…e, poi, sarà la notte.

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…E, POI, SARA’ LA NOTTE

(LA GRANDE AURORA)

di GUALBERTO TITTA

TRE TEMPI DRAMMATICI

SECONDA EDIZIONE

PERSONAGGI

Professor Lehnoff                60 anni                                 

Ingegner O’ Hara                 30 anni                        

Simone                                  22 anni

ATTO PRIMO

Una vasta camera quadrata, in legno, nella baracca che serve da abitazione, ufficio e laboratorio al professore. Siamo in un accampamento per l’estrazione del tannino, nelle foreste del Chaco, al confine argentino - boliviano, sotto il Tropico del Capricorno. La comune è a sinistra, e dà direttamente su di uno spiazzo boscoso. Ha una solida porta ed una stuoia. A destra c’è una porta senza battente, con solo una specie di tenda assai mal ridotta. Al centro, altra porta con una tenda, oltre la quale si scorge un tavolo ingombro d’oggetti da laboratorio: provette, lambicchi, recipienti; è il deposito. Nel mezzo della scena vi è un massiccio tavolo, attorno ad esso alcune rozze seggiole. In prima sinistra troneggia una sporca e fumosa stufa di ferro. Nell’angolo di sinistra c’è un portacatino con bacinella, brocca e asciugamano. Nell’angolo di destra, alla parete, una specie di stiletto. Fissate alle pareti delle carte topografiche, delle illustrazioni di giornali, dei pezzi di carta con annotazioni, un barometro, un fucile. Cumuli di libri si accatastano un po’ dovunque, negli angoli. Dal soffitto pende una sporca lampada a petrolio.

Scena prima

O’HARA (da destra) – Chi è là? Non c’è nessuno, qui? E’ permesso? (caccia il capo     all’interno) Amici? Accidenti alla buona accoglienza… Non c’è un cane… (esce, poi rientra con una grossa valigia ed un sacco, che butta in un angolo. Poi dà un’occhiata attorno) Peuh… Topaia… Mah, se tanto mi dà tanto… (si butta a sedere) Qualcuno verrà, no? (si toglie il casco e si asciuga il sudore) C’è da crepare… (cava la pipa, la carica e l’accende).

SIMONE (entra da destra ed attraversa la scena, accorgendosi di O’Hara mentre sta per uscire) – Beh?

O’HARA – Beh?

SIMONE – Buon giorno

O’HARA – Salute e bene. Siete voi il professor Lehnoff?

SIMONE (sorridendo) – No… no… Il professore è assente…    

O’HARA – Io sono O’Hara, il nuovo ingegnere…

SIMONE – Per la ferrovia, vero?    

O’HARA – Già, la ferrovia… Una ferrovia quaggiù… In questo intrigo d’inferno… Roba da pazzi… (scrollando le spalle) Del resto, contenti loro…

SIMONE – Loro chi?    

O’HARA – Che domanda! Quelli della Società… (breve pausa) Tarderà molto?

SIMONE – Il professore? Non credo. E’ andato fino a El Cherro, al Lazzaretto…    

O’HARA (sobbalzando) – Al Lazzaretto? Come sarebbe a dire?

SIMONE (noncurante, mentre sistema qua e là, con calma, i libri e gli altri oggetti per la camera) – Lo chiamano così, tanto per distinguerlo… Ma non è nulla di speciale… E’ un’estancia nella quale vengono ricoverati gli indigeni colpiti dalla febbre gialla, dal colera, dalla difterite…     

O’HARA – Che allegria!

SIMONE – Eh, caro ingegnere: il mondo non è poi tanto bello come si crede…    

O’HARA – Io non l’ho mai creduto troppo bello, ma, parola d’onore, preferirei starmene a Buenos Ayres, in Calle Florida, al Caffè Richmond, con un bel bicchiere di birra innanzi, anziché qui, in mezzo a queste foreste della malora, a cento miglia dal primo centro abitato, fra belve e pantani, e con la prospettiva di beccarmi una di quelle febbrette famose, di quelle che ti mandano ad ingrassar la terra in ventiquattr’ore.

SIMONE – Ognuno nasce con un destino ed una missione. Non ci si può sottrarre al proprio destino. La volontà di Chi ci guida è più forte di tutto.    

O’HARA (guardandolo, meravigliato per quanto ha detto) – Chiacchiere. Se non mi fossi fatto pelare come un tordo a quel tavolo di poker, non sarei stato costretto a firmare il contratto per farmi deportare quaggiù… (sospira) Mah… Via. Malinconie. Dite un po’, ragazzo…

SIMONE – Non sono un ragazzo… Ho quasi ventidue anni…    

O’HARA – Scusate… Giudicavo dalla statura…

SIMONE – Mia madre era un’india… Cresciamo poco, noi…    

O’HARA – Lo vedo. Comunque, non si beve, qui?

SIMONE – Certo.    

O’HARA (sorridendo) – Benone…

SIMONE – Acqua.    

O’HARA (rabbuiato) – Acqua?

SIMONE – Distillata. Abbiamo un vecchio lambicco metallico che…    

O’HARA – Scusate, ma del vostro lambicco io me ne infischio. Ho chiesto se c’era da bere qualcosa di tonico, di rinforzante…

SIMONE – Ah, qualcosa di alcolico? Sicuro.    

O’HARA – Ora ragioniamo.

SIMONE – C’è del whiskj, del gin, del cognac…    

O’HARA – Magnifico… E… se ne potrebbe avere un bicchierino?

SIMONE – Poi.    

O’HARA – Come poi?

SIMONE – Quando viene il professore. Ha lui le chiavi della cassetta dei veleni.    

O’HARA (con un soprassalto) – …Dei veleni?

SIMONE – Sì. La cassetta dove tiene l’arsenico, la morfina, l’oppio, la stricnina, l’acido solforico…    

O’HARA – Assieme alle bottiglie di liquore?

SIMONE – Già.    

O’HARA – E… e non sbaglia mai di recipiente?

SIMONE – Fino ad oggi mai, pare.    

O’HARA – Come «pare»?

SIMONE – Eh, caro ingegnere… Capirete… Questo è un luogo molto strano, assai difficile per viverci… Un tale sta bene, bello, sano, fresco… Magari viene a trovare il professore… beve con lui, poi sorte, fa quattro passi e… paff, stramazza secco.    

O’HARA – Morto???

SIMONE – O quasi. Cos’è stato? Perché? E’ l’aria, il clima, l’umido delle paludi… Lo portano al Lazzaretto…    

O’HARA (facendo gli scongiuri) – Giovanotto, non siete di natura allegra, voi.

SIMONE – Io? Anzi. Ho un carattere…    

O’HARA – E’ un quarto d’ora che sono arrivato e mi avete sapientemente imbottito di veleni, di sincopi, di morbi fulminanti… Parola d’onore, sareste un pessimo agente turistico…

O’HARA – E, presentemente, cosa fate?

SIMONE – Studio le febbri tropicali.    

O’HARA – Siete un fenomeno ambulante. Così, volete diventare dottore in medicina?

SIMONE – No: solo in farmacia. Fra due anni. Mi laureerò a Tucuman, spero.    

O’HARA – Siete un genio in barattolo… Scusate lo scherzo, vero? Intanto, auguri. E fate, sì, insomma, da apprendista, qui?

SIMONE – Sì. Il professore è un vero valore.    

O’HARA – Russo, vero?

SIMONE – Mah. Credo. Almeno, il nome pare.    

O’HARA – Che tipo è?

SIMONE – Poche parole e molti fatti. Gran medico e grande operatore… quando non è ubriaco.    

O’HARA – Beve?

SIMONE – Purtroppo (breve pausa). Qui, caro ingegnere, se non si beve si crepa.     

O’HARA – Allora, anche voi…?

SIMONE – Io? No. Io non bevo.

O’HARA – E non siete crepato? Come mai?

SIMONE – Vi ho già detto di essere figlio di un’india… Questo è il nostro clima naturale… E poi, io ho altre idee, altri sentimenti…    

O’HARA – Perdonate, ma non vedo quale punto di contatto ci possa essere fra la sensibilità di una persona e la necessità, perché qui è questione di necessità, di tracannare ogni tanto un bicchierotto di cognac per ammazzare i microbi.

SIMONE – Mi hanno sempre insegnato a considerare l’ubriachezza come una forma ributtante di degradazione umana…    

O’HARA – D’accordo, ma noi non si parla di ubriachezza cronica.

SIMONE – Non se ne parla, ma ci si arriva senza accorgersene.    

O’HARA (noncurante) – Tante volte è meglio poter dimenticare.

SIMONE – Ci si risveglia con la bocca fetida, poi.    

O’HARA (alzando le spalle) – Tanto fa. Del resto, l’avete detto voi: se non si beve si crepa.

SIMONE – Ho ripetuto un detto comune fra i paraguayani e gl’indios: ma non è la mia opinione.    

O’HARA – Dovete avere delle strane opinioni, voi.

SIMONE – Perché?    

O’HARA – A sentirvi parlare… Dite un po’: siete cattolico?

SIMONE – Sì.    

O’HARA – L’avrei giurato. Allora, niente da fare. Cattolico, quindi formalista.

SIMONE (ironico) – Credete?     

O’HARA – Certo. Voi cattolici avete una concezione della vita e dei diritti degli uomini troppo angusta, troppo ancorata a delle formule morali sorpassate, stantie… Voi cattolici…

SIMONE – E voi?    

O’HARA – Come io?

SIMONE – Sì, voi. Quale religione professate?    

O’HARA (con gesto vago) – Oh… Così… Protestante, direi.

SIMONE – Siete inglese?    

O’HARA – No: oriundo scozzese… Ma nel nome solo. (ridendo) Sono nato al Cairo da padre australiano e da madre olandese… Tre continenti hanno messo mano alla mia fabbricazione… Ah, ah !

SIMONE – E il vostro «credo» religioso?     

O’HARA (riaccendendo la pipa) – Il mio «credo»? Mah… Dirò così, è piuttosto oggettivo. Pur avendo una personale stima per i cattolici...

SIMONE (chinandosi ironicamente) – Grazie…   

O’HARA (chiacchierando si avvicina alla comune) – …io trovo… Là, là… Abbiamo anche il gentil sesso, qui… Alberi rari dalla solenne fioritura, selve primitive e dolci fanciulle. E’ addirittura l’Eden, questo. Chi è? (accenna a qualcuno che è fuori della comune).

SIMONE (che intanto si sarà messo accanto alla tavola e traffica con certe scatolette, passandone il contenuto di esse, in parte, in una più grande, guarda dove l’altro indica) – E’ la figlia di un’india… Sua madre fu trovata morta a pochi passi dagli impianti, un paio di mesi fa… Il professore l’ha raccolta e le fa sbrigare le faccende di casa… Lava, fa da mangiare… E’ svelta, intelligente: molto.    

O’HARA – Ed anche una bella figliola… E ci sono altre donne, nell’accampamento?

SIMONE – Mai più. Con cinquecento uomini che vi lavorano… Vi pare.    

O’HARA (rabbuiato) – Bello spasso. (andandogli vicino) Ma, scusate, cosa state facendo?

SIMONE – Mischio le polveri per la caccia…    

O’HARA (facendo un balzo indietro) – Acc… E me lo dite solo ora?

SIMONE (calmo) – Perché?    

O’HARA – Con tanto di pipa accesa? E’ il colmo. Lì c’è tanta polvere da farci saltare in aria come stracci…

SIMONE (sempre sorridente) – Oh, ingegnere… Ogni uomo ha la sua vita soltanto in prestito, temporaneamente… E’ uno stato di transizione che solo Uno può allungare o ridurre a suo giudizio. Affidiamoci tranquillamente ai Suoi decreti…    

O’HARA – Sarà come voi dite… Ma io non ho nessuna voglia di affrettare l’esecuzione del… mandato di comparizione. (torna a guardare fuori) Mica male, quella ragazza… (a Simone) Perché sorridete?

SIMONE – Quando siete arrivato avevate la bocca piena di espressioni tutt’altro che lusinghiere su questi luoghi, poi li avete paragonati ad un paradiso terrestre… Non volete permettermi di sorridere?    

O’HARA (a malincuore) – Sia pure… Confesso di sembrare un po’ buffo… Ma ho le mie ottime ragioni… Mi trovo come sbalestrato, qui. Non sono un novellino, no. Ho viaggiato parecchio… Il Sud Africa… L’Europa… Ma l’essere ora qui, in questo sperduto angolo del mondo, dove per arrivarci ci vogliono trecento chilometri di schifosa ferrovia e cento miglia di sgangherato automezzo, e sentirmi discorrere, appena giunto, di epidemie, di rassegnazione…

Scena seconda

(Entra in fretta il Professore. Butta la borsa del primo intervento sulla tavola).

PROFES. – Bravo. Rassegnazione. Questa è la parola… (a Simone)  Sterilizzare la siringa… Sublimato corrosivo, oppio e iodoformio… e chinino ipodermico. Subito.

SIMONE – Subito. (va dietro la tenda, in fondo).

O’HARA (un po’ impacciato) – Sono l’ingegner O’Hara…

PROFES. (mentre si lava frettolosamente le mani nella bacinella) – Ah, quello della ferrovia? Piacere. Lehnoff.

O’HARA – Forse sono importuno…

PROFES. – Nemmeno per sogno.

O’HARA – Cosa è successo?       

PROFES. – Un Indio… Malaria tetaniforme…

O’HARA – Grave?       

PROFES. – Spacciato.

O’HARA – E allora?       

PROFES. – Tentiamo una endovenosa di sublimato corrosivo… Chissà.

O’HARA (esitante) – Ma… ma sono comuni questi casi?       

PROFES. (ironico) – Comuni? Giovanotto, qui, dove a Febbraio abbiamo 55 gradi all’ombra e a Giugno 7 sotto zero, qui, tra la giungla, la savana, le paludi, l’umidità eterna e viscida come i serpi del sottobosco che quando ti ha preso non te la cavi più dalle ossa, qui dove le belve si sono messe d’accordo con gli imprenditori e le febbri per ammazzare quanti più poveri diavoli possono, qui tutto è comune, tutto è normale (Simone rientra e gli porge una borsa di cuoio) Grazie. Sì. Tutto è normale: fuorché la vita. Vi conviene rimanerci?

O’HARA – Ma… Scusate…       

PROFES. (guarda l’orologio) – Tra venti minuti passa l’automezzo per Las Lomitas. Ci sarete dopo quattro ore. Domattina c’è un treno.

O’HARA – Io…       

 PROFES. – Caso contrario, di là (accenna a destra) è pronta una cuccetta per voi. Siete nostro ospite. Si pranza alle sette.

O’HARA – Sì, però…       

PROFES. – Ho fretta. Scusate. E addio se non vi rivedrò (Via. Simone rientra nel laboratorio).

Scena terza

O’HARA (sbalordito) – Beh…Questa, poi. (passeggia per la camera) Che razza di modi… (va a scartare fra i libri) Guardiamo se c’è da passare un po’ il tempo… (legge gli autori) Stirner… Vallèe… Preudhen… Alla larga… Allegre, le letture del vecchio… «Spiritismo»??? Brrr… Lodge… Aksakow… Che miscuglio. Ho capito: non dev’essere troppo divertente la vita, qui… (rientra Simone) Potrei dare un’occhiata al giaciglio?       

SIMONE – Certo, è di là… (accenna a destra) Io vado.       

O’HARA – Un momento… Non mi lasciate… Sono assolutamente nuovo dell’ambiente, e se mi sfuggite pure voi non avrò un cane con cui parlare…       

SIMONE (ironico) – Grazie per il paragone…       

O’HARA (confuso) –  Scusate… Un’espressione idiota, la mia… Non intendevo dire…       

SIMONE – Comprendo perfettamente. Siete in fase di… assestamento.      

O’HARA – Esatto… Certo, la prospettiva di vivere qui per un pezzo… Fra questi indio… Mica cattivi, ma razza inferiore… (si ricorda che Simone è figlio di un’india, si ferma, s’ingarbuglia) No… Volevo dire… (sbottando, esasperato contro se stesso) Oh, ma che jella, oggi. Non ne azzecco una. Scusatemi di nuovo… Parliamo d’altro… Allora, quella ragazza?       

SIMONE – E’ come me. Figlia di un bianco e di un’india… Suo padre era, a quanto lei dice, qualcosa nelle miniere di argento di Potosi, in Bolivia… Ha avuto anche una certa educazione… L’avevano messa in collegio dalle Suore Francesi… Poi, suo padre morì in un incidente di galleria… Lei e la madre intrapresero il viaggio per andare… Non so dove… Forse verso Buenos Ayres. La stanchezza schiantò la madre ai margini dell’accampamento… La ragazza restò con noi… Ecco tutto… In fondo, è una storia comune, qui… Il vostro predecessore si occupava molto di Jana…      

O’HARA – Chi è Jana? Lei?       

SIMONE – Appunto. Nelle ore libere le insegnava l’inglese…

O’HARA – Ah, il mio predecessore. Che ne è successo di lui?     

SIMONE – E’ morto.

O’HARA – Come?     

SIMONE – Come muoiono tutti. Di febbre gialla.

O’HARA (masticando male) – Morire… Morire… Muoiono tutti, qui. E non nasce mai nessuno?     

SIMONE – Difficilmente. Si nasce laggiù, nelle grandi città lontane, sui fiumi: poi, si viene a spegnersi qui…

O’HARA – Quanta tristezza nelle vostre parole… Così giovane.     

SIMONE – Ho molto sofferto, ingegnere… La sofferenza non ha età, e le cancella tutte…

O’HARA – Capisco… Ma voi, sì, voi non avete, oltre alla farmacia, un miraggio, nella vita… Un desiderio…     

SIMONE – Sì (una breve pausa) Mi farò missionario.

O’HARA – Che?!     

SIMONE (ripete) – Missionario.

O’HARA – Si capisce, è un’idea come un’altra… Ma…     

SIMONE – Non è un’idea: è una predestinazione.

O’HARA (che non sa che dire) – D’accordo… E il professore?     

SIMONE (sorridendo) – Con lui, forse, vi riuscirà facile andar insieme. E’ ateo.

O’HARA (guardandolo, a bocca spalancata) – Eh??       

SIMONE – Chiudete la bocca, sennò c’entra una stegomya fasciata…

O’HARA – Una?… Che cos’è?     

SIMONE – Una specie di zanzara che porta in giro la febbre gialla…

O’HARA – Ma che allegria la vita, qui…     

SIMONE – Piuttosto, avete appetito?

O’HARA – Appetito? Fame.     

SIMONE – Allora… (improvvisamente si ode di dentro un lugubre richiamo: «Ululelili», «Ululelili». Simone si arresta a mezza frase, interdetto). 

O’HARA – Che cosa vuol dire?     

SIMONE (noncurante) – Niente… E’ un avviso… Sapete aprire le scatole di conserva?

O’HARA (comicamente) – Mi meraviglio. Io sono ingegnere ferroviario.      

SIMONE – Ho capito. Sapete solo far deragliare i treni.

O’HARA – Protesto. So pure farli scontrare. (Si ripete da destra il richiamo) Che c’è da fare? Aprire le scatole è la mia specialità… (Intanto, è calata la sera. Un gran chiarore rossastro penetra dalla comune incendiando le cose e le persone. Simone e O’Hara stanno per avviarsi a sinistra quando irrompe in scena il Professore).

     

Scena quarta

PROFES. – Serrate la porta. Presto.

SIMONE (rapidissimo esegue) – Fatto.

PROFES. – Jana è in casa?

SIMONE (che è corso a guardare a sinistra) – Sì… E’ in cucina…

PROFES. (togliendosi la giacca, va a staccare dalla parete il fucile e lo esamina, lo carica e lo posa presso la parete).

O’HARA – Che cosa succede?     

PROFES. (indifferente) – Un giaguaro.

O’HARA (sbalordito) – Eh??     

PROFES. – Sì. E deve aver fame. Gli indigeni lo hanno scoperto mentre puntava da questa parte…

SIMONE – Abbiamo udito il segnale.

O’HARA (ripetendo a se stesso) – Il giaguaro…     

PROFES. (seccamente) – Ma sì. Ma sì. Un giaguaro. Non è la fine del mondo. Ne abbiamo tra i piedi tutto l’anno di giaguari, di puma, di leopardi… E con ciò? Perdiamo forse l’appetito? (va alla porta di sinistra) Ho fame, Jana. Sbrigati. (a O’Hara) Nient’affatto. Perché dovremmo perderlo? Per paura della morte? Vita… Morte… Peuh… Idee che noi scambiamo per fatti concreti… La vita?? Cos’è? Ah, ah, ah. I biologi ci si rompon la testa sopra con la loro filosofia scientifica… Che buffi! (va a rilavarsi le mani) Quando una tesi diventa filosofica non è già più scientifica… E allora? E la morte? Cosa c’è dopo? Che ne accadrà di questa vecchia classica anima metafisica? E perciò, sotto con le induzioni, le profezie, i terrori… (ride) Che sgangherata carcassa il mondo. (a O’Hara) Beh? Cosa c’è, da star lì, fisso, con quel viso da «De Profundis»? Paura, forse?

O’HARA (riscotendosi, a denti stretti) – Paura? Io? (con uno scatto violento) Ah, per…     

PROFES. (stroncandogli col gesto, sempre calmo, l’imprecazione) – Ingegnere, qui non si bestemmia.

O’ HARA (guardando rapidamente Simone e il professore, interrogativamente) – Come? Professore… Voi…???      

PROFES. – Io non credo in Dio, ma non lo bestemmio…

SIMONE (dall’angolo della scena dove si trova, lento, chiaro, se pur quasi sottovoce) – Ma il non credere in Dio è già una bestemmia…

      (Un grande silenzio cala su tutti. Il Professore guarda a lungo Simone).

PROFES. (lentamente, come parlando a se stesso) – Sì, il giaguaro è una belva terribile… il suo orecchio è fine… la vista acuta… gli istinti sanguinari… è nomade… Anch’io sono nomade… (forte e deciso, alla porta di sinistra) Jana? Manzo lesso, vero? Ottimo. (agli altri due) Lesti, apparecchiamo… Tra poco si pranza… E c’è qualcosa di meglio, nella vita, forse?

ATTO SECONDO

La stessa scena del primo atto. E’ sera. La lampada è accesa. Attorno alla tavola, i tre hanno terminato di pranzare. Seggono uno per lato, tranne quello verso il pubblico. Fuori piove: gli scrosci d’acqua sono continui e monotoni. La stufa è accesa e diffonde un leggero vapore. Il Professore si arrotola una sigaretta e parla. O’Hara fuma la pipa. Simone è in attitudine di intelligente attenzione.

Scena prima

PROFES. – … fu nel 1912, a Strhlen, in Slesia, che conobbi Ehrlich. Da due anni ormai la sua scoperta aveva rivoluzionato il mondo scientifico e toglieva quotidianamente ai manicomi e ai cimiteri tanti infelici…

SIMONE – Che tipo era?

PROFES. – Simpaticissimo. Gran fumatore, gran bevitore e già virtualmente liquidato dal diabete… Ma in laboratorio aveva sempre ragione lui. (a O’ Hara) Un fiammifero, prego… (O’ Hara gli accende la sigaretta) Grazie. Immaginatevi, che scriveva le formule sul retro delle carte da gioco, era pazzo per i «solitari», e non leggeva che romanzi polizieschi: i «gialli» d’oggi. (con un mezzo sospiro) Mah…

O’ HARA – Rimpiangete qualcosa?

PROFES. – Io? Ho dimenticato perfino come si rimpiange, che cos’è il rimpianto. Sono tanti anni che ho rotto i ponti con tutte le affezioni sentimentali. Il rimpianto è come il rimorso: il riconoscimento di un proprio errore o di una propria colpa. E gli uomini come me non hanno il tempo di voltarsi indietro per rimpiangere.

SIMONE – Possedete una filosofia tutta personale, professore.

PROFES. – Sì, la vita è, spesso, la più acre delle maestre.

O’HARA – Sono molti anni che siete in America, vero?

PROFES. – Venti. Ci venni… (si rabbuia di colpo, per il ricordo. Si ferma. Poi, bruscamente) Ma cos’è? Si mura a secco, stasera? Scusa, Simone, ho sete… (gli porge una chiavetta).

SIMONE (si alza e va ad aprire lo stiletto a muro, dal quale trae due bottiglie di liquore e dei bicchieri).     

PROFES. – Sono un po’ in pensiero per Jana… Aveva l’aria troppo stanca, stasera…

SIMONE – E’ già andata a coricarsi…

PROFES. – Whisky o gin?

O’HARA – Whisky… Grazie… (prende il bicchiere che il professore gli porge) Alla salute… (beve).

PROFES. (dopo aver bevuto con voluttà) – Brr… Rigenera… C’è poco da dire… Un bicchierino di gin rigenera… Già, sono vent’anni che mi trovo in America… Cominciai a Punta Arenas, in Patagonia… Ero medico addetto alle miniere di carbone di Loreto… E’ un’antica colonia di deportati, Punta Arenas: ma, mica male, però… (beve) Clima freddo ma sano… Ci stetti tre anni… Poi, mi urtai con i Salesiani… Tutto, laggiù, è nelle loro mani… educazione… commercio… 

SIMONE – Volendo esagerare si può dire che la Patagonia è una colonia salesiana…

O’HARA (senza interessamento) – Sì?

PROFES. – Fortuna che i tempi sono mutati, sennò quei buoni fuegani passavano il rischio di finire come i paraguayani al tempo della Compagnia di Gesù…

O’HARA – Furono tanto brutti, quei tempi?

PROFES. – Tanto che finirono con una rivoluzione…

O’HARA – Io credo che in una rivoluzione una sola categoria di persone ci guadagni: i vetrai.

SIMONE – Non siete troppo bene informato, professore. Fu solo durante i due secoli della repubblica gesuitica, una repubblica le cui basi economiche erano perfettamente comuniste, che il Paraguay fu ricco e felice.

PROFES. (ironico) – Davvero? Voltaire non è di questo parere. Basta leggere Candido… (beve e si alza).

SIMONE – Voltaire era un uomo di molto, di troppo spirito… Briand diceva di Talleyrand: «Un po’ di fango in una calza di seta…». 

PROFES. (che sta frugando fra i libri) – Del resto, caro Simone, l’aforisma del filosofo equivale il precetto del Vangelo. E’ sempre una formula per esprimere un giudizio, una sentenza… 

SIMONE – Ma non una verità…

PROFES.  (a O’Hara) – L’avete letto questo?

O’HARA (prendendo il libro) – No: e nemmeno ci tengo.

PROFES. – E perché?

O’HARA – I libri di questi pensatori deliranti mi urtano i nervi… Preferisco rileggermi Mark Twain e Sterne, che ho in valigia.

PROFES. (avvicinandosi al tavolo, vi posa alcuni libri: poi si versa da bere) – Avete torto. E’ appunto seguendo le idee di questi uomini, le loro tesi, la terribile verità che è nelle loro parole che ci si convince di quanto poco c’è da perdere rischiando la vita tutte le ore del giorno, come facciamo noi…

SIMONE – E’ gente che nega la parte più bella della vita: l’ideale.

PROFES. – Ecco che mi sfoderi una delle frasi fatte… Ma chi ti dice che l’ideale è la parte migliore della vita? Ma cos’è l’ideale? Cos’è questo assurdo che non ha un’esistenza obiettiva ma solo pensata? Questa sfinge che inganna gli uomini col suo corpo di belva e il viso di femmina?

O’HARA – E’ la molla che fa scattare l’umanità, professore.

PROFES. – Nego. L’ideale, essendo fuori di noi, è quello che ci impedisce di disporre della nostra vita come vorremmo. E’ un serpe incantatore che, volta a volta, noi chiamiamo Vocazione, missione, finalità… e, in definitiva, è il miraggio che ci avvelena con la sua irraggiungibilità fino al giorno in cui tiriamo le cuoia… Noi siamo animali: esseri qualunque; poco più delle bestie, delle piante, dei cristalli, la cui esistenza non è coordinata verso nessun fine… Noi «viventi» siamo l’unica realtà: realtà che cessa con la nostra morte.

O’HARA – Ma professore, questo è materialismo della più bell’acqua…

PROFES. – No: è il limpido riflesso della ragione…

SIMONE (leggendo un libro) – La ragione è spesso come un ubriaco a cavallo…

PROFES. – Là, là, ecco il nostro buon cattolico che ci cita uno dei suoi dottori (si versa e beve) Chi è, Sant’Agostino?

SIMONE (sorride mostrando il libro) – Affatto: anzi, il suo peggior nemico: Lutero.

O’HARA (che è alzato, e scarta anche lui fra i libri) – Prenderò questo… Però, professore, tentare di discutere con voi equivale ad arrischiare di azzuffarsi…

PROFES. (sorridendo) – No, no…

O’HARA – A me sembra che sia la verità…

PROFES. (innervosendosi, prende a passeggiare per la scena) – La verità non esiste. Essa non è che una forma della vanità. Una forma. Come la Giustizia, l’Umanità, la Patria.

O’HARA – Ma, allora, cosa esiste per voi?       

PROFES. – La libertà di pensiero.

O’HARA – Ma la libertà di pensiero non è che la libertà d’ipotesi.

PROFES. – Parole, nient’altro che parole di sheakspiriana memoria. Per molti anni ho trascinato in me quel fardello di sofismi che formano la religione. Ora me ne sono liberato: e non tornerò sulla proda della strada per raccoglierlo di nuovo. No. Per molti anni mi son suonate all’orecchie parole di pietà, fraternità, perdono… (brusco, quasi violento) In malora! La vita mi ha insegnato cosa si nasconde dietro a quelle parole. Fraternità? Anche Caino ed Abele erano fratelli… Pietà? Non è che egoismo. Perdono? Una manifestazione dell’orgoglio… E qualche volta i padri perdonano ai figli, mai i figli perdonano ai padri: non fosse altro che per vendicarsi di averli messi al mondo. I figli… spesso non  comprendono… non intuiscono… e giudicano, giudicano brutalmente… Io stesso, che vi parlo, sconto. (si ferma bruscamente. Fissa i due che lo guardano come attendendo la rivelazione che egli stava per fare. Scoppia di colpo a ridere) Ah, ah, ah, parole… Di certo, di vero non c’è che la morte. (beve).

O’HARA (con comica gravità) – Purtroppo. E’ la cambiale che ci mettono nelle fasce quando nasciamo. E nessuno ce l’avalla.

PROFES. (che ora parla lentamente, perché l’alcool comincia ad agire su di lui; anche la sua andatura si è fatta un po’ malferma) – Conoscete il ragionamento di Diogene attorno alla morte? No? Eccolo. Diogene, quell’allegro birbante che filosofeggiava per ingannare se stesso e la gente, un giorno raccolse intorno a sé i suoi discepoli e disse loro «Ragazzi miei, quando sarò morto mi getterete su di un immondezzaio» Al che i discepoli, addolorati, risposero «Ma amato Maestro, i corvi verranno a cavarti gli occhi e i cani a roderti le ossa». E lui, calmo «E sta bene. Allora, mi porrete accanto un bastone, acciò possa difendermi». E i discepoli, sbalorditi «Ma come potrai difenderti, se sarai morto e più non sentirai cosa alcuna?» E lui, ghignando «E se non sentirò cosa alcuna, che me ne importerà dei corvi e dei cani?»      

O’HARA – Era un cinico…

PROFES. – No: un logico. Lo straccione di Sinope era un logico che viveva secondo natura…

SIMONE – Come i bruti.

O’HARA (facendo cenno a Simone che il Professore non è, ora, del tutto in sé, e di smorzare la discussione) – E piove… Son dieci giorni che non leva acqua da terra… E’ un’ossessione.

SIMONE – La stagione delle piogge, qui, è molto pesante a superarsi… E i tuoi lavori?

O’HARA – Sospesi… sospesissimi. Abbiamo fatto i rilievi di tutto il tracciato fino a Rio Ityuro… ma la palude è difficoltosa a snodarsi… Ci saranno otto chilometri di rilevato… una spesa enorme, perché il brecciame per la massicciata lo dovremo far venire dalle cave di Salta…

SIMONE – Se ne avrà un vantaggio positivo, dopo?

O’HARA – Certo. Lo sfruttamento delle foreste del Chaco ne caverà grandi utili…

PROFES. (come brontolando fra sé, mentre tenta di accendere un’altra sigaretta. Ma la mano gli trema, e, alla fine, con un moto d’ira, desiste, e si versa ancora da bere) – Sfruttamento… Non c’è altra parola, oggi: sfruttamento. Per poche monete al giorno migliaia di poveri diavoli vivono nel pantano, nella diaccia semioscurità della foresta a segare o grattare quelle maledette piante di quebracho o di guaycaia… e altri si arricchiscono… E io? Io che ho logorato tutta la mia esistenza in un laboratorio o al tavolo anatomico… (sputa con disprezzo) Peuh!… Schifo!

O’HARA (con un’occhiata d’intesa a Simone) – Brutta serata, questa…

SIMONE – Sì, la burrasca s’avvicina…

PROFES. (ora cammina, sebbene barcollante, a grandi passi per la scena. Un sordo rancore rimugina in lui e cerca di esplodere) – Che schifo… La vita? T’ammazzi come un dannato a studiare , a salvar vite, a tagliar carni come un macellaio sacro, a far del bene a migliaia di tuoi simili, e sol perché la tua idea non è quella di tutti, sol perché dici: «No, bestia da soma, no, non è l’uomo che è fatto a somiglianza di Dio, ma è Dio che noi ci siamo fatto a nostra somiglianza», solo per questo ti si lascia solo come un cane rognoso… I figli ti abbandonano, la porta di casa ti è sprangata per sempre… E’ il muro senza fine che l’inflessibilità religiosa leva fra chi crede e chi nega… E tu te ne vai ramingo per il mondo, cercando di accostarti ai tuoi, se non nel corpo nello spirito… perché sei padre… (rivoltandosi contro se stesso) Ma dovevo essere anche maestro, e non lo fui… E poi? Poi il vento della rivoluzione travolse tutto e tutti, e sparse le ceneri della casa che io avevo distrutta ai quattro canti della terra… La rivoluzione che avevo sognato… (si ferma, dà un gran pugno sul tavolo. Breve pausa. Si ode la pioggia) Piove… (il suo tono si fa più calmo) Maledetto tempo. Acqua, acqua e poi acqua… E la malaria e la dissenteria si porteranno via la gente a mucchi… Che schifo, la vita… (cade a sedere e si versa da bere).       

O’HARA (guarda l’ora al polso) – Le dieci… Termino la mia pipa, poi me ne vado a cuccia… Del resto, qui, anche se non ne hai voglia, ti devi per forza svegliare all’alba. Gl’indi, con quei loro tamburi, fanno un tale concerto…

SIMONE – Non sono tamburi… Sono tronchi d’albero svuotati. Salutano il sole. Il loro gran sole…

O’HARA (guardando il Professore che, buttato di traverso su di una seggiola, sta col capo riverso sul braccio che poggia sul tavolo) – Però, come si riduce… 

SIMONE – Guardagli le mani, ora.

O’HARA (osserva) – Tremano leggermente…

SIMONE – E’ nevrite alcolica. E’ spaventoso. Lui lo sa, ma seguita ad avvelenarsi… Se continua così fra due mesi non potrà incidere nemmeno più un ascesso… Che pena!

O’HARA – Tra gli indigeni si dice che abbia fatto dei miracoli…

SIMONE – Miracoli? Alla festa di chiusura della stagione del taglio, i boscaioli usano ubriacarsi in modo terribile. L’acquavite corre a fiumi e poi corre a fiumi il sangue… Ebbene, in due anni che lo conosco, gli ho visto fare delle laparotomie e delle craniotomie quasi ad occhi chiusi… Perfette… (considerandolo, triste) Mah…

O’HARA – E non è possibile far niente? Fermare quel tremito?                 

SIMONE – Sì, potrebbe farsi delle iniezioni di cloralio e morfina, ma…

O’HARA – Ma?

SIMONE – Ma siccome è nello stato acuto della malattia, una sola di quelle iniezioni gli renderebbe la sicurezza, la padronanza dell’arto, sì, ma dopo un quarto d’ora la paralisi lo agguanterebbe… Poi, forse, anche la fine…

O’HARA – Una specie di suicidio… Chissà se ci ha mai pensato, lui…

SIMONE – Non credo. Il suicidio è, anzitutto, un attentato contro i diritti di Dio: e lui non gli riconosce alcun diritto…

O’HARA – Ho l’impressione che nasconda un segreto, in sé… Forse qualcosa di molto triste o di molto brutto… Ti pare?

SIMONE (ripete) – Mah… (breve pausa)

O’HARA (si alza, si stira le membra, spegne la pipa) – E’ ora?

SIMONE – Già… Buona notte.

O’HARA (si ferma sotto la porta, e accenna al professore) – E lui?

SIMONE – Quando gli sarà passato lo stordimento se ne verrà a letto anche lui. Fa sempre così. (escono).

Scena seconda

(Nel silenzio, gli scrosci d’acqua si fanno più intensi. Un ululato di belva lontana scuote il Professore che ha un gesto pesante per scuotersi dal proprio torpore. Rialza il capo e gira attorno lo sguardo atono. Meccanicamente la sua mano si tende verso il bicchiere che riempie di liquore e vuota di colpo. La forza dell’alcool lo scuote. Si guarda in giro con maggiore attenzione. Cava l’orologio e lo scruta, perché è evidente che i suoi occhi non sono troppo sicuri. Borbotta qualcosa d’intelleggibile. Vede il libro scelto da O’Hara e dimenticato sul tavolo. Lo prende. Lo sfoglia. E’ chiaro in lui lo sforzo per scuotersi dallo stordimento della ubriachezza. Legge).

PROFES. – «La luna

girò nello spazio prima sereno

come un enorme uccello ferito

le ali spezzate e sanguinante il petto…»

Peuh… Versi… Chi è? (guarda la copertina) Poesie di Olegario Andrate… 1887…

      «E si spensero le bianche stelle

Lugubremente crepitando

come gli spenti ceri dell’altare

dal freddo soffio del notturno vento…».

Ah… (chiude il volume sbattendolo via) …gli spenti ceri dell’altare… Che lagna! Altari… Santi… Miracoli… (ridacchia) Ora, miracoli ne fa solo questa. (prende la bottiglia ma si avvede che è vuota) Diavolo… Repetita juvant… (si alza a fatica e va allo stiletto a muro, ma nello sforzo per aprirlo, essendo egli malsicuro sulle gambe, traballa, perde l’equilibrio, gira su se stesso, si aggrappa alla tenda della porta di centro e finisce per ruzzolare nel laboratorio con gran fracasso di vetri frantumati. Si rialza con difficoltà, mentre entra Simone. Il viso del giovane è ansioso).

Scena terza

          

SIMONE – Professore…

PROFES. (brusco) – Beh? Ancora in piedi? Niente… Non è successo niente… Qualche barattolo… (lo fissa un po’) Ma che c’è?

SIMONE – Jana ha la febbre alta…

PROFES. – E con ciò?

SIMONE – La tosse le rode la gola… Sono andato a chiederle se aveva bisogno di qualche cosa…

PROFES. (alla catinella, si passa dell’acqua sul volto) – Le ho fatto ieri un’iniezione di Schick…

SIMONE – Ho controllato la puntura… è arrossata… La reazione è positiva…

PROFES. (guardandolo interrogativamente) – No??

SIMONE – Ho paura di sì… Venite a dare un’occhiata voi…

PROFES. – Va bene… E che hai fatto, tu?

SIMONE – L’ho liberata degli abiti… Le ho tolto questa roba dal collo che le dava noia… (depone sul tavolo uno scaletto, delle vesti e una specie di medaglione).

PROFES. (scuotendosi) – Vatti ad inalare, poi portalo a me…

SIMONE (entra nel fondo, ma si riaffaccia subito, interdetto) – Professore, ma…

PROFES. (seccamente) – Sbrigati. Dammi il sublimato… (Simone gli porge una bottiglia, lui ne versa un po’ nel bacile, si lava le mani, si asciuga e va nel laboratorio. Di dentro) Sì, porta lì il polverizzatore… la trementina… e il laringoscopio…

SIMONE (sorte dal centro con una scatola e va a destra).

PROFES. (lo segue. Breve pausa. La pioggia, ora, è quasi cessata. Simone rientra, va nel laboratorio e ne riesce con la borsa di primo intervento e va a destra. Dopo poco rientra in scena assieme al professore).

PROFES. (è cupo. Brontola a mezza voce) – E’ così… (breve pausa) E’ difterite… il cuore è debole… Prepara la morfina… bradicardia in atto… Povera piccolina! Cominciamo con le compresse di Pressnitz…

SIMONE – Sta molto male, vero?

PROFES. (senza pronunciarsi) – Pare… La tosse è scarsa, troppo… l’emissione dei lembi di essudato è faticosa…

SIMONE – Allora?

PROFES. (brusco, nervoso) – Allora, allora. Siero di Behring… sostenere il cuore… Ecco… Va in cucina e prepara un decotto d’ipecacuana, per la tosse. Subito. (Simone va nel laboratorio. Lui gira per la camera. E’ evidentemente impensierito. Mormora) Povera piccola! (nota le vesti di Jana sul tavolo) Bisogna disinfettarle… (Prende il tutto e fa per buttarlo in un canto, quando vede il medaglione) Che roba è? (getta la roba in un angolo, e torna al tavolo. Prende il medaglione. Lo fissa. I suoi occhi divengono attoniti. Si passa una mano sulle palpebre poi alza il medaglione verso la lampada, per osservarlo meglio. Le mani gli tremano. Il suo viso è stravolto. Dalla gola serrata, rauco gli sorte più un rantolo che un grido) Stefano? Stefano?? Allora?? (il viso gli si illumina d’una immensa speranza. Torna a riguardare il medaglione sotto la luce della lampada. Gli occhi gli sfavillano. Mormora) Stefano…

SIMONE (compare dal laboratorio. E’ stravolto) – Professore?

PROFES. (non risponde, affascinato nella propria estasi).

SIMONE (con voce di terrore e di preghiera) – Professore… La cassetta dei sieri è fracassata!

PROFES. (ha udito. Il suo corpo è scosso, come se l’avessero colpito alla nuca. Apre la bocca per parlare, ma nessun suono esce).

SIMONE (disperato) – I sieri sono perduti… nessuno… non ce n’è più nessuno!…

PROFES. (si scuote, e con un urlo che non ha nulla di umano, corre verso Simone, lo afferra, lo scuote, follemente) No… No… No…

ATTO TERZO

Qualche ora dopo. La luce della lampada è più pallida. Non piove più.

Scena prima

          

SIMONE (parla con O’Hara, vestito sommariamente. Ambedue hanno la stanchezza scritta sul viso) – …Non si muove dal suo capezzale… Sembra pazzo… 

O’HARA – Ho visto…

SIMONE – Mormora delle parole strane… parla in russo… La chiama sommesso e dolce… Una pena…

O’HARA – Che romanzo, la vita.

SIMONE – E’ sua nipote, capisci? Jana è figlia unica del suo unico figlio… Suo figlio Stefano…

O’HARA – E come mai?

SIMONE – Ho indovinato, più che saputo, la storia… Per le sue idee troppo avanzate in fatto di religione s’era creato un ambiente ostile fin nella propria casa… Si divise dalla moglie e il figlio parteggiò per la madre… Ognuno prese la propria strada… Non si rividero più… Ed ora, la tragedia…

O’HARA – Roba da matti… Per un’idea…

SIMONE – Sì, proprio così: per un’idea. Ma ben altre sventure ha procurato agli uomini il perseverare in un’idea sbagliata…

O’HARA – E allora?

SIMONE – Emigrati in America, dopo vari anni, padre e figlio si cercarono senza mai potersi trovare… e infine… (pausa).

O’HARA – Mah! Che brutta commedia è l’esistenza umana. E la ragazza?

SIMONE – Male… molto male… La respirazione è faticosissima…

O’HARA – E non si può?…

SIMONE – Cosa? La cassetta dei sieri è andata fracassata, e non si può improvvisarne uno…

O’HARA (con tono basso e triste) – E allora?

SIMONE (anziché rispondere, si alza bruscamente, come preso alla gola da un impeto di pianto. Va verso la porta del laboratorio, poi torna, parlando a scatti, veemente ma sommesso) – Sì… sì, ci sarebbe l’intervento chirurgico… la tracheotomia… la salverebbe, perché il cuore regge…

O’HARA (interrogativo) – Eh???

SIMONE – Ma chi, chi lo può fare? (cupo) Le sue mani tremano… tremano spaventosamente… Egli non può fare più nulla… Più nulla… E’ un destino spaventoso, questo… (la voce gli si spegne).

O’HARA (quasi in un soffio) – Sì… (Pausa. O’Hara si alza e si scuote) Fa gelo, qui… Già la stufa è quasi spenta… (guarda l’ora) Le quattro… (ha un brivido di freddo) Brrr (indeciso) Fumerò… (carica ed accende la pipa: ma i suoi movimenti sono lenti, senza convinzione. Simone, intanto, accasciato e torpido nel gesto, va a prendere un libro che dal formato piccolo e spesso si individua per una Bibbia. Lo apre e vi figge gli occhi, tristemente. Dopo una pausa comparisce il professore dalla destra. E’ sconvolto e stravolto, gli occhi accesi, il volto emaciato, i gesti pesanti. I due gli si rivolgono, interrogandolo mutamente).

Scena seconda

PROFES. – Stride… la gola stride… l’ispirazione è spaventosa… le fosse clavicolari s’ingorgano… lo spasimo… Ah!… (con un rantolo che vorrebbe essere un sospiro od un’imprecazione piomba a sedere).

SIMONE (con trepidazione) – E’ sola… Io vado…

PROFES. (con voce assente) – Passale un po’ di glicerina jodata… due o tre pennellate, al massimo…

SIMONE – Sì… (via).

PROFES. – E’ terribile… La morte… Vederla, averla a portata di mano, e non potere, come mille altre volte, afferrarla alla carotide e strozzarla perché… perché le dita si rifiutano di agire… Ah… (si alza di scatto, in un impeto d’ira) Eccole… (si guarda le mani) Mi avete servito per tant’anni, vero? E allora? Perché, perché ancora una volta, una sola volta non volete? (ora il suo tono è quasi supplichevole) Non volete? No? No. Non potete: ecco la verità… Non potete. (scoppia in una risata stridula)  Ah, ah, ah… Buffone di dita… Sapevate essere abili, agili, magistrali, divine… poi, tutto ad un tratto… (irritandosi via via) …ferme!… State ferme!… Un po’ ferme… Da brave… Ferme!… (stringe i pugni, spasmodicamente) State ferme… Così… così… così… (il suo volto è quasi cianotico. La crisi alcolica è prossima. O’Hara che ha assistito, muto e immobile, alla scena, gli corre accanto, lo afferra per le spalle, lo scuote violento).

O’HARA – Professore… professore… Tornate in voi… Professore… (l’ultima invocazione egli la urla così forte e così sul viso del Professore che questi si arresta nell’impeto della propria crisi. Il suo sguardo, che s’era fatto fisso, riprende quasi la sua luce normale. Le mani si dissertano. Tutto il corpo si sfascia sotto una rilassatezza improvvisa).

PROFES. (con un profondo sospiro di stanchezza) – Ah… (ricade a sedere) Scusa, figliuolo… Scusa… (pausa).

O’HARA (quasi affettuoso) – Sentite che vi occorre qualcosa?

PROFES. (come stordito) – A me? Oh, nulla… A me nulla… A lei… Alla mia piccola… Tutto occorre… Tutto… Occorre la vita… La vita che se ne va… (con disperazione) Se solo per dieci minuti potessi fermare il tremito di queste mie dita maledette, ella sarebbe salva… Invece…

O’HARA – E’ terribile.

PROFES. – Come una maledizione…

O’HARA (ripete, come un’eco) – Come una maledizione…

PROFES. – Sì, l’anatema pesa sull’uomo, lo schiaccia… ed egli non può ribellarsi… L’anatema del Fato… L’anatema di Dio… (si ferma dopo aver pronunciato «Dio». Tentenna il capo: poi ripete) Dio? L’eterna menzogna…

O’HARA (lento, a bassa voce) – Non dite così, professore… Siamo uomini… piccoli esseri senza importanza nell’immenso universo… Ma, poiché l’universo, l’infinito è necessario sia per noi qualcosa, qualcuno di definito, esso è per noi Iddio…

PROFES. (lo guarda, poi scuote il capo: negativamente).

O’HARA (con debole sorriso) – Oh… Potete pure sorridere, se parlo così… Io ne capisco sì poco… Ma vorrei… ecco, vorrei infondervi del coraggio… (breve pausa) … della fede… (altra brevissima pausa) Non so dove ho letto una frase così: «Chi ti ha creato senza te, non ti salverà senza te». E’ giusto, no? Eppoi, credete a me… Non costa molto, aver fede… Anzi, non capisco come si faccia a non averne… Forse, costa di più il non averne… (cambiando tono) Ma io dico, forse, delle corbellerie… Scusatemi…

PROFES. (come assente) – No… parlate… parlate pure…

O’HARA – Dico delle sciocchezze… Ma se servissero, almeno, non so… a stimolarvi… a farvi rientrare in voi…

PROFES. – Ma io sono in me… Sono spaventosamente in me… Spaventosamente perché ho visto e vedo… vedo…

O’HARA – Forse credete di vedere… E’ qui il nodo… In Ungheria, siete stato in Ungheria? Nell’Alfòld, lo sterminato bassopiano, nei torridi giorni estivi si produce un fenomeno: il délibàd… la Fata Morgana… E’ una gigantesca immagine aerea di castelli, di torri, di balze montane, di figure apocalittiche… E’ tutto… E’ un’illusione… E’ nulla… E così è, un po’, quello che voi vi create… E’ il dèlibàd che nasce dal vostro cervello…

PROFES. (fissandolo,strano) – Credi?

O’HARA (lievemente scherzoso) – Cento pesetas vincente e piazzato, scommetto… (cambia tono, superficiale) Io, io parlo così… per parlare… E, forse… (guardando, serio, verso destra) … non è il caso di stare a parlare… (guarda l’ora) Bah… E’ l’ora. Al lavoro… Ha smesso di piovere… (va a spalancare la comune) In alto c’è una processione di nuvoloni bigi, ma passeranno anche loro… (va verso il fondo, dove il suo impermeabile è posato, assieme al casco, su di una cassetta. Prende i due oggetti) Beh… (si ferma un po’ presso il Professore, come aspettando che questi gli risponda) Io vado?… (risolvendosi, dando un’altra occhiata all’orologio) A mezzodì sarò qui… (si avvia, poi si ferma. Considera un po’ il professore. Vede il libro che Simone ha lasciato aperto sul tavolo, con l’impermeabile urta il libro e lo fa cadere per terra. Poi, rapidamente, esce borbottando). Arrivederci… (pausa)

PROFES. (è rimasto cupo e assorto. A caso il suo occhio corre al libro che è caduto ai suoi piedi. Lo raccoglie. Lo sfoglia. Una leggera smorfia di sprezzo s’incide sul suo volto, ma non butta via il volume. Anzi, continua a leggiucchiare qua e là, a bassa voce, come in un sospiro) – «Io sono la via, la verità… Finché avete luce, credete nella luce per essere figli della luce… Ogni pianta che non porti frutto viene tagliata e gettata nel fuoco…» (meccanicamente torna a guardarsi le mani che tremano e mormora) Dieci minuti… Solo dieci minuti… (i suoi occhi ricadono sul libro, e legge) «Il figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto…» (di colpo, il suo viso si illumina. Si alza. Una decisione spaventosa e sublime si formula nel suo cervello. Mormora) Dieci minuti… (corre a destra, e chiama) Simone… Simone…

Scena terza

SIMONE (comparisce).

PROFES. (lo afferra per il petto, e, con voce vibrante, secca, incisiva, ordina) – Subito le pinze, gli estrattori, i bisturi, i guanti…

SIMONE (meravigliato) – Ma…

PROFES. (senza ascoltarlo) – …il dilatatore di La borde, un tenaculum… disinfetta tutto… subito, di là… subito…

SIMONE – Voi volete?

PROFES. (violento) – Non parlare. Obbedisci.

SIMONE (soggiogato) – Sì… (corre verso il laboratorio e scompare dietro la tenda).

PROFES. (gli grida dietro) – Anche una canula di Mandrin… (ora tutto è febbrile in lui: la voce, i gesti. Guarda l’ora, e mormora ancora) Dieci minuti… dieci soli minuti…

SIMONE (intanto esce di corsa recando la borsa degli interventi, una bacinella ed altri involucri: va a destra).

PROFES. (va sulla comune e respira a pieni polmoni l’aria fresca dell’alba. Una vaga fascia violacea penetra dall’apertura. Egli guarda il cielo, sempre sussurrando fra sé) – Sono nulla, dieci minuti… Un’eternità… Una vita…

SIMONE (rientra. Và verso il professore. Vorrebbe parlare, chiedergli il perché di un simile folle gesto: ma si ferma e corre in laboratorio).

PROFES. – Pronto?

SIMONE (risorgendo) – Tra un po’… (va a destra con altri oggetti).

PROFES. (lo segue fin sul limitare della porta e gli dice dietro) – Presto… Presto… (riprende a girare per la scena. Afferra il libro: torna a sfogliarlo. Lo getta sul tavolo. Lo riprende. Guarda l’ora. Torna alla porta di destra e guarda dentro. Si decide. Si toglie la giacca, si rimbocca la manica destra della camicia, osserva un po’ il proprio braccio teso la cui mano trema ancora. Mormora pianamente) A salvare ciò che era perduto… (via rapidamente nel laboratorio. Dopo qualche secondo entra Simone).

SIMONE – Prof… (non lo vede) Ah… (corre al laboratorio) Professore…

PROFES. (di dentro) – Che c’è?

SIMONE (col singhiozzo in gola) – Tutto è a posto… ma Jana… Jana rantola…

PROFES. (quasi urlando, con una strana voce nella quale il dolore fisico e quello morale si sopraffanno a vicenda) – Va via… Va da lei… Via…

SIMONE (stordito e stranito) – Vado… Sì… (via a destra).

Scena quarta

PROFES. (viene dal laboratorio togliendosi la siringa dall’avambraccio destro. Il suo aspetto è strano e terribile. Gli occhi gli fiammeggiano d’una formidabile luce interiore. Si ferma presso il tavolo e vi depone su la siringa. Si soffrega l’avambraccio con un batuffoletto d’ovatta. Ora un primo pallido raggio di sole, penetrando dalla comune, indora lievemente le cose. Il professore va sulla comune, alza la fronte verso il sole, leva le mani alla sua carezza. Esse non tremano più. Tutto il suo corpo è, ora, fermo, sicuro, quasi possente. Ma un sorriso smorto è sulle sue labbra. Mormora) – La Fede… La Fede? (con tono sommesso, come sommerso nell’onda di un ricordo, di un desiderio sopito ma ora immanente nel suo spirito) … la Fede è sostanza di cose sperate… (fremendo nell’intimo) Io spero… Io vivo… Ora io vivo… (si avvicina al libro. Lo guarda, ne accarezza la copertina quasi amorevolmente. Ripete) Io vivo perché spero… (con un fil di voce, come parlando all’Altissimo Spirito che dal Libro Sacro s’emana in lui) Perché spero in Te… in Te… (e, rapidissimo, via a destra. Pausa. Ora, lontano e grave e solenne si leva il ritmico tambureggiare degli Indios che salutano il Sole).

Scena quinta

SIMONE (entra. Fa per andare in laboratorio, vede la siringa, si ferma, la prende. Un pensiero gli balena. Si precipita in laboratorio, ansando fra i denti) – No… no… (rientra. E’ stravolto. Con voce spenta, annichilito) Morfina… Cloralio… Si ammazza… Lui si ammazza… (fa per andare a destra ma quello che vede nell’interno lo inchioda sulla soglia. Barcolla. Si appoggia al tavolo per non cadere. Dalla comune entra O’Hara).

O’HARA – Ho dimenticato…

SIMONE (con un gesto di spasmodica attesa, a mezza voce) – Taci…

Scena sesta

PROFES. (rientra. Il crollo fisico è in atto nel suo organismo. Il passo malfermo, pesante, strascicato. Le braccia gli pendono quasi inerti. Solo il viso è luminoso, sereno. Raggiunge la seggiola, vi si accascia sopra. Con voce spenta, ma ferma, a Simone) – E’ salva… Vive… Vivrà… Abbine cura… Ora sei suo fratello… Te l’affido… (il tono si fa sempre più debole) Tu sai la giusta via… Percorretela insieme… Nella luce… sempre nella luce di Lui… (ha levato gli occhi al cielo, come in fervida prece di  remissione per sé. In un ultimo sussurro) Addio… (la sua destra, inerte prima, ora brancola sul tavolo, cerca, raggiunge il Libro, lo prende. Infine, vi appoggia il capo sopra mentre un pallido sorriso erra sulle sue labbra aride, e sospira nell’ultimo alito di vita terrena) Vicisti, Galileo… (e crolla giù con la bocca incollata al Libro, in un bacio senza fine).

SIMONE (col petto squassato da silenziosi singhiozzi, gli scivola accanto, ginocchioni, per terra).

O’HARA (immobile presso la comune, si toglie con gesto grave e lento il casco. Cerca di trattenere le lacrime, ma, alla fine, volge il capo verso la parete per dar sfogo alla sua commozione).

                        (Ora, il tambureggiare degli Indios, che durante l’atto è aumentato gradatamente d’intensità, ha assunto un tono alto e solenne. E il suo ritmo riempie, assieme al gran sole, che adesso inonda la camera, tutta la scena: in un trionfo di vita).