ECCO NERONE OVVERO:
UN PERSONAGGIO IN CERCA D’AUTORE
Di Carlo Terron
ALLEGORIA DELL’ATTORE A PIÙ VOCI IN UNA
OFFERTA PER UN MATTATORE IN BISOGNO DI SFOGARSI
PERSONAGGI
L’attore in:
Nerone
Agrippina
Seneca
Tutti i dati neroniani biografici, cronachistici, ambientali, anche i più parodisticamente proposti, sono riscontrabili sulle fonti storiche ufficiali. A Mario Scaccia, superbo creatore
PRIMO TEMPO
Gettiamo bombe, fratelli pacifici, nei ben pettinati orticelli della ragione. Solo sparando a zero addosso alle squallide muraglie del buonsenso, c’è speranza di schiudere una breccia nell’inaccessibile fortezza del mistero e, diradandone le nebbie, poterne afferrare qualche salvifico brandello. Esclusi dal prodigo dono della fantasia e relegati alla pitocca elemosina dell’immaginazione; capaci, di conseguenza, al più, di oratoria, mai di poesia; pesanti uccelli handicappati, mutilati nelle ali, domestiche oche ammaestrate, come non deplorare, dal fondo del nostro invidioso avvilimento, l’umiliante condanna di non saperci librare nei regni superni dell’insania illuminante, alla rincorsa di verità arcane, coerentissime nella loro incoerenza baracconesca, ebbra dei gloriosi esiti anarchici del proprio disordine, perché – mai scordarsene – l’ordine è, sì, il piacere della ragione, ma il disordine è l’estasi della fantasia. Che costa rischiare? Esistono sconfitte più onorevoli di tante vittorie. Nessuno, che si sappia, ha mai condannato Icaro per aver fallito il folle volo. Cocaina, dunque, alle meningi, gente e, senza badare dove si mettono i piedi, ci si inoltri lungo gli stregati sentieri della metafora, dell’utopia, della chimera, del simbolo, dell’allegoria, parole ambigue, sacre ed inquietanti. Privilegiato colui che ne sortirà indenne. Concreta materializzazione di un irreale vaneggiare, eccoci, dunque trasferiti, salvo scherzi malaugurati dello scenografo e manigoldi stravolgimenti del regista; nei sotterranei di una chiesa che potrebbe essere un teatro, oppure, viceversa, nei sotterranei di un teatro che potrebbe essere una chiesa, ammesso e concesso che possano, eccezionalmente essere, quantomeno significare, la medesima cosa. Quant’è vero tutto codesto falso, quant’è palese quest’occulto, quant’è esplicito quest’esoterico, quant’è sacro questo profano. Luogo reale, oppure dimensione medianica di una fantasticheria visionaria – cose e discorsi, forme e suoni, luci ed ombre – delle più inaspettate, strane, contraddittorie, distorte, dissonanti, mostruose efflorescenze, affastellanti le robe più scompagnate e scomposte della frusta e vetusta attrezzeria, confacenti a due rituali contrastanti, forse convergenti in un rituale solo. Strumenti di culto e finti reperti archeologici: urne ed altari, simulacri di eroi pagani ed effigi di santi cristiani, lampe e turiboli, incensieri e fasci littori, candelabri e flabelli, pissidi e insegne curiali, severi paramenti sacri e frivoli costumi da scena greco-romani, un gigantesco crocefisso emaciato, da tisico all’ultimo stadio, dirimpetto a un colossale Zeus in ottima cera, dalle chiome inanellate; ma potrebbe anche trattarsi di Mosé, colto in periodo di vacche grasse; e capitelli dimenticati come teste mozze di colonne arresesi alla crudeltà del tempo; e baldacchini, troni monumentali, fastosissime poltrone, baroccherie inimmaginabili, che solo il romito del Vittoriale redivivo sarebbe in grado di elencare, lui che ne coltivò la mania: … e sedie, sedie, sedie: le sedie di tutte le chiese e di tutti i teatri e di tutti i bordelli, d’ogni tempo e d’ogni sito. In poche parole: par d’essere, e forse si è, in un magazzino che accatasta e mescola insieme il trovarobato di una riedizione cinematografica del “Quo Vadis?” e l’occorrente cultuale per l’elezione di un successore di Pio IX in San Pietro. Vocalità e mimica corrispondentemente riflesse, anzi esaltate al quadrato fin sulle vette del furor istrionico, si estolle, superba e inverosimile, una recitazione gloriosamente mattatoria, nel sussultare incessante, or nobile or plebeo; comica, anzi, clownesca da tanto che è tragica, anzi apocalittica da tanto che è comica: un coacervo grottesco e inestricabile di serietà e umorismo, ordine e indisciplina, originalità e maniera, umiltà e protervia, distinzione e trivialità, controllo e sciatteria, piaggeria snobistica e insulto plateale, deferenza e sarcasmo, rispetto e sberleffo, garbo e smorfia, ritegno e sfacciataggine: genio e sregolatezza, naturalmente. A scorno di ogni coerenza psicologica e a vergogna di ogni verosimiglianza ambientale e comportamentale che il commento musicale, sfacciatamente operistico, accentua nella buona intenzione di attenuare, fatto a brani e respinto sull’ultima spiaggia qualsiasi residuo di logica: un quadro verace – e fedele – del più delirante e pompieristico André Moreau (scenografo, attento a non sciupar l’occasione) il forsennato trionfo d’un forsennato kitsch. Eccolo là, già pronto alla pugna, il mago dei prodigi, verecondo e spudorato, suscettibile come un soprano leggero, vano come un tenore di grazia e presuntuoso come un regista qualsiasi; un’altalena di umori, indomito nell’agitare i superstiti brandelli dell’antico vigore demoniaco, passati al servizio di una fatua vaniloquenza senile che non perdona. Sta, l’araldico animale, squassato dal demone di Melpomene e Talia in rissa, al centro del quadro, allucinazione nell’ombelico di un’allucinazione, su una breve pedana circolare, come nel fuoco di una lente che concentrerà su di lui, sino alla fine – se ci si arriverà – una luce incendiaria, svariante di urlanti colori ignari di discrezione e sfumature, digradanti solo ai margini a respingere in tetri abissi di tenebra impraticabile le viscere del magico luogo. Indossa un’inverosimile vestaglia da camera, logora ma clamorosa, dallo schiaffeggiante fasto di un supremo pessimo gusto, degno di un museo dell’abbigliamento, sezione assirobabilonese. Viene in mente il roco do di petto del Lauri-Volpi degli anni estremi, deciso ad arrendersi solo un minuto dopo aver sentito saldare il coperchio della propria cassa da morto, rabbia e pietà. Il sacro mostro è intento, da un bel po’, a far dei vocalizzi mimici, vale a dire a controllare diverse espressioni del volto, in uno specchio a mano; ma, a portata di passo, ne dispone di un secondo a dimensione d’uomo, che gli verrà utile in seguito per regolare le subentranti metamorfosi imperiali di un fregolismo inesausto, consentitogli da un tavolo fornito di tutto il possibile bendiddio per il trucco e per il travestimento, e ancora ne avanza. Mugugna, mormora, sillaba scampoli e scampoletti, a mezza bocca, di famose battute d’alto repertorio, che gli galleggiano nella mente come chicchi di riso solitari nel brodo di cottura… Si scatarra a lungo, prima di gratificare l’uditorio del bronzo della sua voce leggendaria, modulata con sostenuta naturalezza non priva di misurata dignità, in un discorso apparentemente coerente e convincente, per quanto le folate travolgenti della sua madornale capricciosità di titanico fanciullo gli consentono ancora. Un “innocente”, sotto la penna grottesca di Gogol, non potrebbe far di più e di meglio; sotto la nostra sarà quel che sarà. A ogni giorno la sua ruga. Anche oggi, tredici aprile, lunedì, San Martino papa, una di più. E, domani, un’altra, e dopodomani un’altra ancora… e poi ancora e ancora e ancora, da sempre e per sempre. Sorgerà mai l’alba del giorno che, sulla neutra tavolozza di codesto viso esausto e inesausto, mancherà lo spazio per l’ultima ruga? Nessuno ci faccia conto: non ci sarà ultima ruga. L’attore è indistruttibile: destino eccelso ed orrendo… Giusto tono semicoturnato. Così. Ottima battuta per partire. È onorevole al commediante provvedere alla regia di se stesso sintonizzandola sulla visione cangiante della propria anima. (A frangere l’austera scansione accademica del discorso alla nobile maniera dell’indimenticabile Grand’Uff. Achille Maieroni, interferisce la quotidiana banalità del telefono. Senza in nulla alterare il proprio mobilio interiore, eccettuato un minimo sollevamento tediato del sopracciglio, il vegliardo va a rispondere, manifestandosi nella susseguente feracità di una volubile schizofrenia che è già il concentrato campionario rivelatore di un mutevole stile interpretativo, al servizio dei più scompigliati contenuti. Subentranti o mischiate, una sventagliata estrosa di pazienza, vanità, esibizione, irritabilità, sorpresa, indignazione, collera, rassegnazione, piaggeria e chissà cos’altro ancora, all’insegna, candidamente scoperta, del consapevole e compiaciuto recitare, superiormente accordato in chiave di annoiata superiorità, in tutte le possibili variazioni di tempo, di tono, di grado, dalla flemma al furore, dalla finta umiltà all’aggressiva protervia: gioco come confessione. E questo è ancora nulla, minimum preordinabile e descrittibile, a petto dell’inaspettato e dello strambo che si consuma nel lago del suo cuore in tempesta e sulla cordigliera della sua mente in rovina. Eh, il temerario solista ne avrà, sì, delle spericolate occasioni per esibirsi, senza rete, nello sfoggio virtuosistico delle sue illimitate facoltà moltiplicatrici. E ne abusi pure, sfrontatamente. Una sbornia, a tempo debito, è salutare: sfianca i nervi disinnescando le inibizioni. L’ultima carica, lasciamolo divertire). Parli… Ha sbagliato numero… Le ripeto che ha sbagliato numero… Calmissimo, ma ha sbagliato numero ugualmente. Non ha infilato il dito nei buchi giusti. Capita anche per altre parti del corpo… Non conosco… No… Cessi di insistere: qui Domus aurea… Domus aurea… Non è sulla guida telefonica… E’ dall’infausto giorno di Caporetto che decisi di ignorare questo triviale arnese… Non decampai nemmeno nel maggio radioso a Fiume, con D’Annunzio. Telefonava abbastanza lui alle sue puttane… Già. È così, il telefono è rimasto qui, come un reperto archeologico dimenticato, testimone d’altre epoche… Appunto. Fa museo… Naturalmente. Faccio museo anch’io… Mah!... Uno, due, tre anni passati, o più, stabilisca lei, che ne so?... A farlo squillare, l’ultima volta, fu un’alta carica della Repubblica. Dovendo risolvere un quiz, chiedeva di conoscere il nome di colui che scrisse “La signora delle camelie”. Non fui in grado di soddisfarlo non avendo ancora avuto la grazia di interpretare Margherita Gauthier, e dio sa quanto lo desidero, ma ci sarà tempo. Disse: “Pazienza, meno male che posso divertirmi soffrendo altrettanto con “La nemica”, Shakespeare è sempre Shakespeare, un autore che si ricorda”. Era uno del ministero dei beni culturali. Si teneva al corrente colla “Settimana enigmistica”… No no, dica senza vergogna… Ci vogliono democratici? Approfittiamone… Chi sono io? Me l’aspettavo. (e ci sovrappone una diabolica benché fievole risatina per intenditori raffinati). … Ho sorriso… Pazienza. Nessun genere di sorriso riesce bene per telefono. Un sorriso, se è un vero sorriso, è assai più da vedere che da sentire. Non lo sa? Sono le limitazioni delle macchine. L’anima non è merce da inscatolare. È anche per ciò che ho smesso di servirmi di questo stupido arnese… Nulla di meno telefonico dell’ironia. Lo lasci dire a un competente… Ci ricasca, eh? Chi sono io?... lei non sa chi sono io. Non è mica colpa sua. È colpa dei tempi. La saluto. E si guardi bene dal richiamare. (evidentemente, all’altro capo del filo, lo si continua a trattenere). … Momento. Follia, ha detto? Gran bella parola, la più eufonica che conosca. È impossibile non pronunciarla bene… eufonica… Ci vorrebbe troppo tempo. Con un vocabolario fa molto più presto, ed esiste, persino, la possibilità che comprenda ciò che vuol dire… Non c’è di che… Una forma di follia…? Le pare? Crede di aver fatto una scoperta? Offeso? Grato, semmai: si tratta del mio Toson d’oro… L’importante è che la follia abbia del metodo: del metodo. È allora che diventa feconda. Sissignore!... Ma, avrei fatto ciò che ho fatto, sarei colui che sono, se la mia mente non fosse stata laureata da quel dono?!... Non è obbligatorio capire, lasci perdere. Tenga presente solo che lassù, unicamente lassù, alle altitudini rarefatte e inattingibili, dove garriscono gli stendardi della mente scardinata, a patto di non soffrir di vertigini, in una lucidità di liquido diamante, risplende trionfale l’abbagliante verità. Cerchi di percepire le iniziali maiuscole, possibilmente… Non riesce a seguirmi?... Lo credo bene. Guai se ci riuscisse… Che ragione avrei di essere modesto? Si chiede, forse, alla vetta del Monte Bianco di essere modesta? Nomino il Monte Bianco perché, al presente, siamo in Europa; se fossimo in Asia, nominerei l’Himalaya, naturalmente… Cosa vuole? Il destino ha deciso così e io mi adeguo. Ho molto riguardo per il destino, io; specialmente nel senso del suo sinonimo Fato… Io e il Fato siamo già abbastanza in confidenza… Sedersi? È stracco?... Non mi dica!... Telefono che impugni, usanze che trovi… Se ha l’abitudine di conversare, al telefono, stando seduto, faccia pure. Soltanto le tragedie greche, con qualche eccezione, rara come le mosche bianche, e sconsigliabilissima, per Euripide, è tassativamente obbligatorio recitarle in piedi; il rimanente repertorio si è liberi. Mai vista una sedia né in una tragedia greca, né in una regia di Maurizio Scaparro. Qualche infrequente tono, ma mai una sedia… al più, ci si siede per terra. Il tempo del sofà è venuto dopo. Senta, per più precisi ragguagli, l’Accademia d’Arte Drammatica. Il merito di aver avviato la moderna tradizione della recitazione perpendicolare è suo… S’è messo comodo?... Oddio, i piedi sulla scrivania… potendo evitarli… Decoro… Capisco: è in pigiama. I piedi saranno nudi, allora. Non sente freddo?... Va be’, transeat. Tempi così!... Dica, dica liberamente… Ah… ah… ah… Non mi pare tanto persuaso, però. (e comincia a partire per chissà dove, sintassi e tutto, peggio di una bomba, chi rimane sotto le macerie, un pezzo qua, un pezzo là). Facciamo una cosa, perché non le permangano dubbi che, poi, si sa come vanno a terminare: si impossessano, a tradimento, del neurovegetativo e procurano fastidiose insonnie, concluse, magari, in eczemi interminabili e molesti, che non si fa altro che grattarsi dalla mattina alla sera e non le dico di notte. Successo a me, nel ’26, costretto a interrompere la tournée dei “Due sergenti”, in piedi e seduti, regia mista; che andava a gonfie vele, e la compagnia Tamberlani dovette far tutto il meridione con un sergente solo, il povero Nando, tanto bravo quando non era in palcoscenico. Il sergente che mancava, io, avevano aggiunto una battuta, era caduto sul Carso, e, per prova, portavano in scena la mia medaglia d’argento alla memoria; mai una volta che non si prendesse l’applauso a scena aperta, da tanto che influiva il ricordo dello scomparso, cioè me che stavo a Salsomaggiore con l’eczema. Dalla padella nella brace se, poi, dài retta agli psicanalisti, con quello che ti costano; che, per loro, tutto il prurito dipende dalla voglia di andar a letto con tua madre, e la cura sarebbe il peggio dei peccati mortali. Io lo so perché ho preferito tenermi l’eczema, mia madre era morta da nove anni… Che c’entra? Non lo so. Così. …Non so cosa farci. Io non riesco a ragionare altro che così: a macchie. È una conseguenza del mio periodo espressionista… Io ragionerò come un espressionista richiamato e lo riconosco, ma lei ragiona come un cubista di complemento e non lo sa. Le piace Picasso, per caso?... Senza il Pi, ho capito. No! Ora sono io a ordinarle di rimanere al telefono e starmi a sentire… Era prevedibile. Se le si sono informicolati i piedi, li tiri giù dalla scrivania e stia composto. Però, che piedi delicati, abbia pazienza. (e via, in un’accelerata esibizione di tipica fuga delle idee, clinicamente ineccepibile). Guai se si allontana. Fermo dov’è! E resti nudo! Che male c’è? Ci guadagnerà la naturalezza. Ragionano tutti come se si fosse stati partoriti col paletò… Aria al sesso e peste al pudore tiranno!... Non se la fili. Dove vuole andare adesso, nudo come un verme? A rischio di finire in guardina, come me, dopo l’ “Oreste”, all’aperto, a Siracusa, per colpa del costume di Coltellacci: un’indecenza. Oscenità fa arte, diceva, cercando di spiegare ai fascisti che i Greci andavano a spasso nudi. Non a Siracusa, si sentì rispondere; e io dentro per 48 ore, avvolto in un impermeabile e guai sbottonarlo… Ma cosa vuole, insomma?... Io?... Ah, sicuro: follia. Follia! Non si esiste senza questo attestato! Mica tutti sono come Benassi, la Paola e il Carmelo, che ci son nati e non ne hanno avuto bisogno, talmente matti da sembrar dei matti finti, e non è escluso. Agli altri, niente da fare: occorre il certificato; che si sappia in giro, stampato sui manifesti. Niente follia, niente arte. Non faccio nomi perché dovrei farli tutti: quelli che contano: tutti! “Quelli che contano si capisce”. Scalpellini e Michelangeli, ormai, nello stesso minestrone, e il sindacato sta a guardare. A piani vanno fatti i sindacati, a piani, senza ascensore. Ma faglielo capire. E così siamo al punto che siamo… Beh, che vuol dire? La mia regola è sparare sul singolo per esaltare la categoria. È la ferrea e sacrosanta legge del clan… Ci si giustizia solo tra noialtri, come i samurai. Noblesse oblgie. Al massimo, la nostra incontinenza fecondativa celebra i suoi massacri, intendevo le sue pompe, sui personaggi che interpretiamo. Ma sempre a fin di bene. Per dar una mano agli autori. Ne hanno tanto bisogno. (ed esplode in una collera incontenibile quanto immotivata, espressione, rosso scarlatta, di un’indignazione morale omicida). Attore, sì attore! Finalmente, s’è arreso a sputarla la parola maledetta che ti esclude dalla sepoltura in terra consacrata; ed è santo e sacrosanto perché hai l’anima androgina ermetica e apolide, demoniacamente disponibile e disposta a tutto. Commediante, guitto, pagliaccio, istrione, parassita, spirito prostituito, scomunicato e martire! In piedi! E si copra. Sono parole da ascoltare in piedi, sull’attenti, con feluca e decorazioni… Se non ne ha, feluca sola… Si cinga, almeno, un asciugamano intorno ai fianchi… Chi crede di essere? L’Ercole Farnese? Al quale Leone Decimo tirava delle pipe? Si rimetterà a sedere quando glielo permetterò io… Osar tanto!... A uno che è stato in compagnia della Duse!.. (misericordia! il balzo della tigre, e dire che sembrava stesse appena appena per calmarsi. Manda letteralmente fuoco dalle narici. Come farà?) … Non sto riferendomi a una puttana colla quale sono stato a letto! Benché fra tanti… Peggio di quel Valentino per i poveri di Flavio Andò non lo ero di sicuro… La Duse trascinata nel fango! Ma ci si rende conto? E da uno scostumato, nudo, celibe, con i piedi informicolati, senza slip e, magari, privo anche di uno straccio di asciugamano intorno alla vita. Riconsacrare immantinenti il tempio profanato, tramite un mazzo di rose rosse ad Asolo, un messaggio di protesta al Vittoriale e un telegramma a Pannella sollecitando un referendum. (secco stacco di tono, come uno che si mette di colpo a leggere una pagina dei “Promessi Sposi” a una scolaresca. Ha allontanato dall’orecchio, senza staccarlo, il telefono, è avanzato verso al ribalta e si è messo in diretta comunicazione colla platea. Stralcio epico): E qui non posso far a meno di socchiudere una parentesi privata, gettandomi in pasto al pubblico, rimanga tra noi. Sarà sempre un mistero, per me, come quella santa abbia potuto perdere la testa, e il resto, per quel nano del Comandante, pelato come una palla da biliardo. Cosa mai!... Garibaldi, Carlo Marx, arrivo a metterci, per chi non coltivi pregiudiziali anti monarchiche, perfino Vittorio Emanuele II: quelle erano teste che davano garanzia. Ma l’Immaginifico, siamo giusti!... – chiedo scusa, non vorrei giocarmi il consenso dei calvi che rispetto e considero – Mah, insondabili abissi dell’eros!... Innegabilmente, era una creatura strana. Si fosse mai divertita, con una lente, alla ricerca del pelo solitario sfuggito alla latitanza?!... Un feticismo così. Nell’amore, è importante anche il pelo. Ma bisogna che, un poco, da qualche parte, ci sia, santo Dio. Era, e qui vengo a me, il cruccio segreto della povera Betti- Rossi- Valvasson, esimia prim’attrice semicalva, poco fortunata proprio perché perennemente condannata alla parrucca. Invano, ne possedeva un intero guardaroba continuamente arricchito; e non si accorgeva di far peggio. Ad ogni parrucca che indossava – era volubilissima – il pubblico, sempre crudele, diceva: anche oggi la Giulia ha cambiato cappello. Ma che eleganza, ma quanto spende dalla modista! Fu lei – non è indiscrezione, è storia – che, primo amoroso con Garavaglia, cane, ma di razza, in una notte di tempesta, a cavallo dei due secoli, alla pensione Bozzola, mi inaugurò, cogliendo il fiore della mia purezza, non prima di aver deposto, con noncuranza, la capigliatura sul comò; atto, per lei, talmente consueto – quella sera era bionda, d’un biondo esangue – da dirmi con naturalezza: mettiti pure in libertà anche tu, caro. Timido, intimorito e anche, sì, lusingato, che dovevo fare? Strapparmi i capelli – allora foltissimi, da giovinetto assai villoso – e infilarli sotto il guanciale? Ebbi la finezza di lasciarle credere d’aver capito di sfilarmi le mutande, e fu l’atto più consono alla situazione, del quale quella gentildonna serbò languida memoria fin che campò, una trombosi in fiammante parrucca rosso Tiziano. Certe delicatezze si sentono, oppure non si sentono. Chiusa la parentesi, con tante scuse. (e, interrotto l’estraniamento con la rimessa della cornetta contro l’orecchio e la ripresa dell’interminabile colloquio al telefono) (ma se fosse trovato lungo, potrà essere tagliato come il burro): E’ ancora lì?... No. Non era caduta la linea. Solo un accesso di estraniamento. Cosa crede? Che non conosca il teatro contemporaneo?... Un crampo? Tuttora in piedi? Torni pure a sedere, e un leggero massaggino… Comodo scusarsi a crimine consumato… Sempre quell’idea fissa… No, no, niente a che fare colla Vanda. La Duse era la Duse e basta: la più grande rompicoglioni che abbia calcato le scene dai tempi di Tespi… Che vuol dire? Si può essere la regina delle rompicoglioni e recitar divinamente lo stesso. Guardi la… niente niente, parola dietrofront, ne ho la bocca piena di almeno una dozzina… Eleonora! Era Eleonora a meritarsi una catena di monumenti… Ma la Duse, Eleonora era la Duse!... Senta: fin che non caccia fuori dal discorso la Vanda, non ne verrà mai a capo. La Vanda è stata la Eleonora della Rivista e va bene; e la Eleonora è stata la Vanda della prosa e va ancora meglio. È chiaro, adesso?...Conosce un’altra Eleonora, in ufficio con lei?!... Per pietà, mantenga il segreto… (affievolendosi, via via, fino alla totale dissoluzione): Duse Eleonora, sì, Duse Eleonora, fu Alessandro, vedova Checchi… E’ morta tisica… a quei tempi se ne moriva ancora… Non avevano ancora inventato la penicillina… era sempre stata cagionevole… frequenti sbocchi di sangue… Anemica? Non lo so… presumo, anche anemica… Lei mi sta distruggendo. Son qui colle coronarie a penzoloni, ed erano già malandate per conto loro… Come vuole… Ma non ho niente contro la Vanda, glielo giuro. Anzi, è una mia carissima amica, glielo dica: al mio funerale non mancherà di sicuro… Non fiori, opere di bene e il “Va pensiero”, col coro della Scala, come Paolo Grassi… (va, va, questa volta va. No, invece riesplode; quel filo di fiato che gli permane, si capisce. Che vitalità, questi vecchi leoni!) Cosa?... Quanti anni ho? Per il necrologio?... Ah no! Ed osa tanto?!... Non ne ho idea. Non me lo ricordo. Figurarsi se carico la mente, pericolante come si trova, con ingombranti quisquilie come l’età, io che, per i numeri, non sono mai stato portato!... Eh? Normale?!... Normale! Deve giudicarmi caduto molto in basso per ardire una domanda del genere. Sono, forse, uno che sembra normale, io? Anormale, anormalissimo, ha capito. Un briciolo di rispetto! Diverso, mostro? Sentiamo. Un mostro non è altro che un diverso colla vocazione del protagonista. E allora, che altro può essere, se non un mostro, un attore; o crede che, per aver diritto al titolo, occorra nascere con sei dita e con un occhio solo?... Sacro, sicuro: sacro: un mostro sacro. Guardi, se lo tenga per detto: le sole, vere, eterne professioni sacre sono sempre state, e rimaste tre: prete, attore e puttana, che, poi, forse, ne fanno una sola; e sacri i tre luoghi dove si praticano: la chiesa, il teatro e il casino. Basta esserlo stati una volta e se ne rimane marcati per tutta la vita… In casino? Anche! E perché no? Una gloria del tempo che fu. Angelo Musco, che era Angelo Musco, lo scelse per andarci a fare uno storico infarto. Mortale, naturalmente… Parli, parli, per carità: obbietti, eccepisca, oppugni, confuti… Sì. Ho un debole per i sinonimi. E con questo? Mi denuncia ai carabinieri?... La faccia tosta! Io le impedisco di parlare? Ma se non ha fatto altro che interrompermi, polemizzare, provocarmi, darmi torto; e chi sono e cosa faccio e come la penso e gli anni e la normalità, che Dio la stramaledica; e i piedi freddi sulla scrivania: non ha trascurato un tentativo, che è un tentativo, pur di pugnalarmi alla schiena. Ci mancava solo l’insinuazione che gli rubo le battute e gli rovino gli effetti. Stupefacente! Capito? Mi accusa indirettamente, senza far nomi, perché non li sa, di comportarmi come il povero Memo Benassi che riuscì, perfino, a render muta Emma Gramatica, la quale, a sua volta, era riuscita a paralizzare la parola al Duce e non dico altro. Di che non son capaci i grandi?... Gli tolgo la parola!? Bisognerebbe, prima di tutto, che l’avesse; con quella pronuncia inascoltabile; dove di 21 lettere dell’alfabeto non ce n’è una decente. Non un accento a posto, le dentali fuori sesto, le labiali non se ne parla. Ma dove le hanno insegnato la pronuncia, alla Scuola del Piccolo Teatro? Pare che stia mandando a spasso per la bocca della polenta malcotta… Non cede, non la smette, non si arrende, non sa fare una pausa; quando non balbetta fischia, quando non fischia starnutisce, quando non starnutisce stecca; sembra Paolo Stoppa malamente innestato su Peppino De Filippo, io che mi son fatto le ossa con Zacconi e me lo son rotte con Ruggeri!... Ma si accontenti di incespicare coi piedi, non colle corde vocali: un po’ di pudore!... E va bene, chieda, chieda, pur che si finisca di soffrire… Ricoverato?... Dove?... Questa, vede, comincia già ad essere una domanda pertinente. (inopinatamente rasserenato e pentito, tutto culo e camicia, scivolando lungo il piano inclinato di una tollerante cortesia). In manicomio, intende? Santo candore! Lo chiami pure così, se vuole. Io lo chiamerei un elemento naturale riservato soltanto a noialtri. Si domanda forse a un delfino se conosce l’acqua o a un angelo se conosce le nubi?... Le nostre regge non sono sull’orario ferroviario. Si spazia, in lungo e in largo, per l’universo, in dimensioni rarefatte ed arcane. Da Ninive ad Elsinore, da Atene a Corinto, da Venezia a Cipro, da Troia ad Alessandria, da Menfi a Siviglia, da Tebe a Babilonia, siamo sempre in giro; ospiti ed emuli di eroi e di sovrani, angeli o demoni, scassinandoci il cuore e rubandoci l’anima a vicenda, tra furori e malinconie. Non sempre è una coabitazione facile, ma è uno status-symbol invidiabile… Il nostro demone è l’invidia, il nostro dio l’emulazione… Noi siamo una genia cangiante. Ad essere frequentati, abbiamo tutto da perdere e tutto da guadagnare. Più ci si conosce e più ci si detesta; più ci si detesta e più ci si ama. I nostri tabernacoli traboccano di gemme ambigue: malìe fatate, sortilegi demoniaci… Per il momento, non si risenta, se la congedo… Per carità: lei ha rotto le palle a me, io ho rotto le palle a lei, insieme abbiamo rotto le palle a chi ci sta ad ascoltare… seminando informazioni utili al copione. Il piacere è stato reciproco. Anche dalla roccia, può spuntare un fiore. Nuovamente. Compermesso. Ossequi alla signora… Quando l’avrà. Perché lei è uno che finirà per averla… Il suo nome? Dica pure, se ci tiene, dica… Non mi è nuovo… No, il suo numero del telefono, no. Ora si può rivestire. (riattacca finalmente e definitivamente il telefono e chiude con olimpica e distaccata degnazione). Cavalier Adalgiso Galbusera: ha le stimmate! (dopo esser rimasto assorto un po’, più che altro per convenienti ragioni di rango, viene avanti e muta registro alla propria grandeur: un mesto decoro). Stasera, Nerone, il grande misconosciuto. (non ha che da girarsi di 45 gradi e si trova a portata di mano una catasta di libri antichi e moderni d’ogni forma e segnato, che, afferrati uno dopo l’altro, e gettati lontano, gli offrono il destro di esibirsi in un’accademica scena di delusione e disprezzo agita e declamata). …Un quintale di libri e non uno capace di esprimere un grammo di vita. Hanno osato la temerità di far parlare persino Dio e non hanno avuto l’animo di trovare una parola autentica per lui. Nessuno che se lo sia cercato dentro, covandolo e cavandolo dalla propria luce e dalle proprie tenebre: Nerone enigma, Nerone fantasia, Nerone libertà, Nerone anarchia, Nerone splendore e Nerone miseria, Nerone confessione, spudorato e casto. Eroe e poveruomo: cuore che porta gioia e anima che porta pena, è rimasto uno scrigno chiuso. (a questo punto solleva la copertina del libro che si trova in mano). Pietro Cossa: un altro ragioniere in versi. (un livido sogghigno e, inavvertitamente sfogliando e leggiucchiando, finisce per trovarsi a recitare. E qui, solo alto manierismo, appena accentuato, beninteso). “Ed è questo il ricovero che m’offri? Faonte, la tua casa suburbana è molto brutta… Tu recami quei due pugnali: amo sentirli sotto il corpo Che s’addormenta… (vaneggiando nel dormiveglia) …Scostatevi… littori, Date loco al mio passo… E’ vano; i morti, Uccider non si ponno un’altra volta… Sei tu, mia madre? Non m’ascolta, sfibbia Dalle mie spalle il manto imperiale, Sorride… e fugge… E tu, Cassio Longino, Da me che chiedi? E come puoi guardarmi? Nella vita eri cieco; e che? Fa tali Miracoli la tomba?... E tu, qual nome Avevi? La tua fronte è laureata, Il volto hai scarno e le nudate braccia Verso di me agitando, lento lento Goccia il tuo sangue dalle rotte vene… Ti ravviso, o cantor della Farsaglia; E perché mi sogghigni sulla faccia? Credi che il tuo poema abbia vittoria Sopra i miei versi, Stolto! È ver, cantasti Nel supremo momento di tua vita; Ma che perdevi? La vita… ed io perdo Vita ed Impero, e nondimeno canto.
Preparatemi il
rogo”. (subitamente,
una naturale e semplice lucidità critica). Morire così, come un
tenore spolmonato!... E questo sarebbe ancora il meno irrecitabile!... Eppure
Zacconi ci spopolava dentro… C’ero. Facevo Faonte, il liberto fedele. Ma il mio
sogno sarebbe stato fare Atte, la sua Giulietta, il momento puro della sua vita
fastosa e squallida. Applaudivano la mia giovinezza, non ancora la mia arte…
Chissà, forse recuperando una recitazione
d’epoca… (ci si cimenta, aulico e solenne, replicando qualche verso e
si fa visibilmente ed uditivamente
nausea). Archeologia da
strapazzo… Zacconi, che metteva pelo dapperttutto – appiccicava baffi persino
ad Amleto – lo recitava coi mustacchi. Come il Kaiser… e veniva giù il teatro.
Nerone coi mustacchi. Io che lo indovino tutto, di dentro e di fuori: i baleni
più inconfessati della sua mente, i sussulti del suo cuore, le inquietanti
tentazioni dei suoi sensi, i trasalimenti del suo volto, i fremiti della sua
pelle, gli estenuati languori della sua carne, il tenue scroscio del vello
d’oro del suo petto, l’afrore umido e tiepido delle sue ascelle… Io, che so
cose del suo animo che nemmeno lui stesso osò sospettare… e solo un innamorato
escluso riesce a intuire, perché non c’è più sottile strumento di conoscenza
dell’amore escluso…: l’infanzia inconsumata della sua bontà perversa, il
presagio mortale della sua perfidia mite… io giuro, qui, pubblicamente, che il
suo labbro non si contaminò mai di un
mustacchio. (getta, con odio,
lontano da sé, il libro). Sciagurato
l’eroe che non riesce ad incontrare il proprio poeta. (un subitaneo
vuoto d’aria di deserto buon senso. È solo un attimo. Da esso, rimbalza, ebbro, sulle esaltate cime della
propria verità). Ma io
sto recitando!?... E che altro può fare uno come me? Recitare la coscienza
stessa di recitare: è tutto profondamente vero, perché è tutto sfacciatamente
finto. Ed è tutto straordinariamente presente perché è tutto infinitamente remoto.
Onnipotenza della parola: (quindi, una geometria di citazioni in
sostituzione d’un groviglio di sentimenti:
Zacconi cede il posto a Ruggeri):
“Osare tutto quanto un uomo può osare”… “Da un certo giorno in poi, tutte le
sue azioni furono azioni contronatura”… “Ero ancora acerbo per certe imprese”… “Vorrei
che il mondo fosse cancellato”… “Ho dimenticato il sapore della paura”… “Tutte
le acque dello sterminato oceano non potranno lavare queste mani lorde di
sangue”… “Ciò che è fatto non si può disfare”… “Macbeth ha ucciso il sonno”…
“Non dormirò più”… “E’ come un frutto maturo, pronto per essere scrollato”… “Spegniti,
breve candela”… “Tu hai bisogno del ristoro di ogni creatura: il sonno… il sonno… il sonno…” Ecco delle battute! Una decina di battute di
codesto tono, al punto giusto, e il problema era risolto… Coraggio,
allora, e sia l’estremo tentativo a sostegno dell’estrema speranza: questo è
sito di prodigi. I miracoli esistono. Devono esistere. Ho deciso io che
esistano! (e avanti, allucinandosi quasi al sonnambulismo. Discosto, a lato,
eminente sopra qualche gradino, c’è uno
spazio privilegiato. Sollevando a fatica una maestosa poltrona, il
mirabile cialtrone è riuscito a collocarvela, risultandone, a gusto di chi la
guarda e musica concorrendovi, forse un trono, forse un tabernacolo; e ciò è
tanto vero che, senza pericolo che se ne dimentichi mai, ogni volta che, nel
suo fanatico agire, ci passa davanti, piega un ginocchio, in un riverente
inchino, senza smettere di ordinare a semicerchio, disponendole in una sorta di
anfiteatro, le sedie sparse sullo sfondo, compreso fino al delirio dell’arcana e strampalata liturgia che si
appresta ad officiare. Quel trono, quelle sedie, vuote, in attesa,
altrettanto ossequiate, evocano presenze immanenti.
Istruzione superflua all’interprete: veda – ma avrà già pensato da sé a
qualcosa di anche più spettacoloso – se non sia più condecente, è questione di
un battibaleno, un fulmineo cava e metti, accingersi alla funzione sostituendo,
a vista, la domestica zimarra con una fiammante marsina, non necessariamente
nera, ma, forse, sì). Onore al “Divo Nerone Claudio Cesare Augusto
Germanico, figlio del divo Claudio, nipote di Germanico Cesare, pronipote di
Tiberio Cesare Augusto, discendente del divo Augusto”… (e, prima di
concludere l’esortazione, abbassa il braccio colla pergamena dalla quale ha letto
la formula onomastica dell’onorando) ; …despota e vittima, sbranato da Dionisio tra le braccia di Apollo. …
Compermesso, è questione di un momento. (si sfila al marsina e si piazza
davanti allo specchio del trucco, dove avverranno le sue trasformazioni. Si
osserva, si studia, palpa e ripalpa le proprie
guance, parlacchia, metà per sé, metà per il pubblico… e crea con la
lucida e svelta sicurezza dell’esperto professionista) . …Far perdere anni
al viso, al gesto, al passo… La divina Sarah si congedò da Margherita Gauthier
a 65 anni meno una gamba… il grande Ermete imbottito di Gerovital, smise di
domandare il sole alla propria madre, che ormai avrebbe potuto essere sua
figlia, fin oltre gli ottanta e il povero Osvaldo continuò a denunciarne 25…
Sapersi truccare il corpo vuol dire parere. Ma sapersi truccare l’anima vuol
dire essere… e non essere più ciò che si era…: suicidare se stesso per
rinascere in un altro che non sai in quali paradisi o in quali inferni ti
trascinerà… (un sorriso compiaciuto, che, da solo, equivale all’aprirsi di
un sipario con applauso di sortita). Il piacere di recitarsi addosso
venerandi luoghi comuni coll’aria che si tratti di eterne e profonde verità. E,
con ciò stesso, farle diventare eterne e profonde verità: esaltante!... Perché
Nerone?... Pazienza, pazienza. Il soldato che spara tutti i suoi colpi al primo
assalto raramente vince la battaglia… Più tardi. Dovrà risultare chiaro da sé;
se sarà stato abbastanza oscuro da riuscir
chiaro. Il personaggio ideale è colui che dice ciò che deve dire,
parlando d’altro. Otello, mai che nomini la gelosia: gliela nominano; Macbeth
evita di accennare all’ambizione: ne delega sua moglie; Iago ignora, quasi, il
termine male; gli basta farlo; Tartufo battezza devozione l’ipocrisia; …
soltanto Amleto, la grande eccezione, il salto mortale senza rete, sdiarroica
nelle proprie mutande se stesso come un bimbo che ha preso la purga. (riprende l’umile contatto professionistico
collo specchio). …Una tela bianca in attesa del pittore. Attenzione
a non guastarla. Dipingere una visione di primavera su un paesaggio invernale,
perché lui, quello vero, avrebbe voluto, e potuto, essere giovane, spensierato
e lieto… Far risultare glauco questo bieco
occhio nero… Era glauco non nero, il suo occhio dolce e guardingo di
miope, lo so… Più amabile la piega delle labbra, seppur conobbero una piega…
Uccidere il tempo su questo viso sfrontato… Il sorriso del fanciullo
dimenticato sul volto dell’uomo, ecco ciò
che ci vuole… Bene… Così… Così… La sua credulità deve naufragare in quel
lago di mitezza lì, prima di tornare a galla… una nostalgia di innocenza. ( diretto,
equivoco, beffardo, alla platea) : Perché Nerone?... Tutto a tempo e luogo,
senza precipitare. Si ha pur diritto anche noialtri ai nostri segreti
effettucci, alle nostre sorpresine capricciose,
ai nostri illusori trucchetti, alle nostre intese cifrate, alle nostre complici
allusioni, ai nostri candidi rebus, all’intermittenza degli umori, alle scaltre
scenette madri… “Coprirsi” e “scoprisi” in lui. Stasera, si esplora la pancia
del teatro. Ambiguità, a noi! Si gioca per dire la verità e si dice la verità
per giocare. Attenti al trabocchetto. Le carte sono scoperte. Ma truccate. Il
gioco è il dessert degli dèi. (una parrucca da statuaria romana, un serto di
quercia dorato a recinzione del capo, ricordo dei “riporti” di Cesare, uno
spreco di ombretto e di belletti onde s’è modellato una testa canoviana;
una sontuosa tunica orientaleggiante, color ciclamino, plurigemmata, un pendulo
e sonoro monile di vividi lapislazzuli e maiuscole pietre dure variopinte, al
collo; gli aurei calzari coturnati, allacciati all’eburneo piede – non gli
manca che un tripode da potersi avvolgere tra fumi d’incenso più convenienti a satrapo decadente che ad austero
imperatore, ma perché privarsene?, è questione di mezzo minuto per
guardarsi intorno – ed è Nerone. L’avrebbe combinato così Gabriele D’Annunzio
se, senza smettere d’essere un poligrafo estetizzante, fosse stato pure un
androgino costumista viscontesco, dopo aver chiesto, per l’occasione, consiglio
a Dante Gabriele Rossetti, una sera a cena da Chez-Maxime, in compagnia di
Oscar Wilde. Ma son tutti morti, niente da fare, che malinconia. Questa è la
sua visione. Ma sarà, poi, tutto tanto semplice? Non si tratterà, piuttosto,
dell’araldica bestia, il liocorno proteiforme e inafferrabile, uno e trino, che
tenta di fondere le ragioni inaccordabili del personaggio, dell’autore e
dell’interprete in un monstrum unicum irraggiungibile, e lui il semplice latore
dell’indecifrabile messaggio?) Il bardo tarda… Ah, lo storico smeraldo. (allude
evidentemente al celebre anello che gli serviva, non si sa come, da lente. Ce l’ha lì, a portata di dito. Non ha che da
infilarselo e contemplarsi la mano michelangiolesca). … Eccolo… E’
venuto. Ha abboccato. (magia dell’attore! Un colpo di reni e la rozza roca e
sfiancata si drizza, mutata in annitrente e scalpitante puledro, per uscire
incontro all’Ignoto, ricomparendo con un simulacro imponente stavolta alto
almeno tre volte un uomo normale. Dio del cielo: Shakespeare! Non esiste
possibilità di dubbio: inalbera, parlante,
la famigerata testa a pera, da ebete, calva, coi baffetti a virgola, del
busto che disonora la tomba di Stratford; e, nella sonora gloria wagneriana che
scandisce l’incesso degli dèi al Walhalla, viene issato a sedere sulla
berniniana cattedra regale che non aspettava che lui). Shakespeare contro
Nerone? Nemmeno per sogno: Nerone contro Shakespeare. (ma è matto? Ah già,
naturalmente. È venuto il suo gran momento. Si piazza, deciso, davanti a un
enorme gong – che non sia il solito culo di casseruola acquistata alla Standa:
un gong da finale del primo atto della “Turandot” – e ci dà dentro con una
martellata che, se il clangore non riesce a far crollare metà soffitto della
platea, mandando al cimitero – cimitero, mica semplice ospedale, intesi?
– alcune centinaia di spettatori, è un
effetto mancato e tanto vale risparmiare la spesa). Vado! (ed ecco, in un subitaneo,
altissimo silenzio, crudele come un rasoio non elettrico, testè affilato, ha
inizio un dialogo che potrebbe riuscire lo scontro di due titani; ma che,
stante l’ermetico mutismo di uno degli interlocutori, si deve limitare al
caotico monologo di un paranoico incontinente,
dagli umori al vento. E si capisce. Per quanto uno si sforzi, e ad onta di una
deferenza, palesemente di parata, non è facile esser nato Nerone e
riuscire a dimenticarsene senza essere interrotto almeno una volta, specie
quando lo scopo sia di far la corte a Shakespeare, nella speranza di ammaliarlo).
… Io sono un personaggio in cerca d’autore, o un attore in cerca di
personaggio? Non lo so: Nerone, uno, mi rendo conto, che non si riceve senza
imbarazzo in una casa di gente perbene all’ora del tè. Ma, scusi, son tutti
gente perbene, i componenti della sua famiglia? Andiamo per i duemila anni che
sto facendo anticamera. Occhi negli occhi: crede che dovrò aspettare ancora per
molto? Lei, per carità, nessuno si azzarda a mettere in forse il suo primato di
vate dei vati della scena: primo dei primi. Incontestabile. Se dipendesse da
noi, nulla in contrario che l’avessero già promosso santo; nel martirologio
cristiano l’arte e la cultura non è che siano molto rappresentate. Ma non si deve
dir male della Chiesa. Mi si deve dar atto, tuttavia, crepi la modestia, che
nemmeno io, come personaggio, sono arrivato coll’ultimo treno. Presuntuoso fin
che si vuole – sono abituato a ben altro – ma neanche per me riesco a vedere un
posto dal primo in giù. E allora?... Se considero il livello intellettuale, e
poetico, poi, che sarebbe quello che più conta, di tutti coloro che hanno avuto
l’albagia di occuparsi di me, e sono migliaia d’ogni segnato e livello: quelli,
come si usa dire, che si sono accinti a “realizzarmi” – persino Goldoni,
buonuomo, e deve aver fatto confusione con Sior Todaro brontolon - … ebbene, mi
faccio schifo. Schifo. Lei è del mestiere ed è in grado di giudicare. Ma le par
possibile – una mano sulla coscienza! – che uno della mia stazza deva aver
incocciato, finora, unicamente nei fessi oppure nei mediocri, che è peggio del
peggio; perché, nei fessi, almeno, ogni tanto, loro malgrado, una certa
grandezza, c’è, vedi Seneca, che era un fesso-furbo; nei mediocri mai, non c’è
pericolo, vedi quel forsennato di Lucano e il minestrone lungo della sua
“Farsaglia”? Li ho tutti e due sulla coscienza io, zio e nipote, ma, prima,
loro hanno avuto sulla coscienza me. Ebbero del genio, quello sì, soltanto nel
rompere i coglioni. Per loro la noia non è stata una parola: è stata un piccone
demolitore. Dove passavano quei due Morfei era il sonno eterno. Ma non si deve
dir male dei colleghi. Suoi. Io mi ci voglio tener fuori. Per la verità,
tuttavia, non può esserle sfuggito, pare: sottolineo il pare perché, con questi
cristiani che me l’hanno giurata, in circolazione da venti secoli, non sai mai
cosa ti puoi aspettare… pare, ripeto, che, se non altro, i cosiddetti storici,
che se Dio vuole non sono tutti come gli storici romani, stiano socchiudendo un
occhio sul mio conto… Se è vero che da cosa nasce cosa, staremo a vedere. Ho
aspettato tanto…! Ma il dente che duole è un altro. Non vorrei che, anche nel
migliore dei casi, si stesse imboccando la strada sbagliata. A me, tutti lo
sanno, ha sempre interessato molto di più l’arte che la storia: il mio
“privato” innanzitutto. Io non ho amato la guerra – semmai ho amato i militari
- ; quando non ne ho potuto proprio fare a meno, l’ho delegata a dei
professionisti specializzati; anche se avrei dato chissà che perché si
chiamassero diversamente da come si chiamavano. Quel Corbulone, per esempio.
Sufficientemente ottuso come deve essere ogni bravo generale, ma come si fa a
chiamarsi Corbulone, che viene in mente un ubriaco rotoloni giù da una
scarpata, quando si deve combattere contro un popolo che risponde al nome,
tanto elegante e così maternamente umano di Parti? Un continuo attentato a
qualsiasi senso estetico… Io ho vissuto per l’arte. Per un aggettivo di
Francesco De Sanctis, avrei dato volentieri un capitolo di Teodoro Mommsen, e
Clausevitz l’ho sempre creduto una marca di temperini. Adesso, non mi usi il
torto di giudicarmi un intellettuale. Unicamente un modesto uomo di cultura
coll’hobby del palcoscenico, ecco tutto. Non è frequente nella mia professione,
lo ammetterà. Oltre far collezione di francobolli o di monete antiche non si
va. Soltanto il nome di un giovanotto ho sentito fare: un reuccio di una
provinciarella larga come un fazzoletto… la… la… la Baviera che, se ben, ricordo, un giorno dovette essere una mia proprietà. Aveva un nome, mi
pare, Luigi con un numero vicino, e aveva perso la testa, e il resto, per un
vecchio musicista porco, i cui tenori sono fratelli delle soprano e farebbero
carte false per andarci a letto assieme. Bene, sembra, dicono, che, in formato
francobollo, sia stato uno che mi somigliava per via che amava l’arte scenica
anche lui. Vedeva una torta, gli piaceva, e, invece di farla servire in tavola,
la faceva ricostruire tale e quale in scala di castello, dove andava a passare
il week-end. Non son mai riuscito a sapere se se ne occupassero gli architetti, gli scenografi o i cuochi… Stavo
dicendo?... Ah. Cosa voglio da lei?... Non faccia finta di non capire…
Noi due, lei da poeta, io da personaggio, con quest’altro, qui dentro, che mi
sta manovrando, eravamo nati per intenderci; e, da vetta a vetta, ci si può parlare francamente, con reciproco vantaggio, tre
in uno, stipati in un utero troppo stretto, con un unico cordone
ombelicale. Rendo l’idea?... Alle corte: non mendico simpatia; si figuri, colla
fama che mi ritrovo, tanto varrebbe
capovolgere il creato a testa in giù e gambe in su. Matto fin che si vuole,
e se Dio vuole, ma, non faccio che ripetermelo, non certo, un matto che
scongiura la propria madre di procurargli il sole per far lume nella sua camera
da letto fin che chiava la serva, lasciando, nel frattempo, il mondo allo
scuro. Ci si è intesi – “Spettri” ultima scena - . Anche perché, con una madre
come la mia, son sicuro che, invece del sole, mi sarei buscato due ceffoni. Essa,
a differenza di zia Messalina che voleva rendersi conto di quel che toccava, ha
sempre preferito esser fottuta al buio. Dei cinque sensi, quello che preferiva
era il tatto. Era debole di vista, come me, e ci teneva a risparmiarla,
diversamente da me che ho sempre tirato al guardone. Insomma, lei gli occhi, li
aveva trasferiti nelle mani e, con quelle, ci vedeva benissimo. Ma non bisogna
dir male dei genitori, e non so come farò con quello che dovrò confidarle in
seguito. Per il momento, lasciamola lì. Cosa voglio dire con questa confidenza
familiare? Di farsi furbo, perché si può disporre di un cervello da padreterno,
ma, se non si è un po’ furbi, nella vita, buonanotte. Glielo dice un ingenuo, e
cioè il più qualificato a dirlo, chiaro? E allora, coerenza e darsi da fare.
Qui c’è bisogno della sua penna. Chi possiede la parola, possiede la vita: con
essa, nulla è impossibile. Colla mia sintassi sbullonata, al servizio di una
storpia e anchilosata immaginazione, io tento di vomitare le viscere di me stesso,
alla buona, disordinatamente, come mi sento e come mi vedo, come so, come posso
e come vien viene, nessuna contraddizione esclusa: tanta merda da trasformare
in oro, lei che è come bere un bicchier d’acqua, Mida della parola patentato:
il tono, lo stile giusti… Faccia conto: io le fornisco il librettaccio di un
melodramma; a lei metterlo in musica. Ecco. Non son qui a polemizzare, però mi
deve cavare una curiosità che è diventata un’ossessione. Dopotutto, siamo fra
addetti ai lavori. Teatrante lei, teatrante io, teatrante colui che mi ruga
internamente cercando di farsi largo a forza di gomiti. Da collega a collega,
senza rancore, cos’è stato a trattenerla, a
inibirla davanti a uno che, per lei, non certo portato a sfuggire le
cattive compagnie, avrebbe dovuto essere un invito a nozze? Ha pur avuto il
fegato di infondere la vita, e che vita, a manigoldi del calibro di Riccardo
terzo, Macbeth e sua moglie, Iago, e un’interminabile compagnia della sua
risma, con quel debole che ha sempre dimostrato per i farabutti, i ceffi da
galera, grandi e piccoli, di fuori e di dentro. Direi che son quelli che le son
riusciti meglio. Perché solo a me ha sbattuto la porta in faccia, lasciando che
si perpetuasse la volgare e meschina immagine di un mascherone ladro di polli,
collezionista di delitti gratuiti, e, soprattutto, cosa che non mi va giù,
cantautore mancato, alla quale son crocifisso da venti secoli? E sì, dico, vera
o falsa, la materia non mancava, casomai ce n’era d’avanzo. Gelosia di
mestiere? È possibile: impulsi che non si comandano. Quante volte, anch’io, ho
avuto la tentazione di far fuori qualcuno solo perché reo di un bel verso; e,
ogni tanto, me la sono anche levata. Se nei dintorni c’è un artista, è in grado
di capirmi. Tra tanti dèi fasulli ai quali, nella mia vita, ho eretto templi,
per molto tempo ho coltivato l’idea di dedicarne uno all’Invidia, divinità così
umana, tanto trascurata e tanto vicina al cuore dell’uomo. Antipatia personale?
Ha sbagliato indirizzo. Guardi che se c’è una dote che nessuno, nemmeno il più
incarognito dei miei detrattori, magari a denti stretti, ha potuto negarmi, è
la simpatia. Arrivo a dire che il mio maggior difetto è consistito proprio nel
riuscir simpatico, nel saperlo e nel darci imprudentemente dentro, mettendo a
frutto un’innata facoltà di pormi a livello del volgo, il gusto un po’ canaglia
di farmi plebe fra la plebe. Dipenderà che, per i proletari, ho sempre avuto un
debole. Piacevo da matti ai Romani, io, sa; e a quei pochi che non piacevo
facevo comodo, che è anche meglio. Si informi. All’estero, poi, nelle mie
tournées, erano trionfi che nulla e nessuno è riuscito a far dimenticare.
Cos’erano, gente, i miei “bagni di folla”!... La claque, lei dirà. Sissignore,
anche la claque; quando uno preferisce perdere una provincia piuttosto che fare
una stecca, anche la claque. Ma cosa crede: che Tamagno, Caruso, la Malibran, la Callas, Del Monaco, Nuvolari, Girardengo, Renato Zero non abbiano in bilancio le
spese della claque? Proprio lei!... Dovrebbe conoscere il prezzo del successo a
teatro… Sì che m’han voluto bene! Son mica molti, sa, gli imperatori romani,
volubili e lunatici come sono da quelle parti, resistiti sul trono per
quattordici anni. Tant’è vero che, via io, ne han fatti fuori tre in un anno;
e, per un paio di secoli, che non so nemmeno io come sia potuto succedere, son
rimasti ad aspettare la mia resurrezione come un messia che ritarda, tale e quale quell’altro che ha anticipato, per
intenderci: quello che non ho capito: grande occasione persa. Cosa che
non sarebbe accaduta a Seneca, insuperabile teorico del “non si sa mai”.
Storia! Mica balle. Lo sapeva? Una ragione ci sarà pur stata. Io li facevo
divertire. Con me, Roma può vantarsi di aver conosciuto, allora, la dolce vita.
Caro lei, salvo trascurabili eccezioni, piacevo a tutti. Plebe e nobili, onesti
e gaglioffi, poveri e ricchi; magari ai nobili e ai ricchi un po’ meno, perché;
siamo giusti, avevano anche un po’ meno da guadagnarci. Me ne trovi un altro
che sia riuscito a far pagare le tasse – e le multe – agli evasori fiscali. Non
mi chieda come. L’importante era che i sesterzi li cacciassero. Se Dio vuole,
esisteva anche l’istituto della confisca e la lodevole abitudine del lascito
testamentario forzoso, visto che, su questo precario pianeta ammobiliato, oggi ci
si è domani non si può dire… A Roma, con me, erano i ricchi a mantenere i
poveri. Mica viceversa. E senza un Dio a prescriverlo.
È ben da allora che i Romani si sono abituati a star colle mani in mano
lasciando tirar la carretta agli altri. Non le dice niente questo?... Borghesi
e militari, è sempre filato tutto come l’olio e non c’era problema. Specie i
marinai stravedevano per me, e io per loro. Perché io ho amato il mare; anche
se non sapevo nuotare, ho amato il mare come il tenore della “Gioconda”, e
anche di più: come quello dell’ “Africana”. Ha notato che, nelle opere, son
generalmente i tenori ad avere un debole per il mare? Segno, se non altro, che
ero un fior di tenore anch’io. Non avevo una gran voce, d’accordo, ma era un
gioiello. Ha presente Tito Schipa? Eravamo lì; conosco solo io i sacrifici di
prudenza, riguardi, vocalizzi, colluttori e gargarismi che mi è costata. Perché
il mio punto critico erano le corde vocali: d’un delicato!... Bastava che uno
starnutisse a dieci passi di distanza e già non eran più le stesse. Ma i miei
recitativi, i miei declamati, le mie mezze voci, i miei falsetti, i miei
gorgheggi son rimasti insuperati sempre, e l’aria di mare giova alle corde
vocali. Mamma mia, quanto ho amato il mare! Lo dica, non si scordi di dirlo:
Nerone ha amato il mare…: “Passa la nave mia colma d’oblìo…”. Era bella la
vita. Quanto ho amato anche quella!... Ero goloso e insaziabile come un
fanciullo, della vita; e come un vecchio insidiato dal tempo, ero incalzato ad
assaporarne il più possibile nel più breve tempo possibile, a sensi spalancati
a tutti i venti come una bandiera. Me ne sono ingozzato, della vita! (adesso
il suo patetico rimpianto sdrucciola impiastricciandosi nel miele di lascive
reminiscenze sempre più intime. Soltanto più appena un filo di istrionismo. C’è
caso che, cavalcando il patetico, ci si avvii verso il momento della verità?
Dei fatti non è mai mancata; del sentimento e dell’umore onde fu vissuta,
avrebbe dell’inedito. In guardia. Una franchezza apparentemente sincera, come,
persino, una spudoratezza senza malizia, possono essere ingannevoli
tanto quanto, se non di più, di una deliberata insolenza e di un provocatorio
sarcasmo. Si ha a che fare con una trinità da prendere con le molle; nessuna
delle tre persone che la compongono esclusa, poiché il guaio è che vogliono
entrarci tutte. E insieme). Le donne, poi… madonna!... Che abbuffata; son
vissuto dentro e fuori dalle donne. Di tutti i ceti e di tutte le parentele.
Merito relativo, del resto. A Roma, allora, le donne si può dire passavano il
loro tempo a stancare le reni ai nipoti di Romolo… Faticate igieniche, ma da
esaurimento nervoso. Celo – lei è il primo
a venirne a conoscenza – nel folto dell’ascella sinistra, un neo a forma
di oliva. Ebbene, son caduti più baci su quell’oliva che chicchi di grandine
sulla cupola del Pantheon. Da non tenerci dietro. Altrettante cavalle in
calore, scatenate. L’esempio, d’altronde, era venuto dall’alto: Messalina,
l’imperatrice inesausta che, su quella carta, puntò addirittura l’immortalità,
e, come tutti sanno, la stravinse. Non ho mai saputo se chiamarla abusivamente
zia, come avrebbe voluto mia madre; o matrigna come sarebbe diventata se quel
palpapollastre di Claudio, il babbeo di famiglia – che, poi, non era per niente
un babbeo, era un dritto che recitava la parte del cretino innocuo per salvar
la pelle – mi avesse adottato prima di farla far fuori, e mammà, sempre in
agguato, ne approfittasse per farsi sposare e diventar finalmente imperatrice,
lei che ci moriva dalla voglia: sei mogli lui e tre o quattro mariti lei. Ma
non anticipiamo… Non si può dire che i ragazzi della nostra famiglia, in fatto
di genitori, avessero scarsità di scelta. Svegliarsi padre e figlio senza
volerlo e fratello e sorella senza saperlo era naturalissimo. Non per niente,
finii col trovarmi ammogliato a una mia sorellastra. Meno male che ero figlio
unico. Ci chiamavano i parenti terribili, ma così, simpaticamente, senza
cattiveria. Lo zio Caligola, per esempio, che di sorelle ne aveva tre, se le
era fatte tutte, compresa la mamma, e così aveva risolto il problema in una
volta sola. Fra i tanti odi che coltivava – i calvi, ad esempio: estirpati senza remissione – c’era anche quello
per la confusione. Si era molto legati. Tra noi della gente
Giulio-Claudia, l’incesto era un’abitudine, una tradizione, un hobby senza
importanza. Astenersene significava un indelicato non gradire. Ma furono rari
coloro che peccarono di questa scorrettezza… Lo spirito, magari, nella nostra
famiglia, qualche volta, era stanco, ma la carne era sempre pronta… Cara zia
Messalina, tutta dedizione, sempre piena di
entusiasmo!... Se c’è stata un’idea che non abbia mai frequentato la sua testa
è che il letto serva anche per dormire. Nessuno s’era fatto premura di
avvisarla. E così, diventò la puttana che diventò. Non avrebbe mai, per nessuna
ragione al mondo, contaminato il letto per un diverso uso: un apostolato.
Quando, stracca morta, si sentiva venir sonno, e non ce la faceva più, era tale
la coscienza della professione, che scendeva e usava una sedia. Non dormì mai,
quel poco che dormì, altro che seduta. Mia madre che, in fatto di maschi, non
era da meno, solo ci teneva a far le cose meno vistosamente, invece lo sapeva.
Col vantaggio di poter fare l’amore anche in piedi, scomodo com’è non trova? Ma
una delle sue norme era: il lasciato è tutto perso. Aveva la sensualità
cerebrale, che è la più algida e pericolosa, quella che non perdona. Zia
Messalina invece l’aveva conservata al posto giusto. Se c’era una donna in
possesso di tutto per essere felice, persino il diritto scritto alla
cornificazione coniugale autorizzata dal marito, era Messalina. Ciononostante,
viveva devastata da un’ossessione, la stessa di tutte le donne italiane: il
culo basso. Notti, ci pensava su. Una mattina – spuntava l’alba – ebbe
un’illuminazione: inventò il tacco alto. Mia madre, che non ne aveva bisogno,
per ripicca, reagì, sa come? Dopo ventiquattro ore di rabbia meditativa, le
inventò contro il reggipetto, un colpo che fece epoca. Formidabile. E, prima,
aveva inventato il sofà, non molto comodo, a vero dire, che porta il suo nome:
l’agrippina, quella lì e fa risparmiare il guanciale. Queste erano le donne
romane. Mignotte a tempo pieno, ma quando si combattevano, si combattevano
lealmente, a colpi di invenzioni utili all’umanità. Avessero brevettato le loro
scoperte, la bilancia dei pagamenti non sarebbe il disastro che è. Ma una delle
virtù romane è stata il disinteresse. Hai voglia che la storia queste cose le
pubblicizzi!... Mah, non c’era tempo da perdere. Se non si voleva scadere
socialmente presso l’opinione pubblica: fin tre orge nelle ventiquattro ore,
mattina, pomeriggio e notte, in piena e naturale salute di corpo e di spirito:
il moto perpetuo. Oltretutto, aiutava a digerire. Correva anche qualche presina
di corno di rinoceronte grattugiato… specie i meno giovani… per risollevare i
caduti: la nostra cocaina. Si passava dall’esibizione binaria all’ammucchiata
collettiva. Sicuro, perché, avendo tempo, ci sarebbe anche da esplorare il paragrafo maschi. Sissignore. Ho amato, con lo
stesso gusto e fervore, donne e uomini. Perché dividere l’umanità in due
e buttarne via la metà? Non sarei stato l’adoratore della Grecia che sono
stato, se non mi fossero piaciuti anche gli uomini. Del resto, vero, lei è
l’ultimo a potersi scandalizzare. Non ha avuto bisogno di fare una gita ad
Atene – ma si batteva meglio a Sparta – siamo informati. Non lo abbiamo mica
scritto noi un libro di sonetti, genere Liala in sottoveste, abbandonata la
sera delle nozze. Tra di noi, ci si capisce a naso: ha fatto benissimo, siamo
in buona e numerosa compagnia… E allora?... Faccia conto di essere Michelangelo, uno dei nostri, che si
risveglia dopo un lungo sonno – cosa conta il tempo per noi? – e,
riaprendo gli occhi, scopre, ai suoi piedi, un enorme masso di marmo informe.
Impugni, ancora una volta, il suo scalpello miracoloso e, invece di santi,
madonne e profeti si dia da fare a tirarne fuori la statua che nessuno, finora,
è riuscito a tirar fuori. Ma ha idea che bomba una novità di Shakespeare, protagonista
Nerone: i teatri Stabili impazziti, con
tutti i registi e i mattatori in appostamento e la critica dei cinque
continenti in trasferta, guai se si lascia sfuggire un aggettivo men che
favorevole?! Lesa maestà! (ora incalza il millantato credito dell’astuto
addetto ai lavori che si offre coll’esperienza di una lunga pratica). Per
il protagonista, naturalmente, non c’è problema: modestamente, son qua io. Ma
bisognerà pensare in tempo anche alle parti delle donne. In quale altro copione
ha potuto mettere insieme grinte come Agrippina, Messalina, Poppea, tutti nomi
da casino, fatti apposta per una tragedia dalle luci rosse? E, magari, per
rinforzare il numero dei morti ammazzati, in concorrenza coi copioni di Seneca
che non mi sono mai andati giù, e sfruttare il lato comico, ci mettiamo – oh,
pardon, ci mette, ci mette lei… io dico così secondo che mi partorisce dentro:
un brogliaccio lacunoso, a ruota libera, come butta butta, a pezzi e bocconi,
senza distinguere il prima dal dopo; tagli, aggiunga, tolga, faccia ciò che
crede: del resto, non è che i suoi copioni siano dei modelli di coerenza…
quello è affar suo, non ci faccia caso… il
mio è puro eccesso di collaborazionismo: la mente sovrana è lei, mancherebbe
altro che si offendesse, nessuno gliela tocca… Semmai, poi, riassestiamo
tutto noi durante le prove… sa com’è… - Dicevo, cosa dicevo?... Ah! Che ne
pensa di ficcare nella compagnia delle puttane, come travestito di turno, che,
oggi, fanno il pieno nelle platee: il fool, il “matto” ecco il fool, una volta
tanto, un fool divertente, mica uno dei suoi soliti handicappati mentali, che
per strappare una risata, scusi, sa, bisognerebbe pagare uno a farti il
solletico sotto le piante dei piedi…: Petronio, se ci si mettesse Petronio, sa,
il Petronio, da quella gran checca sfranta ed isterica che era?!... Una fogna,
però, onore al merito: gran signore dalla testa ai piedi, una trina: il barone
di Charlus in confezione chiffon… Già, per certe cose, Proust e poi più… D’uno
spirito, quella canaglia!.. Un’eleganza,
poi… Mi indusse, per non essergli da meno, a non indossare mai due volte
lo stesso abito – li passavo a Sporo, come lui, i suoi, a Gitone – ma questo è
meglio non farlo sapere, con quello che costano i costumi oggigiorno. Arbiter
elegantiarum: è detto tutto: un sostantivo e un aggettivo, con lui la storia è
stata giusta. Cambiava solo calzari tre volte al giorno, e, in caso di cena a
Corte, quattro con quelli da sera in capretto dorato: l’avvocato Agnelli in
toga! Aveva mani e piedi che erano una scultura, e andava matto per gli
smeraldi. Questo che mi vede al dito è un suo regalo. Ma che lingua! Una
forbice formata da due rasoi in croce; come tutte le zie, del resto.
Divertente, divertente da morire. Fatto per il ruolo del brillante: il
raisonneur del repertorio francese, faccia conto. Sì che ce la siamo spassata insieme!... Cose, cose… Ahhh… (oh,
il gusto, quasi settecentesco, del pettegolezzo storico! Si mira alla petulanza
memorialistica di un Saint-Simon). I più bei fusti romani passavano tutti
tra le sue mani: un collaudatore nato. Se li faceva venire fin dalla provincia.
Contribuì, e non poco, a fare del marchettaro una professione, e non delle
secondarie. È un titolo storico, generalmente trascurato, ma che non gli si può
contestare. Prima di lui, a Roma, era stata più che altro un’eccentricità
sprecata, uno snobismo da grecofili, una trasandatezza plebea da cartaginesi
pigri, nel migliore dei casi, un hobby
improduttivo o un dopolavoro per sbarcare il lunario. Dopo, diventò un
modo come un altro, e dei più ricercati, chi ne avesse le doti, di guadagnarsi
la vita. Perché, dico io, colla disoccupazione giovanile che c’è, i marxisti
non l’hanno mai voluto riconoscere e, invece di incoraggiarla, l’hanno sempre
avversata, perdendo un sacco di voti alle elezioni? Dice che sono radioattivi…
e diffondono l’A.I.D.S…. Me lo spieghi lei. Conosco più d’uno che ha strappato
la tessera. Praticò fino all’ultimo respiro, colle vene dei polsi già recise,
declamando versi suoi, mica male, addosso a ganzi miei meglio ancora: un
piccolo dispetto in punto di morte per non farsi dimenticare. C’erano, tra noi,
capricciose marinerie così. Visse al di fuori di se stesso, aristocratico
spettatore, distaccato ma curioso, della propria calda vita; e morì sospetto di
simpatizzare – solo perché i suoi componenti erano quasi tutti checche e culi
disastrati – colla congiura di Pisone; che ho ancora da capire se si sia
trattato, a cominciare dal suo protagonista, di una tragedia, di un vaudeville,
o di un dramma giallo; ma, forse, si trattò soltanto di un’operetta cretina.
Quello che è sicuro è che andò per le lunghe più di un dramma wagneriano.
Capirà, con Lucano in funzione di utile idiota!... e Seneca – il solito – che
non si decideva mai… Avevano tutti Bruto per la testa. Ha fatto più danno a
Roma, il complesso di Bruto, che la peste bubbonica in Europa. E quelli che non
avevano il complesso di Bruto, avevano il complesso di Catone, responsabile di
guasti non minori. Gente strana, perché, poi, fra quattro mura, erano la
negazione sia di Bruto, sia di Catone. Ma la moda prescriveva l’austero… Caro
amico insostituibile… La risata che ci ha regalato col suo “Satyricon”!... Poi,
han voluto insinuare che, col suo romanzo, aveva inteso prendere in giro me. Il
mondo è cattivo, è cattivo. So io il dispiacere e il pentimento di essermene
dovuto privare. Mah, non bisognerebbe mai essere precipitosi. Tutta colpa di
Tigellino, fesso e terribile, che, per rendersi indispensabile, inventava
congiurati come se diluviasse e io ci cascavo. Appena riusciva ad impossessarsi
di una congiura, la faceva durare come un romanzo a puntate della televisione.
E quando non cercava di farmi paura, approfittando che ero un po’ permaloso, mi
suggestionava insinuando che questo scriveva versi migliori, quell’altro andava
dicendo che ero un cane, quell’altro ancora aveva pagato gente perché mi
fischiassero; e Tizio se n’era andato prima della fine della rappresentazione,
e Caio aveva chiacchierato tutto il tempo e Sempronio s’era addirittura
permesso di addormentarsi durante la mia esibizione, io che avevo espressamente
proibito fin alle donne incinte di lasciare il teatro durante lo spettacolo, ed
erano costrette a partorire sul posto, da tanto era il mio rispetto per l’arte.
Mi avvelenavano la vita. Bastava che mi sapessero affezionato a qualcuno, o,
anche, solo il sospetto che mi fosse simpatico per ragioni diverse dal
mangiare, bere e farci le porcherie, e me ne privavano subito escogitandogli qualcosa contro, bravissimi nel
trasformare uno sbadiglio in una condanna a morte; tanto che, più di
uno, stufi di aspettarla, si suicidavano da sé… E Seneca – cinico saggio e
politico accorto – non faceva che ripetermi: per quanti nemici tu uccida, non
riuscirai mai ad uccidere il tuo successore… Il suicidio, a Roma era diventato
uno sport. Era considerato molto chic tagliarsi le vene, al calar del sole,
prima di cena; immergersi in una vasca d’acqua calda profumata e aspettare
senza fretta, di rendere l’anima, spicciando le ultime faccende rimaste in
sospeso, come cenare, sbrigare la corrispondenza arretrata, fare gli auguri, spedirsi un biglietto di condoglianze, limare una
poesia, risolvere un rebus, ripassarsi Omero o, più spesso, conversare
piacevolmente sparlando del prossimo e raccontandosi barzellette. Non mancò
nemmeno un originale che non volle andarsene senza, prima, aver imparato a
risolvere il teorema di Pitagora, che non c’era mai riuscito prima e nemmeno
quella fu la volta buona. Più commovente ancora quando si stabilì la voga del
suicidio coniugale, portandosi dietro la moglie per risparmiare sulla spesa
delle doppie esequie. Tutto si potrà dire, salvo che, a Roma, non si moriva
puliti: si rimaneva a mollo durante tutta l’agonia!... L’inconveniente era al
mattino. Non ci si teneva dietro coi funerali. E questa è la ragione principale
di non essere mai riuscito a farmi degli amici di lunga durata. Si consumavano
subito. A ciò, contribuì non poco il nostro Tigellino comandante dei pretoriani
di palazzo, come dire le nostre SS: niente da invidiare a quelle che vennero più
tardi; perché fin che non ci si mette in mente che i Romani furono, ad ogni
titolo, i nazisti dell’antichità con migliori risultati, non si capirà mai
niente di storia. Bell’uomo Tigellino, indiscutibilmente: altezza uno e
novantuno, due spalle come un armadio e il resto in proporzione, nel genere
giovane gladiatore torvo e robusto. Ma era
proprio necessario, per conservare il tipo atletico dall’addome concavo, nutrirsi
idealmente di cadaveri e dissetarsi di sangue umano, rischiando gli acidi
urici? La cucina romana era indigesta abbastanza, per conto suo. Ne seppe
qualcosa Vitellio che arrivò a pesare un paio di quintali a dieta. Ingrassare,
per lui, era una nevrosi per affermarsi e non lo sapeva, ma Vitellio è venuto
dopo… Non era nemmeno cattivo, non ne aveva la fantasia; era soltanto goloso.
Lo si constatò alla mia scomparsa, nell’anno della vendemmia degli imperatori,
quando, tentato il colpo, si vide far fuori, in due e due quattro, mentre
masticava un panino. I Romani non gradivano imperatori né troppo grassi né
troppo magri. Quel meningitico micragnoso di Galba lo eliminarono perché era
secco come una sardella, quell’insonnolito di Vitellio perché era grosso come
una balena. Prudenza consiglierebbe, ad ogni aspirante alla carriera politica,
prima cosa procurarsi una bilancia. Se cala vuol dire che è un avaro sfottuto,
se aumenta, segno che ruba: in nessun caso, mai fidarsi. Io mi sono sempre
tenuto sugli ottanta- ottantun chilogrammi, peso-forma rassicurante per un
imperatore. Ma non si pensa mai a tutto. Sopra e sotto, si entra già in zona
rischio. Ah, non vedo l’ora, se mi sarà dato, di esistere e riconoscermi,
finalmente nello splendore della sua parola! Non si tratta di una pirandellata
qualsiasi. Mi deve credere. Sono un cadavere ibernato in frigorifero da
un’eternità: mi scongeli… E, una preghiera, se posso permettermi: mi faccia
epico, signor Guglielmo. Sento che epico riuscirei meglio. Del resto, non è ciò
che tento, sgangheratamente, già di fare raccontandomi in modo così pietoso? Si
fidi del mio istinto. Conterà pur qualcosa se è riuscito a sopravvivere dopo
aver interpretato le disastrose tragedie di Seneca. Non me ne voglia: un
grossolano caso di assoggettamento perpetrato dal maestro sull’allievo; ero
stato volgarmente plagiato. Eppure, parola,
l’ “Ercole furioso” riuscivo a renderlo ascoltabile, che è tutto dire.
Non è del parere? Non è una bugia per vantarmi, è la pura verità. Sarà dipeso
che avevo il physique du role, ma gli applausi non si contavano. Mah… magari
poter interpretare sempre ciò che piace!... Finora non s’è degnato di dire una
parola. Non un cenno di assenso, non un segno di disapprovazione. Ma come si fa
per ottenere un po’ di benevolenza da lei? Io non sono stato come si crede. In
qualche particolare, magari, peggio, ma, complessivamente, meglio, quando si
separino i fatti dai sentimenti, glielo giuro. Anche lei è prevenuto, lo sento.
È stato questo ragionar da cristiani a rendere tutto incomprensibile… Cosa non
s’è detto sul mio conto?... L’anticristo incarnato! Ma mi guardi, mi ascolti,
le sembro l’anticristo?... Niente. Lo temevo: è meno difficile demolire il
Colosseo che sfatare un preconcetto. Lei, e non solo lei, siete rimasti ancora
a quei due emeriti leccapiedi di regime, all’origine di tutto: Svetonio,
petulante gazzettiere, raccoglitore di immondizie; e Tacito, moralista stitico,
vero sicario della parola; che risparmiava le virgole per sostituirle colle
stilettate alla schiena, facendo la storia a base di insinuazioni; e
un’insinuazione vibrata giusta, perché il talento non gli mancava, a quella
canaglia, fa più danno di dieci fatti dimostrabili; poi, naturalmente, tutti
gli altri dietro, come tante pecore, uno a ricalcare l’altro. Ogni infamia
contro di me: un mattone al monumento dei miei successori, altrettante delizie
del genere umano. Nero su nero: Nerone! Ma la realtà?... Mica calunnie, mica
pettegolezzi, mica chiacchiere: mio padre, quello autentico, almeno stando a
mia madre che inaugurava mariti come un altro inaugura monumenti, più gli extra
che passavano nel suo letto come altrettanti viandanti attraverso un crocevia,
radicata consuetudine della nostra stirpe, talché nessuno dei suoi rampolli ha
potuto mai sapere, al cento per cento, chi dovesse chiamar padre… mio padre,
dicevo. Una cloaca. Unico merito: avermi lasciato orfano quando avevo tre anni.
D’ora in avanti attenzione ai numeri. A dodici anni, un patrigno: Claudio,
imperatore, mica dei Romani: dei cornuti, ma non ci faceva caso, o ci teneva,
addirittura: una rara forma di feticismo dell’adulterio. A sedici anni,
ammogliato per forza a mia sorella d’acquisto, Ottavia, una santocchietta
racchia e malmostosa, senza sensi; colla smorfia dimenticata sul volto, fin
dalla nascita, di una che segua il proprio funerale; iettatrice, poi… portava
male perfino a se stessa, superstizioso come sono. Pazienza, ero un ragazzo
precoce, chiavare, bene o male, già mi ingegnavo, riempii il guanciale di
amuleti, chiusi gli occhi, strinsi i denti e riuscii a cavarmela; ma me ne
rimase la cicatrice tutta la vita. Passa qualche mese e viene il meglio: a
diciassette anni: imperatore. Sissignore: a diciassette anni, l’età dei giochi
e dei balocchi, come dice la “Butterfly”; e delle pipe, aggiungo io, questo
sedere qua, lo vede?, è stato piazzato di prepotenza sul maggior trono che il
genere umano abbia conosciuto dal giorno in cui i popoli scopersero la paura –
perché la forza romana fu la paura - .Ai ragazzi comuni, la prima bicicletta, a
me un impero. Romano. Nella mia ingenuità, tutto contento, pensavo: “Sono a
cavallo, comincia la pacchia”: hai voglia! Ero lo zimbello di un piano che mi
ci vollero anni per rendermi conto di che si trattava. A ventinove anni e nove
mesi: chiuso, finis, giù il sipario, si esce di scena: morto, parce sepulto!...
Eh, Cristo, pardon: Giove! Li confondo sempre. Le dice niente questo? A lei, le
conclusioni. Di ciò, mai che si parli. Della vita, la vita! Io non ho
conosciuto altro che la giovinezza: il “prima”! Del resto io non so niente:
buio! Di diventar “saggio” – stracco! – io non ho avuto il tempo. E, per nove
decimi, la chiave dell’affare è tutta qui. Adesso, non venga fuori colla
barzelletta che muore giovane chi è caro agli dèi, perché spacco tutto e, poi,
a pié di pagina della lista dei miei falsi misfatti, si dovrà aggiungere anche
quello vero di aver strangolato Shakespeare. E starei per dire che è ancora il
meno. Per tutta l’infanzia, a dozzina, in campagna, presso una specie di zia,
la quale, prima di esser fatta fuori come accadeva, puntualmente, con noi,
provocò tutti i guasti di una zia che ti vuole veramente bene; io sono stato
pieno di zie, avrei potuto regalarne per gli onomastici. Maestri: un barbiere e
un ballerino. Come vede: istruzione superiore. Mi rifacevo, in segreto, con
spanciate di autori greci, proibitissimi come letture immodeste, non confacenti
a un’educazione romana. In compenso, i miei
Mentori coltivavano assiduamente l’abitudine di scaldarsi le mani in
parti del corpo dell’allievo dove non avrebbero dovuto scaldarsele. Erano tipi
freddolosi col problema del riscaldamento. Durante quegli anni, è molto se mia
madre ho avuto la grazia di vederla mezza dozzina di volte. Non ho ricordi che,
allora… allora, mi abbia dato un bacio. Rimasi colla voglia. Aveva altro da
fare… allora… Si preparava a nonsoché e non poteva allontanarsi dalla capitale
ad affilare la sua mordace alterigia, la sua benevolenza raggelante e il suo
disprezzo omicida… Imperatrice in lista d’attesa: sì: che fosse fatta fuori
Messalina, per prendere il suo posto. Figurarsi! La grande Agrippina che aveva
inventato il sofà: la figlia di Germanico! Quanto ci ha rotto le scatole col
nonno Germanico! Era la sua croce di cavaliere… Anche lui...! Sarà…! Tutta la
sua gran nomea – i Romani son sempre stati inarrivabili nel trasformare in miti
coloro ai quali non han permesso di dimostrare di meritarlo. Credevano in tutto
perché non credevano in niente - .Il capitale morale della famiglia sul quale
siamo vissuti di rendita!... Capirai!... Mi sa tanto che, per la maggior parte,
sia dipeso dalla fortuna di non essere diventato mai imperatore. Sennò, avrei
voluto vedere… Chi non rischia ha il vantaggio di non compromettersi. Mah… Quel
che è fuori discussione è che fu un trombone insuperabile, anche lui, nel
manovrare le virtù come altrettanti arnesi di ricatto. Certe zuppe!... Lasciamo
correre. Non bisogna dir male dei nonni.
Fuorché, di me, qui, non si può dir male di nessuno: c’è Seneca che
incalza. Hai detto niente?! Ad onta di ciò che se ne pensa, da
quell’ufficio-stampa di se stesso che ha saputo essere, tutto ciò che faceva,
che diceva, che pensava, era a futura memoria: raccomandate fermo-posta,
indirizzate ai posteri; ebbene, fin che mi resterà un filo di fiato, non mi
stancherò mai di gridare dai tetti che, quello lì, è stato il disastro della
mia vita. Ha trivellato in profondità, lui – mica sfruculiato in superficie
come il barbiere e il ballerino che, almeno, non erano antipatici, disponevano
dell’ignoranza allegra e qualche gusto lo davano - .So io: fin dentro
nell’anima, se ai miei tempi si fosse usata… Seneca, in un certo senso, faceva
già parte della famiglia… Era stato amante ufficiale di mia zia Livilla –
un’altra zia – vedova, si può ben dirlo, di suo fratello Caligola; e capriccio nemmeno troppo passeggero di mia madre;
dov’è che mia madre non c’entra? O non entravano in lei?... La prima
carica gli era costata otto anni di esilio fra i sassi della Corsica, la
seconda gli valse il richiamo a Roma, coll’incombenza di farmi da precettore.
Cosa vuol dire la riconoscenza! Evidentemente, sotto la toga doveva celare argomenti
ben convincenti. Non cessava un momento di far l’elogio della virtù per
assaporare meglio il gusto del vizio; e di proclamare il disinteresse per
soddisfare la cupidigia; propagandava lo stoicismo per pagarsi il diritto di
vivere da epicureo. Consumò disonorandola la sua vita di uomo in previsione
della sua discutibile fama di filosofo. C’è chi sottoscrive delle polizze di
assicurazione sulla vita; lui, più ambizioso, ne sottoscrisse una addirittura
sull’immortalità. Cara, ma non buttò via i suoi soldi. È stato un affarista
abile, in tutti i sensi. Doppio, macché: triplo, quadruplo, peggio di una
cipolla, di un carciofo. Era talmente ipocrita che gli riusciva naturale ingannarsi su se stesso persuadendosi di essere
un altro; a differenza di mia madre, tanto guasta da credersi peggiore
di quel che era. Indossava il proprio cinismo coll’imperiosa noncuranza di
un’aristocratica matrona d’antico stampo,
che indossa i gioielli di famiglia, consapevole che si tratta dei più
preziosi dello stato, e possedeva anche quelli. Tra collo, braccia e vita
circolava con, addosso, mezzo impero romano… E, insieme, i due compari si
misero ad allevare il pollo in batteria. Ma ci sarà modo di conoscerli meglio più avanti… Ci arrivo, ci
arrivo. Lo so. Son secoli che lo so. Lei, quelli là, non aspettate
altro: il calcio in pancia che spedì all’altro mondo Poppea, l’incendio di Roma
con annessa strage di cristiani, il matricidio e le brutte cose con mia mamma:
argomenti ghiotti. Specialità personale. Parliamone. Non ho che da guadagnarci,
visto che, magari ci son voluti duemila anni, ma il pallone pare che si stia
sgonfiando. Primo caso: desolato, ma non più di un malaugurato incidente nel
corso di un litigio coniugale un po’ movimentato. Chi conosce un matrimonio
dove non si sia alzata la voce, si faccia avanti. Mai scappata una sberla alla
propria signora a nessuno dei presenti? O vogliamo metterci a fare il processo
al banale quotidiano? Io sono un temperamento nervoso, a me è scappata una
pedata. Quella sera avevo le fregne. Avessi saputo che Poppea aveva l’aborto
prematuro facile, colla voglia di un figlio che mi ossessionava, mi sarei
limitato a una sberla, oppure non avrei mirato alla pancia, è talmente ovvio…!
Incendio a Roma. Mai stato un piromane. E chi ci crede più, con quel che m’è
costato ricostruirla a mie spese, che, per poco, non fui costretto a dichiarar
fallimento? Forse avevo il gusto di gettare i sesterzi dalla finestra?... I
cristiani?! Ci siamo! Tutta colpa di Tigellino: “Son stati i cristiani, son
stati i cristiani, bisogna dare un esempio”: sembrava impazzito. Il capo della
Gestapo era lui. Vatti a fidare! Di mio, io non ci ho messo che la regia. Ho
visto l’occasione: l’occasione, non il pretesto, sia chiaro. Semmai, a rendermi
imprudente è stata la mia passione per il teatro. Son vissuto di teatro! Ma
stiamo dando i numeri? Quando mai una regia ha costituito reato, anche se, nove
volte su dieci, dovrebbe costituirlo per legge? L’unica volta che feci una
regia e mi va a capitare quel che mi va a capitare! Quando mai m’è venuto in
mente!... Poi, le esagerazioni… tutto un gran “quovadis”: centinaia di
migliaia, han detto e scritto; milioni, addirittura, neanche si fosse trattato
della messinscena del trionfo dell’Aida… di Cecil De Mille… Chi li aveva mai
visti, che bisognò andarli a cercare col lanternino, i cristiani…? Trasformati
in lampioni, spinti a combattere nel circo, offerti in pasto ai leoni, indigesti come sono. E quando mai? Come
se, a Roma, si fosse tanto pitocchi, o tanto crudeli da far patir la
fame a dei poveri leoni domestici, pasciuti e inappetenti, che, per fargli
mandar giù un boccone, bisognava pregarli in ginocchio. A Roma si è sempre
stati amici degli animali, e alle loro belve i Romani erano affezionati: tutti
figli della lupa, lo insegnano all’asilo, mi dia ascolto, una volta tanto,
faccia credito a un regista: fu una cosetta improvvisata, messa su in economia…
un dopolavoro… faccia conto una festa dell’Unità da paese. Se siamo arrivati a
mezzo migliaio è ancora grassa… macché: meno, meno. Vedo là l’amico Adolfo,
abituato com’è, sorride sotto i baffi. È un sorriso che dice tutto. Grazie. I
nostri mezzi, la nostra tecnologia non erano i vostri, volete mettervelo in
mente? Artigianato povero, si doveva fare tutto a mano… Mia mamma! Ma santo cielo!
Chi non ha sognato, almeno una volta, di star a letto con sua madre? Proprio
oggi mi si presenterebbe il conto; oggi che, con quella voglia, si spiega
tutto, dai calli alla scoperta dell’America? Sarebbe, quantomeno, il momento
meno adatto… Mi guardo bene dal mettere in dubbio che la mia povera mamma sia
morta male. A me, fu riferito che era stato un suicidio… se c’è qualcosa da
rimproverarmi fu la pigrizia di aver lasciato correre… Un po’ macchinoso, se
vogliamo, ma un suicidio. Comunque, nemmeno a farlo apposta, leggevo
recentemente che, ad assassinarla, non potevo assolutamente essere stato io, e,
indolente, pigro e di poca memoria come sono, mi guardo bene dal metterlo in
dubbio. Per carità, accendere una polemica dopo tanto tempo!? Mai al mondo. Che
le devo dire? È doloroso ma, prima o dopo, ci si deve pur rassegnare a perdere
anche la mamma. È la vita. Sarà stato quel bisonte di Tigellino. Provvedeva lui
a tutto. Sono, anzi, curioso di sapere a chi si darà la colpa quando sarà
passata la moda di darla, di ogni minimo disguido, a lui. “Sourtout pàs de
zèle”: non passava giorno che non glielo raccomandassi. Resti chiaro, però: quella reazionaria sta bene morta, con tutti
i casini che ha combinato. (una
pausa sovrana percorre, come il lento giro della lanterna di un faro, l’intera
assemblea. È uno sguardo cosmico dove c’è di tutto: dignità, interrogazione,
sorpresa, rammarico, riprovazione, disprezzo, umiliazione ed altro, a libito
dell’inventiva e della faccia tosta dell’interprete, se lo si troverà; ma un
pirla, da indurre in tentazione, si finisce sempre per scovarlo). Ma, è mai
possibile?... Mi sa che non mi si crede… Ho, perfino, l’impressione, non so… - sarebbe atroce – di aver deluso tutti… (dieci
minuti di puntini, per “farsi ascoltare dal pubblico, anche quando tace – è
stato un vanto storico pronunciato dalla Duse e se ne ricorda ancora – e giù
un’autentica – o tale, almeno, sembra – crisi di disperazione, saggio d’alto
istrionismo. Splendido nella tirata del mite agnello che offe il collo all’arma
sacrificale, applauso a scena aperta garantito, del Dostojevskij per i poveri):
Debbo, dunque, svergognarmi, umiliarmi, distruggermi fino in fondo, vomitando
tutta la mia miseria di sovrano da burla, di uomo senza dignità?!.. Sono stato
timido, pavido, vile, infingardo, col sistema nervoso fradicio come il petalo
di una rosa appassita; dai pensieri flosci, dai sentimenti marci; lubricamente
lascivo, ridicolo Casanova di facciata e semi-impotente nella realtà;
infantilmente vanesio, disgustosamente patetico, mediocre in tutto: poeta
meschino, attore cane, cantante stonato, gladiatore a trucco, fantino staffato;
ho ripescato l’aggettivo staffato, apprezzino almeno quello… pieno di
complessi: saltavo da un complesso all’altro
come uno si cambia la camicia; devastato da ogni sorta di squilibri neurovegetativi:
tachicardia, vertigini, extrasistoli, acidità, flatulenza: un isterico
inverecondo: prepotente coi deboli, debole coi prepotenti: sadico cerca
masochista, masochista cerca sadico. Tutta Roma parlava delle mie notti brave.
Ero ridotto ad andare a battere, con Petronio, a Monte Milvio tra la feccia
della feccia; e una notte, dopo avermi scippato, mi caricarono di botte e
tornai a casa che, per poco, non mi avevano cavato un occhio… Se fossi Dio,
morirei dalla vergogna di aver messo in circolazione uno come me… Va bene
così?!?.. E mai nessuno, in venti secoli, che sia riuscito a indovinare che son
diventato il Nerone che son diventato per reagire alle frustrazioni e ai
fallimenti del mio narcisistico protagonismo, cercando di avvolgermi, di volta
in volta, in una toga decente. Tutta scena. Teatro. Inventarsi per essere
qualcuno. Spesso si recita per disperazione, per protesta, per assolversi, per
consolarsi, per dimenticare, per pietà di se stessi, per non morire. Il Teatro
è il gioco della crudeltà, della follia e della morte! Ma non bisogna dir male
del teatro. (un grido lacerante, quasi un urlo): No. Non sono Pasolini.
È Pasolini che è stato anche me!... Ma che c’entra? C’entra! Lasciamo che
c’entri. ( di colpo, semplice e amabile anfitrione) : Intervallo di un
quarto d’ora. Se gradiscono rinfrescarsi l’ugola, di là c’è un vermouth.
Carpano o Punt e Mes. Tutto quanto può offrire la nostra onorata e orgogliosa povertà. (fulminea,
un’ulteriore impennata; oltre ogni ridicolo, dagli abissi dell’assurdo, una sghignazzata sardonica). Ah! Ero anche stitico. I disgustosi
intrugli di erba sena che ho dovuto ingoiare
a comando di mia madre!... Le bastava lo sguardo! (cala
progressivamente la luce, inghiottendo tutte le immobili presenze una
spessa oscurità; eccettuata la sua, circoscritta nell’accecante cerchio illuminato
rimasto; dove comincia a svestire i panni imperiali, parlando con se stesso in deluso risentimento). Niente. Non ha fatto una piega. Si
fosse mai accorto che stavo recitando? Ma, se se ne è accorto, avrebbe dovuto
essere proprio questa disperata ricerca della verità nella finzione ad
interessarlo. Sennò, che merito c’è ad essere Shakespeare? Era tanto difficile
da comprendere?... Quando diventano il monumento di se stessi, non capiscono
più un tubo. Ho sbagliato tutto. Mi
è scappato di mano per andar per conto suo. La verità non paga. Ho minimizzato,
dovevo ingigantire. Mi sono giustificato, dovevo accusarmi. Mi sono umiliato,
dovevo insuperbire. Ho messo in evidenza il meglio, dovevo calcare la mano sul
peggio. Ho svelato la debolezza, dovevo fingere la forza. Sono stato sincero,
dovevo mentire; modesto, sarei piaciuto di più superbo; problematico,
m’avrebbero voluto elementare: ho cercato
di offrire l’uomo a chi non si aspettava che il mostro. Tutti uno, questi bastardi di elisabettiani.
Spasimano solo per le macellerie: tradimenti, battaglie, torture,
duelli, sangue, cadaveri, stragi, gioco a bocce colle teste decapitate e
bambini lessi. Hanno imparato da Seneca. E la platea
dalla sua parte. Nerone poveruomo non chiama. Tutto a monte. Si torna
all’antico e si rivolta la frittata. Lo servo io, nel secondo tempo, quel
barone lì, che più che parti di generico
non è mai riuscito a interpretare. Ha finito di sorridere di
compatimento. Chi crede di essere? Senza di noi attori, che gli imprestiamo
l’anima, non sarebbe nessuno. Gli piazzo ai fianchi, uno di qua, uno di là, due
altri esperti più esperti di lui, che tenevo di riserva e non tiravo fuori per
riguardo e, poi, mi saprà dire: il professor Freud e il signor marchese De Sade. Ne sentirà di belle. (non s’è
nemmeno accorto che s’è già chiuso il sipario e continua a parlarsi addosso, che nausea ‘sto teatro…) … Ah, ero anche stitico! SECONDO TEMPO (il rito prosegue,
preceduto da un colpo di gong, fratello gemello di quello onde s’è
iniziato. Di poco meno eminenti, di poco meno elevati, su troni di poco
meno imponenti; simmetrici ed egualmente ieratici, ai fianchi del solitario
idolo precedente, ora siedono, alla sua destra il professor Sigmund
Freud, in finanziera nera, barba grigia, occhiali e sigaro Virginia; e,
alla sua sinistra, il marchese Donatien Alphonse François de Sade, in
velada pervinca merlettata e parrucca bianca. Formano una trinità
impassibile, adagio emergente col lento ed austero crescendo dell’accompagnamento
musicale, dal buio totale, su, fino allo sfolgorare di una trionfale
illuminazione, coinvolgente, ai piedi del tricefalo soglio, la tunica,
da Nerone precedentemente indossata, gettata sulla spalliera di una
sedia romana, spoglia vuota, eppur magicamente viva, persistente fulcro
di un discorso occulto; emblematico interlocutore di se stesso con se
stesso in altri. Al momento del tacere accecante, sulla corona dell’accordo
in maggiore che tocca l’acme dell’effetto suono e luce; a scena deserta,
due voci dialoganti, dell’ “unicum” sdoppiato, planano sull’uditorio, da lontananze irreali, in un alone
di inquietanti risonanze).
-Tocca a te, mamma… -Rimediare al solito guasto del bambino che non
volle crescere… -Che non hanno
lasciato crescere, dovresti dire… -Il cialtrone di sempre. Mai che si
smentisca: persuaso di nobilitarsi degradandosi.
Cosa debbo aver fatto di male agli dèi per essere stata punita con un figlio come te? -Al saldo del
conto, di figli come me avresti dovuto partorirne almeno mezza dozzina e i tuoi dèi sarebbero rimasti
ancora in credito. Ma, ormai, i nostri dèi, incalzati da nuovi
concorrenti, non possono più permettersi di essere
nemmeno permalosi, a rischio di rimetterci il posto. -Da chi hai preso, poi? -E’ una lunga
catena. Occorrerebbe, innanzitutto, stabilire con precisione chi fu mio padre. -Il peggio uomo col quale mi sia congiunta, visti i risultati. -Furono
tanti!... E perché no, il meglio? Potrebbe trattarsi, addirittura, del grande
Seneca… Perché no? Le date non osterebbero. E poi, che importanza ha una
data?... Me lo son sempre sentito addosso come un padre. Nerone figlio di Seneca, che colpo di teatro! -M’hai messo una pulce nell’orecchio, guarda!
-L’intenzione era di metterci uno
scorpione. -Perché no, dopotutto? Da chi altri saresti riuscito a
ereditare altrettanta affliggente noiosità? L’altro giorno, c’è stato, perfino,
uno che s’è gettato dall’alto del circo, non resistendo al tedio di esser
costretto ad ascoltarti declamare. -Le varietà di suicidio sono inesauribili.
-Mi detesti, eh?!... -Tanto, mamma!!... -Con quanta dolcezza lo dici!... Seneca… Ci devo riflettere. -Certo,
certo, la paternità è la meno sicura delle parentele. Ma io ho sempre fatto
molto conto della fantasia. Vedi, di un padre concreto e conosciuto da esecrare
ho tanto bisogno anch’io. E nessuno come quello là, farebbe meglio al mio caso…
E avrebbe potuto essere amore, pensa…; ridurre tutto, viceversa, a una piccola
faccenda di famiglia tra un figlio discolo
e due genitori carogne. -Il
sofista!... -Sghignazzi bene.
-E’ stato l’estremo rifugio della mia
dignità vilipesa. -Rifalla. -Cosa? -La sghignazzata. Quel che non sai
fare è sorridere. Non t’ho mai vista ridere come non t’ho mai vista piangere. Disponi
soltanto di un ghigno che ti serve in ogni caso, gioia e dolore. Ma, fosti,
poi, mai capace di gioia, di dolore? Non sei che cervello. Anche il sesso tieni
spalancato nel cervello. Il primo impulso è di andartelo a cercare sulla
fronte, il luogo più impervio che ci sia…
E’ ora di andare. -Cosa gli racconto, io, adesso, a quelli là? -Non è la
faccia tosta che ti manca: improvvisa. Invèntati: diventa quella che sei.
Teatro, teatro: il protagonista è lui; e noi umili officianti: ti fa recitare,
persino, contro te stesso… Tono piuttosto aulico confacente alla figlia del
grande Germanico. Fa una cosa, mamma: per lusingarlo, citalo. Non c’è autore
che ci resista. Noi non siamo personaggi, siamo scatole cinesi. Una dentro
l’altra, non arrivi mai a tirar fuori l’ultima, assaporando l’ebbrezza di
sbranarsi possedendosi… Un consiglio: trattali col voi, tu che, potendolo,
daresti del voi a te stessa. Senza gigioneggiare troppo, possibilmente; o,
facendolo, coll’aria di non farlo, che è la maniera sublime di farlo, quando si sappia farlo. Incede finalmente, raggiante apparizione di beltà
e grandigia, il visionario commediante, metamorfizzatosi nella
regale e superba Agrippina, fulgida nei propri gloriosi quarant’anni,
preceduta, a piena orchestra – è tassativo – dall’introduzione alla scena
del sonnambulismo del “Macbeth” di Giuseppe Verdi. Incoronata da una
gigantesca parrucca bionda vistosamente elaborata, e le guance
clamorosamente imbellettate; in fastose, elegantissime vesti romane
tutto concorre ad esaltarne l’imperiosa alterigia, non escluso il peso,
non indifferente – oro, perle e pietre preziose, delle quali rubini,
smeraldi, zaffiri, ametiste, onici, berilli, non sono che la fanteria –
della copiosa ed abbagliante gioielleria dinastica della gente Giulio-Claudia
addosso: miliardi. Di sesterzi? Di dollari.
-“… Svuotatemi del mio sesso, colmatemi fino alle punte dei capelli della più
spietata ferocia, ispessitene il mio sangue, sbarrate, nel mio animo, il minimo
spiraglio, la minima fessura al mio rimorso. Appressatevi al mio morbido seno e
mutate il latte in fiele, oh tutti voi ministri del crimine, che, nella vostra
invisibile essenza, presiedete ad ogni misfatto di natura…” -L’ho recitata bene? Son come mi si vuole? È il tono
giusto per la giusta Agrippina? -Sennò si cambia. Disponiamo di un repertorio
ambisesso inesauribile. -Zitto, tu! Nessuno ha mai osato rubarmi le
battute. Ora sino di scena io e parlo io.
Giudichi chi ascolta quale dei due recita meglio. (si tratta di un
bisticcio da personaggio a personaggio: col figlio e anche col
protagonista, coll’autore, con chissà chi e cosa: una cagnara di rivalità,
intorcigliate e combattenti, all’interno del monologo. Accadrà ulteriormente.
Come risolvere il problema è esclusivo compito dell’interprete. Se proprio non ne viene a capo,
accomodi, tagli, trasponga tutto in terza persona; ma sarebbe un
peccato. Alla peggio, gli rimane la risorsa
del registratore). Non ci
si faccia caso. Dice a me, geloso di se stesso, tanto per non smentire la sua
sfrontata natura di commediante: in altre parole, si tratta di me, contro di
me. Non si sopporta di non stare sempre in scena in nome proprio. Si teme di
essere meno bravi in un ruolo piuttosto che in un altro. E’ un delirio. Ed ora,
se non hai nulla in contrario, torno ad essere Agrippina. Domando scusa della
perdita di tempo. Aho! Dico a te, Mister Shakespeare.
-Dio del cielo, dà del tu a Shakespeare, e
con accento romanesco! -A Roma usava
così. Dovrebbe sentirsene lusingato. Come hai inteso, arrivo
direttamente da uno dei tuoi copioni. Per me puoi, quindi, usare dal più al
meno, le stesse parole. Dopo aver plagiato tanti altri, puoi, finalmente,
toglierti la soddisfazione di plagiare te stesso. I due consiglieri, che ti
siedono a lato, prestino attenzione: saranno, forse, in grado di offrirti
qualche utile suggerimento per la comprensione della vera Agrippina. Io non sono difficile. -Senza,
però, dimenticare che questa gran donna che faceva paura, fu depositaria di
tutte le millenarie virtù della matrona romana… solo, a rovescio. -L’importante fu possederle. Una dichiarazione di
principio: io non ho giustificazioni da dare. Non ne ho bisogno. Come non ho
indulgenze da mendicare: il mio orgoglio me lo impedisce. Mi assumo, piene,
tutte le responsabilità di ciò che fui, che feci, che pensai, che volli e
desiderai, dalla nascita alla morte; il noto e l’ignoto, perché il noto non è
tutto. Il cosiddetto sentir cristiano non fa per me. Non lo capisco, né l’ho
capito mai; né, con esso, saprei, e vorrei, farmi capire. Chi brama entrare in contatto
con me, deve dimenticarselo. Io funziono solo “ab urbe condita”. Avanti o dopo,
lì… come si chiama… quello che è, non esisto. Offro il mio ritratto, romano, da
romana, per menti romane: “Io sono Roma”. Le sottigliezze, le incertezze, le
malsane contraddizioni, le cangianti mutevolezze le torbide inquietudini, gli
umori umbratili, le morbide ambiguità, i sì che vogliono dir no e i no che
vogliono dir sì, le masturbazioni cerebrali… tutta roba che lascio a mio figlio
che l’ha inaugurata, e alle generazioni venute dietro di lui, colle quali ha
fatto lega e, nelle quali, basta coltivare un vizio più degli altri per
sentirsi subito proiettati verso
l’avvenire, risultato garantito. Io: viceversa. Molti o pochi, certo
diversi, i miei difetti e le mie qualità, le mie virtù e i miei vizi, il mio
bene ed il mio male, erano chiare e ferme realtà, perentoriamente piantate
nella tradizione storica a familiare: ab urbe condita. Sia chiaro una volta per
tutte: io non mi sento né un’incompresa, né un’incompiuta, e, men che meno, una
che ha bisogno, o desiderio, di restauri.
Son chi sono. -E pretendi di far del
teatro soltanto colla verità, senza mentire? -Sissignore! -Ma se non ci riusciva nemmeno la Duse? -Me ne dispiace per lei. Io sono cerebralmente maggiorenne. La Duse e tu, evidentemente, no. Voi siete due nostalgie e basta, lei in anticipo, tu in
ritardo. Io sono il reale!.. E’ possibile tanta poca maestà, il figlio di Agrippina? Figli così, imperatori di Roma! A
questo si doveva arrivare! Di vergogna una madre può anche morire. E sarebbe
avvenuto se non si fosse provveduto allo stesso scopo diversamente; e
per questo, solo per questo, gli serbo quasi gratitudine. L’origine, la colpa
di tanto sfacelo? Gli aggettivi! Ribadisco: la decadenza del mondo è derivata
dall’invasione degli aggettivi. L’aggettivo è il cancro segreto, la serpe in
seno al sostantivo. Colui che inventa un nuovo aggettivo sovverte l’ordine
costituito. Guardarsi da chi ama troppo gli aggettivi: è un asociale, un
pericolo per la collettività. Fa più male, a uno stato, un aggettivo che
un’epidemia. L’epidemia passa, l’aggettivo resta; e, con esso, tutto ciò che si
porta appresso e può portarsi appresso qualsiasi infezione. Il mio sconsiderato
figliolo ne era intossicato: era un aggettivo-dipendente. Non viveva che di
essi e per essi, a dosi crescenti. Ciò che gli mancava erano i sostantivi, i
sostegni dell’impero. Nessuno meno romano di lui, in tal senso. Tutto è dipeso
da lì se Roma declinò, e proprio quando parve prosperare. Apparenza, inganno
mortale di una divinità avversa. La vera romanità nacque nemica dell’aggettivo
e, per la sua perpetuazione, avrebbe dovuto rimanerlo. Cancellarne, non
aggiungerne. Viceversa, fu sommersa dal diluvio di tutti gli aggettivi più
strani, più esotici, più insidiosi, più tortuosi, più torbidi, più equivoci,
della Grecia, - già, io la Grecia l’ho apprezzata per una cosa sola e basta:
l’invenzione delle pieghe – dell’Egitto, dell’Oriente. Purché non fosse romano
e disponesse di aggettivi, ognuno acquistava il diritto di diventar romano.
Solo i collezionisti di sensazioni sembravano aver titolo a dettar legge e far
carriera; dall’oggi al domani, candidati e maestri di vita nelle case dov’erano
stati schiavi: prosseneti, ganzi, prostituti, filosofi e letterati, che è la
stessa cosa, insieme e in peggio… -Ne fa una questione di grammatica! -...C’è
una realtà, di cui vado personalmente orgogliosa: tutte le mie azioni,
sentimenti, pensieri: cuore, corpo, utero e cervello, giusti o sbagliati,
colpevoli o innocenti, sono stati dei sostantivi spogli, chiusi, fermi,
collaudati e stabiliti. Persino i vizi. -Ma che gusto dà un vizio, mamma, se
non lo aromatizzi con almeno una
mezza dozzina di aggettivi? -Senza
nemmeno uno, i miei me ne dettero moltissimo. Un vero vizio,
degno di un romano, non è, e non può risultare, che una voglia naturale
manifestata e soddisfatta al massimo grado. I vizi devono essere puri, sani
e morali. Solo se sono puri, sani e morali
i vizi sono costruttivi.
-Sai che gusto! Povera donna, non si accorge di combattere l’aggettivo
mitragliandolo con raffiche del medesimo… Si può fare la storia anche
con gli aggettivi, mamma. E fare la storia significa cambiarla. Non averne
paura; affacciati all’oggi. Forse, riuscirai a capirmi: me e quelli come me:
cercare l’assoluto frequentando il relativo.
-Io non combatto l’aggettivo, difendo
l’integrità di Roma.
-E allora fatti, mamma! Tu che non conosci il dubbio, l’umiliazione, la
vergogna, il rimorso; nessuna delle cangianti ed ambigue voluttà onde
chiedono di essere insaporiti i fatti! Qualcuno dei tanti tanti tanti; ti sei
riservata l’esclusiva del fatti!... Nudi e crudi: fuori! Ma, attenzione: ci
rimetti. Un aggettivo, in qualche caso,
riesce a farti assolvere, ricordatelo.
-Fatti tuoi? -Fatti nostri. Fatti, tu che non ti
sei mai martirizzata nel piacere delle confessioni: te ne sei esaltata soltanto
nella superbia, sull’altare dell’ambizione, della volontà e del potere. Oh il
potere!... Hai vissuto ubriaca di potere!... Fatti senza aggettivi… perché… eh,
perché… Le poche volte che rinunciai a spegnere i fatti annegandoli negli
aggettivi, scelsi quelli giusti e aveste
paura tutti di me. Te, prima d’ogni altro. -Li sanno, i fatti. Perché
sono fatti. Stanno lì. Immutabili. Nomi, cognomi, date. Colonne dell’esistenza!
Mica vapori come tenteresti di farli scorporare tu, nell’incenso degli
aggettivi. -Avanti, dunque, i fatti. Lo issai sul trono, in cima a una lunga
scala, della quale ogni gradino era un crimine, necessario e, per ciò stesso,
giustificato. Io non conosco il vostro Machiavelli, ma la mia personale
esperienza mi garantisce che la sua nascita è stata, quantomeno, uno spreco
superfluo degli dèi, sempre in ritardo sui tempi e, al solito, incapaci di far
economia. Buon per lui: si tenga pur la gloria di aver inventato l’acqua calda.
Non si può regnare innocentemente! Ad essere innocenti si ha sempre torto. Il
tempo della clemenza di quel pessimo soggetto, la cui maggior attrattiva era il
fascino di una sessualità precoce, un po’ canaglia, ammorbidita da una fragilità
da adolescente goloso ed infingardo, crudele come un gatto e tenero come un agnello
– miscela ideale per suscitare sofferenza - , coincise col tempo
dell’obbedienza, durante il quale mi caricai io, sulle spalle, il peso dei
delitti indispensabili a mandar avanti la colossale macchina schiacciasassi
dell’impero, e non era un peso lieve. A me tutto il torto, perché sua fosse
tutta la ragione. Odino pure, purché temano, ebbi per norma, ereditata da mio
fratello. Mi feci odiare perché l’amato fosse solo lui. E, naturalmente, Seneca
di rincalzo – dalla mia - , Seneca che, palese o nascosto, non manca mai nella
nostra vicenda, niente e tutto, mai e sempre – complice, e traditore come tutti
i complici; ufficio stampa, incaricato delle pubbliche relazioni; indefettibile
nel perseguire, colla prudenza del serpente e la pazienza del somaro, un
proprio personale disegno occulto e tortuoso, e una scusa sempre pronta per ciò
che non ha scuse; ineguagliabile nel masturbare i difetti, persuaso, con ciò,
di trasformarli in pregi; privo di illusioni, eppure astutissimo nel suscitarle
negli altri; più sincero quando mentiva e più mendace quando diceva la verità.
La sua fu la complicità del silenzio: la più sottile perché la meno
perseguibile… Regnare senza lordarsi le mani! Si può sentire maggiore
bestialità? E allora, bisogna pur che qualcuno se le lordi, visto che regnare
qualcuno deve regnare, se si vuol tenere in piedi la baracca. Me le son lordate
io. Per Roma? Per Roma. Per lui? Per lui. Per me? Anche per me: sì!... Se i
miei occhi miopi non mi traggono in inganno – ma, tra affini ci si riconosce a
fiuto – scorgo, tra il pubblico, Semiramide, Elisabetta d’Inghilterra, Caterina
di Russia, e chiedo scusa alle altre che
non riesco a mettere a fuoco. Esse sono in grado di capirmi al volo,
perché apparteniamo alla stessa razza. Colla differenza, a mio danno, che Roma non riconobbe mai, se non
al sultano, il maschio, il privilegio di raggiungere un trono, e fu la
sua maggior ingiustizia maritata al suo maggior errore. Badare alla casa – la
casa! - , far figli, onde fornir carne ai campi di battaglia, filare la lana –
a che sia servita tutta la lana filata dalle donne romane, poi?!... – alle
toghe dei senatori, forse! – E’ un mistero che la Storia deve ancora decifrare - … cuocere le ciambelle al miele per la merenda dei bambini; e,
naturalmente, tener pronte le pantofole per il ritorno a casa del marito,
stanco dal lavoro, alla sera; come se i mariti romani si stancassero lavorando;
era molto se avevano i piedi dolci di natura... In compenso, bisogna
riconoscerlo, circolavano, per Roma, anche dei bei piedi… Nerone, per esempio,
aveva dei piedi bellissimi… e osceni. (oh, non si sta incantando in
commemorazione dei piedi dei maschi romani del primo secolo dopo Cristo?!) …
nervosissimi Caligola… scultorei Aniceto… delicati Narciso… adorabili
Rubellino… armoniosi Publio… sempre caldi Pallante… gelati Burro… scompagnati Nerva… così così Lucano…
artritici Pisone… magri stecchiti Tiberio… minuscoli e gentili
Britannico… olezzanti Persio… indecifrabili Vitellio… deformi ma intelligenti
Pollione… misteriosi Terpino… ben fatti, però un quarantasei abbondante,
Tigellino; come, del resto, la maggior parte dei pretoriani, ragazzoni
magnifici;… imprevisti Lepido… pieni di calli Seneca… disgustosi Claudio… ma i
più splendidi piedi di tutta la storia di Roma li indossò mio padre, Germanico:
da museo… Eccettuati i miei, uno sfacelo i piedi delle donne. Tutta colpa del
tacco a spillo, messo in giro da quella nana di Messalina. Non ne voglio neanche
sentir parlare. Insomma, salvo l’eventuale risorsa della contemplazione dei
piedi dei loro mariti, nel caso, non frequente, che avessero avuto la fortuna
di sposare dei piedi discreti, altre strade aperte, se non, si capisce, quella
del letto, alla donna romana non erano aperte per quanto genio, saggezza,
volontà fosse in grado di mettere a servizio della patria… Oppure, se non le
piacevano i piedi degli uomini – ce ne sono, poverette - , farsi monaca, volevo
dire vestale. Allora, tutto il rispetto e la venerazione, però, mai lasciarsi
toccare nemmeno con un dito. Comunque, le leve del comando alla larga. Ci si
riusciva a metter su le mani solo per interposta persona, le poche che ci
riuscirono. Io ne so qualcosa. Pure, rammento sempre quegli anni collo struggimento
del maggior bene perduto della mia vita. Eh, sì, rimanga fra noi, anche
l’altera Agrippina, donna granitica, conobbe la nostalgia. Però li pagai quegli
anni, li pagai!... Con la gelosia, li pagai!... Ottavia, mia nuora e
figliastra, non contava; era una piccola ipocondriaca, a sangue freddo, né
carne né pesce. Se Nerone, prima di decidersi a farla fuori per impalmare, a
mio dispetto, quell’oca vanesia di Poppea, c’è andato a letto insieme mezza
dozzina di volte, è ancor molto. Ne provava un autentico disgusto fisico… Era
una donnetta sterile e indisponente, senza modestia e senza superbia, priva fin
dell’infingarda scaltrezza di suo padre… E, del resto, cosa poteva venir fuori
da quel relitto fossile tutto bave e libidine, di Claudio, il cui capolavoro
consistette nel sapersi preservare l’intelligenza congelandola in un bozzolo
d’imbecillità come in una cassaforte a muro mai aperta? Capiva tutto non
capendo niente… Ma Atte, Rubria, Poppea… persino quel frocio in marsina di
Petronio e la sua masnada di drogati di snobismo, spacciatori di aggettivi!...
Dio vi preservi, signori, dalla gelosia. Ti squarcia le viscere come una
rasoiata, fin dalla prima volta che ti sorprende e poi, non c’è più scampo… Ma,
alt! Questo capitolo non è il mio. Da me si richiederebbero solo fatterelli,
petulanze, pettegolezzi. Sono quelle cose là che interessano, dicono. E non
sanno che i rivelatori d’umanità son proprio loro. Ho fissa in mente, per
esempio, una circostanza puntualmente
ricorrente: il maltempo che accompagnò sempre, salvo uno, i momenti
foschi e decisivi della mia esistenza. La sera che per le note ragioni,
assassinai Claudio, imprudentemente, e disgustosamente ghiotto di funghi; a tal
punto da non poter non indurre in tentazione di servirgliene in tavola una zuppiera
colma, appaiandoli, una volta tanto, all’opportuno aggettivo avvelenati, che,
in fatto di funghi, nella nostra famiglia, è sempre stato la loro salsa
naturale; e, in quell’occasione, accortamente rinforzata da doviziose
spennellature di ottimo giusquiamo; talché non ebbe nemmeno il tempo di
abboffarseli tutti, e, col dispiacere di chi non ha mai avuto le mani bucate,
buona parte si dovette buttar via, trovando indelicato riciclarla alla servitù,
come è abitudine, in tutte le ottime famiglie, coi cibi avanzati… bene: quella
sera pioveva a dirotto. E pioveva ancora la notte che fu arso sul rogo – anche
allora: il doppio della legna che sarebbe stata necessaria. Pazienza, non tutte
le notti c’è un marito da bruciare – come non aveva cessato di piovere la
mattina dei funerali, e non smise per la settimana successiva, che nessuno si
salvò da reumatismi. Ci fu un’ora di sole unicamente durante la cerimonia di
investitura e l’elogio funebre con cui quello lì (largo gesto indicativo,
non destituito di disprezzo, verso l’abito del figlio, abbandonato sulla sedia)
assaporò per la prima volta la droga dell’applauso – stava bene, l’incolpevole
principe, vestito a lutto. Non furono poche le ineccepibili matrone a farci su
il primo pensierino. Il gusto della carne fresca viva era diffuso a Roma. – A
batter le mani c’era un intero Senato rigurgitante di arteriosclerosi,
esultante per la restaurazione della propria autorità. Incauti, non sapevano
ciò che li aspettava. Cosa vuol dire la solerzia! Lo zelante Seneca, sempre preveggente, gli aveva preparato
il discorso… della corona ventiquattro ore prima che i funghi, pardon:
gli dèi chiamassero a sé il patrigno. Nemmeno una parola di gratitudine per
quelle operose amaniti falloidi – magnifico nome che m’è sempre tanto piaciuto
– le quali c’erano costate un occhio della testa sul mercato. I funghi erano
cari anche allora. Poi, le cateratte del cielo tornarono a spalancarsi. Quando
piove, a Roma, piove. (l’incombenza interlocutoria di quella tunica vuota va
aumentando col passare direttamente al tu). Ma diluviava addirittura, e
lampi e tuoni e raffiche di vento: una natura devastata, la sera che tu,
solamente tu, imparata fin troppo bene la lezione, togliesti di mezzo il
legittimo erede, Britannico, fratellastro, cognato, compagno di giochi e di
reciproci piaceri perversi, da adolescenti cresciuti in promiscuità… e col quale avevi fornicato – ma senza aggettivi – la
notte che precedette il fratricidio. Anche in quell’occasione, si rivelò
preziosa l’opera dell’alacre Locusta. Qualche volta pasticciava, però, sapeva
il suo conto la vecchia megera. Altri dispone della baby-sitter fissa, noi
potevamo addirittura permetterci l’avvelenatrice di famiglia a tempo pieno. Il
suo esordio fu un piccolo capolavoro, non c’è che dire. Geniale, non meno che
elegante, quel gioco di prestigio sotto gli occhi di tutti: fa raffreddare, con
acqua gelida avvelenata, il sidro innocuo ma bollente, appena controllato
impunemente dall’assaggiatore di mensa; e, così, reso tossico, offrirlo
affettuosamente al fratellino ingenuo. Ebbe la precisione, la leggerezza e la
grazia di un balletto. Cominciavi già ad essere un artista; e, per la prima
volta, in me, l’ammirazione si offuscò di paura, presagio premonitore.
L’inconveniente fu che, in seguito a quel macabro scherzo, la gente,
frastornata dai pettegolezzi, si mostrava riluttante ad accettare inviti a cena
da noi. Ogni scusa era buona, molti anticiparono la villeggiatura. A nessuno
piacevano più i funghi trifolati. Li trovavano tutti indigesti. Fortunatamente,
durò poco. Pur di scroccare un pasto a sbafo, i Romani sfidavano questo e
altro. E, a casa nostra si mangiava bene; testimoni le tue baldracche, i tuoi
ganzi, i tuoi lenoni, i tuoi… artisti… commedianti egizi, mimi etiopici,
danzatori cartaginesi… citaredi, chitarristi di ogni luogo, di ogni età e di
ogni sesso; nonché… i tuoi… poeti: tavola perpetuamente imbandita per la tua
canaglia della cosiddetta intellettualità dorata!... Ma si parlava di pioggia.
Se ne andò che diluviava il povero allocco. Tu avevi diciotto anni, lui
quindici… e ti voleva bene… e si fidava di te… Da tanto diluviava, che il rogo
continuava a spegnersi e il gracile corpo non voleva prender fuoco, lasciando
incerti se fosse finito distrutto dalle fiamme oppure dall’acqua: arrosto in
umido. Ciononostante, tutto considerato, il mal tempo rimane un buon complice…
Vero è che quel pallido ragazzo epilettico, chiuso, dalla timidezza imbronciata
– imbecille, sospettavi che te l’avessi messo contro, e non ti rendevi conto
che era solo commedia! – aveva nome poco dura. Tanto valeva, uno che disponesse
di senso politico, aver un po’ di pazienza e lasciare che togliesse il disturbo
da sé. Mai incontrato nessuno più perfetto per il ruolo della vittima: la
vocazione stampata in faccia, come una perfetta truccatura. Se non fosse stato
fatto fuori sollecitamente, a quel modo, correva il rischio di essere fischiato
in scena, infortunio sempre deprimente. Apparteneva a quei personaggi
asfittici, nati male, anemici aborti della fantasia, che, in una rappresentazione,
è consigliabile tagliare, col vantaggio di
risparmiare una scrittura: personaggi in cerca d’autore. (a forza di parlar
di Thanatos, giunta al punto che la concerne, l’alterigia sarcastica
le si distende a vera, olimpica fierezza. E chi resisterebbe all’alta dignità e alla solenne concisione di
Tacito, telegrafista sommo?) “Noctem
sideribus illustrem et placido mari quietam”: solamente quando inventò un
inconcludente complotto per farmi affogare – disse Tigellino, fu Aniceto, in un
rigurgito di rancorosa gelosia retrospettiva – lo squillante splendore del sereno inargentava il liquido
cristallo delle ferme acque della baia di Baia. Strano lapsus, professor
Freud: si dimenticò che sapevo nuotare. E fu costretto a sostituire,
precipitosamente, una fantasiosa invenzione da poeta, con una volgare fatica da
manovale. Ai sicari sopraggiunti – ancora una volta, un paio di più del
necessario: totalmente destituito dal minimo senso di economia! – offersi
sdegnosamente – perché, a differenza di
lui, io seppi morire con romana dignità – da colpire, per primo, il
grembo che era stato rifugio alla sua fragile inconsistenza di bimbo ancora
increato e delizia della sua anelante sensualità di giovane maschio in fiore.
Fui trucidata a colpi di bastone. Ciò che conta, dicono, sono le intenzioni.
Sciupò tutto quel lapsus, si vede. Suo proposito era stato, senza dubbio,
fabbricarsi un ricordo di me tranghiottita dagli abissi marini per esser mutata
in qualche azzurra divinità. Seneca, che pur conosceva, anche lui, quel grembo,
per averlo frequentato con pigra assiduità, naturalmente provvide a far
diffondere la versione ufficiale: dolorosa quanto inevitabile punizione di
cospiratrice smascherata. Parole. Erano i soli strumenti che avesse per
rimanere a galla. E ci giocava, anche lui,
come poteva, povero vecchio appassito, fuori corso. (nuovamente quel
dito puntato): Ti lasciai una sola eredità: il rimorso, sperandolo idoneo a
suscitare, in te, qualche grandezza, magari solo la cupa e sinistra grandezza
di tuo zio Caligola. Ci tenevi tanto a giocare al rimorso!... Forse era stata
una delle ragioni del matricidio. Non vedevi l’ora di poterti identificare con
Oreste, uno dei tuoi sogni di istrione malcorrisposto. E, una volta di più,
fosti deluso. Il rimorso letterario; tanto, per te, era lo stesso. C’è, forse
stata una volta che sia stato capace di distinguere il vero dal finto?...
Comunque, rimane un “fatto”: la notte della mia morte fu la notte più fulgida e
limpida che gli dèi abbiano mai regalato al cielo dell’impero. Quando vogliono,
gli dèi “sanno” essere poeti. E ci riescono: i vecchi dèì ci riescono ancora.
Loro! Probabilmente, frustrato dal suo narcisismo, lui ambirebbe sentir
pubblicizzata qualche sua personale stravaganza. Incapace di destreggiarsi nel
reale –il reale: naturale dimensione dell’uomo normale! – sinistri spettri di
idee insensate si aggiravano per i labirinti del suo contorto cervello. A
lasciarlo fare, erano tragiche sorprese a raffica, quando non erano ridicole
catastrofi a mitraglia per poco che, chi ne deteneva la responsabilità, dispone
del senso di governare. Per non dirne che una: senza nemmeno informarsi alla
lontana sulla reale situazione delle casse del ministero delle finanze; di cui,
non foss’altro che per rubare, come ormai
dovrebbe sapere anche l’ultimo dei burocrati, e pare che, finalmente, lo
sappia fin troppo bene, ci si dovrebbe mantenere sempre al corrente, un giorno…
“inventò”... la pensione: sì, la pensione. Che roba era la pensione? In tutta
Roma, nemmeno uno che l’avesse sentita nominare. Si fecero passi diplomatici
all’estero, si accreditarono ambasciatori, unanime risposta: istituzione
ignota. E lui, zitto. Fu consigliato di chiedere ai “sindacati”. I sindacati
non risultavano sul vocabolario. Non se ne trovò traccia nemmeno spulciando al
setaccio le opere di Cicerone, dove le parole ci sono tutte e anche qualcuna di
più. Zero! Si dette incarico delle indagini alla polizia. Medesimo risultato.
Si sguinzagliarono per le provincie i miei personali 007. Non fu che
un’ulteriore perdita di tempo. A uno, venne
in mente di provar a chiedere in Cina. Là avevano già inventato sempre
tutto prima degli altri… Ci mancava poco, risposero, ma non c’erano ancora
arrivati… Si riprovasse l’anno dopo, forse sarebbero stati in grado di saperci dire. E lui, sempre zitto…
Non se ne veniva a capo. Nel mondo, intanto, orbo di pensioni e di sindacati,
si continuava a mangiare, a bere, a crescere, a moltiplicarsi, a far
l’amore, a ballare, a stare allegri, a piantarsi
reciprocamente foreste di corna in testa, a battere a più non posso, e
senza che scoppiasse nemmeno la minima epidemia di mal di testa, salvo, in
primavera, la solita fugace febbre del fieno. Ma senza pensioni e senza
sindacati quanto si sarebbe potuto tirar avanti? Era diventato l’argomento del
giorno. A Roma, non si parlava d’altro. Così non può durare, si diceva, cosa
accadrà? I meno pessimisti prevedevano una crisi planetaria a breve termine,
col Terzo mondo spazzato via in un paio di settimane, quando fosse scoccata
l’ora X. Conferenze, dibattiti, interpellanze, tavole rotonde, il Senato
riunito in permanenza… un futurologo parlò di referendum. Tutti zitti, non se
ne fece niente, accordo generale per non aggiungere una terza parola
sconosciuta, il colpo di grazia, alle due catastrofiche che già incombevano
sull’umanità, ormai rassegnata al peggio. Lui, come il caso non fosse suo.
Svelto più di un grillo, colla sua ghenga di aggettivo-dipendenti, in giro, di
notte, per lupanari, scippi e scassinar conventi. Fu ben lì, durante una sua
bravata, che rapì, immaginarsi lo scandalo, Rubia, una vestale col nervoso,
bruna, di gamba lunga e navigata; originaria di Frosinone, che non aspettava
altro: una peste! Reato da pena capitale, se ci fosse cascato uno qualunque.
Tra una cosa e l’altra, a Roma, non si viveva più. Ci si coricava alla sera
senza saper se si sarebbe potuto tirar mattina. O non ci si coricava per
niente. Si andava a donne, gli uomini; a uomini le donne, e quelli mezzo e
mezzo, secondo il proprio gusto… per dimenticare… Che giorni! Finalmente,
afferrai il coraggio a due mani e presi il toro per le corna: “Dì un po’ su,
Nerone, da bravo, cosa sono queste pensioni?” La fine del mondo! Urla che arrivarono in Campidoglio – casa
nostra era lì vicino - . E le oche, naturalmente, si spaventarono,
svegliando il vicinato. Cosa potevano fare? Erano messe lì per quello. “Hai pur
inventato il sofà e il reggipetto, tu”, sbraitava dissennato cogli occhi fuori
dalla testa, “e io mi voglio cavare lo sfizio di inventare le pensioni”. E,
intanto, tempestava di calci il gigante Gabbaras – due metri e ottantatré senza
scarpe – che ci era rimasto in casa, eredità di Claudio, al quale era stato
regalato dal sultano d’Arabia per un affare di petrolio; e se avesse reagito
rivoltandosi, di Nerone si sarebbe smesso di parlare prima ancora di
incominciare e, forse, sarebbe stato meglio per tutti. Eh sì, era corrivo alla
pedata. Se ne ebbe la prova, in seguito,
con Poppea, e fu la pedata meglio assestata di tutta la sua carriera.
Cascò giù secca, a bocca aperta, la cretina, mentre, dalla parte di sotto,
scaricava quello che avrebbe dovuto essere l’erede, ed era una settimina morta.
Femmina, settimina e morta: le tragedie dinastiche e, tra l’altro, porta jella,
come puntualmente accadde. Ma intanto, non s’era ancora spiegato l’enigma delle
pensioni. Fu possibile farsene un’idea, quando stabilì che la pubblica
amministrazione dovesse versare un tanto al mese ai senatori poveri, oltre una
certa età, per tutta la vita. Sarà stata una combinazione, che vi devo dire?...
Si misero a vivere il doppio di prima, quando
partivano come le mosche ai primi freddi. Le pensioni allungavano la
vita, ed entrarono nella farmacopea ufficiale. E questo fu il risultato
dell’unica volta che, dopo tanti aggettivi, s’era azzardato a inventare un
sostantivo. Lo Stato dovette sobbarcarsi anche il caro-senatori… Ma quando mai…! E pensare che non poteva vedere i
vecchi, ma non li poteva vedere proprio. Oltre i quarant’anni, un uomo, diceva,
puzza di cadavere… figurarsi Seneca che andava per i sessanta e aveva
sempre puzzato! Niente da dire, allergia così. Caligola non poteva vedere i
calvi!... Ma, almeno, Caligola, coerente, per non guastarsi la visuale, i calvi
li faceva sopprimere. Lui no: i vecchi li faceva pensionare, che è come dire:
fa’ in modo di star al mondo il più lungo possibile, a danno del governo. Se le
pensioni devono servire a questo!... Sì che me ne ha fatte passare!... Una
bella incongruenza per uno che, oltretutto, era fissato di abolire le tasse… La
pensione! Ci credeva. Era convinto di passare alla storia, tramite la pensione…
Mah… Quando esistevano, in lista d’attesa, delle invenzioni ben più provvide,
pratiche e che non costavano niente!... I bottoni, per dirne una… le tasche… il
pullover, con tutta la lana che le donne romane si imbesuivano a filare… Ero lì
lì per arrivarci io. E oggi, forse, si parlerebbe diversamente di me: ago e
filo… Quelle tre idee stavano prendendo corpo nella mia mente… Mica molto:
m’avesse lasciato vivere ancora un paio di
settimane, ma neanche… e il mondo non avrebbe dovuto attendere secoli
per potersi giovare di quelle comodità. Bisogna andar cauti prima di spegnere
un’esistenza… Informarsi, domandare in giro. Lui procedeva a umori; nemmeno a
simpatie: a umori, sempre di fretta e furia, detto e fatto, figurarsi. Non si
può mai prevedere ciò che sta per germogliare in una testa: un dito sotto i
pidocchi, e trovi l’imprevisto. Il progresso sta tutto lì. Diciamo il vero: con
tante idee giuste, Caligola ne aveva una sbagliata quando pretendeva che la
vocazione di tutte le teste è di essere tagliate. E se una ha in testa i
bottoni? Con i bottoni, io avevo in testa anche un bel pullover a raglan, da
regalare al mio ultimo. E me lo son dovuto portare nella tomba, l’idea non il
pullover. -Perdonami per i bottoni e dì
qualcosa di me e di te, mamma, qualcosa solo nostro, e che nessuno abbia
saputo… Qualche aggettivo, mamma… fatti coraggio. (si fosse mai dischiusa
una trappola davanti alla sdegnosa Agrippina? Senza rendersene conto, col
cedere al ricordo folgorante, responsabile di un vero e proprio colpo di scena
psicologico, arrendendosi il tagliente sarcasmo, nel corrispondente
inclementirsi della voce, si appressa alla tunica del figlio, giacente sulla
sedia, e colla quale, persuasa di monologare, ha, in realtà, dialogato; la
solleva tra le mani e, via via che parla, l’accarezza… la stringe fra le
braccia… termina col premersela contro il viso… forse ci scappa anche quel
primo bacio di cui fu sempre avara. C’è caso che la terribile sovrana
partorisca insieme la madre e l’amante?) …Eri bello, Nerone. Il mio
splendido ragazzo? Han lasciato detto che eri tozzo, rosso di pelo, colle gambe
corte. Non è vero. Le tue membra avrebbero potuto essere uscite dallo scalpello
di uno scultore innamorato della giovinezza, uno dei tuoi prediletti Greci; le
tue grandi mani turbavano solo a sfiorarle colla carezza di uno sguardo, così
vive, così colme di peccato; le tue lunghe gambe dai muscoli caldi e guizzanti,
destrieri maltrattenuti da deboli briglie;
fulvi e folti, morbidi come piuma, i capelli. Il tuo corpo, forte ed
acerbo, dallo splendore effuso dell’adolescenza che sta per agonizzare nella
nascente maturità – il corpo di un giovane leopardo – una molla compressa sul
punto di scattare. I miei occhi, il mio cuore, i miei sensi ti colsero così,
nel meriggio di una colma estate, nella tua
adorata Anzio… e, di faccia, il mare… (presaga di Brecht, procede
repentinamente estraniata, come una demente, passando dal tu al lui). Mesi,
forse anni, eran passati dalle mie fugaci e distratte visite. Nemmeno a farlo
apposta, dormiva disteso su un’agrippina, all’ombra di un pergolato, circonfuso
da un ronzio d’api, e corone di rondini in cielo; le labbra imbrillantate da
minuscole gocce di sudore, socchiuse nel vago sorriso di chissà che voluttuoso
sogno. Durante il sonno, la giovane tunica gli si era scomposta, rivelando,
desta, in un’immagine di innocenza, la naturale prepotenza della sua precoce e
greve virilità… E giurai a me stessa, costasse ciò che costasse: “Quel ragazzo,
uscito dalle mie viscere, sarà il mio imperatore”. In quel momento ne sono
sicura, si compì un sortilegio: un destino sovrumano ci marchiò a fuoco. Lui fu
condannato, per sempre, a rimanere irrimediabilmente mio figlio; io ebbi la
gioia di sentirmi, per la prima volta, madre… E allora, qualcosa dentro, dal
fondo del fondo delle viscere, una vertigine orribile e meravigliosa, signor
marchese, signor professore… Basta là! E’ cosa che non si troverà mai alcuno
disposto ad ascoltare dalla bocca di una madre. Unicamente, forse, un figlio, e
a patto di chiamarsi Nerone, - mio figlio – può presumere l’ardimento e il
rischio di sperare udienza per il resto. Via. Agrippina, criminale e indimenticabile, dai baci di ghiaccio
e coi suoi coiti gelidi, esce di scena. S’è sfogata abbastanza e rientra
nel silenzio. (inghiottito il luogo dall’ombra, è rimasto, illuminato a
giorno, un cerchio di meno di un paio di metri di diametro. Tre passi a lato e
il celebrante è già nella propria officina, attore durante un intervallo, nel
proprio camerino, svestendo volto e abiti di Agrippina e vestendo quelli
di Seneca). Piglia su, se ti par cosa da buttare via rendere teatralmente,
dall’utero al cervello, una madre infame e incestuosa, sordida ed eroica,
nemica del teatro! Perché, quella lì, fu nemica del teatro: lo sento! Chi sa,
sa. Ai livelli, sovrani, la Cina, il Giappone, la Grecia… ce l’avete insegnato voialtri, abominevoli elisabettiani: il commediante è un
sacerdote androgino. A Roma, Ermafrodito ebbe templi, altari, preti e turbe di adoratori… e noi, alla ribalta, come Nerone nella
vita: con Sporo, maschio; e, con Doriforo femmina. Avrò fatto bene o avrò
ecceduto a conferirle quel vago accento romanesco?... Perché no?... Qual
più romana di questa Clitennestra trasteverina, avvinghiata a Fedra e attorcigliata
a Medea, che ebbe il culto di Roma acceso nel sedere? E come ci si regola,
adesso con quest’altro che ci arriva addirittura dalla Spagna?... Senatore
Seneca. Tanto per far le cose facili, si comincia con una cacofonia, che, in
palcoscenico, è peggio d’una pernacchia… Occhi aperti e orecchie deste a non
cedere alla tentazione di farne una macchietta. Dovrebbe sembrarlo, semmai
senz’esserlo. Verrà mai il giorno che la gente si rassegni a non pretendere di
ridere una battuta sì e una no?... Esser divertenti facendo sul serio, senza
far piangere. Ecco! Ma chi lo sa più fare?... Capace, il bardo, di trasformarsi
un sofisticato intellettuale narcisista in un Malvolio in edizione tascabile e
ancora ancora, se va bene. Quando si butta alla farsa, quello lì, c’è da
mettersi le mani nei capelli… Perso per perso, sarei andato meglio con Molière, rischiando Tartufo… Come fare? Ne inviti
uno e se ne offendono dieci… Senatore Seneca… Eccellenza Seneca…
Cavalier Seneca… Commendator Seneca… Onorevole Seneca… Monsignor Seneca…?...
Eminenza…: Seneca e basta! Ci si intende meglio… Oltretutto, era anche
fisicamente inamabile… quei capelli sugli occhi, quel naso da gufo… Almeno, il
puttanone di Agrippina era una gran bella donna, che è sempre un piacere
interpretarle, con gli occhi del pubblico maschile addosso, aggrappati ai punti
di maggior richiamo e soddisfazione. Me la son sempre immaginata come un
forzuto corazziere travestito da splendida donna… Ma sì, ammettiamolo, era
decisamente brutto… E poi, l’artrite che deve aver avuto… Gobbo? Però… E chi si
piglia la responsabilità? Pare che nessuno l’abbia mai visto perdidietro. Li
descrivono solo davanti, questi grandi uomini, come se il didietro non avesse
importanza… E’ un rischio. Mica si sta ricostruendo Rigoletto… Non mi lascerò,
per caso, influenzare dall’idea che ne aveva il suo principale? Tenerlo
presente… Ma chi ha detto, poi, che, a Nerone, stesse tanto sullo stomaco?...
Eh, Cristo, non l’avrà mica fatto suicidare per via che gli puzzava il fiato…
Benché, considerato il tipo… capace. Come al solito, tirò la morte per le
lunghe, con la moglie, la Paolina: “Vengo anch’io” – “No, tu no” – “Lascia che
ti segua” – “Voglio andarmene solo”: una manfrina, che, stufi, dovettero dargli
una mano, sennò ce lo troveremmo ancora qua, colle vene dei polsi goccioloni, a
far conferenze, all’Accademia dei Lincei, tipo “l’influenza della civiltà
assirobabilonese sull’estetica di Benedetto Croce”, se fosse, a quei tempi,
esistito… Bisogna anche capire, però, che una bella morte stoica vuole il suo
tempo… Se si pensa che, colla stricnina, che ci si sbriga in un fiat, nella
“Morte civile”, Zacconi, non ha mai impiegato meno di ventiquattro minuti
cronometrati, e il pubblico perdeva l’ultimo tram!... Una sera che non riusciva
a sbottonarsi il colletto della camicia – “soggetto” memorabile, ad uso di
rendere più thriller le convulsioni – arrivò a trentasette. Il suggeritore
Barontini, che era in buca, cogli occhi inchiodati sull’orologio, spergiurò
quarantuno; ma, al funerale, confessò di averne aggiunti quattro per piaggeria…
Beh, Agrippina, Pepita, come lui l’aveva chiamata, nell’intimità, alla
spagnuola, al tempo delle vacche magre, diceva, anche a chi non lo voleva
sapere, che era lungo a venire in tutto. E se non lo sapeva lei… Mi confidò
che, ogni volta, prima di vederne la fine, aveva comodamente il tempo di
ripassarsi, sillabandolo, un canto dell’ “Eneide”, e stava accorta a scegliere
i più lunghi. Ma perché prestarsi, allora, lei che detestava perder tempo?
Faceva parte della sua beneficenza privata, disse, e non volle aggiunger altro,
aumentando il mistero. I personaggi sono entità strane. Prendere o lasciare,
accontentandosi di quanto sono disposti a confidarti e basta; il resto: illazioni… Aggiungeva anche: “Se vuoi conoscere
l’ “onesto” Seneca, non badare alle sue opere filosofiche: son “sabbia
senza calce”; scruta negli orrori delle sue tragedie. Gli scantinati della sua
anima giacciono là sotto. È là che si confessa”… Donna complessa,
innegabilmente. Io sospetto che la molla segreta fosse uno snobismo
inconfessato, orgogliosa com’era: amante di Seneca, hai detto un prospero?!...
Immortalità garantita. Allora non ambiva ancora all’immortalità di imperatrice
licenziata per usurpata e illecita concorrenza. (ahimè, già alla conclusione del maquillage, si controlla allo
specchio). Misericordia, fa
ribrezzo. Sta a vedere che ho esagerato. (non si sbaglia, il fiero splendore di Agrippina s’è accasciato
nell’opacità desolante e iettatoria del noto busto bronzeo di
Seneca, mutandolo in un contorto e
bronchitico tronco di vite centenaria percossa dal fulmine). Affidiamoci all’imponenza restauratrice della
toga senatoria. (largoprolissa, purpureolistata, se ne avvolge e
qualcosettina la situazione migliora, ma non è il caso di farsi
troppe illusioni. L’estrema speranza rimane se avrà qualcosa da dire. Luce
impetuosa e “Seneca morale” è già a faccia a faccia all’impassibile tribunale.
La prima impressione è pessima). Due parole controcorrente, lor signori
permettendo, da autore ad autore. Il grande teatro si fa solo coi cattivi
sentimenti, coi pessimi caratteri, colla passione per l’eccessivo: col peggio
dell’uomo, dove nulla quadra perché tutto quadra. E qui, ci saremmo. Però è un
teatro destinato ai fischi. Se ci cercano i consensi, starne alla larga. Io ne
so qualcosa. Ma io credo in un teatro anche da leggere. Non avrei esercitato
tanta influenza sul teatro da recitare, se non avessi avuto questa fede nel
teatro da leggere; col rammarico di aver raccolto insuccessi in proprio, ma, in
compenso, col conforto di aver accumulato successi per interposta persona… E’
come far l’amore in tre: quel che si perde da una parte, lo si guadagna
dall’altra, tanto ci rimette il davanti, altrettanto se ne avvantaggia il
didietro. Più bravi di me? Può darsi. Ma, intanto, tutti i successi
elisabettiani, Mister Shakespeare, in un certo senso mi appartengono. Lei lo
sa. Anche non pochi dei suoi. Se si inseguono gli applausi a pronto contante,
ci si deve rassegnare al teatro piccolo; quello fatto coi buoni sentimenti,
cogli ottimi caratteri, colla prudenza della misura, e col meglio dell’uomo,
dove tutto quadra perché nulla quadra. E
qui, non possiamo esserci. Dunque: grande teatro a prezzo di fischi, oppure
applausi a prezzo di teatro piccolo. Paradosso? Paradosso d’un
paradosso. Ma, nel presente caso, il problema va spostato ulteriormente. Questo
dramma non è mai stato fatto – intendo fatto come si deve – perché non si
poteva e non si può fare. Dove e quando si è in tre a contendersi, in ogni
senso, un posto – per l’occasione. Il posto del supremo Comando - in grado di
soddisfare, sempre in ogni caso, uno solo, si sta stretti: due, almeno, sono di
troppo; o subordinati che è ancora peggio. Ma, qui, nessuno è disposto ad
essere subordinato. Altro che questione di belle parole!... Per Agrippina si
tratta di Potere al Potere: ieri. Per Seneca si tratta della Filosofia al
Potere: domani, forse. Per Nerone… eh, per Nerone si tratta della Fantasia al
Potere… la Disponibilità, l’Imprevisto, il Gioco… nuvole: quando? Sempre o mai,
chissà… Troppi candidati a un posto solo, del quale tutti furono, e con buone
ragioni, contemporaneamente protagonisti, elidendosi a vicenda, e mai
rassegnati, nessuno, a tirarsi da parte, né vivo né morto: esclusi e
onnipresenti. Tutti. Fare di codesta pluralità un’unità. Chi ci riesce, parlo
sempre da autore, ha vinto la partita. Ma è fattibile? Dramma dell’ambiguità –
della, non delle? – sì e no. Per quanto sbattuti insieme, l’olio con l’acqua,
non è possibile che i due liquidi non restino separati per generarne uno nuovo.
Figurarsi tre. Tre utopie nemiche, l’una contro le altre armate. Tre ragioni e
tre torti: tre sì e tre no infilati sotto le stesse lenzuola, concorrenti a
partorire un mostro ignoto, e pazienza; il genio può questo ed altro. Ma è in
grado, il genio, di lacerare la barriera dell’impossibile? C’è qualcuno che se
la sente? Si faccia avanti e benvenuto sia. Non sarò io a tirarmi indietro, da
protagonista tra protagonisti ad eguale livello. Ma non innaffio illusioni…
Comunque, non si sa mai. Nessuno più
orgoglioso di me, eventualmente, d’aver contribuito ad ispirare qualcosa
di inedito. Ne dubito, però, fortemente. Da stoico patentato, che conosce
l’argomento per averne trattato, in caso negativo, mi rimane la “consolazione”
di una speranza: riparare, modestamente, se sarà, quando sarà e come sarà, su
un dramma al vecchio modo, vale a dire a protagonista unico, colle sue scene
madri e ogni cosa a posto. Tutto per me. Nel diluvio di sperimentalità balorda
e incoerente che, a quanto ne riesco a captare attraverso gli spazi, sta
sommergendo il teatro, potrebbe essere un’idea. Come personaggio, sono ancora
tutto da indovinare. Mi attengo all’essenziale, allo “specifico senechiano”, va
bene? Secondo Seneca si capisce. (sempre chiaro ragionatore, nitido,
elegante e distaccato, da retore pedante e da sottile psicologo di se stesso,
che è stato a scuola da Ruggeri): Cioè a dire, sena alcun’altra risorsa se
non la calma imparzialità, il saggio di stanziamento di una scettica e benevola
malinconia,volta a contemplare me stesso, come se si trattasse di un altro:
lorsignori mi consentano la contraddizione: con indulgente severità, poiché è
pur stoicismo anche essere umanamente indulgenti con se stessi. (e, via, da
sofista, come se fosse oro, ogni parola, pesata sul bilancino; sincera, magari, ma, pertanto, resa falsa, che
destino!) Ipocrisia? Sono
consapevole d’aver sempre corso tale pericolo. Dopo tante esercitazioni col
“de”, “Della sincerità” è l’operetta morale che avrei dovuto scrivere e non
scrissi perché non avrei saputo scriverla. Ma “Della sincerità
nell’insincerità”, quale capolavoro avrei fatto!... Triste portarsi nella
tomba, e sia pure stoicamente, il cadavere del proprio capolavoro, increato,
come un procurato aborto!... o una gravidanza extrauterina, se si preferisce…
Mah, non si pensa mai a tutto per quanto si pensi… Tra lo stoicismo, il mio
stoicismo personale, e l’ipocrisia non ci passa che un capello. Non è facile
vivere da stoici. Soprattutto, non era facile vivere da stoici ai tempi di Nerone. Ed era addirittura inimmaginabile per una
natura costituzionalmente sensuale, superba, ambiziosa, avida, avara,
vendicativa; e per domarla, prezioso ma unico strumento: la nuda
ragione, morbidamente applicata. Ora, ci si figuri una natura accomodante del genere, consapevole del proprio talento, persuasa
del dovere e del diritto di porlo – ponendosi - al servizio del paese,
per cimentarsi nella sovrana, disperata e inevitabilmente fallimentare impresa
di fabbricare – è la parola - , a costo di pagare colla vita, e lo pagai, il
“principe filosofo”, onde realizzare, dopo l’età del sangue, l’età dell’oro. Il
“mio” principe avrebbe dovuto essere Nerone primo, non Caligola secondo. Sogno
di ingenuo visionario? Vanagloria di presunzione sconfitta? Arrivistico delirio
di stolto arrampicatore sociale? Non escludo e non includo nulla. Ma quel
capello, quel capello, che almeno non si dubiti di quel capello!... Lungh’esso,
come un equilibrista sul proprio filo d’acciaio, riuscii ad attraversare il
precipizio della vita, per tutta la vita: il mio capolavoro e il mio errore!...
(e ci colloca una pausa in calare rallentato che vale una filatura del
povero Tito Schipa, segue cabaletta): Ma basta parole; basta, dopo tante
che ne scrissi per dimostrare, senza dirlo, che non ero quel che sembravo ed
ero; e che non sembravo quello che ero e sembravo; tanto da non capire, di me,
più niente me stesso, come se fossi un altro che non conoscevo e, quindi, non
capivo. Seneca è una matassa ben aggrovigliata da dipanare. (perfettamente
d’accordo. Deve esser vittima di un attacco di meningite. Ma, sembra rimettersi
abbastanza presto). Sembrava docile e disponeva di una caparbietà
d’acciaio, l’inganno era acquattato lì. Agrippina voleva tutto e lo voleva
subito, alla luce del sole. Si sentiva forte ed era la sua debolezza. Io
volevo, forse, ancora di più ed avevo pazienza, operando nell’ombra. Mi sentivo
debole ed era la mia forza. Io cauto, lei impulsiva; io notturno, lei solare;
d’accordo e agli antipodi. Si sbagliò entrambi, trascurando la sua
imprevedibilità. Eppure, avrebbe potuto, e dovuto, essere chiaro fin dal
principio… Quanta parte di me è stato questo principe? Tanta. Più di quanto, io
stesso, sia stato consapevole. Forse perché non ebbi figli… forse per questo…
certo… Ma sì, una volta tanto, crepi l’avarizia: Fidia, mettiamo, Fidia colla
visione di un capolavoro rifinito: puro, netto, vivo, in testa: pensato e
scolpito… Ma il marmo da cui ricavarlo, gli si scheggia, gli si sbriciola, gli
si polverizza sotto lo scalpello: dice no! Non era marmo, il “suo” marmo. Non
ci aveva pensato, tanta era stata l’urgenza di quella visione!... Può darsi
maggior sciagura?... E allora, le correzioni, gli accomodamenti, i
compromessi... la speranza al posto della certezza… la rassegnazione… Ah!... La
statua corrotta corrompe lo scultore… O, magari, viceversa. Può essere, lo ammetto. Purtroppo, accosto ai potenti, tanto è
facile diventar servi quando si è ambiziosi, quanto è difficile rimaner liberi
quando si è artisti. Ed io ero l’uno e l’altro, combinazione avvelenata
se mai ve ne furono… Ma perché si pretende che, in questa storia di disfatti,
solo Seneca dovesse essere integro?!... Si ha idea di ciò che fosse Roma,
allora?... Stretta nella morsa della
propria grandezza, aveva mutato volto, non però mentalità. Alla grande.
Sempre. Hanno pur udito Agrippina. Bene o Male, la misura rimaneva la medesima.
La fierezza antica, cancro e droga nazionale, imponeva di mostrarsi giganti
nella ricerca del piacere, non meno di quanto lo erano stati gli antenati
nell’adempimento del dovere. Una bestia mostruosa e indomabile accovacciata su
un vulcano. Ricettacolo di ogni immaginabile depravazione, celebrata, esaltata,
praticata colla frenesia insaziabile di una baccante ebbra che si rotola nel
fango, sotto gli occhi sgomenti di poche macchiette, ogni giorno meno, che
assistono allo spettacolo impaurite e derise: i Seneca, se si fossero
comportati diversamente da Seneca!... Prima la pancia piena, i sensi
soddisfatti e la borsa rifinita; poi, chi non ne può proprio fare a meno,
eventualmente, la morale come hobby fuori
moda. Tutto lecito purché fosse illecito. Pare una barzelletta: senza
essere meno marci, le persone più intelligenti, colte e costumate, a quei
tempi, erano ancora… gli schiavi, i liberti, gli immigrati e qualche cortigiana
pigra. Il vizio meno abbietto e più ostentabile, tutto considerato, rimaneva la
lussuria, dilagante in ogni forma possibile: segno, se non altro, di ottima
salute e lodevole buonavolontà nel mantener affollato
il pianeta, coloro, sempre meno, che conservavano ancora il gusto per i
buchi giusti. Figurarsi i vizi più abbietti, mantenuti celati. Del resto,
l’invito alla sordida strippata scendeva da lontano. Ne era già implicito il
seme prosperoso nell’austera mascherata dei Padri della Patria, gli aghi della
bilancia morale della grande Roma: Cesare, Ottaviano…: dèi! Quando i sovrani si divinizzano, in guardia!,
nove volte su dieci, è solo per assolverli. In seguito – la storia, si
sa progredisce – vennero gli altri a concimare, a far fiorire e fruttificare
quel seme. A degni sovrani, più degni sudditi. E il Senato ridotto un cimitero
frequentato da spettri… Io stesso, se raschio il fondo della mia coscienza…
Essere migliori degli altri non vuol dire essere diversi dagli altri, anche
quando ci si sia preoccupati di far chiudere il sipario sullo spettacolo di una
morte da manuale, confezionata per finire
sui libri di lettura… Con che merito, poi, quando ti eri reso conto che
davanti a te, riposo per la cenere della tua vita, si apriva soltanto la tomba,
in un universo in cui l’unica risorsa, rimasta all’uomo, per non vergognarsi di
se stesso, era una nobile morte? Non pochi ne approfittarono: anche perché,
molti di quei pochi, ne erano costretti; né io feci eccezione, se non nel modo, badando a congedarmi meno peggio degli altri,
in una Roma che, ormai, era spettacolo e basta; scegliendo il tono di Sofocle
al posto di quello di Plauto… E io, insensato, in quella fogna, ero andato alla
ricerca del marmo pario, per la scultura del mio principe ideale! C’è da
stupirsi che non sia stato anche peggio di quello che è stato: lui, un ragazzo
disamato, i cui genitori, alle loro nozze… il padre usciva dalle braccia della
sorella, la madre di quelle del fratello… Certo, fu l’immagine sputata della Roma
del suo tempo, così come Roma lo fu di lui. La fotografia reciproca di due
sfaceli. Non per altro, tutto il tempo che visse
e che regnò – ma regnò, poi, veramente? Ecco la grande domanda da fare,
mai fatta – rimase tanto insolentemente simpatico. Fu, persino, odiato con
simpatia! Cosa che non si può dire dell’odio suo per me: uno strano odio,
faccia attenzione, professor Freud; un tortuoso odio-amore, un’avvolgente
attrazione-repulsione, fermentata in zone inesplorabili dell’essere, oltre il
sentimento e la ragione; e che, non ho dubbi, mise in pericolo, fin dal primo
giorno, la mia presenza, la mia esistenza stessa, al suo fianco. La sensazione
– un avvertimento dai precordi – già nell’istante che sua madre me lo consegnò
per discepolo. Precedentemente, le occasioni di vederlo erano state rare. Della
sua infanzia m’era rimasta in mente la precoce curiosità interrogativa e
vagamente ironica di un sorriso sveglio e, insieme, timido: il volto di un
bimbo invaso da una perpetua espressione di offerta… D’amore… E nessuno la
racolse… Forse, il poi dipese tutto da
quello… da quell’offerta non raccolta della sua infanzia… (da non
credersi, un uomo simile, la schietta, lucida sincerità onde s’è messo a marciare. Evidente che ha infilato la
chiave nella serratura giusta per aprire, una volta almeno, la
meglio custodita verità del suo animo inchiavardato). Affidandomelo, sua
madre, con quella inconfondibile voce di vetro, atta a decapitare ogni volontà
di chi investiva, disse, e fu il massimo possibile della sua benevolenza: “Devi
considerarlo come un padre”. Un istante, e il viso di quel fanciullo di undici
anni fu fulminato da un lampo di cattiveria talmente, come dire?... rappresa,
concentrata, anche se subito dispersa, che ritrassi istintivamente la mano dal
biondo dei capelli che stavo accarezzando. Lei non aveva avuto il tempo di
concludere: “Fatemene un sovrano, Seneca”. Dovevo capire, in quell’attimo,
dalla spia di quell’espressione, che la partita era perduta prima di
incominciare e la mia sorte era stata irrevocabilmente scritta sul viso di
quell’innocente. Ma come si fa a pretendere la saggezza nel momento stesso in
cui sei gratificato alle stelle dal piacere della vanità? Nell’accanita
illusione di revocare quel rifiuto senza appello… nella… bramosia, ma sì!, di
farmi voler bene, lo tirai su ad attenuanti… a indulgenze… a complicità… e
peggio, e peggio, e peggio… in una tacita partita reciproca di perversità
tollerate coll’aria di ignorarle, suggerite sotto la maschera di deplorarle…
incitate attraverso l’apparenza di interdirle… E lui, piccolo mostro
perspicace, consapevole, attento e pronto ad approfittarne, ripagandole con
avare dosi di distratto rispetto, acquistando spazio giorno dopo giorno, senza mai scalfire il diamante di quell’odio in
agguato paziente, rivestito di infingarda deferenza: presi, entrambi,
nelle spire di una torbida voluttà – oh, la lascivia della mente! -:
assaporare, d’accordo, l’uno nell’altro, il progredire impercettibile e
inconfessabile del degradarsi degradandosi scambievolmente: ambiguo “passo a
due” di un inquietante balletto sotterraneo; apprezzato, viceversa, alla luce
del sole, come il rito esemplare della magnanimità cortese tra il principe e il
proprio precettore… E, quando venne il tempo, seppi essere anche il suo primo ruffiano.
Complicità clamorosa ma quasi innocente a misura di tante e tante complicità, o
sommesse, ben altrimenti colpevoli… Atte. Regnava da poco – regnava per modo di
dire. Sua madre teneva in pugno, alle sue spalle, lo scettro come una mannaia -
. Diciassette anni e il primo amore. Già: quello che non si scorda mai. E fu
proprio così: lui! La piccola oasi sempre verde, mantenuta viva, sino alla
fine, da una limpida vena di puro sentimento, in uno sterminato deserto di
aberrante aridità, abissi insondabili, dell’animo umano. Perché, io che fui la
sua vittima più illustre e ne assorbii tutto il veleno, posso dirlo: nacque,
visse e rimase e giganteggiò demonio, ma sempre con un residuo dell’angelo
ancora incorrotto; era la malìa del suo fascino… Atte. Unica a non
abbandonarlo, riapparsa, memore e fedele, nel momento estremo ad abbassargli le
palpebre sugli occhi sbarrati dallo sgomento di dover morire a meno di
trent’anni, e a dargli una sepoltura decente. Atte e, in disparte, l’atroce
attaccamento, nel pianto silenzioso, di Sporo, il ragazzo dallo sguardo viola,
mutilato in femmina perché aveva il volto ossessionante della trucidata Poppea.
Loro due, i maledetti, del più vasto impero della terra che aveva strisciato ai
suoi piedi, esultando per il lezio di un sorriso e tremando per il ghigno di un
silenzio, nei quali era stato maestro…Solo loro, nel fango di quel cortile buio
e deserto, in una gelida notte di pioggia, battuta dal vento… Sicuro, anche
quella notte pioveva… Agrippina è stata buona meteorologa. (un magistrale
voltafaccia di tono): Hanno presente la Liù della “Turandot”?... E’ il ricordo che ci vuole. Atte era una piccola liberta di palazzo, spaurita e bruna, cercava
di non occupar posto. Veniva dall’Oriente, nonsisadove – la cortigianeria!
Quando si temette, addirittura, un matrimonio, si cercò di inventarle persino
un’ascendenza regale, lei che non chiese mai niente, e la turba delle altre
pretendevano tutto… - . La piccina non aveva occhi che per il suo giovane
sovrano perché, un dì, nella reggia, le aveva sorriso; e lui non s’accorgeva di
lei; ma, quando se ne accorse, non ebbe occhi che per la piccina. Eh, il momento pucciniano, prima o dopo, esplode per
tutti… Agrippina!... Numi del cielo, si scatenò l’inferno! Una tigre
derubata del cucciolo e del maschio, in una volta sola… Grande teatro: ferocia,
follia e morte spalancate… Conculcato così, egli progettò seriamente di
abdicare per ritirarsi in campagna e dedicarsi all’agricoltura, come il pastore
Aminta. Allora, correva ancora, per lui, la stagione della bontà, se tale può
chiamarsi. E il solerte Seneca, accorto lenone, architetta convegni segreti
nell’austera discrezione della propria villa foranea, per la felicità di due
ragazzi appena iniziati all’amore. Si possedettero, per la prima volta, mentre
io rileggiucchiavo Lucrezio, in un mattino dell’ultimo aprile, nel mio piccolo
giardino, all’ombra della magnolia, inebriati da un olezzo di rose e di verbene, navigando in pieno primo atto
di “Madama Butterfly”. (in malora la lèsina, e sotto con “Bimba dagli
occhi pieni di malìa”. Il teatro è fatto anche di codesti vellicamenti
cardiaci, buoni a prevenire l’infarto. Mica che, con questo, la musica di
Puccini sia promossa un cardiotonico o un betabloccante. Solo, male non fa).
E la mia grigia compagna, spiandoli dalla penombra umida del solitario
triclinio, medicava, con un sorriso, la malinconia della propria sterilità… Si
chiavarono lì così per tutta l’estate. Al sopraggiungere della cattiva
stagione, lo fecero in casa. Io e Paolina li consideravamo come dei cari nipoti
che si ricordavano di venirci a fare visita, golosi di ciambelle e di rosolio…
Fu un colpo ben assestato per ingraziarmi lui e spiazzare Agrippina. Almeno
così ero ingenuo da illudermi. E puntualmente, mi sbagliavo… Poi… poi… poi mi passò
accanto la Verità… Ne ebbi l’intuizione; me ne mancò la preveggenza… perché la
preveggenza è figlia del coraggio e, quanto a quello…: una pianta stenta del
mio giardino… Quando penso… Avrei potuto dare un’accelerata al torpido motore
della Storia… ritrovarmi addirittura nelle litanie dei santi, come quel Pietro,
come quel Paolo… dopotutto, sono pur finito giustiziato anch’io… Erano tempi
che, a Roma, era possibile tutto: San Seneca martire… ecco una carriera!... (ne sorride, ma se ne incanta, anche. E’fatto
così). Trascurata, per una volta, la saggia norma del nonsisamai e
perduta, per sempre, l’occasione del grande avanzamento sul fronte della
posterità… E dire che ce la fece Virgilio, prima che tutto accadesse e senza
mai averne nemmeno udito parlare! Collega fortunato, munito d’antenne… Quella
era la carta su cui puntare. Se c’era uno, allora, in grado di rendersene
conto, avrei dovuto essere io… Invece, disincantato, sconfitto, deluso, messo
da parte, fallito nell’ambizione del Potere
in nome di un migliore, più giusto e più alto Potere – la carta
sbagliata! – mi sentivo vecchio, finito, in un mondo vuoto, irriconoscibile; retore stordito e tradito da belle, vane
parole: letteratura e basta… Tutto ciò che avevo accostato mi si era
incenerito… Ma, proprio per questo, non avrei dovuto essere tanto cieco e
sordo!... Un’eco, un’eco almeno, ma precisa, da irradiare verso l’avvenire; non
soltanto l’eco dell’eco di una leggenda immaginata!... Non sarei rimasto
incatenato alla memoria di Nerone; ora sarei celebrato come un chiaroveggente
battistrada di Cristo. Quando decide di vendicarsi, sa bene il proprio
mestiere, la Storia… Rumorosi unicamente nel non far rumore, tisica gramigna
della gran pianta ebraica che si accaniva a perseguirli, quando l’ottusa
arroganza romana si divertiva a non ignorarli soltanto per farne bersagli ai
propri lazzi, si sentiva poco più che parlare di certi strani esseri…
Miserabili, denutriti, macilenti, sporchi; vagabondi soddisfatti di nulla
possedere, lieti di tutto dare; lingua in bocca con un dio unico, padre e non
padrone; umano come loro, preoccupato di loro; quando non ci sarebbe stato che
l’imbarazzo della scelta in un bazar stipato di dèi sovrumani, superbi,
clamorosi, fracassoni e millantatori; che si preoccupavano
degli uomini meno di quanto un elefante di preoccupi di un pidocchio tra
le dita dei piedi… Poveri di spirito, se non mentecatti del tutto, larve
notturne e sotterranee, rimandavano tutto a un’indistinta, ma certa, vita
futura di pace serena, fuori dal tempo, senza né principio né fine, occhi negli
occhi col loro dio. Parole inusitate, restituite a sensi desueti, risuonavano
nelle loro misere agapi: carità, amore, umiltà, perdono, fedeltà, rinuncia,
fratellanza, altruismo: fango tramutato in oro sulle loro labbra… Tutti per
uno, uno per tutti… spendersi per il prossimo… ignorare le offese… resistere al
male… Sulla città tornava ad albeggiare il pudore… Quale miele consolante per
l’animo di uno stoico che fosse veramente stoico… I loro pensieri parevano
piccoli, insignificanti, inerti, fanciulleschi: oppio da schiavi, da gentaccia,
da donnette; regressione a un arcaico analfabetismo dell’intelletto a favore di
una misteriosa sapienza del cuore: farsi pecore in una foresta di lupi… E
quelle pecore avrebbero dato fuoco al mondo, e quell’oppio avrebbe mosso le
montagne e quei pensieri piccoli avrebbero rovesciato il volto dell’umanità. (gli
si regalino un paio d’ore di narcisismo per assaporare la droga inebriante di
quel malinconico ricordo, prima di farsi fotografico cronista di se stesso).
Rattrappito dall’artrite, sedevo, tirando sera, nella penombra del crepuscolo
di un piovoso giorno d’autunno, tentando di intiepidire le mie vecchie ossa a un ceppo che ardeva nel camino e
movimentava di ombre la stanza. Forse avevo l’animo predisposto, in
quell’ora languida e viola, per essere
colmo, una volta di più, dell’ineffabile incanto precristiano respirato colla
quarta egloga di Virgilio appena riposta nelle pieghe della toga. Entra Paolina,
col suo passo ovattato, ormai inudibile alla mia incipiente sordità. Posa una
lampada sul tavolo e fa: “Dà un po’ un’occhiata, Anneo, se ne hai voglia.
Circola, tra i nostri servi, questa sorta di nepente. Gli bastano poche righe e
ogni animosità si acquieta. Sorridono e si addormentano, dimenticandosi di staccare il fiore di quel
sorriso dalle labbra”. “La lettura come tranquillante”, ironizzo io.
“Pare”. “Posa lì”, faccio, congedandola in attesa della nostra solitaria e
parca cena… Allungo pigramente il braccio e mi trovo in mano un libercolo
logoro, spiegazzato, unto. Svogliato, disattento, comincio a scorrerlo, via
via, sempre più preso… Era una povera storia di povera gente, di un povero
paese lontano, che parlava poveramente di uno di loro, soltanto più sapiente di
loro e dal cuore più grande del loro, sufficiente a suscitar prodigi; e, solo
di questo colpevole, veniva crocefisso: una storia narrata da uno poco in
confidenza colla sintassi, che sbagliava le doppie e non conosceva il punto e
virgola: un tale Marco. Ah, quell’ora!... Purtroppo, non durò che un’ora. Ma,
in quell’ora, capii tutto. Se non avessi capito, non avrei commesso
l’insensatezza – cosa potevo sperare? - , l’impulso irragionevole, il giorno
dopo, di portarla al mio allievo per fargliela conoscere… Me la restituì
ventiquattr’ore più tardi, col ribrezzo ostentato di non toccarla nemmeno con
un dito. “Maestro”, disse, con un beneducato sarcasmo, “non trovate inopportuno introdurre a Corte una specie di
libro conciato in tal modo? Se non al mio naso, un po’ di riguardo
all’etichetta”. Avrebbe potuto essere un sardonico discorso di sua madre, in un
raro momento di sinistro buonumore. E questo fu tutto l’incontro di Nerone con
Gesù. Cercai di conoscere anche Paolo, il diffusore del messaggio. Non vedeva
l’ora. Era alla posta, come il cacciatore, della preda. Mi trovai davanti un
commesso viaggiatore fanatico, abilissimo nel reclamizzare la propria
mercanzia… Un uomo capzioso, perentorio, astioso, diffidente, permaloso,
collerico e sgradevole; un testone sproporzionato al corpo tozzo, sulle gambe
corte e storte; col genio nello sguardo… una sconfinata superbia della propria
umiltà e il minimo della tolleranza nel propugnare il massimo; ma con un
pensiero fisso acceso nel cranio come una fiamma: la certezza che, un giorno,
Cristo e Cesare sarebbero andati per le vie del mondo mano nella mano. Ricordo
una frase pronunciata come incisa nel bronzo: “Si deve odiare chi non sa amare,
e mai perdonare chi non sa sempre perdonare, costringendo gli altri a lasciarsi
voler bene, con ogni mezzo, costi quello che costi”. Come scrittore, avrebbe
potuto tenere del Tacito arrabbiato; invece andava a punti esclamativi, come
Victor Hugo. Mi voleva convertire a colpi
di ostensorio. Il cristiano era già un cattolico. (ma cos’è ‘sto fracasso?
Il “dies irae” della Messa di Verdi? Appunto). Non mi fece una buona
impressione. Non ritrovai più quell’ora. Era un notorio grafomane e si mormorò
che ci fossimo anche scritti ripetutamente. Lo nego. Forse, avrei fatto meglio
a conoscere quel Pietro. Ecco, come Seneca fu cristiano solo per sessanta
minuti. Il resto son pettegolezzi di letterati e se ne possono informare dagli
altri. Personalmente, non ho altro da dire. Compermesso. (un’altra
dissolvenza ombra e suono, e già spicca, lucente, intento a ritrasformarsi, con
petrolinesca destrezza, da Seneca a Nerone. La decifrazione del suo
discorso trivalente non è tempo perso, anche perché non è, poi, così difficile.
Come ogni gioco, tutto si riduce a possederne al cifra). C’era da
aspettarselo: la rivolta del generico-primario! Gratta il generico-primario e
scopri un perpetuo prim’attore in agguato. Le pugnalate alla schiena è sempre lui a vibrartele. Fatto caso?
Così, non parendo, ha tirato il sasso anche stavolta. Inequivocabile:
pone la propria candidatura a un copione tutto per sé. Altro che pettegolezzi.
Il resto non son che… sovrastrutture saggistiche per darla ad intendere… E
così, anche lui, ha tentato di mettere in cornice il suo autoritratto. La
fatica di tener a bada un personaggio!... Che se, poi, allenti, appena il
guinzaglio, ti schizza via per conto suo e
ti puoi aspettare di tutto… Sentito? Cento occhi e una frusta da domatore,
ma, con Seneca, non la si spunta facilmente. Inamovibile. Tale nato e tale
rimasto. Pròvati a sparare contro un materasso!... Non c’è colpo che non
assorba… Però, tanto di cappello: un carattere: il carattere del senza
carattere, che è il più gran carattere che ci sia… La solita tattica, monotona,
indefettibile e anguillesca: recitare un accesso di sincerità, denunciando il
meno per contrabbandare il più, e ce l’ha fatta a darla ad intendere ancora una
volta… Bel colpo quell’appropriarsi di Puccini. Chi ci avrebbe pensato?...
Sordo, artritico, arteriosclerotico, con un piede nella fossa, ma, per essere
una testa, è sempre una testa… Avesse avuto, poco, un dito di coraggio…macché
di coraggio… di dignità… e, con lui, non c’era nulla da fare… E pensare che ho
coltivato il rimorso di non provar rimorso
d’averlo spedito all’altro mondo. Sarò stato poco fesso?! (è Nerone,
intero, ora, che parla, consapevole di ciò che è andato ridiventando man mano
che la trasformazione procedeva. Infatti, siamo giunti al momento di infilare
la tunica imperiale. Diversa dalla precedente. Rammentarsene: Nerone non
indossò mai una tunica più di una volta. Forse da fanciullo e da adolescente:
da sovrano, mai. Quelle smesse le avranno date alla San Vincenzo da distribuire
a chi ne aveva bisogno. O vendute sottobanco a qualche collezionista dai gusti particolari, presumibilmente non rari nella Roma
del primo secolo). Robetta,
questa tunica, in confronto alle tuniche d’oro, a crochet, di zio Caligola.
Pesantine, ma autentiche cannonate: il sole gloriosamente acceso addosso a
racconsolare la impenetrabile malinconia lunatica di quelle d’argento, araldico
rituale dell’esoterico teatrino della sua privata follia saturnina… Mi piace il
colore... Questo verde mela, odoroso d’erba e fresco di primavera, fa venire
voglia di riprendere in mano le Bucoliche. Ma, soprattutto, fa giovane senza
sbattere la cera. La porto oggi e, domani, ne faccio dono a Sporo. Gli starà
bene e me ne sarà grato. Mai indossare due volte lo stesso abito, salvo, per
forza, l’odiosa toga senatoria. Se non altro,
nel guardaroba, l’imperatore me l’han lasciato fare. (luce e trombe
per tutti, e rieccolo al commento della propria personale ribalta): Seneca s’è difeso accusandosi: Nerone si accuserà
difendendosi. Sì, è vero: ebbi quel lercio libercolo. Ma senza una
parola. Avrebbe dovuto spiegarmelo, quel vecchio iettatore. Se ne guardò bene.
Lo fece apposta: cieco lui, ciechi tutti. Si piange addosso sull’occasione che
ha perso lui; e quella che ho perso io? Nello spettacolo, avrei potuto
interpretare la parte di Costantino e son rimasto confinato a quella di Erode.
Come ricevere per posta il copione di
“Otello” e scegliersi la parte di Iago! (e avanti, volendo, svagato,
sull’ala leggera d’un sacrilego umorismo; e, magari, impercettibile, in
sottofondo, regista consentendo, il valzer della “Vedova allegra”). Costantino
mi avrebbe facilitato anche un secondo problema che mi stava a cuore: quello
della lapidaria frase storica da pronunciare in punto di morte. La frase che ti
garantisce, come un’assicurata con ricevuta di ritorno, la consegna della
posterità. Prima di scegliere quella buona, ne avrò scartate, dico poco, cento.
È stata un’ossessione fino all’ultimo… E se,
giunto sul passo estremo, me la fossi dimenticata… mi fosse mancato il tempo
materiale di pronunciarla… qualche banale contrattempo me l’avesse impedito… se
non fosse stato presente qualcuno a raccoglierla?... Peggio di tutto: se avessi
sbagliato intonazione o fatto una papera?... Capitava a Ruggeri che era
Ruggeri! Figurarsi un povero Nerone moribondo!... La mia frase, sì, ne sono
consapevole, è stata mica male, la sua strada l’ha fatta… ma c’è stato di molto
meglio… Vuoi mettere come Costantino?!... Eppure, mi sa tanto che, a gioco
lungo, il personaggio mi sarebbe venuto in uggia. Tutta la vita, opere pie… C’è
da uscirne ebeti. (d’ora in avanti, l’occhio prevalentemente dardeggiante
verso il Divino Marchese): Non è, per niente, un farmaco indicato per lo
sviluppo dell’intelligenza, il bene. Posso garantirlo con cognizione di causa.
Guardo lei, signor marchese, maestro in argomento. Prego: un po’ d’attenzione.
Io conobbi anche la bontà. A onde. La praticai più di quanto i mass-media
abbiano interesse a far sapere. Perfino, con sconcertanti ricadute, conobbi la
bontà – notare, prego, il senso inedito, vagamente sinistro, che la parola
bontà assume sulle mie labbra - . E quando feci il bene, lo feci asetticamente
e disinteressatamente. Mica come mia madre e come Seneca, capaci, persino, di
qualche buona azione, ma solo se poteva recargli vantaggio. Il mio era un bene
fatto unicamente per il gusto e col gusto di farlo. Gratuitamente. Alla Gide.
Mai sentito nominare? Come capriccio, come fantasia: come vizio. Sicuro: come
vizio, tanto perché non ne mancasse nessuno. Che male c’è fare il bene come un
vizio? E che senso ha farlo come virtù? Il piacere di cedere “anche” alla
tentazione del bene. Nessuna, nemmeno la
più contraddittoria, doveva rimaner esclusa dal patrimonio del maggior
collezionista di tentazioni mai esistito… Io so tutto sul bene praticato come
vizio. Sono un’enciclopedia. La facoltà di criminalizzare tutto ciò che tocchi!
Chiamalo niente! Accessi. Veri e propri accessi: il povero Britannico di
epilessia, io di bontà. Ogni tanto – raramente - , ero investito dal demone di
interpretare la parte del mite, del mansueto, del generoso; residui d’infanzia.
E come se ci davo dentro!... Ero bravissimo. Riescono a figurarsi, per un
attore, la ripresa di uno dei suoi cavalli di battaglia? Facciano conto. Chi
non ha conosciuto la tentazione della bontà non ha conosciuto niente. Non c’è
orgasmo che la paghi – l’attrazione dell’opposto! – Hanno mai goduto di deflorare
una vergine… lei, marchese?... Niente, al confronto… La bontà fatta peccato!
Non se ne ha idea… Da cristiano esemplare, a beneficiarne erano, naturalmente,
coloro – dicono – che lo meritavano meno, sennò che piacere era?: i diversi, i
letterati, le fallofore, i musici, i mimi, i circensi, i gladiatori, che
odoravano di belve, di sangue e di sudore; i maledetti da Dio, la sacra feccia:
l’arte, l’arte!... Era inevitabile: si affogava nella pace, nel benessere,
nelle digestioni laboriose, nelle coscie torpide e grasse delle perfezioniste
del sollazzo, prive di fantasia o in quelle dei froci che ne avevano troppa:
nella banale normalità della dolce vita, insomma. Lo svantaggio del bene,
vedono, è che concede meno passo all’immaginazione. I suoi occulti e
inevitabili nemici sono la monotonia e la noia. Ci si stufa presto del bene
perché è meno generoso. Sempre ponderato, previsto, calcolatore, egoista,
plebeo e malinconico. Il male no: è estroso, imprevedibile, prodigo,
disinteressato, aristocratico e allegro. È un’arte. Le sue disponibilità sono
inesauribili. Si mettano, se ci riescono, dal punto di vista di un uomo di
teatro. Il bene è come replicare, tutte le sante sere, lo stesso copione. Il
male è come cambiare rappresentazione ogni sera… scoprire, inventare,
sorprendere, improvvisare, essere diversi di continuo, battimani o fischi che
siano… Il male può stancare, questo sì: annoiare mai, dico giusto, marchese?...
E’ sorprendente, resiste a tutto, il male… L’hanno pur constatato: io ho
resistito financo a Puccini. – Non è da tutti… - Ma, oserei dire… il male può
concedersi addirittura il lusso di giganteggiare, trascurando la vanità, così
umana, di ostentare il proprio biglietto da visita: a tali vertici di nobiltà e
snobismo può spingersi. Cosa che non può permettersi il bene, sempre un po’
borghese, un po’ esibizionista e, spesso e volentieri, detto fra noi, anche
dopolavoristico…; sa di gita popolare per dipendenti d’azienda in ritardo sul
bagno… L’innocenza del male!... Sublime… Faccio
un esempio. Tutta quella cagnara sulla persecuzione dei cristiani…: sacrosanta.
Per carità: nulla da eccepire: un episodio crudelissimo, atrocissimo,
vergognosissimo, non foss’altro per la sua inutilità. Ha fatto epoca. Non si è
potuti arrivare né al numero né all’organizzazione dei tedeschi: ma, una
tantum, messi sulla buona strada, sì… Concesso tutto. Però, vogliono conoscere
la verità vera? Forse, sì, posso, anche, essere stato io a ordinare di dar
fuoco a Roma. Non lo escludo. Bene: parola d’onore, non lo so. Le cose saranno
andate pure così. Però, sinceramente, ripeto: non lo so. Male innocente? Tutti
erano al corrente del mio fanatismo per il canto dell’ “Eneide” che celebra
l’incendio di Troia. Non facevo che rompere i coglioni al mondo intero – il
bravo era non farselo dire in faccia – declamandolo a destra e a sinistra, a
nobili e proletari… “La fiamma è bella! La fiamma è bella!” Mi può essere
sfuggito un: “Che orrore quelle catapecchie, quanto ci guadagnerebbe la
toponomastica se non ci fossero!”, ma l’ordine, proprio l’ordine sputato:
“Toglietemele dalla vista, che, poi, le facciamo riedificare meglio
dall’architetto Piacentini”, non riesco a ricordarmi, se l’ho dato o no… Forse
non mi sarà venuto in mente… Avranno indovinato la voglia… si saranno
suggestionati… Sarà stato qualcuno, credendo di farmi un piacere… Tigellino…
mah… La cortigianeria è capace di ben altro.. O, magari, l’avranno fatto
proprio i cristiani. Hanno pur diritto anch’essi, alla loro latta di
benzina!... Prendevano tutti delle iniziative. Ogni scusa era buona per
chiedermi di cantare e io, non lo nego, ci giocavo. Per dire le pompe, i casini
del male quando decide di mantenere l’incognito. È vero, può stancare, il male,
questo sì. E qualche volta è accaduto anche a me, lasciandomi svogliato. Ma un
piccolo, bianco seno morbido di giovane donna, sul quale addormentarti esausto,
a recuperar lena, quasi come su quello della sfavillante Agrippina, si finisce
pure col trovarlo; ma la possibilità di ritemprare la volontà, spegnendo lo
sguardo lungo le liquide lontananze del glauco Mediterraneo ti è sempre
offerta… (senti, senti: “La mer”, del Claudio (Debussy).) …tutte risorse
precluse al bene, sempre così affaccendato, piuttosto bacchettone, piuttosto –
permettono? – sindacale, ecco. E allora?... Devo confessarlo: in fatto di male,
io sono ottimista. Su di esso, si può sempre contare. Non m’ha mai deluso,
voglio dire. Certo, bisogna saperlo fare. Mica, come certi dilettanti,
degradarlo alla stregua di un torneo di bocce, in maniche di camicia. Il male non
si può fare colla barba lunga. Il bene non
ci fa caso, ma il male sì; in altre parole: non è da dopolavoro… Il male di
Tigellino, esempio, mi dispiace dirlo, era puro dopolavoro: caserma.
Coll’attitudine di cui disponeva!... Tutto il contrario, Petronio. Meno
predisposizione, però un male all’ “arpège”, uscito da un college… Lo sbaglio, vedono, sta nell’anteporre la quantità
alla qualità, siamo sempre lì. Mi spiego. Invadi un paese che non ti ha
fatto niente, poni l’assedio a una città che ti ha fatto meno ancora, la
espugni, la radi al suolo, elimini radicalmente la sua gente che non hai mai
visto né conosciuto: ordinaria amministrazione, prassi corrente di ogni
militare, poco che conosca il proprio mestiere: il male palese e macroscopico
che entra nella storia, il male in serie: all’ingrosso… Però, forse, c’è di
meglio. Te ne stai alla finestra a medicare la tua malinconia – ebbe le sue
malinconie anche Nerone – perso nella sfinita nostalgia del canto del tuo
prediletto usignolo. Scorgi passare per la strada un poveruomo sconosciuto.
Pensierino manigoldo: uno dei due, il tuo usignolo canterino, oppure il
poveruomo sconosciuto, deve essere cancellato dall’universo. Stabilito dal
Fato. Tocca a te decidere. Novantanove su cento, lasciano in vita l’usignolo. Aldifuori,
non è trapelato niente: il male in esclusiva: da boutique. Sempre più
raffinato: una madre – mamma, maternità, il sacro monte della bontà – e i suoi
figli, due o venti, fa lo stesso. Pensiero assassino: uno dei tuoi figli è stato condannato a morte. Due o venti, fa lo
stesso. Pensiero assassino: uno dei tuoi figli è stato condannato a
morte. A te la scelta. Quale? Se non scegli, tutti Kaputt – è accaduto - : il
male da collezionista. Il male è capace di virtuosismi del genere. Io son
venuto grande con questi giochetti. Ne feci, se posso usare una parola da
cerimonia, ne feci una filosofia esistenziale, mentre quell’altro là, mi
titillava le meningi con lo stoicismo. Come capofila della “generazione
perduta”, dovevo pur cercare di distinguermi in qualcosa, non gli pare? Perché
racconto tutto questo? perché, qui,
tocchiamo il punto chiave. In una cosa ha ragione il vecchio: il grande
teatro non si fa col bene, si fa col male. Su questo punto non ci piove:
Shakespeare e Dario Nicodemi. E, in me, idee, sentimenti, azioni: tutto, i
molti vizi, le poche virtù, assumeva, naturalmente, dimensione, prospettiva,
tono, deformazione, colore e calore unico, sempre quello: teatro. La vita come
teatro. “Io ero il teatro”. Il leggendario: “Mi uccida pure, basta che regni”
di mia madre, in risposta alla fattucchiera che le aveva predetto la morte per
matricidio; l’operettistico principe filosofo del precettore, Socrate in
edizione economica: te li raccomando: la verità nuda e cruda è che avrei potuto
essere un imperatore soltanto “come loro mi volevano”. Fantoccio, facciata,
paravento. Mi avevano allevato a tal fine! A
regnare, in realtà, “per interposta persona”, sarebbero stati: o mia madre, oppure
Seneca. La partita si sarebbe combattuta fra loro due. E, infatti, ognuno a suo
modo, cominciò subito. Non avevano tenuto conto di aver a che fare con un
individualista. La comparsa non era il suo ruolo. Non potevo essere un
imperatore autentico? Il rimedio, la salvezza, li avevo a portata di mano: la
mia natura. Avrei interpretato un imperatore da teatro. Ma “teatralmente”, da
Grande Teatro, quello, appunto, possibile solo col male. Tito, il magnanimo, la
delizia del genere umano, dopo cinque minuti fa dormire. Ma Attila, Gengis
Khan, Caligola, Ivan il Terribile, Riccardo terzo, Stalin, Adolfo… li indovino
tutti sorridere, laggiù in platea… quelle sono parti! Interpretazioni
memorabili. Per un attore nato, era tempo perso soltanto pensare di pensare di
porsi il problema. Fui un imperatore da ribalta, categoria mostri: per gioco:
falso, tutto apparenza; ma dalla testa ai piedi, estremistico, in ogni momento,
coll’impegno di superarli tutti, libero e divertito da scoppiare: fino in
fondo. E proprio i due compari che mi avevano rubato il posto furono in grado
di accorgersene. Per me, fu un gioco; per essi, significò la pelle. Tutto
consentito. Paradosso dei paradossi: Seneca mi dedicò un trattato a
dimostrazione che potevo, e dovevo, fare tutto ciò che volevo. Mi interessava
tanto essere imperatore?!? Quello che mi premeva era recitare, e recitare bene,
la parte dell’imperatore; meglio di chiunque l’avesse mai recitata prima e
l’avrebbe mai recitata dopo. Quante volte lo devo dire? Il mio emulo non era
Alessandro Magno, era Ermete Novelli. E ciò serva da risposta, anche alla domanda
che brucia il culo a questo ansioso commediante visionario, collega carissimo,
del resto, che si sbullona a cercare di interpretarmi, palchi e sottopalchi, da
dentro, come può, qui davanti a loro; preoccupato di tirarmi dalla sua, quando
se c’è uno che non ne ha bisogno è proprio lui, gemelli, partoriti dallo stesso
grembo, quelli siamo, due in uno. Hai capito, adesso, caro perché Nerone?
Nerone è il teatro, sordido e sublime, patrono di tutti i teatranti. Altro che…
come lo chiamano quello là?... San Genesio, figurarsi!... Fuori i suoi
successi! I suoi titoli? Ma chi è? Non è nemmeno commendatore. San Nerone,
semmai. Quello sì! Che scene, la mia vita, che situazioni, che colpo di teatro,
che battute!... Spettacolo, spettacolo, indigestione di peccato, sempre. Anche
in questo momento. Mai un cedimento, mai un riposo, mai un lunedì. Mia madre è
venuta a dire: “Perfino il rimorso disdegnò
di occuparsi di te”. Quando uno decide di non capir niente… Ma non era
il rimorso, era la rappresentazione del rimorso, l’interpretazione di Oreste a
cui tendevo io. Per me, dentro di me, prima che per gli altri. Finzione?
Appunto! Finzione: la vita come finzione perenne, vale a dire come Arte.
Seneca, a bassa voce, pensava – dicendo, ad alta voce il contrario – che avrei
potuto aspirare alla gloria e mi accontentai del successo; al successo e mi
appagai degli applausi; gli applausi e mi bastò la “claque”: vanità in luogo di
ambizioni, spettatori al posto di amici. Rido. Ha scoperto l’ombrello.
Coerenza. Nulla di più. Nulla di meno. C’è un attore tra il pubblico, un attore
sul serio, di quelli del mio stampo, che non esistono più? Risponda lui. Tu,
Benassi, esci fuori, se ci sei!... (evidentemente non c’era, perché non s’è
alzato nessuno. Anche gli ultimi rimasti, stavano a battere alla porta del
Piccolo Teatro. Ma perché, improvviso, lo
strappo di una sorta di ghignante lacerazione?) Rappresentarsi per esistere: fingo,
dunque sono!... I momenti di vitalità sovrumana, con tutti i sensi in gloria,
quando “sentivo la parte”!... Morta, l’avevano composta nella sua veste bianca.
L’Erinni impassibile, la gelida baccante, l’inesausta criminale, ora sembrava
una severa e serena vestale dormente. Nella
maestà della morte, la sua statuaria bellezza aveva assunto la purezza fredda e
incontaminata del marmo. Il ghigno beffardo che aveva reso inaccessibile
quel volto, s’era inclementito in un tenue sorriso: il primo sorriso di
Agrippina era un regalo della morte. Indossate le vesti del lutto per l’ultima
finzione – un costume per ogni situazione - , la contemplavo in silenzio
assediato di sospetto; e, mio malgrado, investito dalla cavalcata dei ricordi,
la soddisfazione d’aver schiacciato la serpe, mi si stravolgeva,
insensibilmente, nella coscienza di una perdita senza rimedio, nel presagio di
un’immedicabile solitudine, che avrebbe riportato altri ricordi e altri e
altri, ogni giorno, per sempre. Fissavo quelle palpebre abbassate, allucinato
che, in forza del mio sguardo, potessero tornare a dischiudersi, capovolgendo
un’altra visione: un meriggio estivo di tanti anni prima, quando era stato lo
sguardo di lei a far dischiudere le palpebre a un adolescente ignaro,
addormentato in riva al mare… e poi, tanto naturalmente, era potuta accadere la
cosa tanto innaturale… Risentivo, con affascinato
orrore, strisciare, lieve sulla mia fronte – unica carezza ricevuta –
l’indice destro delle sue bianche mani fredde, dalle lunghe dita scarne; e lo
rammentavo, quel dito, frugare le gengive del capo mozzo di Lollia Sabina, alla
ricerca del dente soprannumerario onde era nota in tutta Roma: la carta di
identità in bocca… e la volle controllare… Tutto, la mente recuperava, tutto
quanto solo una servitù, che era stata un riscatto, aveva reso possibile: le
estasi proibite comunicatemi dalla sua lussuria silenziosa ed enigmatica,
l’umiliante piacere della sottomissione, i desideri sospettosi, le gelosie devastanti, l’animo inquietato, ogni volta,
dallo stesso misterioso rossore…; e sempre un esame, un’emulazione
sottintesa, feconda d’odi, con tutti coloro che l’avevano goduta, che la
godevano e l’avrebbero goduta, prima, durante e dopo di me… Subiva l’amplesso
come un tributo dovutole da un suddito sottoposto. L’avevo potuta odiare come
l’avevo odiata, perché l’avevo amata come non ero riuscito mai ad amare alcun altro
essere al mondo. Lo credevo un tormento che finiva ed era un’angoscia che
incominciava… Il suo corpo era lì, algido ma vittorioso del tempo, fissato
nella propria bellezza incorruttibile… E mai più… mai più… Mi parve la sua
vendetta, venuta a sancire la sua vittoria… In quel punto, allora, al cospetto
di quel cadavere: la tentazione estrema, inimmaginabile, l’unica tentazione a
cui nemmeno Nerone osò cedere: gli mancò l’animo di cogliere quell’attimo di
assoluto, il numero mancante del catalogo… ma, forse dipese, anche, perché
c’era gente. Tra i Romani, la privacy non
si sapeva nemmeno cosa fosse… Mia mamma…. (fermate il disco! C’è
Claudio Villa che ne ha approfittato per mettersi a cantare: “Mamma”. Ma,
forse, il regista e l’interprete non arriveranno a tanto). Viceversa, anche
con regia incorporata, quella che non mi ha mai finito è stata la mia morte.
Squallida, poco motivata, tanto per tirar giù il sipario. Qualcosa non
funzionò: la sceneggiatura, il dialogo, la messinscena?... Io stesso troppo
identificato col personaggio? Chi lo sa? Si può essere attori consumati e
sbagliare un’interpretazione, una scena, una battuta. Il teatro è una bestia imprevedibile… Non si sa mai come
reagirà… Forse, ci sarebbe voluto Rossini a scuola da Wagner… Benché,
pensandoci, proprio nel suo sgangherato squallore, si potrebbe individuare la
moderna originalità di una morte così… Già non ho mai capito una cosa. Da un
momento all’altro, licenziato e schiacciato come una cimice. La miseria, non si
scaraventa sul lastrico uno, senza lasciargli nemmeno il tempo di infilarsi le
scarpe! Perché, ho dovuto battermela a piedi nudi, delicati come li ho… Non si pretende la fine impennacchiata e
pontificale di un Luigi di Francia, presente ed ossequiente la Corte, persino quando fai i tuoi bisogni; ma nemmeno la caccia al lupo: minimo, lasciargli
tempo che smettesse di piovere. Si danno gli otto giorni anche a una serva!...
Io era dispostissimo a cedere il posto. In confidenza, ero anche un po’ stufo
di quella parte. Cominciavo a sentirmi… prigioniero della libertà che m’ero
data e non è che ci avrei pianto su dovendo ritirarmi a vita privata. C’erano
così dei bei siti, sparsi d’arance e di limoni, tra cielo e mare, nei dintorni
di Napoli, dove era vissuto quel misantropo di Virgilio… E, oltre il mare,
l’Egitto…: enigma, oro e lussuria… io, pendolare del sesso. (molto
discretamente e purché ad occuparsene fosse Beniamino Gigli, nulla osta il
riascolto di “Cielo e mar…”. Dopotutto, è il suo leitmotiv. Il sogno: tradurre
in prosa l’opera seria trattata da opera buffa, amalgamata all’opera buffa
trattata da opera seria!) Che diamine, tra gente civile, ci si siede
intorno a un tavolo e si discute. È vero, m’ero fatto prender sul serio quando
facevo per gioco, e per gioco quando facevo sul serio, ma si sarebbe pur dovuto
considerare che li avevo fatti divertire per quattordici anni. Mah… Io non ho
mai avuto una testa politica e può essere, come altri prima e altri dopo, che
non mi sia reso conto che lo stromabazzato Impero Romano, in realtà – ipocritamente
– fu sempre una repubblica di facinorosi, provvisoriamente sospesa, data in
appalto. Stufi di te, senza tanti complimenti, con una scusa o con l’altra, o
anche senza scuse, ti buttavano nella spazzatura come delle ciabatte usate, per
indossarne un paio di nuove, senza accorgersi di aver sbagliato numero: o
troppo larghe o troppo strette. Non è di questo che mi lamento, ma della
mancanza di fair-play, sì… Un tempo, poi!... Da polmonite. Vento, acqua, fango,
buio pesto, un freddo boia; braccato, travestito, scalzo… E ancora che
Epafrodito, tanto perché, alla rappresentazione, non mancasse il personaggio
obbligato del liberto fedele, si prestò a nascondermi in quella sua catapecchia
lurida, puzzolente, piena di cimici, oltre gli orti. Con tante porte – amici,
beneficati!... – battute lungo la fuga, una che si fosse aperta! Tutti partiti
per il week-end. Tigellino, che era Tigellino: lo scusassi ma stava a letto con
trentanove di febbre… Presenti soltanto i due che non avrebbero avuto niente da
guadagnare e tutto da perdere ed esserci: due paria maltrattati: Atte dal cuore
di luce…; l’avevo cercata, disperato, dopo la morte di Poppea. Dolce ma ferma,
m’aveva pregato di dimenticarla – quell’ultimo seme di amore verace avanzato
nel mio animo - . S’era fatta cristiana e chiedeva solo oblio. Adesso, era lì…
Atte e Sporo: l’incomprensibile Sporo, eterno silenzioso; triste, fido e
costante, con quello che gli avevo fatto subire, quando, sempre per via di
somigliare, come una goccia d’acqua, alla cretina-cigno di Poppea, coscia
d’alabastro, l’avevo “sposato”, guadagnandomi, per tutta Roma, il nomignolo di
vedovo allegro… Solo loro, Atte e Sporo. Perché?... Son secoli che me lo
domando. (prolungate da echi intrecciati, alonati di arcane risonanze,
giungono, da distanze siderali, due voci, una femminile e una maschile: “E’
stato il mio unico amore”… “Gli ho voluto bene”) Sempre più impaziente,
pentito della propria imprudenza, Epafrodito: dentro e fuori, avanti e
indietro, non vedeva l’ora che la caccia finisse. Urgevano altri padroni da
leccargli il culo. Io, gettato su quel lercio saccone imbottito di paglia,
incerto – forse questo fu lo sbaglio – fra la sincerità di una morte da
vigliacco – la paura fu l’amante stabile di tutta la mia vita – e la finzione
di una morte stoica, che potevo fare? Come tutti i cinici, aspettavo un
miracolo. Quando non ne poté più, fu Epafrodito a prendere l’iniziativa: “Qui,
bisogna decidersi, maestà” disse… “Lei chiude gli occhi ed è questione di un
momento. Non sentirà niente. Meno di strappare un dente… Le do una mano io, lei
non ci pensi… ci so fare”. Accidenti, se ho sentito! Bene, anche su codesto
particolare – non ci crederanno – sono rimasto con una curiosità. Quanto spinse
lui, quanto spinsi io per far penetrare il gladio dove doveva penetrare – la
gola - , ho ancora da saperlo. Se hanno un
momento di pazienza, gli faccio vedere. (azione d’una gestualità
accademica da manuale, col gladio opportunamente a portata di mano; mentre, si
capisce, fuori continua a imperversare la
tempesta. Fa venire in mente il temporale del “Rigoletto”. Una caduta
teatrale “con scenica scienza” e batte clamorosamente la cervice
sull’impiantito). Urca vacca, che male!... Il mare… thalassa… thalassa. E
qui, immaginino un secchio di sangue. (giace immoto, per tornare subito, di
scatto, a sedere e una gran sberla sulla fronte): E ci ho pensato tutta la vita! Domando scusa: “Che artista perisce!” (ma
lo si indovina soddisfatto più no che sì. Ancora un momento soprappensiero…).
No… “Quale artista, perdi, o mondo!...” Meglio così, senz’altro, meglio così. E
fa agonizzare il punto esclamativo nei puntini. Non si è mai finito di
perfezionare una battuta… fino all’ultimo…: “Quale artista, virgola – pausa;
perdi, altra virgola – altra pausa meno lunga… oh mondo…!” … Col rantolo… o no?... (onore al merito:
l’ha detta stupendamente. Resta esanime, compianto dalla marcia funebre
della morte di Sigfrido che, forse, sarebbe troppo; o da quella di
Cavaradossi che, forse, sarebbe troppo poco. Ma il problema rimane insoluto per l’interruzione del telefono). Fosse
mai quel rompicoglioni del Galbusera!? (stanco ronzino sfiancato, si
alza per recarsi all’apparecchio, cominciando a sfilarsi tunica e
parrucca, metà personaggio e metà interprete). Cavaliere, lei chiama sempre nei
momenti meno opportuni… Pardon. Che gaffe imperdonabile. Parla sul serio? Il
bardo?!... In persona?... Sono confuso… Dica, dica, son qui col cuore in gola,
si figuri… Allora?... Niente? Non lo interessa… Ma, guardi che… Come fa a dire
che va bene così?... E’ solo per bontà… D’accordo anche gli altri?... Scherza…
Parola d’onore?... Così?!... Deve rimanere, dice, una liturgia tra istrioni?...
Incomunicata?! Perché incomunicata?... Cioè?... Una… Come?... “Un’epifania del
nume e dei suoi accoliti!”…? …Un mistero glorioso, intendo… una messa, insomma…
concelebrata, mi pare che si dica concelebrata. Vedo… Sì, sì, tutte le sere,
una messa… Però, non applaudono. Sente? Non applaudono… Come, non importa? Lei
lo sa meglio di tutti: il sipario che scende senza applausi, per un attore, è
la morte… (e, accasciandosi, svuotato, ai piedi del telefono): Sì, sì… come vuole, sir… come vuole… “il destino
del grande teatro”. (s’è estinto, mandato a letto, rassicurato,
l’autore, con un gemito del violoncello in calare, in cui ribadisce
l’impegno di rimanere sempre “l’umile ancella del genio creator”. Così,
invia anche una cartolina ricordo al povero Cilea, tanto traboccante di
buoni sentimenti, quanto trascurato; mentre strappa, per un momento,
dall’oblio, la sua collega Adriana
Lecouvreur. Schegge di posterità distribuite gratis: concelebrate).
FINE