, perché la muo­verete più a odio che ad amarvi.

Ignazio                          - Signora, ho più timore a vedere i suoi lumi turbati di sdegno, che a perdere la vita! Vi giuro che l'amo come sposo, e non come lascivo amante.

Angiola -                       - Chi ama la bellezza e non l'onore, non è amante, ma inimicissimo tiranno. Temo che mi propo­niate un infame amore, sotto un'onorata richiesta di nozze.

Ignazio                          - Oh, Dio, non vedete che ho gli occhi pieni di lacrime, e son ridotto all'ultimo termine della vita? Che se non voglio morire, sono costretto a toglierla per moglie?

Angiola                         - Ditemi, di grazia, che desiderate da lei?

Ignazio                          - Pregarla che mi accetti per isposo, se non sdegna sì basso soggetto.

Angiola                         - Sapete meglio di me che convien fare questo ufficio col padre e non con lei, perché non è lecito ad una donzella disporre di se stessa.

Ignazio                          - Non cerco altro, signora, da lei, in ricom­pensa dell'amore che le porto, che dirglielo con la mia bocca, e con le mie orecchie sentire le sue parole... pa­scere per quel breve momento i miei occhi, dopo così lungo digiuno... Dal giorno della festa, non mi fu pos­sibile rivederla!

Angiola                         - Quel che mi chiedete non ha molto dell'onesto, pure vedrò d'indurla. Ragionando di voi, ho visto nel suo animo non so che tacito consentimento. Trat­tenetevi qui intorno: entro in casa. (Via).

Ignazio                          - Che ne dici, Simbolo?

Simbolo                         - A una dura e faticosa impresa vi siete posto.

Ignazio                          - Per lei tutte le fatiche mi sono care, né si vinsero mai grandi imprese senza fatica.

Simbolo                         - Perdete il tempo.

Ignazio                          - E' tempo perduto l'acquisto di un sì gran tesoro?

Simbolo                         - Quale tesoro? L'amore di una donna che cambia di momento in momento.

Ignazio                          - Sì... quello delle vili, delle volgari! Ma quelle di reale animo, come costei, amano sino alla morte.

Simbolo                         - Tutte le donne sono uguali!

Ignazio                          - Tu poco te ne intendi. Non ingiuriare lei, perché ingiurii me. Taci.

Simbolo                         - Taccio.

Ignazio                          - Fuggono le tenebre, ecco l'aurora che precede il sole, già vedo spuntare i raggi: la bella mano leggiadramente alza la gelosia... Oh, felici occhi miei, degni di tanto bene!

QUADRO QUARTO

                                      - (Appare, alla finestra, Carizia).

Carizia                           - Signor don Ignazio, poiché la zia Angiola mi fa fede per l'onestà della vostra richiesta, non ho voluto mancare: che comandate?

Ignazio                          - Io comandare, che mi terrei il più fortunato nomo che viva, se fossi il minimo vostro schiavo...? Voi sola avete l'imperio di ogni mia volontà, a voi sola sta imporre e rompere le leggi.

Carizia                           - Vi prego, spiegatemi in breve il vostro desi­derio.

Ignazio                          - Signora della mia vita, non desidero altro che essere vostro sposo. Perdonate al mio ardire, se pre­sume tanto alto.

Carizia                           - Caro signore, conosco bene la disuguaglianza dei nostri stati e la mia umile fortuna. Non posso sperare uno sposo sì ricco e valoroso; cercatene un'altra che sia più meritevole d'un vostro pari, e lasciate me poverella che umilmente nel mio stato mi viva. So che lo dite per prendervi giuoco di me: la mia dote e la mia ricchezza sono nella mia onestà, e nella povertà le custodisco.

Ignazio                          - Troppo sontuosa è la vostra dote, signora... Più mostrate disprezzarla e più l'ingrandite. Le vostre virtù sono così inestimabili che non si possono con pa­role lodare, ma con atti di riverenza, tacendo, si rive­riscono. Ma voi lo dite perché io ne abbia scorno. Lo meriterei, se non venissi così ricco d'amore... Basterà a comprare i vostri infiniti meriti l'infinito amore che vi porto?

Carizia                           - In me non cadono tanti meriti e non trovo parole per rispondere. Ma vi risponde tacendo il cuore.

Ignazio                          - Signora, ecco un anello nel cui diamante sono scolpite due fedi: tenetelo per amor mio. Il dono è piccolo, ma non l'affetto di chi lo dona: è ben degno di voi.

Carizia                           - Il dono è ben degno di lui, ma ben sapete che alle donzelle non è permesso ricevere doni.

Ignazio                          - Signora, non fate tanto torto alla vostra no­biltà, né tanto torto a me. Non rifiutate il primo dono di uno sposo: accettatelo.

Carizia                           - Ebbene, accetto il vostro dono e me lo pongo in dito. Non potendo donarvi nessun dono degno di voi, vi dono me stessa. E questo anello, come cosa mia, pegno della mia fede, ve lo ridono.

Ignazio                          - Sebbene ne sono indegno, Amore mi sforza ad accettarlo. Che vi darò in cambio, se non tutto me stesso?

 Cabizia                         - Comandate altro? E' tempo che rientri.

Ignazio                          - Vi prego, nel breve spazio che non siamo nostri, fate buona compagnia al mio cuore... Esso resta con voi; né mai si partirà da voi. Ricordatevi di me.

Carizia                           - Dimenticandomi di voi, mi dimenticherei di me stessa.

Ignazio                          - Amatemi come amo voi.

Carizia                           - Troppo vile è chi si lascia vincere in amore. Se piacerà a Dio che siamo nostri, allora faremo con­tesa chi amerà più di noi. E io non mi lascerò avanzare da voi. Addio! (Si toglie dalla finestra).

Ignazio                          - E' tramontato il mio sole, che solo può far sereno il mio giorno. O finestra, è sparita la tua bel­lezza! O Dio, che cosa è nel cielo più bello di lei? Tutti gli splendori delle stelle sono chiusi nel suo bel volto. Se prima ardevo, ora avvampo... Non l'avevo vista da tanto tempo, e i carboni erano sopiti sotto la cenere. Ma ora han preso vigore, e mi hanno acceso nell'anima un tale incendio, che son tutto di fuoco!

Simbolo                         - Poiché siete sazio della sua vista, andia­mocene.

Ignazio                          - Che sazio?... Gli occhi miei se l'han bevuta tanto, che son tutto ebbro d'amore. E' sparita e mi sento più assetato che mai.

Simbolo                         - Se vi dolete per la felicità, che farete nelle disgrazie?

Ignazio                          - Questa felicità è presagio di male più acerbo. Amandola così non riamato, quanto l'amerò riamato? Dimmi che ti pare di lei?

Simbolo                         - Va' a sapere le donne! E' bella!...

Ignazio                          - Simbolo, sapresti indovinare in che parte della casa ella è ora?

Simbolo                         - Che posso sapere io?

Ignazio                          - Vedi?... Dove l'aria è più tranquilla, dove tutto è gioia, ivi è lei.

Flaminio                        - (entrando con Panimbolo e Avanzino) Oh, signor don Ignazio, siate il ben trovato!

Ignazio                          - E voi il benvenuto, carissimo fratello!

Flaminio                        - Dovete darmi una buona mancia, che me la son guadagnata bene

Ignazio                          - Non so che offrirvi in particolare: siete pa­drone di me.

Flaminio                        - Veramente lo merito, perché ci ho faticato.

Ignazio                          - Mi sottoscrivo a quanto mi tasserete.

Angiola                         - (alla finestra) Certo parlano del matrimonio di Carizia.

Ignazio                          - Ebbene, dite di grazia, non mi tenete più sospeso.

Flaminio                        -  E' concluso il vostro matrimonio!...

Angiola                         - (c. s.) Ho indovinato.

Ignazio                          - Con la figlia del Conte di Tricarico?

Flaminio                        - Già! E' contento di darvi i quarantamila ducati, purché l'andiate a sposare questa sera.

Ignazio                          - O mio caro fratello, o carissimo don Fla­minio, più desiderata novella non avreste potuto darmi nella mia vita!...

Angiola --------------- - (c. b.) Ohimè, che cosa intendo?...

Flaminio --------------- - Ma dovete sposarla questa sera!

Ignazio ---------------- - E' un patto che non potrò osservare.

Flaminio                        - Perché?

Ignazio                          - Perché non potrei trattenermi dal desiderio di andare a sposarla ora.

Anciola                         - (c. s.) Uomini traditori!

Flaminio                        - Ma non eravate innamorato di un'altra?

Ignazio                          - No. Non mi ricordo di aver mai amato così ardentemente come Aldonzina sua figlia, che sebbene ho amato molto, è stato più d'amor finto che vero, e mi sono sempre dilettato di burlare or l'una or l'altra. Ma an­diamo a sposarla, corriamo, caro fratello!

Flaminio                        - Ma l'appuntamento è stato per la sera che viene.

Ignazio                          - Non mi far struggere così a poco a poco... Dubito che fino a sera non rimarrà più nulla di me.

Flaminio                        - Ma non avrà la casa in ordine, gli daremo disturbo andando così all'improvviso. Volete perdere di reputazione? Però abbiate pazienza per un po' di tempo.

Simbolo                         - (a Ignazio) Forza, che abbiamo vinto!

Ignazio                          - Credo di non potervi ubbidire.

Flaminio                        - Non sarà in casa...

Ignazio                          - Mandiamo a vedere.

Flaminio                        - Panimbolo, va' a casa del Conte.

Ignazio                          - Avanzino, vieni qua, va' a casa del Conte di Tricarico, ,vedi se è in casa.

Flaminio                        - Ma se c'è, andrò a avvisarlo io prima.. . Verrò a trovarvi e ci andremo insieme.

Ignazio                          - Dove ci troveremo?

Flaminio                        - A casa nostra.

Ignazio                          - Addio! (Escono tutti, tranne Angiola).

Anciola                         - Oh, Gesù, che ho inteso...! Oh, Gesù, che ho veduto...! E' possibile si trovi tanta poca fede negli uomini? Chi avrebbe creduto che don Ignazio, dopo tante lacrime e promesse, non fosse tutto fuoco per Carizia? Andate, donne, e credete a quelle simulate parole, ai finti sospiri, alle lacrime traditrici...! Muovetevi a pietà di loro, credete ai loro giuramenti e spergiuri! Come si salverà mai onor di donna? Oh, Gesù...! Non le narrerò nulla di ciò... A vedersi così spregiata, si morirebbe di passione. (Chiude la finestra).

QUADRO QUINTO

                                      - (Stessa via davanti alla casa di Carizia).

Eufranone                     - (solo) Veramente chi ha un piccolo orto non fa patir di fame la sua famiglinola. Di qua erbicine per l'insalata e la minestra, legna per il fuoco, e vino, che se non basta per tutto, almeno aiuta a soffrire più legger­mente il peso della misera povertà. Ho colto nn'insalatuccia, che « chi mangia un'insalata, non va a letto senza cena ».

Ignazio                          - (entrando) Eufranone carissimo, Dio vi dia ogni bene!

Eufranone                     - Questa speranza ho in lui.

Ignazio                          - Come state?

Eufranone                     - Non posso star bene, così povero come sono.

Ignazio                          - Servitevi della mia roba, è il maggior ser­vigio che mi possiate fare. Copritevi.

Eufranone                     - E' mio debito stare così.

Ignazio                          - Non usate cerimonie.

Eufranone                     - Voi mi siete signore.

Ignazio                          - Vi prego, trattiamo alla libera.

Eufranone                     - Orsù, per ubbidirvi. (Fra sé) Ma che vuole costui? Mi fa entrare in sospetto.

Ignazio                          - Sono: venuto a trovarvi.

Eufranone                     - Potevate mandar a chiamarmi, che sarei venuto volando.

Ignazio                          - Sono molti giorni che desidero esservi presente... Siete davvero assai onorato e dabbene.

Eufranone                     - La grazia vostra.

Ignazio                          - Vostro merito.

Eufranone                     - Non son degno di tanta cortesia.

Ignazio                          - Siete degno di più: io vi chiedo la vostra figliuola.

Eufranone                     - Signore, credete forse che essendo io un povero gentiluomo, venda l'onore della mia figliuola? Veramente non merito tanta ingiuria!

Ignazio                          - Non ho detto per farvi ingiuria. Ve la chiedo per legittima moglie, se mi credete degno.

Eufranone                     - Voi siete ricco e di gran lignaggio, ma non dovete burlare un povero gentiluomo e un vostro servitore.

Ignazio                          - Mi tolga Iddio ogni felicità, se non ve la chiedo dal profondo del cuore! Non prenderò mai altra sposa che Carizia.

Eufranone                     - Signore mio caro, so bene quanto gli animi giovanili siano volubili e leggeri, e appena gii montano i capricci alla testa si vogliono scapricciare, ma, passato l'umore, restano come se non ne fosse mai stata parola. Non vorrei che in Salerno si spargesse fama che mi avete chiesto la figlia, che quando si parla di nozze, dicono son fatte! son fatte! Ma se poi per qua! che disgrazia non si facessero, e la mia figliuola restasse oltraggiata nell'onore, voi mi togliereste quello che non potreste più restituirmi. Voialtri signori ricchi stimate poco l'onore dei poveri, e noi poveri, non avendo altro che l'onore, lo stimiamo più che la vita. Perciò vi prego di ammogliarvi con le vostre pari e lasciate che noi stiamo coi nostri.

Ignazio                          - Eufranone mio carissimo, con quanto do­lore ascolto le vostre parole... Mi pungono nel vivo del cuore! Ma non merito che mi tacciate di leggerezza. Il mio amore è risoluto e invecchiato  nella mia anima.

Eufranone                     - Sentite : pensateci su sei mesi, prima. Se dura, allora chiedetemela. Vi do la mia fede di serbarla per voi sino allora.

Ignazio                          - Sei mesi star senza Carizia! Potrei piuttosto vivere senza la vita! Sapete che per l'amante non c'è peggior nemico che l'indugio!

Eufranone                     - Ecco l'impeto giovanile! Più è violento, più presto s'intiepidisce.

Ignazio                          - Ogni parola che vi esce di bocca èun cane rabbioso che mi straccia il petto. Il mio amore è im­mortale, e se stimate leggera la mia fedeltà, la vedrete fermissima!

Eufranone                     - E' contento vostro zio del matrimonio? E i vostri parenti?

 

Ignazio                          - Farò che si contentino.

Eufranone                     - Fate che si contentino prima, poi faremo i! matrimonio.

Ignazio                          - Che temete?

Eufranone                     - Se non si contentano, inventeranno qual­che modo per disturbare le nozze, e verrò a perdere quel po' d'onore che mi è rimasto.

Ignazio                          - Oh, Dio, quanti sospetti e quante paure!

Eufranone                     - Chi poco ha, molto stima e molto teme. Ma voi sapete del mio infortunio? Che non solo non ho da dar dote ad un par vostro, ma nemmeno ad un povero come me?

Ignazio                          - So della vostra disgrazia, ma ho sempre stimato bassi e vili quelli che si son voluti arricchire con le doti delle mogli. Prendo la vostra destra, e non la lascerò mai se non me la promettete.

Eufranone                     - Ho timore... Non so che nuvolo mi sta davanti.

Ignazio                          -  Eufranone padre mio, vi supplico, datemi il vostro consenso-, non mi fate fare qualche pazzia! Sono risoluto a sposarla anche se fossi sicuro di perdere roba, vita, onore e tutto.

Eufranone                     - Signore, mi fo vincere dalla vostra osti­nata cortesia. Ecco la mano in segno di amicizia e di parentado. Ma non ho dote da darvi.

Ignazio                          - Ma anche se voleste darmela, non la vorrei! So bene di non meritare tanta dote quanta ne porta con se!

Eufranone                     - E quando venite a sposarla?

Ignazio                          - Domani all'alba.

Eufranone                     - Domani all'alba?

Ignazio                          - Sia tutto pronto per quell'ora.

Eufranone                     - Si fera come comandate.

Ignazio                          - Voglio che si faccia una festa bandita; si conviti tutta la nobiltà di Salerno, si adorni la sala di razzi, si faccia un solenne banchetto, si adorni la sposa di gioie, perle e drappi d'oro! E non lasciate indietro alcuna cosa che possa dire la mia felicità.

Eufranone                     - Mi sarà un po' disagevole far questo...

Ignazio                          - Provvederò io a tutto. Vi manderò il mio cameriere Che preparerà quanto bisogna. Addio! (Via).

Eufranone                     - Andate in buon'ora! (Fra sé) Oh, Dio, che ventura è questa!

Polissena                       - (esce sulla porta) Compagno mio, che c'è di nuovo?

Eufranone                     - Buone novelle.

Polissena                       - Ma non per noi.

Eufranone                     - Perché no?

Polissena                       - Siamo così avvezzi alle sciagure che la fortuna, se ci volesse favorire, non troverebbe la via.

Eufranone                     - Abbiam maritata Carizia!

Polissena                       - E con chi?... Con quel dottore della ne­cessità, nostro vicino?

Eufranone                     - Con uno meglio!

Polissena                       Col capitano Martebellonio quel bugiardo vantatore?

Eufranone                     - Con un gentiluomo!

 Polissena                      - Quel gentiluomo poverello che ce la chiese l'altro giorno? Che vai nobiltà senza denari?

Eufranone                     - Non l'indovineresti mai!

Polissena                       - Dimmelo, marito mio, di grazia, non, mi fare così struggere dal desiderio.

Eufranone                     - Non vo' farti più penare: con don Ignazio di Mendoza.

Polissena                       - H nipote del Viceré? Quello che com­battè coi tori?

Eufranone                     -  Quello!

Polissena                       - Marito mio, perché vuoi beffarmi e ralle­grarmi con false allegrezze? U piacere che mi scorreva per le vene s'è già raffreddato e gelato.

Eufranone                     - Giuro per la tua vita che lo dico sul serio! 

Polissena                       - E chi ha trattato il matrimonio?

Eufranone                     - Egli stesso. E non ha voluto partire da me, se non gliela promettevo.

Polissena ì                     - E quando la vide mai?

Eufranone                     - D giorno della festa a palazzo.

Polissena                       - O somma bontà di Dio, quanto sei gran­de! Tu sai, marito mio, che Carizia appena va fuori di casa il natale e la pasqua. I giorni che si preparava alla festa le venne un desiderio tale che non riposava di notte e di giorno, pregandomi che la conducessi. Siccome non aveva vesti e abbigliamenti da comparire fra gentildonne sue pari, le chiese in prestito alle sue conoscenti, chi una cosa, chi un'altra. Non potendo resistere a tante preghiere, ve la condussi. Chi avrebbe potuto pensare che di lì sarebbe nata la sua ventura?

Eufranone 1                  - Chi può penetrare gli occulti segreti di Dio?

Polissena                       - Oh, Iddio, che mai vieni meno a chi pone in te solo le sue speranze! Ella si è sempre raccomandata a te, e tu hai esaudito le sue preghiere!

Eufranone                     - Ho tanto giubilo al cuore che mi trae di me stesso!

, Polissena                     - I padri si attristano al nascere delle fem­mine, dicono che sono cattivo augurio e portano po­vertà e poco onore...

Eufranone                     - Ma molte hanno innalzato il parentado come costei. Essa è buona e obbediente verso il padre e la madre! -

Polissena                       - Mai si vide tanta bellezza e tanta bontà in una fanciulla.

Eufranone                     - E' una gran donna!

Polissena                       - Ci sono molte qualità che voi non sa­pete... Ma le lacrime di tenerezza non me le lasciano esprimere.

Eufranone                     - Va' e poni la casa in ordine.

Polissena                       - E con che la porremo in ordine?

Simbolo                         - (entrando) Signor Eufranone, il mio signor don Ignazio vi manda questi drappi di seta ed oro per le vesti di Carizia. Ora poi verranno i maestri che fati­cheranno tutta la notte, i razzi per la sala e le camere. In questa scatola sono collane, monili d'oro, perle, gioie ed il necessario per l'abbigliamento... Questo sacchetto di scudi per il banchetto, e che spendiate largamente, che egli supplirà a tutto. In sì poco tempo, si scusa, non ho potuto far di più.

Eufranone                     - Stimo il tutto piuttosto soverchio che manchevole. Egli ci onora non secondo il nostro poco merito, ma secondo le sue qualità.

Simbolo                         - Sebbene sono immeritevoli della sposa, egli dice che col tempo farà conoscere il suo affetto, e se comandate altro.

Eufbanone                    - Che ci ha onorati più del dovere, e al bisogno glielo faremo intendere.

Simbolo                         - Addio, signori!

Eufranone                     - Conviteremo domani tutti i parenti e la nobiltà di Salerno!...

Polissena                       - Salutatemi don Ignazio!

Simbolo                         - Vi servirò, vi servirò. (Via, con salame­lecchi).

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

QUADRO PRIMO

                                      - (Una piazza, sull'imbrunire).

Flaminio                        - (entrando con Panimbolo) Voglio far prima ogni sforzo per indurla ad amarmi. Se non mi riu­scirai la chiederò per moglie. Sono risoluto a non vivere senza di lei.

Panimbolo                     - Sì, ma se continuate a trattare per via del parassita, o con lettere, invece d'amarvi vibrerà con­tro di voi fiamme di sdegno, e si stimerà oltraggiata nell'onore.

Leccardo                       - (entra affannato).

Flaminio                        - Vedi Leccardo come sta allegro!

Panimbolo                     - Avrà bevuto soverchio e sarà ubriaco.

Leccahdo                      - (avanzando) Oh, signor don Flaminio, buona nuova! Non ti apporto più male novelle!

Flaminio                        - Che c'è?!...

Leccardo                       - Non sapete che è successo?

Flaminio                        - No...

Leccabdo                      - Come no?... Se Io sa tutta Salerno!,..

Flaminio                        - Non lo so, ti dico.

Leccabdo                      - Mi vuoi burlare!

Flaminio                        - Avanti, non mi tenere più in bilico e parla! 

Leccardo                       - Ho corso tanto che non ho più fiato...

Flaminio t                      - Prendi fiato, se no lo fai perdere a me.

Leccardo                       - Mi sento morire dalla stanchezza...

Panimbolo                     - Parla prima e mori quando ti piace!

(Leccardo                      - Quanto più ho voglia di dirlo e meno posso.

Flaminio                        - In nome di Dio, dimmelo in una parola!

Leccabdo                      - Non si può. E' una cosa troppo lunga e non si può esprimere in una parola.

Panimbolo                     - Mentre hai detto questo, avresti detto la metà.

 Leccabdo                     - La vostra Ca... Ca... Carizia...

Flaminio                        -  La mia Carizia?... Buono il principio, ma spediscila, di grazia!

Leccabdo                      - Sarà... vo... vostra!

Flaminio                        - Leccardo mio, parla presto, non mi fare così morire: come sarà mia?

Leccabdo                      - (boccheggiando) Dieci caraffe di vino per inumidire il palato e la gola, che stanno così secche che non può uscire una parola!...

Flaminio                        - Va bene, ne avrai venti, trenta, ma parla presto.

Leccardo                       - La vostra Carizia... è maritata...!

Flaminio                        - Maritata...?! Che tu sia malvenuto! E' que­sta tutta l'allegrezza che mi portavi...?! 

Leccardo                       - Non potrebbe essere migliore...

Flaminio                        -  E dove la fondi?

Leccardo                       - Non mi avete detto che non la desiderate per moglie? Quando il marito scassa la porta la prima volta, resta aperta per sempre: poi ci possono passare quanti vogliono senza far danno. Ecco, ve la godrete e io non sarò il malvenuto.

Flaminio                        - Anche se dovessi possederla per sempre, non soffrirei di veder Carizia in potere d'altri per un solo minuto. E con chi è maritata?

Leccardo                       - Entrato in casa, vidi che si preparava un grande apparecchio di un banchetto, con reale magnifi­cenza. Mandre di vitelle, some di capponi impastati, monti di cacio parmigiano... e il vino...! Uh, un diluvio!

Panimbolo                     - Vuol sapere con chi è maritata.

Leccardo                       - Bisogna che vi dica tutto per ordine.., Lascio i pastoni, i pasticci, i galli d'India...

Flaminio                        -  ...piccioni e simili, ma basta!

Leccardo                       - No. Non c'erano piccioni.

Flaminio                        - Oh, Dio, ma che crucifissione! Che vi fos­sero o non vi fossero, non me ne importa!

Leccardo                       - Importa sì che a un banchetto non manchi cosa alcuna, che anzi ci sia abbondanza di roba ben condita, preparata e posta a tavola con ordine e in tempo! 

Flaminio                        - Sudo sudor di morte.

Leccardo                       - Eccovi il mantello: fatevi vento, rinfre­scatevi!

Flaminio                        - Sarà finito questo apparecchio?

Panimbolo                     - Non è finito ancora...

Leccardo                       - Io, fingendo di aiutare i cuochi, adocchiai certe testoline di vitello...

Panimbolo                     - E te le mangiasti, va bene!

Leccardo                       - E come me le mangiavo: crude? Bisognava che prima fossero cotte.

Flaminio                        - Il malanno ti venga a te e alle tue chiac­chiere! 

Leccabdo                      - Se non mi lasciate parlare non finisco mai.

Flaminio                        - Parla, in tua malora-.!

Panimbolo                     - E finiscila presto!

Leccardo                       - Tacete mentre parlo! Mi accorgo che bol­liva una gran caldaia, e allora fingendo di stuzzicare il fuoco, vi butto dentro le testoline...

Flaminio                        - Lasciale dentro la caldaia! Cotte che fu­rono te le mangiasti e buon prò ti faccia!

Leccardo                       - No, venne l'altro cuoco, e si accorge che avevo buttate le testoline dentro la caldaia...

Panimbolo                     - Addio, è venuta un'altra persona!

Flaminio                        - Il parlare di uno era così lungo, ora è arrivato un altro!

Panimbolo                     - E sarà altro tanto!

Leccardo                       - Se non volete ascoltare, io taccio.

Flaminio                        - Eh, parla col diavolo! 

Leccardo                       - Non parlo col diavolo, io!

Flaminio                        - E parla con Dio!

Leccardo                       - Questo sì, in nomine Domini. Carizia è maritata con un parente del Viceré della provincia.

Flaminio                        - (minaccioso, fa per dar mano allo stocco) Se dici per burla, sta' attento alla tua anima! Sai il nome «lei marito?

Leccardo                       - Sì, ma non me ne ricordo, perché era troppo intricato.

Panimbolo                     - Ricordati bene!

Leccardo                       - ... Spedazio... Pignatazio... E' un nome che assomiglia allo spiedo e al pignatto, perciò me ne ricordo.

Flaminio                        - i ...Don Ignazio?!

Leccardo                       - Sì, sì, don Ignazio; ... Spedazio.

Flaminio                        - Mi hai ucciso... Ora sì, che m'hai portato lo morte nella lingua.

Leccardo                       - Credo di averla portata a me stesso...

Flaminio                        - Posso indovinare da questo la mia scia­gura: non vive sulla terra uomo più infelice di me!

Leccardo                       - Ma si può rimediare a questo male. Dicevano che le nozze si facevano domani all'alba.

Flaminio                        - Tanto poco tempo resta alla mia vita! Ah, dal giorno maledetto che la vidi, ho portato sem­pre questo sospetto con me... Come il condannato a morte ogni rumore che sente, ogni uscio che si apre, gli pare il boia che viene e gli adatta il capestro al collo: così ogni parola, ogni motivo di mio fratello mi pareva che me la togliesse! Ah, mai come adesso l'ho desiderata! che «mai si conosce il bene che quando si perde! ». Non basto, ne posso vivere: se no» mi ucciderà il dolore, mi ucciderò con le mie mani!

Panimbolo                     - Padrone: siete bene avvezzo ai casi della fortuna. Non siate ostinato; nelle cose impossibili biso­gna far buon cuore e abbandonare l'impresa, e prendere una risoluzione tanto onorata quanto necessaria.

Flaminio                        - Panimbolo, se sei così vile d'animo, non credere di avvilirmi. Non sono uso andare incontro alla fortuna, né restare vinto alla prima battaglia, né lasciar cosa intentata fino alla morte.

Panimbolo                     - Allora facciamo tutto il possibile che, almeno, dovendo morire, uno muore più contento. An­diamo in palazzo e informiamoci del fatto. Leccardo, non ti allontanare: va' e vieni! (Escono).

Leccardo                       - Credo che da questi due non sarò più me­dicato.

Martebellonio                - Olà, Leccarde..?

Leccardo                       - (a parte) Ci mancava il capitano Marte­bellonio! Ben trovato il bellissimo e valorosissimo capi­tano!

Martebellonio                - Buon prò ti faccia, Leccardo mio.

Leccardo                       - Che prò mi vuol fare quello che non ho mangiato ancora?

 Martebellonio               - Va' che la mattina non ti fai cogliere fuori di casa digiuno.

Leccardo                       - E voi adesso vi alzate, eh...? Quante bat­taglie stamattina?

Martebellonio                - Ho tardato un pochetto, che ho at­teso a certi dispacci...

Leccardo                       - Per chi?

Martebellonio                - Uno per Marte e uno per Bellona.

Leccardo                       - E chi è questo Marte? Chi è questa Bellona?

Martebellonio                - Non sai tu che Marte è il dio delle armi? E Bellona delle battaglie?

Leccardo                       - E che avete a che fare con loro?

Martebellonio                - Come, che avete a che fare? Sono suo figlio, e luogotenente delle armi e delle battaglie in terra, come eglino in cielo. Perciò il mio nome è Marte-Bellonio.

Leccardo                       - Già... E come non ci ho pensato prima...? E per chi gli mandate il dispaccio?

Martebellonio                - Per un mozzo di camera.

Leccardo                       -  Come...? Gli attaccate l'ali dietro per farlo volar nel cielo?

Martebellonio                - Gli attacco le lettere al collo, con un sacchetto di pane che basti quindici giorni, poi lo piglio per un piede e me lo giro tre volte per la lesta e l'arrandello nel cielo. Marte, che sta aspettando, come lo vede lo ferma e lo prende, se no se ne salirebbe fino alla sfera stellata.

Leccardo                       - E a che serve il sacco di pane?

Martebellonio                - Che non si muoia di fame per la via! Quando Marte, avendo inteso gli avvisi, lo rimanda giù, io vengo in piazza e lo ricevo nella palma, che se cadesse in terra, se ne andrebbe fino al centro del mondo.

Leccardo                       - Ma il mangiare pane solo lo ingozzava... E che beveva?

Martebellonio                - Beve un canchero che ti mangia!

Leccardo                       -  Ah, ah.,, questa è bella! Degna d'un par vostro!

Martebellonio                - Oggi ho riferito sulle battaglie che ebbi con la Morte. Ascolta...

Leccardo                       - Capitano, non saria meglio che andassimo a bere due voltarelle prima?

Martebellonio                - Il bere ti apporterebbe sonno. Sappi che mi trovavo in Mauritania, quando la Morte se la prese con Atlante, e lo maltrattava essendo lui oppresso dal peso del mondo. Non potendo io soffrire ingiustizie, gli tolgo il mondo da sopra le spalle e me lo pongo sulle mie.

Leccardo                       - E come sopportavano questo peso le vo­stre spalle?

Martebellonio                - Appena mi bastava a grattar la rogna. Alfine lo posi sopra questi tre diti e lo sostenni come un melone.

Leccardo                       - E quando voi sostenevate il mondo, dove stavate? Dentro o fuori del mondo?

Martebellonio                - Dentro, il mondo.

Leccardo                       - Ma se stavate dentro, come lo tenevate di fuori?

Martebellonio                - Volevo dire di fuori.

 

 Leccardo                      - Ma se stavate di fuori, eravate in un altro inondo e non in questo!

Martebellonio                - O sciagurato, stavo dove stava Atlan­te, quando anch'egli teneva il mondo!

Leccardo                       - Bene, bene, seguitate.

Martebellonio                - Madama Morte, sentendosi offesa ch'avessi dato aiuto al suo nemico, mi mirava in cagnesco con aspetto assai torbido ed aspro, e con schernevoli parole mi beffeggiava. La disfido a uccidersi meco, e ti basta sapere che a me toccò il primo colpo. Percossi la sua falce con un pugno così furiosamente, che non ne restò scheggia o briciola, indi la presi per la gola con due dita e l'uccisi come una quaglia; talché la morte non è più viva e io sono nel suoi ufficio. Ma scostati da me, che non ti strozzi, che ora mi sento imbizzarrito.

Leccardo                       - Ih... che occhi stralucenti!

Martebellonio                - Guardati che qualche fulmine non mi esca dagli occhi e non ti bruci vivo!

Leccardo                       - Ti vo' narrare una battaglia ch'ebbi con la Fame!

Martebellonio                - Che battaglia, miserello?

Leccardo                       - La Fame era viva, magra e sottile, che ap­pena aveva le ossa e la pelle, e soleva andare in com­pagnia con Carestia e Peste, che ne uccideva più lei che non la spada. Ci disfidammo insieme: fu campo di bat­taglia un lago di brodo grasso, dove nuotavano capponi, polli, porchette, vitelli e buoi scuoiati Qui ci tuffammo a combattere coi denti, e prima ch'ella si mangiasse un vitello, io tracannai due buoi e tutto il resto, e poiché ancora mi avanzava appetito e non avevo di che man­giare, mi mangiai lei! Così, non fu più la Fame nel mondo, e io adesso ho due fami in corpo la sua e la mia... Ma prima andiamo a mangiare, se no ti mangio intero intero! Dio ti scampi dalla mia bocca!

Martebellonio                - Sei un gran bugiardo...! Dimmi un poco: Callidora non t'ha più parlato di me?

Leccardo                       - Ogni ora che mi vede! E quando passeg­giate così altero davanti alle sue finestre, spasima per voi.

Martebellonio                -  Lo so che la poverella si deve strug­gere per me, non è la prima. Ma io vorrei venir presto alle strette.

Leccardo                       - Ella desidera che fosse stato. Capitano, se mi pascete bene, questa sera vi recherò buone novelle: vi do la mia fede!

Martebellonio                -  Io ti farei mangiar meco, ma oggi è martedì e in onore del dio Marte non mangio che una insalata di punte di pugnali, due palle di cannone in pezzi con la salsa, e un piatto di gelatina di orecchi, nasi e labbra di capitani e colonnelli, con limatura di ferro, come cacio grattugiato...

Leccardo                       - E che, siete uno struzzo che digerite quel ferro?

Martebellonio                - Lo digerisco e diventa acciaio!

Leccardo                       - Allora dovete avere l'appalto coi ferrai, per l'acciaio che cacate!

Martebellonio --------- - Guardati! Non mi toccar la mano: se stringo te la farei polvere, che stringe più di una tenaglia. (Via. Dal fondo entra don Flaminio seguito da Panimbolo).

Flaminio                        - Che crudele tempesta! La fortuna mi spinge addosso onde su onde, la mia anima è stordita dalla paura ed è turbata tanto che non credo viva al mondo un uomo aggirato da così vari pensieri. Ho paura, non mi abbandonare, Panimbolo, anche se mi abbandona la fortuna! Aiutami... se non a vincere, a non essere vinto! Sei il mio timone e la mia stella, non patire che faccia naufragio.

Panimbolo                     - Questa tempesta che minaccia naufra­gio, questa stessa vi condurrà in porto.

Flaminio                        - [Non posso soffrire che mio fratello abbia saputo far meglio di me.

Panimbolo                     - Se ha saputo fare, voi saprete disfare.

Flaminio                        - Le nozze sono vicine, il tempo breve, i rimedi scarsi... Temo che ormai sia impossibile.

Panimbolo                     - Non si può operare se ci si avvilisce nell'impossibile. Egli cerca di torvi l'amata con inganni? Coi medesimi inganni gli rispondiamo. E faremo cadere l'inganno sopra l'ingannatore!

Flaminio                        - Hai pensato a qualche cosa?

Panimbolo                     - Cose belle a dire, ma non facili a fare! E nelle facili, non vorrei valermi di mezzi così perico­losi.

Flaminio                        - Mai si vinse pericolo senza pericolo. Ma poiché corriamo come perduti e per me è morta ogni speranza, e non spero se non nella disperazione, prima che muoia, voglio tentare ogni cosa, per disperata che sia! (Entrano in casa).

QUADRO SECONDO .

                                      - (Complotto in casa di don Flaminio con Leccardo e Panimbolo).

Panimbolo                     - Bisogna far presto, perché don Ignazio è d'ingegno destro e vivace. Se non lo si previene con abilità, si porta via Carizia.

Flaminio                        - (a Leccardo) Sei risoluto?

Leccardo                       - Cacasangue...! E' una solenne ribalderia! Se si scopre sarò io a patire la penitenza. Non vorrei che dopo essermi mangiato da vivo molti uccelli cotti, le cornacchie e i corvi vivi si avessero a mangiare me morto sopra una forca!

Flaminio                        - Ma tu sai che mio zio è Viceré di Salerno. Se si scopre il fatto, non ti farà del male per non farne a me!

Leccardo                       - No, no, la giustizia è come i ragnateli: le moschette piccole come me c'incappano, gli uccelli grandi come voi, se la stracciano e portano via!

Flaminio                        - Sarei il più ingrato uomo del mondo se non ti liberassi.

Leccardo                       - Coi poveretti, prima si fa giustizia, poi si forma il processo e si dà la sentenza.

Flaminio                        - Tu vuoi impedire un gran disegno con sicura vittoria...! Mi distruggi tutte le speranze!

Leccardo                       - Ma volete che i buoni bocconi che ho mangiato in casa vostra, mi costino come il cacio ai topi quando incappano nella trappola?

Flaminio                        - Dunque non vuoi aiutarmi?

Leccardo                       - Credo bene di no!

Flaminio                        - Non vuoi...? Ma non sai che danno mi Sai se non mi aiuti?

Leccardo                       - Maggior danno lo io a me se vi aiuto!

Flaminio                        - (cava una borsa) Leccardo, to' prendi questi denari!

Leccardo                       - Ho steso la man».

Flaminio                        - (altra borsa) Togli questo argento...

Leccardo                       - L'argento mi comanda.

Flaminio                        - (altra ancora) Togli quest'oro!

Leccardo                       - L'oro mi sforza! Oh, come sono belli e lampanti...! Par che buttino fuoco, fanno bel suono e bel vedere...!

Flaminio                        - Bai che ne ho degli altri e posso soddi­sfare alla tua ingordigia. Potrai taglieggiarmi a tuo modo!

Leccardo                       - Vorrei tornarteli, ma non posso. staccar­meli dalle mani.

Flaminio                        - (insinuante) Ti ricordi le compagnie di polli, di galline...

Panimbolo                     - ... Le pergole di prosciutti e formaggi...

Flaminio                        - ...Le cantine di vino che ho in casa...?

Panimbolo                     - Siederai sempre a tavola, con piatti di maccheroni dinnanzi,

Leccardo                       - Panimbolo, consigliami qualcosa per non essere impiccato.

Panimbolo                     - Ti consiglio di far subito quello che devi fare. Viene la sera e questa è l'occasione. Non ag­giungiamo parola, perché il tempo è breve.

Leccardo                       - Leccardo, sei a un gran passo: la forca ola fame? La fame uccide subito, la forca ci vuol tempo... Ah, infingardo, e senza coraggio! Meglio è mo­rire una volta, che sempre vivere male! Ho passato tanti pericoli, così passerò quest'altro. Càncaro!

Flaminio                        - Bene! L'indugio è pericoloso e il pericolo sovrasta. Dovendomi fidare di te, sii di fede intera.

Leccardo                       - Interissima. Non l'ho mai rotta perché non l'ho mai adoperata.

Panimbolo                     - Con che vuoi cominciare?

Leccardo                       - Non lo so se prima non parlo con Chiaretta. Ella tiene le chiavi delle casse di Carizia. E' gran tempo che cerca di far l'amore con me.

Panimbolo                     - E fai l'amore con lei, e dalle una sod­disfazione!

Leccardo                       - M'appiccherei piuttosto! Mai feci all'a­more se non con porchette e vitelle. H peggio è che è una scimmia e pretende di essere bellissima!

Flaminio                        - Prendi la medicina per una volta!

Leccardo                       - Basta: l'ingannerò in modo che mi aiu­terà. Fra poco saprete la risposta.

Flaminio                        - Non voglio risposta! I fatti rispondano per te.

Leccardo                       - Risponderanno. La notte viene, non mi trattenete, che è vostro danno. La Madonna vi accom­pagni!

Flaminio                        - Arrivederci!

Leccardo                       -  A riparlarci! (Via).

 QUADRO TERZO

                                      - (Strada, vicino alla casa di Carizia).

Martebellonio                - (solo) Non ho lasciato fornai, ma­cellai, salsicciai, osterie e pescatori, che non abbia cer­cato per trovar Leccardo. Certo sarà ubriaco in qualche stalla, a disfidarsi con la paglia a chi più dorme.

Leccardo                       - (entrando) Ben venga il bellissimo! ed innamoratissimo capitano! (A parte) Come servirò bene l'amico!

Martebellonio                - Che, Leccardo, ti son ito cercando tutt'oggi.

Leccardo                       - Se foste venuto dov'ero, mi avreste trovato di sicuro.

Martebellonio                - Perché mi hai detto bellissimo;?

Leccardo                       - Perché fate morire le principali gentil­donne della città e, fra tutte, Callidora, la mia padrona, che quando le ragiono di voi fa atti da spiritata.

Martebellonio                - Vorrei che la finissimo una volta: che io non facessi penar lei, né ella me. Vorrei che le facessi un'ambasciata da parte mia.

Leccardo                       - Farò quanto m'imponete.

Martebellonio \              - Dille che non è picciol favore che un mio pari s'inchini ad amar lei, io che sono amato dalle più grandi donne del mondo.

Leccardo                       - Andrò a dirglielo.

Martebellonio                - Ma non con parole umili, che sca­gionino disprezzo, ma con modo altiero, che cagioni verso di me onore e riverenza.

Leccardo                       - Ma ella spasima per voi!

Martebellonio                - Poiché è così, dimmi: quando? come? dove? Non m'intendi?

Leccardo                       - Vintendo, ma non so che dite.

Martebellonio                - Mi porrai con lei da solo a solo?

Leccardo                       -  Questa notte.

Martebellonio                - Bravo! Le preste risoluzioni mi piacciono, e per tal cagione nelle guerre ho conseguito gran­dissime vittorie. Ma, veniamo all'ora.

Leccardo                       - Alle due, quando dorme la vicinanza, la farò venire in questa casa terrena e starete con lei tutta la notte. Ma che segni mi darete quando; venite di notte, perché vi riconosca?

Martebellonio                - Quando sentirai tremare la casa e la terra come se fosse un terremoto, sono io che cammino.

Leccardo                       - Venite sicuramente.

Martebellonio :              - Andrò a cenare e sarò qui. (Via).

Leccardo                       - (solo) Com'è stata a proposito la sua ve­nuta...! Quando la fortuna vuole aiutare, trova certe vie che non troverebbero cento consigli. Accoppierò Chia­retta col capitano, in modo che! l'uno non si accorgerà dell'altro, e l'altro sarà contento e ingannato. Veggio Chiaretta che toglie i ragnateli dalla porta di casa. (Si avvicina).

Chiaretta                       - Ho tanta allegrezza che Carizia, la mia padrona, sia maritata, che pare che io sia a parte delle sue dolcezze.

Leccardo                       - Avresti maggior dolcezza se tu potessi gustare quello che gusterà lei quando saranno abbracciati insieme! 

Chiaretta                       - Perché? Credi che io non sia di carne e d'ossa come lei? O le membra mie non siano come le sue?

Leccardo                       - C'è un uomo che ti farà gustare le mede­sime dolcezze.

Chiaretta                       - Sei tu forse?

Leccardo                       - Dio mi aiuti...!

Chiaretta                       - Credo non ti aiuterebbe. Hai più caro un bicchiere di vino di tutte le donne del mondo!

Leccardo                       - Hai ragione, ma tu sei tanto graziosa che faresti innamorare i sassi!

Chiaretta                       - Se io facessi innamorare i sassi, farei in­namorare te che sei peggio di un sasso.

Leccardo                       - E io mi voglio innamorare di te!

Chiaretta                       - E che?... Ci ho ciera di vitella o di porca, che ti vuoi innamorare di me?

Leccardo                       - Hai certi labbruzzi scarlattini come un prosciutto, una bocchina uscita in fuori come un por­chette, gli occhi lucenti come una capra, le polpe gras­sone come una vitella... Insomma, non hai cosa che non mi muova appetito. Ebbe torto la natura a non farti una capra!

Chiaretta                       - E tu che vuoi essere mio marito, becco.

Leccardo                       - E quando starò abbracciato con te, mi parrà di gustare il sapore di tutti questi animali, o mia vacca, o mia porchetta, o mia capra...!

Chiaretta                       -  Starò in guardia allora perché non mi mangi!

Leccardo                       - E come sarà bella Carizia, ora che pom­peggia fra quelle vesti da sposa!

Chiaretta                       - Altro che vesti ci vuole a fare una bella donna...! Gli innamorati non amano le vesti, ma quello che sta sotto le vesti! Noi fantesche, che sempre fati­chiamo, abbiamo carni sode, grasse e lisce... Le gentil­donne invece che stanno sempre a spasso, le hanno così flaccide e molli che paiono vesciche sgonfiate.

Leccardo                       - Mi piace quanto tu dici.

Chiaretta                       - Le loro facce paiono maschere. Portano in faccia una bottega intera di biacche, belletti ed altre porcherie! Ohibò! Se tu le vedessi la mattina quando si alzano, diresti altrimenti!

Leccardo                       - Senti, Chiaretta, vorrei un piacere da te.

Chiaretta                       - Che piacere?

Leccardo                       - Che tu mi presti una cosa...

Chiaretta                       - Dimmi che cosa?

Leccardo                       - So che sei di natura larga e liberale, e ciò che ti cercano lo dai volentieri...

Chiaretta                       - Di' presto.

Leccardo                       - Vorrei che tu mi prestassi la gonna di Carizia.

Chiaretta                       - Che vuoi farne?

Leccardo                       - Vestirla a te...! E poi... vorrei alcune di quelle cose che le ha mandato don Ignazio per il giorno della festa, Che se lei si vuole sposare domani, noi ci sposeremo stanotte. Tu sarai Carizia e io don Ignazio!

Chiaretta                       - Tu mi burli!

Leccardo                       - Se ti burlo, faccia Dio che non gusti più vino che mi piaccia!

Chiaretta                       -  A questo giuramento ti credo. A che ora?

Leccardo                       - Alle due, in questa casetta terrena.

Chiaretta                       - Perché non in casa nostra?

Leccardo                       - Per non far rumore! Ne parleremo dopo.

Chiaretta                       - Non mancare alla promessa!

Leccardo                       - Né tu alla tua!

QUADRO QUARTO

                                      - (Camera di don Flaminio).

Leccardo                       - (entrando) Vittoria...!

Flaminio                        - Che mi apporti?

Leccardo                       - Le vesti, le gioie, e la stessa Carizia….! Più di quel che hai chiesto e sapresti desiderare!

Flaminio                        - Come hai fatto?

Leccardo                       - Non solo avremo da Chiaretta quanto vogliamo, ma mi è venuto tra i piedi quel capitano ba­lordo, innamorato di Callidora, che ci servirà molto bene. Dimodoché ci si troverà gentilmente beffato e vostro fratello tradito.

Panimbolo                     - Ma il capitano appena si sentirà bef­fato, ti farà una furia di bravate!

Leccardo                       - E io una furia di bastonate!

Panimbolo                     - Bravo, Leccardo! Tieni in piedi la pra­tica della fantesca.

Flaminio                        - Ti avviseremo di quanto' c'è da fare.

Panimbolo                     - Spia don Ignazio se prepara qualche cosa!

Flaminio                        - E se tutto andrà bene, avrai sempre la gola piena, e ornata di catene d'oro!

Leccardo                       - Se poi va male, finisco in qualche capestro (Via. Dall'interno, entra don Ignazio).

Ignazio                          - Don Flaminio, sono andato gran pezzo ricer­candovi: siate il ben trovato!

Flaminio                        - E voi il ben venuto! Che buona nuova? Vi mostrate allegro.

Ignazio                          - Voglio parteciparvi una mia allegrezza. So che ve ne rallegrerete con me, amandoci così recipro­camente come ci amiamo.

Flaminio                        - Rallegratemi presto, di grazia.

Ignazio                          - Partito che fui da voi, andai a casa del Conte e mi dissero che era andato a Tricarico e trattava con altri per sua figlia. Allora mi son preso un'altra moglie, secondo il mio contento.

Flaminio                        - Non credo che vi sia maggior contento nella vita, che aver moglie a suo gusto. Quella signora di Spagna, che trattava don Rodrigo, nostro zio?

Ignazio                          - Ho tolto una gentildonna povera ma no­bilissima, e la sua nobiltà è avanzata di gran lunga dalla sua somma bellezza ed onestà.

Flaminio                        - Ditemi che è, di grazia, acciocché mi rallegri anch'io: che, per aver ricusata una figlia di Grandi di Spagna, dev'essere oltremodo bella ed onorata!

Ignazio                          - E' Carizia.

Flaminio                        - Chi, Carizia? Non l'ho intesa mai nomi­nare...

Ignazio                          - Carizia, figlia di Eufranone.

Flaminio ;                      - Ah, forse quella giovinetta con una sot­tana gialla, che comparve alla festa dei tori...?

Ignazio                          - Quella.

Flaminio                        - E questa è quella tanto onesta e onorata?

Ignazio                          - Già.

Flaminio                        - Veramente le cose non sono come sono, ma come uno le crede.

Ignazio                          - Che volete dire?

Flaminio                        -  Che non è tanta l'onestà e il suo merito, quanto voi dite.

Ignazio                          - Dite cose da non credere.

Flaminio i                      - E' la verità. Ma dove nasce in voi tanta meraviglia?

Ignazio                          - Anzi, non mi meraviglio abbastanza!

Flaminio                        - Avete fatto molto, male!

Ignazio                          - Se ho fatto bene o male non l'ho chiesto a voi.

Flaminio                        - Ma non sapete che col far copia di sé, ella dà da vivere alla sua casa? La quale è la più povera di quante me sono in Salerno, e che senza questa mercanzia non potrebbe sostenersi?

Ignazio                          - Se un altro, ardisse dirmi questo, io lo men­tirei per la gola.

Flaminio                        - Perdonatemi, ve lo dico per l'affezione che vi porto. [Fate male! Per soddisfare un vostro mo­mentaneo appetito e per la finta bellezza di una donnicciuola, non vi curate della vergogna che cadrà sul vostro parentado. Ben sapete che una piccola macchia nella fama di una donna, porta vituperio e infamia a tutti.

Ignazio                          - Ho chiesto a molte onoratissime persone, e m'hanno detto tutto il contrario.

Flaminio                        - Dovete credere a me più che ad altri.

Ignazio                          - A me sta il crederlo.

Flaminio                        - Ma è la verità.

Ignazio                          - Non vi credo, dite sempre bugie e conosco i vostri artifizi.

Flaminio                        -  Sono più di quattro mesi che me la godo, né io sono stato il primo ail secondo, e vi fo sapere che non è tanto bella quanto voi la fate; tolto quel po' di visuccio imbellettato e dipinto, sotto i panni è proprio la creatura più sgarbata che esista sulla terra.

Ignazio                          - Non ci credo!

Flaminio                        - Né la sorella Callidora è meno disonesta... Un certo capitano, che suole praticare in casa, se la tiene ai suoi comodi. E questo dovrebbe essere vostro co­gnato? E ci sono altre cose da dire e da non dire!

Ignazio                          - E' impossibile!

Flaminio                        - Saranno in molti a dirvi la stessa cosa.

Ignazio                          - Se non credo a voi, meno crederò agli altri!

Flaminio                        - Non mi credete? Ve lo farò credere cogli echi vostri!

Ignazio                          - Se mi fosse caduto un fulmine vicino, non sarei così attonito!

Flaminio                        - Mi spiace, ma fra buoni fratelli, deve dirsi la verità. Sono cose in cui ne va dell'onore.

Ignazio                          - Non ho mai sentito niente di più atroce.

Flaminio                        - Viene la notte; venite con me alle due, che andrò in casa sua. Vi farò vedere le sue vesti e i doni che le avete mandati, e ce ne torneremo a casa insieme.

 

Ignazio                          - Se mi fate vedere questo, farò di lei il conto che si deve fare d'una sua pari.

Flaminio                        - Andiamo a cenare, e verremo quando sarà imbrunita la notte.

Ignazio                          - Andiamo. (Via).

QUADRO QUINTO

                                      - (Sera. Esterno davanti alla casa di Gorizia).

Eufranone                     - (solo) Ho dato la nuova ai parenti, agli amici, a tutta la città. E ciascuno ne ha infinito piacere e allegrezza, vedendo che la nostra casa, anticamente così nobile e ricca, per una disgrazia venuta in tanta miseria e povertà, ora, per una insperata occasione, ri­volge al primitivo splendore. Oh, quanto sarà la mia allegrezza domani, quando vedrò la mia Carizia sposare sì degno cavaliere, con tanto concorso di nobili! Non passerà mai questa notte, tanto desiderio ho di vedere quest'alba! Ma perché mi trattengo? Andrò su, cenerò subito e andrò a letto, acciocché domani mi levi per tempo. (Entra in casa, mentre annotta. Entra il capitano Martebellonio).

Martebellonio                - (solo) Non è minore virtù ferire un corpo con la spada, che l'anima con gli sguardi! E io sono fra tutti glorioso, perché posso non meno l'una che l'altra! Non può starmi uomo, per gagliardo che sia, con la spada innanzi, né donna, per onesta e rigida, ferma ai colpi dei miei sguardi. E se con la spada fo ferite che giungono insino al cuore, con gli occhi fo piaghe profondissime che giungono insino nell'anima. Ecco, Cal­lidora, che appena mi guardò una volta, non sostenne il folgore del lampeggiante mio viso: e ne restò scon­quassata per sempre! Ora io mi sono mosso a darle soccorso, che non la vegga miseramente morire. Ed è gran pezzo che mi deve stare aspettando. Ma non vedo Leccardo come restammo d'appuntamento. (Entrano don Ignazio, don Flaminio e i servi).

Flaminio                        - Sento gente per istrada... Speriamo di poter effettuare quel che desideriamo.

Ignazio                          -  A me non pareva mai che venisse l'ora di vedere una cosa così impossibile, per poter dire libera­mente che onore e castità non si trovano in femmina, se costei (è così disonesta.

Flaminio                        - Così va il mondo, fratello; la donna più casta è quella che fa i fatti suoi con più segretezza.

Martebellonio                - Sento stradaioli... Olà, date strada, «e non volete andare per il fil di spada!

Panimbolo                     - Se non taci, poltronaccio, andrai per fil di bastone!

Martebellonio                - Costui par che sia indovino.

Ignazio                          - Chi è costui?

Simbolo                         - Quel capitan vantatore.

Martebellonio                - (a parte) Che, voglio farmi conoscere, che non mi uccidano per isbaglio!... (Forte, avanzando) O, signori don Flaminio e don Ignazio, sono il capitano Martebellonio! Dove andate così di notte, senza la mia compagnia? E' meglio aver me solo che una compagnia di uomini d'arme!

 Flaminio                       - E tu dove vai? A donne, eh?...

Martebellonio                - L'hai indovinata, affé di Marte!

Panimbolo                     - A qualche puttana?...

Martebellonio                - Se non fosse che vi porto rispetto, vi farei parlare altrimenti! Io a puttane, che ho le prin­cipali gentildonne della città, e che tutto il mondo spa­sima per me?... Vo a una signora, che è ridotta a pollo pesto per amor mio, e la vo a soccorrere.

Flaminio                        - Signora di casa... Fantesca, eh?...

Martebellonio                - E' pur là! E' Calli dora, figlia d'Eufranone! La conoscete?

Flaminio                        - (sottovoce, a Ignazio) Che ti dissi, fra­tello? (Forte, a Martebellonio) Noi la conosciamo molto bene...! Ma voi dove la conosceste?

Martebellonio                - E' gran tempo che ella e sua sorella Carizia sono impazzite per me... Ma a me, piace Callidora: è più rigida e più severa. Mi ha chiesto in grazia che vada a dormire con lei questa notte. (Guarda verso la casa di Eufranone) Ma s'apre la porta... E' il parassita che viene a trovarmi: perdonatemi. (Si avvia verso la casa, mentre gli altri si nascondono al lato opposto, al buio).

Leccarda                       - (esce dalla casa, tenendo sottobraccio Chia­retto camuffata in un mantello) Entrate, signora, in questa camera qui vicino... (Attraversano la scena in fretta).

Chiaretta                       -  T'obbedisco.

Leccardo                       - Serratevi dentro e aspettatemi un pochino. Oh, capitano, siete voi?...

Martebellonio                - Pezzo d'asino, non mi conosci?

Leccardo                       - Mi avevate detto che avrei sentito il ter­remoto, al vostro arrivo... E' tanto che aspetto di sentir tremare la terra, e perciò non pensavo che foste voi!

Martebellonio                - Dici bene, e ti dirò la cagione: poc'anzi mi è venuta una lettera dall'altro mondo... Plu­tone mi si raccomanda e mi prega che non cammini così gagliardo, per via di Proserpina sua moglie, che a quest'ora dorme. Gliel’ho promesso e perciò non cammino al mio solito.

Leccardo                       - Entrate, che Callidora vi sta aspettando. (Escono tutte due, per dove è uscita Chiaretta).

Flaminio                        - (nell'ombra, sottovoce) Che ne dici, fra­tello? E' vero quanto ti ho detto? Panimbolo, fa' il segno, e sarà la mia volta.

Panimbolo                     - (fischia due volte).

Leccardo                       - (si affaccia alla finestra) Signor don Fla­minio, Carizia vi prega di aspettarla un poco, perché sta ragionando, col padre... (Si ritira).

Flaminio                        -  (al fratello) Sebbene è alquanto bellina, io non la tenevo in così gran conto quanto voi.

Ignazio                          - Non vi domandai più volte se il giorno della festa vi fosse piaciuta una di quelle gentildonne...? E voi mi diceste di no...?

Flaminio                        - Era così veramente. Ma essendomisi offerta costei con così poco discomodo, mi ci inchinai.

Leccardo                       - (si affaccia di nuovo) Signor don Fla­minio, Carizia vi aspetta agli usati piaceri, e vi prega di perdonarla se vi ha fatto aspettare un poco. (Si ritira).

Flaminio --------------- - Don Ignazio, non vi partite... Forse vi porterò alcuni dei suoi abbigliamenti e dei doni che le man­daste. (Si avvia ed entra nella casa).

Ignazio                          - Aspetterò sino a domani. (Pausa) Che dici, Simbolo? Avresti creduto ciò mai?

Simbolo                         - Delle donne si deve fare quel conto come delle erbe fetide e amare, che servono per medicina, e, cavato il succo, si buttano nel letamaio.

Ignazio                          - Veramente la donna è un pessimo animale, da non fidarsene punto!

Flaminio                        - (esce dalla casa) Don Ignazio, dove siete...? Conoscete ;questa sottana gialla che portò quel giorno? E l'anello che le avete mandato a donare, e le catene e gli altri vezzi...? (Mostra gli oggetti).

Ignazio                          - Li conosco.

Flaminio                        - Ve li lascio, invece di lei, per il breve tempo che mi è concesso goderla!

Ignazio                          - Eccoli, tornateli indietro!

Flaminio                        - Buonanotte! (Rientra).

Ignazio                          - Notte la più acerba e infelice! Che le stelle fuggano dal cielo e lascino in oscure tenebre il mondo! Maledetto il giorno in cui nacqui e che la vidi...! Vedere gli altri godersi la donna che mi era assai più cara dell'anima. Carizia, così onori il tuo sposo? Queste sono le parole che ho intese da te stamani?

Simbolo                         - Non vi fate vincere dal male, padrone...

Ignazio                          - Sento stracciarmi il cuore da orsi e tigri, e la gelosia m'impiaga l'anima!... (Escono. Breve pausa).

Flaminio                        - (uscendo dalla casa) Panimbolo, se ne sono andati?

Panimbolo                     -  Pare!...

Leccardo                       - Don Flaminio, che servizio!...

Flaminio                        - Ora che s'è cominciato così bene, biso­gna finire, che non faccia a noi quello che noi abbiamo fatto a lui!

Panimbolo                     - Finirà con l'impiccarsi con le sue mani!...

Flaminio                        - Patisca quello che ha fatto patire a me. Egli piange e io rido!

Leccardo                       - E Chiaretta col capitano!... (Risa che si allontanano).

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

QUADRO PRIMO

                                      - (Piazza davanti alla casa di don Ignazio, al mattino).

Simbolo                         - Ancora non vi  passata quella rabbia?

Ignazio                          - Che io non sia quello che sono, se non la farò pentire!

Simbolo                         - Speravo che con la notte, pensandoci me­glio, avreste mutato di parere.

Ignazio                          - Non so se sia maggiore in me il dolore o la gelosia.

Simbolo                         - Frenate tanto sdegno, che le vostre parole potrebbero cagionare qualche grave scandalo.

Ignazio                          -  Perché? Che vorresti che facessi?

Simboio                         - Dovendola rifiutare, non la rifiutate con modi tanto obbrobriosi.

Ignazio                          - Mi parrebbe poco che la sbranassi con le mie mani!

                                     

Simbolo                         - Ve ne pentireste...

Ignazio                                     -  Che sia a parte della pena, dopo il suo diletto.

Simbolo                         - Ma non potrebbe essere che vostro fratello v'abbia ingannato?

Ignazio                          -  Non sai 'quello: che dici!

Simbolo                         - Dico cose possibili. Considerate che nella sua famiglia si raccoglie tutta la nobiltà di Salerno. Fa­cendo ingiuria a uno, macchiate molti.

Ignazio                          - Una come lei non merita che le si porti tanto rispetto! (S'incamminano).

QUADRO SECONDO

                                      - (Esternodella casa di Carisio).

Martebelonio                 - (dentro) Ma chi è costei?... Mira che bizzarri incontri! (Esce fuori sospinto con mal garbo da Chiaretto) Io pensavo di correre un poco dietro una bella fiera, e mi sono incontrato in una pessima fiera!

Chiaretta                       - Bel cacciatore che sei! Va' e fa' altre arti, che di caccia di donne tu non te ne intendi!

Martebelloniò                - Ah, rabbia!... Io non so pungere così con la spada, come tu pungi con la lingua! Ma ti scan­sa, ignobile femminella, o con una stoccata ti passo da un canto all'altro!

Chiaretta                       - Non temo le tue stoccate,'ballon di ven­to!... Pecorone!

Martebelloniò                - Oh Dio, se non temessi che, cavando la spada fuori, la furia dell'aria sconquassata muovesse qualche tempesta; vorrei che provassi. Ma me la pagherà quel furfante di Leccardo!

Leccardo                       - (sul tetto della casa) Menti per la gola, o gran capitano!

Martebelloniò                - Chi è là?!..,

Leccardo                       - Olà!...

Martebelloniò                - Dove sei, o tu che parli e non ti lasci vedere?!...

Leccardo                       -  Non mi vedi perché non ti piace vedermi: eccomi qui!

Martebelloniò                - Sei salito sul tetto perché non ti possa giungere! Come ti avrò in mano, ti squarterò come una ricotta! .

Leccareo                       - E tu stai in piazza per avere molte strade da scampare!...

Martebelloniò                - Dannazione!...

Leccarda                       - Dubiti che io voglia polverizzarti la schiena! 

Martebelloniò                - Se m'incappi nelle mani!

Leccardo                       - Se mi scappi dalle mani!

Martebelloniò                - Ti sbudellerò!

Leccardo                       - Tu non sai sbudellare se non borse!

Martebelloniò                - Ah, poltronaccio, ti farò conoscere chi son io!

Leccarda                       - Ti conosco da molto tempo, che fosti lacchino, aiutante del boia, birro, sensale e ruffiano!

Martebelloniò                - Ah, mondo traditore, ciel  turchino,  stelle nemiche! Fai il bravo perché non posso salire costassù!

Leccardo                       - E tu fai A bravo perché non posso calare costaggiù!

Martebelloniò                - Scendi, traditore!

Leccardo                       - Sali, furfante!

Martebelloniò                - i O Dio, che tutto mi rodo per non aver in mano quel traditore!

Leccardo                       - O Dio, che tutto ardo per non poter ca­stigare un matto.

Martebelloniò                - Con un salto verrò dove sei, sebben la casa fosse più alta del Mongibello.

Leccardo                       - Con un salto calerò giù, pur se la casa fosse più alta della torre di Babilonia.

Martebelloniò                - Tu sai che ti feci e che t'ho fatto e che ti voglio fare, né cesserò di fare finché non t'ab­bia fatto e disfatto a mio modo.

Leccardo                       - Non potendo far altro tirerò una pietra dove sei: ti to' acciaccare i pidocchi sulla testa. (Lancia un sassolino).

Martebelloniò                - Oh, Dio, che montagna è questa?

Leccardo                       - E' la montagna di Mauritania che è ca­duta dal cielo, che ti manda Marte tuo padre, messer Cacamerdonio!

Martebelloniò                - (a parte) Santo Stefano, scampami! Qui convien serbare la mia dignità. Che onore posso gua­dagnare con costui? Incontrandolo al buio, gli darò la penitenza che si merita, che Dio lo scampi! (A Leccar­do) Mi partirò, t'incontrerò e ti castigherò all'ordinario come soglio! (Via).

Leccardo                       - E io con bastonate straordinarie come vo­glio. (Via. Dal fondo compare Ignazio, seguito da Sim­bolo, e sì dirige alla casa di Eufranone, mentre questi ap­pare sulla soglia e gli va incontro festoso).

Eufranone                     - Caro signore, -siate il benvenuto, per mille volte desiderato!... La sposa e i principali di Sa­lerno sono qui dentro e vi aspettano.

Ignazio                          - Che più non aspettino, Eufranone. Non ven­go per quello che pensi: non sposerò più tua figlia!

Eufranone                     - E che ha fatto mia figlia, che meriti tale rifiuto?

Ignazio                          - E' impudica e disonesta.

Eufranone                     - Onesta è sempre stata mia figlia, e ora è impudica presso voi solo? Vi dissi che vi sareste pen­tito e ora, per avere giuste ragioni, offendete me, lèi e tutta la città. Bastava dire « mi sono pentito » e non svergognarmi a tal modo!

Ignazio                          - Credi che dica questo con leggerezza? Anch'io non avrei mai creduto, e Dio sa se avrei voluto perder la vista in quel punto.

Eufranone                     - Non sapete che nelle cose degne e ono­rate, sempre si appunta la calunnia?

Ignazio                          - Eufranone, è difficile ingannare se stesso. Ditele da parte mia che la desideravo in isposa, stiman­dola onesta e onorata, ma adesso può godersi per isposo quello che se l'è goduta la scorsa notte!

Polissena                       - (dalla finestra) Eufranone! (Vedendo Ignazio) Oh, lo sposo, lo sposo!...

Eufranone                     - Che misero padre sono! Farò la vostra ambasciata, signore, e farò che le penetri ben nel cuore! (Via).

Simbolo                         - Non vi ho detto, padrone, che avreste ca­gionato qualche rovina? Ora andrà su a fare qualche scompiglio. Il dolore gli è entrato nel petto come una spada! Sentirete la tempesta: andiamocene! Andiamo­cene, se non volete rallegrare gli occhi vostri nel «no sangue! (Escono; intanto, entra Flaminio).

Flaminio                        - Il volpone è caduto nella trappola. Poco gli ha giovato la sua astuzia, che ha trovato chi ha saputo più di lui.

Panimbolo                     - Drizzisi un trofeo agli inganni, un arco trionfale alla bugia, un colosso alla falsità!... Per loro mezzo avete vinto!

Flaminio                        - Non temo più mio fratello. Andiamo a prendere Carizia... Ma non sento l'allegrezza che dovrei. Tutta la notte non ho mai chiuso occhio, né verso l'alba riposai molto... Sogni, larve, ombre e nell'animo inquieto mi travagliava il pensiero di Carizia... Mi destavo, ma sempre sognavo travagli.

Panimbolo                     - Che farà don Ignazio? E' di spirito ar­dente, e non avrà indugiato fino adesso a dire che non la  vuole più in isposa.

Flaminio                        - Desidero che Leccardo venga a darmi felici novelle; ma temo qualche evento sinistro. Vorrei che venisse presto, ogni indugio è pericolo. (S'ode dall'interno un grido acutissimo seguito da vocìo confuso) Che succede?

Panimbolo                     - La casa è piena di grida e di rumore! (Una pausa).

Leccardo                       - Vorrei bere e bere assai per poter lacri­mare tanto che basti, e ho gli occhi asciutti come un corvo.

Flaminio                        - Che hai, Leccardo?

Leccardo                       - Quella faccia più bianca di una ricotta, quelle labbra più vermiglie del vino... Ah, mi scoppia il cuore!

Flaminio                        - Che cosa? Carizia sta male?

Leccardo                       - E' morta.

Flaminio                        - Morta?!...

Leccardo                       - Don Ignazio non so che ingiuriose parole disse a Eufranone, e questi venne su con la spuma alla bocca, e caricando la figlia di villanie, la rincorreva con il pugnale in mano. La figlia gli sgridava: «Ascoltami: se ho sbagliato, ti porgerò il petto che mi ammazzi ».

Flaminio                        - Oh, la mia povera innocente!...

Leccardo                       -  Se non era moglie l'avrebbe infilzata! Carizia mormorò poche parole e morì prima della ferita. Ancora morta, par bella e t'innamora!

Flaminio                        - L'anima mia è morta, e con lei ogni mio bene! Morta la sposa nel più bello delle speranze! Che mi ha giovato aver travagliato tanti anni nella guerra, esposto il petto a mille pericoli? Ora, per un sensuale appetito, ho ucciso la sposa, tradito: un fratello, disono­rato il parentado! Ah, Panimbolo, tu fosti autore del malvagio consiglio!

Panimbolo                     - Non è stato tanto il mio consiglio, pa­drone, quanto la cattiva fortuna, e da un errore ne vengono mille, e il male è sempre andato crescendo di male in peggio, e se la fortuna...

Flaminio                        - Non è stata l'amara fortuna, ma il tuo cattivo consiglio!

Panimbolo                     -  Mi accusate senza ragione! Il mondo è sregolato e sconsigliato, e tutte le cose instabili e incerte. E nei pericoli, l'uomo accorto deve accomodarsi alla pru­denza, ma mantenere le più liete speranze.

Flaminio                        - E' morta la speranza. Che pena mi con­verrebbe? Maggior che la morte! Bisognerebbe che mo­rissi di una morte infinita.

QUADRO TERZO

                                      - (Camera in casa di don Ignazio).

Flaminio                        - Ignazio, vengo a voi ad accusare il mio fallo. Sono un iniquo, che supera in malvagità tutti gli uomini.

Ignazio                          - Che aspetto pallido avete! Che pianto, che parole son queste?...

Flaminio                        - Vi ho ingannato e tradito, e con quelle false illusioni di notte, vi ho fatto credere che Carizia fosse disonesta.

Ignazio                          - E' possibile?

Flaminio                        - Essendo innamorato di Carizia, e accecato da una nebbia di gelosia, vi feci vedere quell'apparenza di notte. Col prezzo del tradimento volevo comprarmi le nozze, ma il pensiero ha sortito contrario fine: E morta! 

Ignazio                          - E' morta?

Flaminio                        - Eccomi, buttato in terra, abbraccio le tue ginocchia, ti porgo il pugnale: la crudeltà che ho usata contro di voi, usatela contro di me.

Ignazio                          - Va', fatti indietro!

Flaminio                        - Si tratta del tuo ' onore. Ti ho tradito, disonorato e tolta la sposa.

Ignazio                          - Non mi toccare! Non io ti ucciderò. Voglio che la tua vita sia la tua vendetta; voglio che tu venga in odio a te stesso.

Flaminio                        - Rammentati quella infinita bellezza, e giu­dicami secondo quella. Ha peccato la sorte e non la vo­lontà! Il caso ha fatto succedere tutto contro il mio pen­siero.

Ignazio                          - E' possibile che si trovi un cuore così bar­baro e inumano? In quale anima, nata sotto le più mali­gne stelle del cielo o nelle più cupe parti dell'inferno, è potuta entrare scelleraggine come questa?!

Flaminio I                     - Non chiedo perdono, né vita, perché non la merito e non l'accetto. Ma chiedo vendetta. Se ti è rimasta qualche scintilla di fraterna pietà, uccidimi!

Ignazio                          -  La vendetta la faccia Eufranone suo padre, cui hai ucciso la figlia, e che figlia! Quella che pia amava dell'anima sua!

QUADRO QUARTO

                                      - (Una strada).

Leccardo                       - E' una disperazione aspettare che si man­gi! In casa tutti stanno collerici. Intrighi d'amori, di morti, di cavalieri e cacasangui che venghino  a quanti sono! Al fuoco non «i sono pignatte, né spiedi sulle brace. Cuochi e sguatteri sono scampati, il budello mag­giore mi gorgoglia e mi fa « gro-gro » se la lingua mi si è attaccata al palato. Che peggio mi potrebbe fare il capestro?

Gli Sbirri                       - Ci incontra a tempo, costui: è desso.

Leccardo                       - Gli sbirri! Cercano me…. Ho scampato la furia di un legno, non so come scamperò quella di tre legni!

Gli Sbirri                       - Prendetelo e cercatelo bene. Ha molti scudi: questi sono nostri!

'

Leccardo                       - Oh, denari rubati, ve ne tornate al vostro paese!... Quanto poco avete dimorato meco!

Gli Sbirri                       - Cammina, cammina!

Leccardo                       -  Dove mi trascinate?

Gli Sbirri                       - Al boja!

Leccardo                       - E che vuole da me il signor boja?

Gli Sbirri                       - Accomodarti un poco la camicia attorno «1 collo, e le scarpe che non stanno bene accomodate.

Leccardo                       - Lo ringrazio del buon animo. Le scarpe stanno bene come stanno, e volendole accomodare, me le accomoderò con le mie mani.

Gli Sbirri                       - Presto, presto!

Leccardo                       - Perché tanta fretta?

Gli Sbirri                       -  Ti vuole appiccar caldo caldo.

Leccardo                       - E che? Sono un piatto di maccheroni che bisogna che sia caldo caldo?

Gli Sbirri                       - Avanti!

Leccardo                       - Se volete impiccarmi, fatemi mangiare pri­ma, perché non muoia di doppia morte, e della fame e della fune!

Gli Sbirri                       - Cammina!

Leccardo                       - Sono debole e non posso camminare.

Gli Sbirri                       - Le tue buone opere ti fanno meritevole di una forca! Sei stato causa della morte della più bella gentildonna della città per la tua golaccia!

Leccardo                       - E se non lo facevo per la gola, perché l'avevo a fare?

Gli Sbirri                       - Tu troppo ti trattieni.

Leccardo                       - Avendo a morire strangolato, ponetemi, di grazia, un fegatello in gola, che quando il capestro mi stringerà il collo di fuori, la gola mi stringerà il fegatello di dentro, e il succo che calerà giù mi confor­terà lo stomaco, e quello che andrà su mi conforterà la bocca. Così morendo, non mi parrà dì morire.

Gli Sbirri                       - Se non cammini presto, ti daremo delle pugna!

Leccardo                       - Almeno dite ai confrati, che m'hanno a ricordare l'anima, che portino seco scatole di confezioni e vernaccia fine, e mi confortino di passo in passo.

Gli Sbirri                       - Non dubitare che andrai su un asino con una nutria in testa, con trombe e gran compagnia.

Leccardo                       -  Oh, pergole di salsiccioni alla lombarda; oh, provature, morrò io senza più gustarvi! Oh, canova, non assaggerò più i tuoi vini! Addio, galli d'India, capponi, galline e polli, non vi godrò mai più!

Gli Sbirri                       - Presto, finiamola!

 

Leccardo                       - Fratelli, di grazia, dopo che sarò morto, seppellitemi in un magazzino di vino, che a quell'odore risusciterò ad ogni momento. (Lo trascinano via).

QUADRO QUINTO

                                      - (Esterno della casa di Carizia. Don Rodrigo, Viceré, in portantina, con seguito di servi e uomini d'arme. Vi­cino a luì, Eufranone e Flaminio).

Don Rodrigo                 - E' possibile che la prima giustizia che io abbia a fare in Salerno, sia contro mio nipote, che amo come mio proprio figlio?

Eufranone                     - E -vorreste far torto a me, perché costoro sono a voi congiunti di sangue e d'amore? Chi non sa reggere se stesso, lasci di reggere e comandare gli altri.

Flaminio                        - Zio, ho infamata e uccisa l'amante mia! Non chiedo pietà ne perdono. Datemi tanti supplizi quanti ne può soffrire un reo.

Don Rodrigo                 - Come si fa a condannare a morte chi sommamente desidera di morire? La morte gli sarebbe premio, non castigo.

Eufranone                     - Voi siete giudice e non avvocato, che dobbiate scusarlo!

Don Rodrigo                 - Gli innamorati hanno l'animo infermo d'amore e la ragione annebbiata... I loro cuori sono degni di scusa più che di pena, e la giustizia ha gran riguardo nei casi d'amore.

Eufranone                     - Ab!... E l'amore basta a scusare un de­litto? Allora tutti gli errori si direbbero fatti da inna­morati, e l'amore si comprerebbe a denari contanti.

Don Rodrigo                 - Egli fece l'errore perché desiderava la vostra figliola per isposa; l'errore fu piuttosto dell'età che suo, in fin dei conti.

Eufranone                     - Ah...! E un errore fatto per poca età deve privare un padre di sua figlia? Così governate voi, Viceré?! 

Don Rodrigo                 - Voi le siete padre, e vi capisco, ma la soverchia ira non vi fa conoscere il giusto! Non inten­de ragioni!

Eufranone                     - Fui padre di una, e se mi è lecito dirlo, onestissima figlia, e i vostri nipoti me hanno uccisa e infamata! Queste sono ragioni!

Don Rodrigo                 - Dio sa come usciamo da questo intri­go! Eufranone mio, poniamo il caso che don Flaminio morisse pubblicamente: resusciterà per questo la tua figliola?

Eufranone                     - No, ma la sua innocenza sarà verificata da questo supplizio pubblico!

Don Rodrigo                 - Anzi, questo garbuglio ha nobilitato la sua fama, perché Leccardo ha confessato tutto ed è stato condannato a morte, se il capestro non gli fa grazia della vita. Secondo voi, fratello, non c'è altro modo di restituire l'onore alla donna, che far morire il reo pub­blicamente?

Eufranone                     - Ditelo: voi! Voi siete il Viceré!

Don Rodrigo                 - Via, siete un così galante gentiluomo, usciamo da questo garbuglio con onore. Voi avete un'al­tra figliola che si chiama Callidora, non meno bella e onorata di Carizia: facciamo che don Flaminio la sposi, così la gente che ha inteso il caso della sorella, non sospetterà più cosa contraria all'onor suo... Lasciatemi par­lare: inoltre voi, con la sua ricchezza, vi ristorerete del danno avvenuto, e la vostra famiglia, così illustre per uomini famosi, si rischiarerà con i titoli di questo paren­tado, essendo la casa di Mendoza una delle più chiarSpagna.

Eufranone                     - Non è questo, signor Viceré, che...

Don Rodrigo                 - H Viceré non vuol mancare alla giu­stizia, ma don Rodrigo vi prega che questo Viceré non sia costretto a farla. Se siete prudente e savio, dovete aiutarmi e prevenirmi con questa preghiera.

Eufranone                     - Signor Viceré, se ho parlato così senza rispetto, ne le cagione il dolore acerbo della morte della mia figliola, non il desiderio della morte di vostro ni­pote. (Singhiozza) Purché venga integrato nell'onore, fac­ciasi quanto ordinate.

Flaminio                        - j Zio, io sona indegno di riceverla per moglie, ma la servirò sotto l'immagine della morta so­rella, e la servirò sempre. Finché la vita duri, quest'obbligo duri. Più dolce vendetta non saprei desiderare.

Eufranone                     - M'inchino con ogni umiltà.

Flaminio                        - Concedetemi di baciarvi la mano se ne son degno.

Eufranone                     - Alzatevi, don Flaminio, o la vostra so­verchia creanza mi farà malcreato. Vi abbraccio, poiché me lo comandate. (Compare, minaccioso, don Ignazio).

Ignazio                          - Così, signor don Rodrigo, per accomodare il fallo di don Flaminio, l'avete ammogliato con l'altra sorella...?

Don Rodrigo                 - O caro don Ignazio, che te ne pare della mia deliberazione?

Ignazio                          - Così mi fate giustizia?

Don Rodrigo                 - Ma per non vedere la disperazione di tuo fratello, e per non partirmi dalle leggi del giusto, mi pare meglio accomodarlo in tal modo. Uff... che im­broglio è questo!

Ignazio                          - E' la legge del giusto, che per accomodare l'uno si scomodi l'altro?

Don Rodrigo                 - Ma a chi ho fatto pregiudizio, in­somma?

Ignazio                          - Costui ha ucciso una sorella e diviene ma­rito dell'altra; mi ha tolto la moglie per ammogliarsi. Ha turbato tutto con la sua scelleratezza e sarà rimu­nerato, e io verrò offeso che ho operato bene! A me si conveniva la rimasta sorella.

Flaminio                        - Ella è mia moglie e non sopporterò mi sia tolto con la violenza quello che mi ha procacciato il vo­stro affetto e la vostra ragione, o zio Viceré!

Don Rodrigo                 - Giusto, giustissimo!

Ignazio                          - Il voler torre a me per darlo ad altri, mi pare cosa fuori dell'onesto!

Don Rodrigo                 - E' vero, ma caro figliolo, non sapevo l'animo vostro.

Flaminio                        - Fatto il contratto, volete rompere le leggi del matrimonio?

Don Rodrico                 - Non si può, è disdicevole.

Ignazio                          - Non rompo le leggi del matrimonio; ma che un frettoloso decreto sia fatto con mia infamia, non lo patirò. (A Flaminio) Ingannatore e traditore! 48 :

 Flaminio                       - Se questo che ho fatto per amore si deve chiamare tradimento, definiamolo con le armi!

Don Rodrigo                 - Che... che...? Don Flaminio, tu parli troppo liberamente e fuor de' termini!

Ignazio                          - Zio, voi ne siete la causa! Avete fatto diven­tare la vergogna audacia! Ma ella sarà mia, che tu voglia o non voglia! E veniamo alle armi!

Flaminio                        - Chi mi deve tor Callidora me la torrà con la punta della spada!

Don Rodrigo                 - Fermatevi, fermatevi!

Ignazio                          - Grida come se fosse ingiuriato e non avesse ingiuriato gli altri!

Don Rodrigo                 - Questo è il' rispetto che mi portate? Questo cambio rendete voi a chi vi ha allevato e nutrito come padre? Così abusate del mio amore?

Ignazio                          - Ma ora vedremo se saprai menare così le mani come ordire tradimenti.

Don Rodrigo                 - Ferma, don Ignazio... don Flaminio...! I Oh, che misero spettacolo!

Polissena                       - (si affaccia alla porta) Fermate, fratelli, fermate, cavalieri!

Ignazio                          - Non siamo più fratelli, ma crudelissimi nemici!

Polissena                       - (frapponendosi) Non lasciate che lo sde-gno passi insino al sangue.

Ignazio                          - Di grazia, madre, toglietevi di mezzo, o faremmo un errore peggio del primo se offendessimo voi.

Polissena                       - O figlie nate sotto cattiva stella, che in­vece di dote appartate ai vostri sposi scandalo e sangue...! Figlioli miei, se amate le mie figliole è debito che amiate ancora la madre! La madre vi chiede: lasciate il furore delle armi.

Ignazio                          - Non lascerò la spada se prima non lascia la sua.

Flaminio                        - Prima deve lasciare la sua.

Polissena                       - Ecco, ora sto in mezzo ad ambedue, e l'uno non può ferire l'altro se non ferisce prima me. Don Ignazio, se non è spenta la memoria dell'amor vostro, lasciate le armi. Almeno inclinate le spade a tèrra.

Ignazio                          - V'obbedisco.

Flaminio                        - V'obbedisco.

Polissena                       - Finalmente! Don Ignazio, di che cosa vi dolete del fratello?

Ignazio                          - Egli mi ha tolto Carizia, e vuole sposare Callidora. . '

Flaminio                        - Callidora mi fu concessa da Eufranone e dallo zio, e lascerei piuttosto la vita che lei.

Polissena                       - Se amavate Carizia, com'è che ora amate Callidora?

Flaminio                        - Amo in lei l'immagine di Carizia, e l'amor mio è immedicabile, insopportabile, non sente ragioni.

Polissena                       -  Perché l'amate tanto, vostra sia; e farò che don Ignazio ve la conceda.

Ignazio                          - Madre, non vi promettete tanto da me, che anche se lo volessi non potrei.

Polissena                       - Sì che potreste.

Ignazio                          - Se potessi non vorrei.

Polissena                       - Vi darò io un rimedio.

Ignazio                          - La morte sola sarà un rimedio, che il imo spirito si unisca al suo.

 

FINE