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Egle

Egle

Di  Giambattista Giraldi Cinzio

PERSONAGGI

SILVANO

SATIRO

FAUNO

SILENO

EGLE

CROMI

MNASILO

CORO

OREADI

DRIADI

NAPEE

NAIADI

PANE

SIRINGA

AMADRIADI

[NINFE]

SATIRI PICCIOLI

[SATIRI] [1] Il Coro è di Satiri. [Chiudi]

L'ARGUMENTO

I Dei silvestri innamorati delle ninfe de' boschi, inteso ch'i Dei del cielo si son dati ad amarle, cercano di non le si lasciar tòrre. Perciò colla astuzia d'Egle le conducono in ballo co' fanciulli loro, rimanendo essi nascosti. Mentre sono in ballo, si danno a volerle rapire. Le ninfe, scoperto lo 'nganno, se ne fuggono al bosco, et ivi sono mutate in varie forme, lasciati tutti dolenti i Dei silvestri.

La Scena è 'n Arcadia.

IL PROLOGO Spettatori, parravvi forse strano Che 'n questo luoco, in cui veder solete Città grandi e reali, ora veggiate Sol boschi e selve. E certo avea 'l poeta, Per non uscir del suo primo costume, Seco pensato d'apportarvi cosa, Che già a l'ordine avea, di real grado; Ma cosa a lo 'mproviso sovraggiunta Dal suo primo pensier l'ha distornato. Ch'essendosi egli da la cara patria Per molte miglia dilungato e molte E andando per le selve de l'Arcadia (Forse per ricrear la stanca mente, Lontan dal vulgo e da la gente sciocca), Avenne che trovò Pale e Pomona Ch'avean tenzon d'una gran cosa insieme, Ciò è de la natura. E dicea Pale Che la natura venia meno, e meno Venian le cose naturali in essa. Ma Pomona, più saggia, le dicea Che se 'ngannava e che non era vero Che la madre natura ristringesse Punto de la sua ampiezza, e che 'l mutarsi Era più tosto al liberal, a l'ampio, Ch'al misero, a lo stretto et a l'angusto. E che fé ne farebbe il Dio de gli orti, Molto pratico in lei, chi gliel chiedesse. Or, mentre avean tra lor simil sermoni, S'avider che, gran pezza, dietro a un faggio Il poeta s'avea preso piacere Di veder la natura di nascosto D'ambedue loro, al gareggiar sì pronta. Dunque, poi che di lui si foro accorte, Voller saper di che oppenione ei fosse; E promiser di stare al suo giudizio, Come già stetter ne la valle Idea A la sentenzia del pastor Troiano Le tre più belle Dee ch'avesse 'l cielo. Et aprendo ambedue le sue ragioni Inanzi a gli occhi del poeta, Pale Molte ne disse a suo favor, che lungo Ora sarebbe a raccontarle tutte; E tra le molte si fermò su questa: Ch'al mancar de gli effetti si vedea Che d'essi anco mancavan le cagioni E che per ciò, mancata essendo al mondo. La stirpe de' Silvan, Satiri e Fauni, Dei vermigli nel viso, ispidi et irti Et avezzi a cacciar pe' densi boschi De la natura, ella tenea per certo Che mancata di lei fosse gran parte. Alor Pomona, tra le sue ragioni, Come per più possente addusse questa: Che veggendosi ciò per chiara prova Che quanto ella di sé più dava, tanto Si faceva atta a più poterne dare, Creder deveasi che fosse infinita L'ampiezza natural ch'ella avea seco; E ch'ella avea questa ragion per vera Che, come se mancasse il caldo al fuoco Più fuoco non saria, così, togliendo L'ampiezza a la natura, mancherebbe D'esser natura. Or, poi ch'ebbe il poeta De l'una e l'altra le ragioni aperte, Riverente a Pomona si rivolse E le disse: Alma Dea, voi per natura Possente a far de la natura fede, Avete aperta al natural la via. Però chi è quel, che savio sia, che pensi Che la natura, per natura larga, Si debba giamai dir manca né mozza? E poi rivolto a la Dea Pale disse: Non son (come voi dite) unqua venuti Ne la natura men Satiri e Fauni, Anzi ella ne produce ogni dì molti; Ma avenuto è, per lor natural uso, Che 'n una gran caverna, che prodotta La natura gli avea, son stati in gioia Il tempo che veduti non gli avete. E quando gli voleste ne le parti Vostre raccòr, ve n'av[e]reste molti, Con gran piacer de la natura istessa. Et in fede di questo, i' n'ho veduti, Venendo qui, gran copia. E questo detto, Additò lor l'ampio e capace luoco Ov'ascosi facean que' Dei soggiorno, Qualor con lor piacer volean celarsi. Veduto adunque Pale che Pomona La sentenzia avea avuta in suo favore, Le cesse tutta vergognosa in viso. Pomona alor, voltatasi al poeta, Il rengraziò de la sentenza data, Poi disse: Perch'io so che sono in questa Sentenzia molti in che dianzi era Pale, I' voglio che 'n onor de la natura Viva non lasci tal sentenzia al mondo E facci fede a ogniun d'aver veduti, Al venir qui in Arcadia, gli Egipani, Dei de le selve, dopo tanti lustri. E perché ogniun creder tel possa, e possi Farlo toccare, a chi vorrà, con mano, Per tòr tal biasmo a la natura, ovunque Uopo sarà la sua larghezza aprire, Farò venir con le sue selve Arcadia, Co i Dei e co le Dee che le fian dentro; I quali (come già) di quelle istesse Fiamme d'amor si troveranno accesi Che per le vaghe e boscareccie ninfe L'arsero il cor, et averan quel fine Del loro ardente amor ch'ebbero allora: Il che potrà mostrar che pur non manca De l'ampiezza natia l'alma natura, Ma che, dopo un voltar lungo de' cieli, Vengon da lei quelli medesmi effetti Ch'ella aveva altra volta anco prodotti. A la madre Pomona allor promise Il poeta di farlo. Ella di pome Copia l'offerse e gli soggiunse poi Ch'egli di ciò maggior mercede avria, Ch'avendo i Dei maggior tal cosa a grado, Allargheriano anch'essi a lui la mano E mai noi lascierian sentire inopia. E dopo, avendo scorto che 'l poeta Di ritornare al suo natio paese Facea tra sé pensiero, in uno istante Ha fatto qui venir tutta l'Arcadia. Queste sono le selve e quei là i monti, I fiumi e le città ch'ella in sé tiene Occupati vi son da queste selve. Trovando adunque ora il poeta nostro Circondato da boschi quel paese Ove vedeste già Susa e Damasco, E sé condotto, fuor d'ogni pensiero, Qui in un momento, con la grande Arcadia, Lasciato quel proposto ch'egli avea De lo rappresentar cose reali, Le ha differite a miglior tempo, et ora Deliberato ha di servire al luoco E servare a Pomona la promessa. Dunque, per farvi fede oggi per sempre Che de la sua abbondanzia mai non scema La liberal natura alcuna parte, Ora i Satir venir vi farà inanzi, Ch'accolti sono in un drappel nel bosco. Ma costui che di qua viene palese Farà de l'apparir lor la cagione; Et i caprigni Dei, ch'uscir vedrete, Vi faran manifesto di che sorte Di favole sia questa. Or, spettatori, Se vi sia sempre la natura amica, Né buon natural manchi a chi n'have uopo, State cheti et attenti; e se vi fia Grato veder di novo questa gente Di cui credeasi il seme esser già spento, Fate che sì il poeta se n'aveggia Che sia costretto anco altra volta darvi, Per la benignità vostra, piacere.

ATTO PRIMO

SCENA I

SILVANOsolo

SILVANO

Quando lo stuolo uman ne l'innocenzia

Prima vivea e dava cibo a ogniuno

Le ghiande ne le selve e bever l'acque,

Foron le selve et i pastori in pregio,

E noi, al par de gli altri Dei, pregiati.

Forono poi da' boschi e da le selve

(O per vertù de l'eloquenzia altrui,

O per opra d'alcun prudente, o vero

Che così pur volessero le stelle)

Gli uomini in un ne le cittadi accolti;

E col luoco mutar costumi e legge,

Et in vece de l'acque e de le ghiande,

Le quali il mondo che le fugge onora,

Diè lor Cerer le biade e Bacco il vino:

Bacco, al qual noi servimo, e che nodrito

Fu dal nostro Silen tener fanciullo.

E quantunque essi ne le altier cittadi

Avessero altra vita, altri costumi,

Nondimen, raccordevoli d'avere

Principio avuto da gli incolti boschi,

A noi Dei de le selve alzaro altari,

Tal che non pur ne' luochi aspri e selvaggi,

Ma ne l'alte cittadi il nome nostro

Era avuto in onore e 'n riverenzia,

E ne' solenni giuochi e ne le feste

Introdotti eravamo ancora noi,

Per dare essempio a ogniun di miglior vita.

E quantunque, dopo che trasformossi

Quel giovanetto, che sovra ogni cosa

Io amava e avea nel cor vivo scolpito,

In questa pianta che 'l suo nome serba,

Sempre i' sia stato misero e 'nfelice,

Pur non m'era discar veder ch'a noi

Desse il debito onor la gente umana.

Avenne poi che 'nsieme con l'impero

(Così il ciel varia gli costumi e 'l mondo)

Appo' Greci mancò l'util costume

D'introdur ne' suoi giuochi i Dei silvestri;

E a lungo andar, da quel debol principio

Del Roman sangue, sì aspramente crebbe

La soperba ambizione appresso loro,

Che si scordar le selve e gli umil luochi,

E non feron di noi stima; et in vece

Di quelle feste, ove soleano noi

Ad essempio de' popoli introdurre,

Volser lo stile a biasimare i vizii

E diero il nome a quel modo di dire

Ch'esser soleva già proprio a quell'altro

Ch'avea noi introdotti ne le scene.

E dopo, a poco a poco, sì s'estese

La soperbia de gli uomini, che noi

Sprezzaro ne le selve anco i pastori:

Tal che, ridotti ne' più alpestri luochi,

Vissi siamo tra noi secoli e lustri,

E quanto di piacere avuto avemo,

Ne la solinga e boscareccia vita,

È stato di veder le vaghe ninfe

Errar pe' boschi e cacciar cervi e dame.

Or, non veggendo noi altri che queste

Ninfe leggiadre et amorose, molti

De' nostri ora di lor si son sì accesi

Che non han mai per lor tregua né pace.

M'accresce il suo dolor ch'i Dei celesti

Cercan di turbar lor fin ne le selve,

Dandosi anch'essi a amar le ninfe loro;

Onde temendo che non gli sia tolto

Del loro amore il frutto, hanno proposto

Non si voler lasciar tòr da le mani

Quel che par lor che di ragion sia suo,

E se l'amor non gioverà, a la forza

Vogliono al fin con tutto il cor voltarsi.

E ch'altro far si dee, quando un'ingrata

Prende piacer di consumare un core

E vuol che crudeltà sia il guiderdone

D'un vero amore e d'una fé sincera?

Ma perché veggio comparir coloro

Ch'ordine devon dare a questo effetto,

Vo' dar lor luoco e ne la selva entrare,

Fin che mi parerà d'uscirne fuori.

SCENA II

SATIRO, FAUNO

SATIRO

Amor che mai non giunga a fine, amore

Dir non si dee, ma una continua pena.

FAUNO

È troppo il ver, ma se vi s'accompagna

Sospetto e gelosia, non è più pena,

Ma una continua, inevitabil morte.

SATIRO

Troppo tutti il proviam, dopo che Giove

E gli altri Dei del ciel venuti sono

A disturbar ne' boschi e ne le selve

I nostri amori; già nissun di noi

Ad essi ha fatto ingiuria, che per odio

Debbano disturbar la pace nostra.

FAUNO

Sai, frate mio, quale ingiuria han da noi

I Dei del ciel?

SATIRO

Non io.

FAUNO

L'ingiuria è ch'essi

Veggono la beltà di queste ninfe

E noi di lor minori e sanno quanto

Bellezza che sia in man di pover sia

Atta a potersi aver da illustre amante.

SATIRO

Quanto dolore, ohimè, m'aggionge questo

Sospetto; e quanto più m'infiamma Amore,

Qualor io penso meco che tai sono

Le nostre ninfe, ch'i celesti Dei

Cosa da lor le tengono e dal cielo

Voglion discender, per goder di loro.

O di che ben sarem privati noi,

Se ne fossero tolte da le mani

Le ninfe nostre!

FAUNO

Il lamentarsi è vano,

Quando non ponno le querele aiuto

Porgere a chi si duole; e però prima

Che dal cielo discendano nel bosco

I Dei, buon fia che noi prendiamo il tempo

D'averle ne le man prima di loro.

Dunque, pria che sia Giove e gli altri Dei

Possessori di quel ch'a noi si deve,

Mentre l'abbiam qui ne le forze nostre

È da cercar che cel godiamo noi.

SATIRO

Ahi che più non vi veggio modo alcuno,

Come già di veder mi parea prima.

Che se ben sdegnosetta si mostrava

La Napea mia e ne lo aspetto irata,

I' vedea pur tra le turbate ciglia

Balenar di pietà talora un raggio.

Ma poi ch'avista s'è questa crudele

De l'amor di costor, via più soperba

Venuta è verso me ch'una vitella:

Mi mira con tòrt'occhio e mi s'asconde

Qualor la miro e sdegnosetta e schiva

Mi fugge et odia, ond'io m'affliggo e struggo.

FAUNO

Tal è verso di me la Naide mia,

Quale a punto è vèr te la tua Napea.

Ohimè, quando mi torna a mente ch'ella

Mi si mostrava un poco e con un riso

Mi rallegrava o con un finto sguardo,

E poi dietro ad un pino o ad una quercia

Ratta si nascondea, come colei

Che non volea mostrar d'avermi visto,

Et indi di nascosto m'assaliva

Gettandomi una mela di sua mano,

Et or la veggio fatta così acerba,

Me ne sento partir dal corpo l'alma;

E tutto avien perché 'n superbia salse

Tosto che s'udì amar da' Dei celesti.

Ma non farà giamai, con quanto sdegno

Ell'ha nel petto, ch'io non l'ami e pregi

E non cerchi d'averla a le mie voglie.

SATIRO

E che vogliam noi far, per goder qualche

Frutto de le fatiche di tanti anni?

FAUNO

Voglio che 'ntendiam ben prima s'è vero

Ch'i Dei celesti sian per farne ingiuria.

SATIRO

Che bisogna cercar, s'elle medesme

L'han detto ad Egle di Sileno nostro?

FAUNO

Costume è de le ninfe di mostrare

Esser da' Dei maggiori amate, ancora

Che non sia ver, che così pensan pregio

Acquistarsi e devere esser più care

A' loro amanti; e però buono fia

Che noi bene intendiam la cosa prima,

E se ver sarà ciò, troverem via

Ch'altri falce non ponga in quella messe

Ch'essere accolta dee per nostra mano.

SATIRO

E come ciò potrem saper?

FAUNO

Sileno

È (come sai) gran famigliar di Bacco,

Come colui che da fanciul nutrillo;

E Bacco tien nel ciel parte co' Dei

(Mal grado di Giunon) per esser nato

Di Giove, e può saper tutte le cose

Che fanno gli altri Dei nel cielo. Adunque

Andrà Sileno e 'ntenderà da Bacco

Se deviamo temer de' nostri amori;

E stiam sicur ch'avrem da lui il vero,

Ch'essendo noi ministri suoi e avendo

Egli da noi e sacrifizii e voti,

Non ci celerà cosa ch'egli sappia.

SATIRO

Ma dove avrem Sileno ? Egli dormire

Dee pien di vino in qualche grotta o deve

Esser col Cromi suo, col suo Mnasilo

In giuoco e 'n festa, o con la sua dolce Egle.

FAUNO

Eccolo ch'egli vien co' suoi compagni

A punto fuor del bosco.

SATIRO

Ei tutto è festa,

Ove noi miser siam doglia e tormento.

Andianli de nascosto ambidue incontro.

SCENA III

SILENO, EGLE, CROMI, MNASILO

SILENO

Bacco, se nel nodrirti ebbi già affanno,

Tant'or piacere ho in core

Pel tuo dolce liquore,

Che mi par lieve ogni sofferto danno;

O Cromi caro, o mio soave amore

Dolcissim'Egle, o car Mnasilo, onore

Di queste selve c'hanno

Ogni bene entro sé, qualora vanno

Col fiasco in man per lor Fauni silvaggi;

Or sotto a questi faggi

Datemi bere. Oh che soave odore

Escie di questo vaso!

Sento dolcezza de l'odor maggiore.

Oh perché non son tutto e bocca e naso,

Perché questo sapore

Meglio gustassi e me' l'odor sentissi!

O Bacco, o Bacco, padre almo e fecondo,

Bacco, in cui sempre ho fissi

I pensieri e le voglie,

Da cui mi viene il ben che 'n me s'accoglie,

Chi non diria secondo

Giove a te, che tien te di lui minore,

Se per te fosse, com'io son, giocondo?

Or bevi sino al fondo,

Egle mia cara e dolce compagnia,

Bevi vitina mia,

Che non bevesti mai succo migliore.

EGLE

Beata quella vite ond'uscì fuore

Così suave umore!

Ma non vedi che more

Cromi e Mnasilo di disio di bere?

Da' lor del vino ancora.

CROMI

Non son stato io a questa ora,

Egle, a gustarne? Or da' a Mnasil, che 'l chere,

Il vaso, e mostra avere

Disio di voler darli uno gran crollo.

MNASILO

Or pommi il fiasco al collo,

Tanto ch'io sia satollo;

Deh chi mi può tenere

Ch'io non salti e non balli?

S'i fonti già co' lor vivi cristalli,

Toltane ogni uman'arte,

Diedero bere a ogniun per ogni parte,

Mi godo, Cromi caro,

Ch'alor non mi crearo

I Dei e ch'ora lor produr me piacque,

Che si beve del vino in vece d'acque.

SILENO

Beato il padre e la madre onde nacque

Bacco, nostro alto duce,

Che noi lieti conduce

A ber l'alto liquor che mai non spiacque.

Ma se 'l bere non m'ha tolta la luce,

Parmi veder due de' compagni nostri

Che vengon verso noi molto dolenti.

Andianli incontro, che gli darem bere

E 'l duol gli addolcirem che 'l cor gli preme.

SCENA IIII

SATIRO, FAUNO, SILENO, EGLE

SATIRO

Dio ti salvi, Silen.

FAUNO

Salviti Dio

E ti conservi l'allegrezza tua.

SILENO

E voi faccia contenti il nostro Bacco

E vi levi del core ogni tristezza.

FAUNO

Ben bisogno n'abbiam, caro Sileno:

Che non appar mai per le selve il sole,

Né mai si cela, che ne vegga lieti.

SILENO

E che cosa è che sì v'affligga? Vuole

Allegri Bacco i suoi compagni, e voi

Viver volete i vostri dì in affanno?

Tenete questo fiasco pien di greco

E bevete una e due volte, e 'n un tratto

Vi uscirà ogni dolor fuori del petto.

Bevi, Satiro mio, bevi, car Fauno,

Che chi beve buon vin, senza ber Lete,

Se ne beve l'oblio d'ogni dolore.

SATIRO

Ohimè, ch'ogni soave succo è tòsco

A uno affannato core! Altro ci vuole,

Sileno, a farci lieti.

SILENO

Se 'l vin lieti

Far non vi può, per voi non ho rimedio:

Io beverò per voi.

SATIRO

Anzi il rimedio

È solo in te de la gran doglia nostra.

SILENO

Che poss'io far per voi?

SATIRO

Darci la vita;

Né sol per noi, noi ti cheggiamo aiuto,

Ma per tutto lo stuol nostro: che tutti,

Se non ci aiuti tu, siamo a la morte.

SILENO

Fate ch'io sappia 'l mal: s'avrò rimedio

Atto a curarlo, i' non ven sarà scarso.

SATIRO

Novo non credo che ti sia ch'ogniuno

Di noi arde d'amor di queste ninfe

Che vengono a cacciar per questi boschi.

Or Egle tua ci ha detto che da loro

Intese ieri ch'i Dei celesti d'esse

Ardon non men di noi e ch'elle ancora

In amor gli rispondono, di modo

Ch'ella tien ch'esse sian per fuggir noi

E darsi tutte a amare i Dei celesti.

SILENO

È vero, Egle mia, questo?

EGLE

Il dissero eri,

Mentr'io le confortava a amar costoro.

SILENO

Avete gran ragion di lamentarvi,

Se vero è quel che da costei or odo.

FAUNO

Silen, se ciò avenisse, ci dorrebbe

Esser mai nati al mondo; però aita

Porgine, prego, e se noi teco insieme

Fummo per farti aver la tua cara Egle,

Non n'esser ora tu di favor scarso.

SILENO

Chiedete, ch'io son tutto a' piacer vostri.

SATIRO

Vorremmo che sapessi tu da Bacco

(Che sappiamo che nulla egli ti cela)

Se forse egli 'nteso ha che questi Dei

Siano per voler tòrci i nostri amori,

Poi saper cel facesti: che, s'è vero,

Non siam per tolerar scorno sì grande.

SILENO

Anzi il devete far: io immantinente

Me n'andrò a Bacco e per costei, tantosto

Che 'l tutto inteso avrò, ven darò aviso.

SATIRO

A Dio, Sileno.

SILENO

A Dio, compagni cari.

Ma io vi prego in tanto a raccordarvi

Che 'l vino è medicina a ogni gran cura

E che impossibil è che chi ben beve

Con ogni grave duol non faccia tregua.

Bevi, Cromi mio car, bevi, Mnasilo,

E tu bevi, Egle, e andiamo a trovar Bacco.

CORO

CORO

O Bacco, oò, oò, figliuol di Giove

E de l'amata sua Semel tebana,

O Bromio, o Evio, o Dionisio Dio,

Dio di letizie nove,

Se forse tra le nove

Sorelle d'Elicona ora ti trovi,

O se pur tu rinovi

I sacrifizii tuoi co le baccanti,

O sei tra' verdeggianti

Pampini de le viti a ornar le fronti,

Ne' lidii o frigii monti,

A chi ti face onore,

O a trarne il dolce umore

Che trae de l'altrui alme ogni dolore,

Risguarda noi, Signore.

E come in ogni luoco

Che 'l tuo nome s'onori

Sen van le doglie fuori

Con tostissimo passo,

Così or, Signor, fa casso

Il nostro fier timore

Et al cocente ardor del grave fuoco

Da' refrigerio e 'n giuoco

Volgi ogni nostra pena:

Sì che dov'ora è piena

L'alma nostra di doglia e di sospetto

Si faccia tutta gioia,

E 'l timor se ne moia,

E senta il tuo valore il nostro petto.

O Bacco, o Bacco, o Dionisio santo,

O Dio d'ogni diletto,

Volgiti a noi alquanto

E ascolta i nostri preghi:

Fa' che 'l dur cor si pieghi

Di queste Dee, che ne minaccian pianto.

O Bacco onnipotente,

Difendi la tua gente

Da gli oltraggi del cielo e fa' che neghi

Ogni ninfa di queste sé a que' Dei

Che sconsolati e rei

Voglion fare i dì nostri.

Temp'è, Signor, che mostri

Se mai sempre ti piacque

Il nostro non bere acque.

ATTO SECONDO

SCENA I

EGLEsola

EGLE

Più volte e più m'ha detto il mio Sileno,

Narrandomi i principii de le cose,

Che 'l piacere introdotto fu nel mondo

Perché 'l mondo per lui si conservasse,

E che non solo queste mortai cose

Vivono pel piacer, ma i Dei medesmi,

E che, tolto il piacer fuori del cielo,

Si leveranno col piacere i Dei.

Anzi più detto m'ha: che così intenti

Sono al diletto i Dei, che 'n ozio eterno

Si giaccion senza aver cura di nulla

Perché, s'avesser cura de le cose,

Si turberebbe ogni riposo loro

E di non esser Dei verriano a rischio.

Perch'ei non pensa ch'altro sia il piacere

Ch'una requie lontana da ogni cura

Ch'abbia sempre il gioir fido compagno;

E tante volte e tante espressamente

Toccare ei lo mi ha fatto con le mani,

Che quanto i' miro più, più chiaro i' veggio

Ch'al mondo non è ben senza diletto,

E che solo il piacere è che condisce

Di dolcezza ogni amar di questa vita;

Tal che la vita istessa che viviamo

Saria una morte espressa, se privata

Fosse di quel piacer che la conserva;

Ond'io conchiudo che di ciò che vive

Il diletto sia fine e tra i diletti

Quel di Venere e Bacco il maggior sia.

E a chi nol crede i' ne fo certa fede:

Che mentre in compagnia fui di Diana,

Fu sempre il viver mio senza una gioia.

E che gioia tra donne aver poteva

Giamai giovane donna? Il cacciar belve,

Il lavarsi ne' fonti, il bever l'acque

Non empiono i diletti de le donne,

Ma sol Venere gli empie e gli empie Bacco,

Questi facendo noi vivaci e deste,

Quella compiendo ogni imperfetto nostro;

E però l'un e l'altro i maggior Dei

Sono del mondo, appo chi scorge il vero,

E chi a lor serve, veramente serve

Al diletto immortale. Il che sapendo

Questi Dei de le selve, tosto ch'essi

Avranno l'imbasciata che Sileno

Per me gli manda, col piacer di Bacco

Giungeran quel di Venere, cercando

Per ogni via goder di quello amore

Che gli può far sentir compiuta gioia.

Ma veggo fuor del bosco uscir coloro

Ch'attendono risposta da Sileno.

SCENA II

FAUNO, SATIRO, EGLE

FAUNO

Pur che la nuova sia buona, il tardare

Non mi dorrà.

SATIRO

Sia pure o buona o rea,

Me ne cal poco: i' seguirò il consiglio

De gli altri miei compagni in queste selve;

E a dirti il vero, i' non avrei usato

Tanti rispetti, com'usar tu vuoi:

Ove pericol è che ti sia tolta

Cosa che ti sia cara, biasimato

Non sarai unqua a porlati in sicuro.

FAUNO

La tropp'audatia torna spesso in danno.

SATIRO

Et il troppo temer fa perder spesso

Quel ch'aver si potrebbe: i' voglio audace

Perder, più tosto che timido avere.

FAUNO

Io mi ricordo ancor quel che m'avenne

Quand'Ercol mi gittò fuori del letto:

Io mi sento dolere anco le spalle

Per la grave percossa ch'alor diedi.

SATIRO

Già non si conveniva altra mercede

A la tua gran follia: non fu l'ardire,

Ma 'l tuo poco veder che ti fe' danno.

La preda avevi ne le man sicura

E ti condusse l'ignoranza tua

(Lasciata la fanciulla delicata)

Intorno ad Ercole ispido e feroce;

Tu vedrai ben che, s'io entro in questa caccia,

Io non piglierò l'orso per la lepre.

EGLE

Che parole son queste? Aman la pace

Le selve e non le liti.

FAUNO

Non è guerra,

Egle, tra noi, sol aspettiam sapere

Ch'abbia inteso Silen nostro da Bacco.

EGLE

Non vi è nulla di buono.

FAUNO

Tu m'hai morto.

SATIRO

Et a me animo hai dato a la mia impresa.

Narraci che ci manda a dir Sileno.

EGLE

Vi fa saper ch'i Dei celesti sono,

Non men che voi, di queste ninfe accesi;

E che, tosto che 'l sol tolga la luce

A le cose mortai, voglion dal cielo

Venirsi ne le selve a goder d'esse.

FAUNO

Ohimè!

SATIRO

Io non vo' già per ciò dolermi:

Prima di lor i' me n'andrò a la caccia.

EGLE

E ch'essi, per non esser conosciuti,

Sotto mentita forma a lor verranno.

SATIRO

Et io v'andrò ne la medesma mia,

Prima che 'l sol s'asconda: statti, Fauno,

Tu su' rispetti tuoi.

FAUNO

Satir, sei sciocco;

Io ti dico che 'l senno e 'l buon consiglio

Spesso vale anco ne le selve molto,

E se vogliàn che questo ci soccieda,

In condurlo bisogna usar molt'arte,

Altrimente ogni cosa andrà in sinistro.

EGLE

Fauno non dice mal! Satir, sta' cheto

E ascolta un po' quel che vo' dirti anch'io.

Bisogna che con senno e con prudenzia

Voi conduciate queste ninfe a l'amo:

Che se palese forza lor vorrete

Fare, n'andrà tutta la cosa in nulla.

SATIRO

E perché? non siam noi per far lor forza?

Tu t'inganni, Egle.

EGLE

Io non m'inganno, ascolta.

O che volete ritrovarle in caccia,

O ver sotto qualch'ombra, o dentro a un fonte

(Ch'altrimente non sono unqua nel bosco).

Se 'n caccia, avran con loro i fieri cani

Et avran tutte in man dardi e saette

E potran de l'ingiuria apparecchiata

Tutte far contra voi aspra vendetta;

Se 'n qualche fonte forse o vero a l'ombra

Vi pensate di còrle, avran Diana

(Com'è costume loro) in compagnia:

E s'ella vi si trova, miser voi!

Sapete ben quel ch'a Atteone avenne

E quanto sia di voi ella maggiore.

Potreste dir d'accòrle al ritornare

Ch'elle faran dal bosco a le lor stanze,

Ma sareste anco nel medesmo caso,

Perch'elle fian (come nel bosco) in schiera,

Armate anco di dardi e di saette

E non men seco avran, che prima, i cani.

Però in essempio sianvi i Dei del cielo,

I quai conducon con inganni a fine

I lor disiri e con inganno ancora

Pensan di queste ninfe oggi godere.

SATIRO

Che deviam dunque far?

FAUNO

Prudentemente

Condur la cosa.

SATIRO

E come?

FAUNO

I' voglio ch'Egle

(Egle via più d'ogni altra ninfa accorta)

Parli con lor (che so che volentieri

Ella s'adoprerà con queste ninfe)

E le disponga a non ci dar più affanno.

EGLE

Il farò volentieri, perch'io vorrei

Vederle nel piacer nel qual son io,

Acciò che et elle e voi foste contenti.

FAUNO

Che non si vuoi venir mai a la forza,

Fin che non s'è tentata ogni altra via;

E sciocchezza è voler tòr con violenzia

Cosa che per amor si possa avere.

E s'Egle le potrà disporre, avremo

Quel che cerchiamo, e se pur non potesse,

Vo' che con esso lei ella le 'nviti

Ad una festa che 'ntendiam di fare.

SATIRO

Tu non ce le corrai.

FAUNO

Anzi verranle,

Che vo' ch'ella lor dica che noi tutti,

Insino a un'ora o due, siam per partirci

Di queste selve e gir fin in Ispagna.

SATIRO

So che finger tu vuoi di gir da lunge.

FAUNO

Ben bisogna mostrar che gran paesi

E varii mari e varii fiumi e monti

Vogliam cercar, perché conoscan chiaro

Che facil non ne fia il tornare a loro.

SATIRO

Or segui.

FAUNO

Io voglio poi ch'ella le dica

Ch'i nostri Satirini e i picciol Fauni

Oggi, partiti noi, verso la sera

Vogliono far tra lor festa solenne,

E le pregano tutte che con loro

Voglian trovarsi: son bramose anch'esse

D'aver solazzo onesto e, non temendo

Di noi, verranvi. Noi, poi che fia tempo

E deposti elle avran dardi e saette,

Usciremo del bosco e farem quello

A lor ch'i Roman fero a le Sabine.

EGLE

Fauno, molto mi piace il tuo consiglio;

Io, tosto che le veggia, con bel modo

Tenterò di disporle al vostro amore,

E quando ciò non mi soccieda, ogni arte

Userò poi perché quest'altro segua.

SATIRO

Egle, te ne preghiamo; così mai

Non ti manchi da ber vino soave,

E 'l tuo Silen sovra ogni cosa t'ami!

EGLE

Io non mancherò in cosa ch'io presuma

Ch'a espedir questo fatto esser possa atta,

Ma voglio, perché più agevol mi sia

Quel che 'ntendo di far, che voi chiamiate

Alcun de' maggior vostri da la selva

E con mesta canzon tutti a una voce

Cantiate il vostro amor, le vostre doglie,

E vi dogliate de la sorte rea

Che voi per crudeltà di queste ninfe,

Ch'amate molto più che gli occhi vostri,

Per non essere a lor sempre di noia,

Sete costretti a abbandonar le selve

E le parti d'Arcadia a voi natie.

Elle quindi non son lontane molto

(Ch'io le vidi, al venir qui, tutte insieme

Porsi in assetto, per andare a caccia)

E so che v'udiranno e forse, tosto

Che mi vedran, mi parleran del canto;

Et io mi piglierò da questo il tempo

Di poter ragionar de la partenza;

E s'esse pur non ne parlasser, io

Tempo mi prenderò di ragionarne,

E così appresso loro avrò più fede,

E più agevol mi fia finire il tutto.

SATIRO

Or vanne, Egle mia dolce, e faccia Bacco

Che riesca a buon fin questo disegno.

Noi nel bosco entrerem, per chiamar fuori

Gli altri compagni e dar principio al canto.

SCENA III

EGLE sola

EGLE

Aviene di costor quello ch'aviene

Del mio Silen, quando a le volte beve

Tanto che se gli offusca il san discorso:

Che mentre che narrar mi vuol le cose

Soblimi, che narrar spesso mi suole

Quando chiaro ha de la ragione il lume,

Il vin bevuto oltra misura in modo

Il trae di sé, che cosa gli fa dire

Che parte ha in sé ragion, parte n'è senza.

Così costor, naturalmente rozzi,

Poi c'han sentito l'amoroso ardore,

Si son svegliati in parte e parte sono

Rimasi ne la lor prima grossezza;

E per ciò nel consiglio lor si vede

Qualche cosa di buon con molto reo.

Pensato han ben, per ingannar le ninfe,

Condurle al ballo, che ciò è la via vera

Di trovar modo a gli amorosi effetti.

Ma il modo di condurgliele è sì sciocco,

Che s'avedrebbe de lo 'nganno un bue:

Però bisognerà ch'altra via i' tenti,

Se vorrò che riesca questo inganno.

SCENA IIII

SATIRO, CORO, FAUNO

SATIRO

Che state a far? Venite fuori omai.

CORO

Tu ci hai tutti adunati e non ci hai detto

Per che cagion tu n'hai condotti insieme.

Che ci hai da dire?

SATIRO

Una bramata cosa.

CORO

Non bramiamo altra cosa che potere

Godersi de le ninfe che no' amiamo.

SATIRO

E d'altro non vi ho da ragionare

E dimostrarvi il modo onde potremo

Tutti a un tratto dar fine a i nostri affanni.

CORO

Ah ah, ah ah, o Bacco, o Bacco, ah ah,

O Bacco, oè, o Bacco, oè, oè,

Se ciò ver è, quai fian di noi più lieti?

SATIRO

Siam risoluti ch'i celesti Dei

La ci vogliono fare ad ogni modo;

E pel consiglio del canuto Fauno

Determinato abbiam di farla a loro.

CORO

E così far si deve. O Bacco, oè,

Fa' che la cosa ne soccieda e noi,

Cinti d'edera verde e [di] corimbi,

Ti farèn sacrifizio oggi d'un capro,

Versando lui ne le rugose corna,

Per l'oltraggio che già fece a la vite,

Un napo pien di delicato vino.

Ma narra il modo che tenir debbiamo.

FAUNO

Il modo intenderete più a bell'agio;

Or fa mestieri che cantiamo insieme

Canzone che contenga i dolor nostri

E l'amor che portiamo a queste ninfe,

Fingendo voler quindi ire in Ispagna

(Viaggio duro e di fatica molta)

Per fuggir la cagion del nostro male

E non dar noia a lor ch'amiamo tanto.

SATIRO

Comincia tu, che seguiremo tutti.

FAUNO

Poniànci insieme a l'ombra di quel faggio

E diam principio al lagrimevol canto.

CORO

Non arse mai tanto stoppia per fiamma,

Ch'abbia bifolco in lei talor accesa,

Quant'ora a dramma a dramma

Noi arde quella accesa

Face d'amor per quelle belle Dee,

Che ne sono sì ree

Che fuggon noi, qual fugge il cane damma.

Deveva pur lo smisurato amore

E la nostra sincera e pura fede,

Per la qual chiaro il core

E 'l nostro amor si vede,

Scacciar così da lor la crudeltade,

Che, vinte da pietade,

Porgesser refrigerio al nostro ardore.

Non è già in questi boschi o ramo o foglia,

Né fiera sì selvaggia o sì soperba,

Né 'n questo pian germoglia.

Alcuna sorte d'erba,

Né questi arbori fiede sì fier vento,

Che del nostro tormento

Pietà non abbia e de la nostra doglia.

E queste nostre Dee, che ne l'aspetto

Si mostran tutte amore e cortesia,

Si prendono a diletto

La nostra pena ria;

E quant'è acerba più, quant'è più dura

La nostra aspra ventura,

Tanto di crudeltà s'arman più il petto.

Però, poi ch'esse son più d'ogni fiera

Crude e sdegnano a tòrto il servir nostro,

Né amor, né fede intiera

L'ha insino ad ora mostro

Qual mercede si deve a servi fidi,

Andremo ad altri lidi,

Prima ch'ogniun di noi, amando, pèra.

Non odran più in Arcadia i nostri accenti

Tristi e 'nfelici Menalo e Liceo,

Né i chiar rivi e lucenti

Pel nostro pianto reo

Saran turbati più per queste selve,

Né le selvaggie belve

Qui piangeranno i nostri aspri tormenti.

Ma odrà l'Istro in Ispagna, odrà l'Ibero

(Che vogliam verso là volger i passi,

Benché 'l camin sia austero)

Quanto siamo noi lassi;

E speriàn ch'ivi ogni solingo luoco

(Udito il nostro fuoco)

Mostrerà segno di pietate vero.

Ma voi, quercie, pin, faggi che qui sete

E de le nostre ninfe il nome in voi

Da noi scolpito avete,

Dopo che quindi noi

Sarem partiti, almen mostrate aperto

Che si devea altro merto

A l'amor, di cui voi testimon sete.

Perché, s'avien ch'alcuna mai vi miri,

De la sua crudeltà seco sospiri.

ATTO TERZO

SCENA I

OREADI, DRIADI, NAPEE, EGLE, NAIADI

OREADI

Già apparecchiata s'è di gire al bosco

Diana per cacciar con l'altre ninfe:

Andiamo ancora noi a ritrovarla.

DRIADI

Andiàn.

NAPEE

Andiamo a l'onoranda nostra

Dea, figlia di Latona e del gran Giove,

Onor de le campagne e chiaro pregio

Di vera castitade e lume chiaro

Del ciel, quando il sol toglie a noi la luce.

DRIADI

Andiamo a la triforme nostra Dea,

Non men chiara nel ciel, ch'ella sia in terra

O nel regno di Dite.

OREADI

Onora Pale

Ogni pastore, e Cerere i bifolchi,

E chi vendemia Bacco, e Pluto quelli

Che cercan le ricchezze; e noi che solo

Apprezziàn castità quanto la vita

Devemo amar con tutto 'l cor Diana.

DRIADI

E come face sacrifizio a Marte

Chi segue la battaglia, et a Nettunno

Chiunque il tempestoso Oceano varca,

Così a Diana noi devèn dar voti.

NAPEE

Dunque, Dea de le selve e Dea de' boschi,

In segno de la pura onestà nostra,

Ti spargiàn questi fiori a l'aure estive,

Testé da noi con vergini man colti

Ne' più fioriti e ruggiadosi prati,

Ove mai non condusse pastor greggia,

Ove non entrò mai villan con falce.

Accoglili, o Dea santa, e le tue chiome

Crespe e lucenti cingi con tua mano

Di questa che t'offriàn grata corona;

E serva in noi di pudicizia il fiore

Che dicato t'abbiàn fin da' primi anni.

Ma chi è costei che par che di noi rida?

È l'Egle di Sileno: oh come ha rossa

La faccia, oh come spira tutta fuoco!

So che si vede ch'ella serve a Bacco.

EGLE

Gelata non son già, come voi sete,

Né pallida mi face il ber de l'acque,

Come fa voi; uscita pure i' sono

Una volta de' fonti; semplicette,

Se sapeste che cosa è 'l bever vino,

I fiumi e i fonti vi verriano a noia

E non mi beffereste come fate,

Ma vedreste che 'l vin la prima parte

È de la vita umana e senza lui

Nulla di lieto al mondo esser mai puote.

NAIADI

Ubriaca che sei, credi di darci

A veder che l'error in che tu sei

Incorsa sia virtute? È un velen dolce

Il vino e fa, come serpente ascoso,

Che quando il pensi men ti dà di morso;

Et a la pudicizia è sì contrario,

Ch'esser casto non può chi sen dà a bere.

Però ben fero i buon Romani antichi,

Che non vollero mai che le lor donne

Usasser di ber vino: ohimè, non nacque

Questo letal umor de l'empio sangue

Di que' Giganti ch'avean mosso guerra

Al ciel per cacciar Giove? I' ti vo' dire

Quel ch'udi' già del vin dire a Diana,

Mentre di ciò parole avea con Bacco.

Ella dicea che 'l vino è proprio il padre

Di tutti i vizii e la radice certa

D'ogni gran mal, l'origin de' peccati,

La destruzion de l'onestà palese,

La tristezza del corpo e la ruina

De' sensi e de la mente e la vergogna

E certissima infamia de la vita.

Or pensa se venir ci può disio,

Qualora abbiàn tal cose inanzi a gli occhi,

Di darci a ber sì abominevol succo.

EGLE

Io ti dico, in contrario di quel c'hai

Contra me detto, che non è dolcezza

Perfetta in terra, né piacer perfetto,

Tolto che 'l vino sia fuori del mondo.

Egli dà forza al corpo e fa la mente

Vigile e desta e con lei desta i sensi;

Prudenzia aggiunge a' savi e dà valore

A' coraggiosi et è vero maestro

D'ogni vertù, d'ogni scienzia buona,

Serva la gioventù, leva gli affanni,

Accresce la bellezza e, per dir breve,

È la felicitade de' mortali

E l'ambrosia et il nettare de' Dei.

E s'i Romani già a le donne loro

Il vietar, come narri, fu perch'essi

Sapean che forza e che valore accresca

Il bever vino e però temean molto

Ch'essi, ch'avean di tutto il mondo impero,

Da le lor donne non restasser vinti,

Con lor disnor, ne gli amorosi assalti.

Se ne le mani a me mai da' un buon greco

Od un corso od un gorro o una vernaccia,

E ch'io ne beva a voglia mia, mi sento

Così desta al piacer, desta a la gioia,

Ch'alora opra farei per dieci donne.

A quello che tu di', che 'l vino atterra

L'altrui verginità, i' ti rispondo

Che non si dee verginità apprezzare.

NAIADI

Or va', malvagia, va'.

OREADI

Vanne, impudica,

Va', nemica d'onore; ohimè, che voce

Di questa bocca scelerata è uscita!

Va', va' al tuo Bacco, e noi lascia a Diana.

EGLE

O poverelle che voi sete, sciocche

Vi rimarrete et io sarò la saggia!

E credetelo a me, che già ho provato

Che differenzia sia tra l'uno e l'altro

Modo di vita.

NAPEE

La lascivia tua

Ti fa parer vertù quello ch'è vizio,

Ma a noi, di pura mente e di pur core,

Pare altrimenti, et assai meglio parci,

E tutte abbiàn disposto di servare

La verginità nostra insino al fine,

E certe siam ch'ogni tesoro avanza

Questa verginità che custodimo.

EGLE

Et io vi dico ch'è di nissun pregio

Questa verginità che sì lodate

E, s'ogniun la servasse, andrebbe il mondo

In nulla tutto: proveder bisogna

A l'immortalitade umana, né altro

Rimedio v'è che non conservar questa

Sciocca verginità che sì vi è a grado.

E qualor noi ci congiungemo a' maschi,

Cerchiàn per soccession farci immortali

E al mondo mantenir la spezie umana;

E se del parer vostro fusser state

Le madri nostre, ove saremo noi?

Il mondo, in quanto a sé, tutto distrugge

Chi di servar verginità si pensa,

E micidiale è una vergine donna

Di tutti quei ch'ella produr potrebbe:

Onde ne deve esser dannata a morte,

Com'uccisi ella avesse color tutti

Ch'avria pottuti generare in terra.

OREADI

Sono proprio da te queste parole,

Che chi avezzo è di star sempre nel fango

Fugge la purità de l'acqua chiara;

Però sta' tu col tuo parer con Bacco,

Noi con Diana rimarèn col nostro.

EGLE

E che credete voi che se ne stia

Diana così casta, che non voglia

Il diletto provar di questa vita?

Semplici, non vedete quante e quante

Mutazion vi face ne le mani?

E quante volte ella da voi si toglie?

Perché credete voi che la veggiate

Ora nel cielo et ora ne lo 'nferno,

Ora tra voi per questi boschi et ora

Vi si nasconda tutta? Endimione

La si tien ne le braccia e con lei giace,

Si trastulla con lei e voi vi state,

Senza piacere alcun, sempre digiune.

NAPEE

Noi già digiune di piacer non siamo,

Anzi 'l maggior piacer proviàn del mondo,

Servando il fior de l'onestade intatto;

Né creder ti vogliàn ciò che n'hai detto

De la nostra Diana.

EGLE

Di Diana

Credete voi ciò che vi piace: detto

Non vi ho cosa di lei che non sia vera;

Ma che serbar vogliate intatto il fiore

Che pose in voi per far frutto natura,

Dico che commettete un error grave.

Non so se m'intendete.

DRIADI

Or va' tra' Fauni,

A la tua vita compagnia conforme,

E lascia andar noi a Diana al bosco.

EGLE

Ben fora il meglio che veniste a' Fauni,

A' Satiri, a' Silvan, poi che di loro

Parlato avete, e abbandonar Diana,

Com'ho fatt'io, e prender vi sapeste

L'occasione che vi s'offre innanzi.

Essi Dei son qual voi, qual voi prodotti

Da la natura ad abitar le selve,

E v'amano via più che gli occhi loro,

E potrian trar dal vostro fiore il frutto,

Del qual voi sete debitrici al mondo.

DRIADI

Che noi amiam quelle bestiaccie sozze,

De' quai cosa non ha il mondo più brutta?

EGLE

In lor parte non è da capo a piedi

Che non sen possa aver dal ciel l'essempio.

Hanno le corna, e le corna have Bacco,

E nondimen non lo sprezzò Ariadna;

Focosa hanno la faccia, e la faccia have

Febo di fuoco, e pur Climene l'ama;

E se sono terribili nel viso,

Terribile è Nettunno, e nondimeno

Tetide l'ama più che sì medesma;

S'han rigida la barba, l'have tale

Ercole, e mai Deianira sua

Non si sdegnò darli amorosi basci;

S'hanno il corpo irto, et irto ha 'l corpo Marte,

Né Ilia il fuggì giamai perché foss'irto;

Se vi spiaccion perc'hanno i piè caprigni,

E chi è più sozzo d'uno tòrto e zoppo

E tutto nero e affumicato? E 'n cielo

Venere ama Vulcan, quantunque tale,

Et ella la Dea sia d'ogni bellezza.

Però gran torto avete a non far stima

Di questi Dei che voi chiamate sozzi.

NAPEE

Poi che tu vuoi da' Dei l'essempio tòrre,

Di quanto hanno di sozzo in sé costoro,

Se volessimo amar, non fora il meglio

Lasciar costoro e amare i Dei del cielo,

Che si mostran di noi così bramosi?

EGLE

Udito ho sempre dir che quello amore

Che tra dissimil nasce è amore infido;

E che disuguaglianza sia tra voi

E i Dei del ciel, l'ha la natura mostro,

Avendovi un da l'altro con distanzia

Tanta disgiunti. Appresso, se vorrete

Discorrere e veder che fine avuto

Abbin le donne di che goduto hanno

I Dei del ciel, veder potrete chiaro

Che non è il lor amor se non di danno.

Io vi sia essempio e Semele e Calisto

E la misera Clizia e la dolente

Madre di Febo e di Diana vostra,

La qual, prima che lor portasse a Delo,

Tante fatiche e tant'aspre sostenne,

Che vi puon distornar d'amar costoro.

Ma se vi date a amare i Dei silvestri,

Che Dei sono qual voi, qual voi prodotti

Da la natura ad abitar le selve,

Et hanno voi per le più dolci cose

Che potesser gustar tra questi boschi,

Potrete ben sperar, non temer male.

OREADI

Or non ci dar più noia: esser può prima

Ogni impossibil cosa, che nissuna

Di noi por possa amore a questi mostri.

EGLE

I' vi so dir che non andrete molto

Che noia più non vi daran pe' boschi;

Né questo detto v'ho, perch'essi imposto

M'avesser ch'io lo vi dovessi dire,

Ma sol perch'amo voi, perch'amo loro,

E per farvi vedere il vostro bene.

Essi, per non noiarvi e per fuggire

La cagione ch'a morte li conduce,

Hanno deliberato irvi lontani,

E prima che si fossero partiti

Volentieri v'avrian chiesto commiato,

S'avuto non avessero temenza

Di non destare in voi sdegno maggiore;

E se trovato avessi in voi pietade,

Come trovare a gran ragion devea,

Cercato avrei di rivocarli indietro,

Per non veder restar senza i suoi Dei

Le selve già felici de l'Arcadia.

DRIADI

Vadano pur, che non ne cal di loro,

Come se non gli avessimo unqua visti.

EGLE

I miseri n'andranno e sono in via

E vi van sì lontani che più mai

Bisogno non vi fia d'averne tema;

Ma prima che si sian di qui partiti,

Han fatto fede al ciel de le lor pene

E testimon lasciati han questi faggi

Del lor amor, de la durezza vostra.

NAPEE

Ben sentiti gli abbiamo e n'è piaciuto

Che seccaggine tal da noi si levi.

Ma sento abbaiar cani e sonar corni:

Però tempo è che ce n'andiamo al bosco.

EGLE

Ahi crude più d'ogni selvaggia fiera,

Più d'ogni selce dure e d'ogni scoglio

Pieghevol meno! Ancor potrebbe il cielo

(Qual de l'asprezza già di Anassarete)

Vendetta far di crudeltà sì strana.

Rimasi sono i lor picciol fanciulli

Senza governo alcun per queste selve

(Cosa ch'a pietà indur devrebbe i sassi):

Che voluto non gli han condur con loro

I dolorosi e miseri lor padri,

Per l'asprezza del lungo aspro viaggio

(Che quindi se ne van fino in Ispagna)

E perché, poscia che voi lor sdegnate,

Essi sdegnano ciò che non è voi.

NAIADI

A questi Satirini e picciol Fauni

Non mancherem d'esser cortesi sempre,

E 'n tutto quel che chiederan da noi

Saranno pienamente compiaciuti,

Perché noi gli còrrem per propri figli;

E quindi tu potrai veder che noi

(Levatone il sospetto de l'onore)

Non siam (come detto hai) crude e spietate,

Ma di gran cortesia, di pietà piene.

EGLE

Fate cosa lodevole e 'n lor vece

Di tal bontade i' vi ringrazio molto;

E so che scemeran la doglia loro,

Quando gli narrerò nuova sì buona.

NAPEE

Or con Dio rimanti, Egle.

EGLE

Andate in pace.

OREADI

Uno fermo proposito che 'n donna

Sia di servarsi casta, al fine vince

E tòr fa da l'impresa incominciata

Chi la sollecitava al suo disnore.

SCENA II

EGLE sola

EGLE

Non è d'apparecchiare a alcuno insidie

Se non quand'ei si pensa esser sicuro.

E che sia ver, non potero in dieci anni

Con ogni ingegno lor, con ogni forza

Vincere i Greci Troia, e 'n quella notte

Che finsero la pace et il partirsi,

L'arsero tutta e la gettaro a terra.

Così ora che si pensano sicure

Esser le ninfe, perché sian lontani

Iti da loro i Dei silvestri, tutte

Da lor fian vinte a una battaglia sola,

E 'n questa sera avran compiutamente

Quel che non hanno avuto in anni molti.

Ma veggio uscire un Satir de la selva

E ragionar da sé tutto pensoso:

Attender voglio qui ciò ch'egli dice.

SCENA III

SATIRO, EGLE, FAUNO

SATIRO

O che sia il troppo desiderio mio

D'aver la cosa amata, o pur ch'Amore

L'amaro sempre dia prima che 'l dolce,

Temendo che lo 'nganno apparecchiato

Non ne soccieda, per la gran paura

Gelar mi sento per le vene il sangue;

E quanto più d'assicurarmi i' cerco

E cerco di far van questo timore,

Mi vengon tuttavia segni maggiori

Che l'accrescono più, che 'l fan più fermo.

EGLE

Che non può fare Amor con la sua fiamma,

Poi che dice costui cose sì gravi?

SATIRO

Al venir fuor de la spelonca usata,

Veduto ho sovra un pin due tortorelle

Che dolce mormorio faceano insieme;

Et ecco, in un istante, uno grifagno

Falcon scese dal ciel ch'ambo l'uccise.

Poco da poi m'occorse un rosignuolo

Che l'antico suo mal mesto piangea

E con dolente e lagrimevol voce

Sempre seguito m'ha per tutto il bosco,

Come d'alcun mio mal presago fosse.

Et ancor ne l'orecchie mi risuona

La voce lamentevole d'un corvo

Che da una quercia ombrosa a lo 'mproviso

Mi fece tristo augurio ne la selva.

EGLE

Che pazzia è questa, che gli augelli il mondo

Tema, se la natia lor voce fanno?

SATIRO

Poco dopo mi venne incontro un toro,

Squallido, magro, con dolente aspetto,

Che con mugiti miseri a pietade

Destava gli annosi olmi e i duri faggi;

Et a pena quel toro ebbi passato,

Ch'io vidi steso su la minut'erba

Un capro, per amor così distrutto

Che forata l'avean l'ossa la pelle:

Sì che, giungendo tutti questi segni

In un, non trovo onde sperar mi debba.

Poi, se quindi rivolgo il pensier mio

A l'astuto veder de la nostra Egle.

EGLE

Lodato Bacco, ch'anch'io merto lode

E son di qualche pregio in queste selve.

SATIRO

E a la simplicità di queste ninfe,

In così gran timore ho qualche speme;

E spero ch'oggi il Signor nostro Bacco,

E Vener, sempre a lui fida compagna,

Non verran meno a noi che per li boschi

Onoriamo ambo lor con tutto il core.

EGLE

Non voglio più tardar: di che ti dogli?

Qual passion t'affligge sì aspramente

Or che siam per accòr le augelle al visco?

SATIRO

Mi tengono tra due speme e timore,

E se vince un di due, vince la tema,

Tal ch'io non sento in ramo mover foglia

Che timor non m'aggiunga, com'io fossi

Una lepre o un coniglio; sola puoi

Tu assicurar ogni temenza mia,

Se buona nuova da le ninfe porti.

FAUNO

Venuto son anch io, poi che v'ho visti

Parlare insieme, per saper se buona

Nova hai da queste nostre aspre nemiche.

EGLE

La nova è, frate mio, che dopo ch'io

Non le potei dispor ad amar voi

(Che ciò prima tentai d'ogni altra cosa),

Creder lor feci che voi, dal dolore

Vinti, ne volevate andar lontani.

Creduto l'hanno e se ne son rimase

E contente e sicure. A me non parve

Di farle invito allora, perché strano

Mi parve, a dirti il ver, che voi non foste

Ancor partiti, e i Satirini vostri

Pensasser di far festa.

SATIRO

Ben pensasti,

Che gli poteva ciò dar chiaro indizio

Di qualche inganno.

EGLE

Adunque ov'io deveva

Lo 'nvito farle, i' cercai di disporle

Ch'avessero pietà de' picciol vostri

Satiri e Fauni.

SATIRO

Et a qual fine questo?

EGLE

Il saperai, s'ascolti. Esse, credendo

Che voi ne foste giti, ad una voce

Dissero di voler per figli accòrgli.

SATIRO

Non veggio ancor che ciò nulla ne giovi

O ne dia speme alcuna.

EGLE

Se sei cieco,

Che vuoi ch'io te ne faccia?

SATIRO

Aprimi gli occhi

Tanto ch'io veggia quel che 'nsino ad ora

Veder non ho saputo.

EGLE

Ite a la caccia

Si sono insieme, et io nel ritornare

Che faranno dal bosco, i' voglio offrirle

I fanciul vostri e, fatta lor l'offerta,

Pregar le vo' che gli accolgan per figli,

Come t'ho detto che promesso m'hanno.

FAUNO

Non so veder che quindi avenir altro

Possa, se non che noi da queste ninfe

Cacciati siamo, e 'n vece nostra i figli,

Ch'a ciò non pensan, sian da loro accolti.

SATIRO

Veggio, misero me, che saran veri

Gli augurii di che dianzi i' dicea meco.

EGLE

Lasciami, se tu vuoi, giungere al fine,

Né ti doler pria che cagion tu n'abbi.

E dopo ch'esse gli averanno accolti,

Io li voglio lasciar ne le lor mani

E dirle che, trovandosi con loro,

Men grave gli sarà mancar de' padri.

SATIRO

Incomincio a veder ciò che vuoi fare,

E così sono d'allegrezza pieno

Ch'io non posso capire in me medesmo.

Ah ah, ah ah, ah ah, dolce Egle mia,

Esser pens'oggi sol per te felice.

EGLE

Esse, che più non temeranno insidie,

Se gli accòrranno e ne verran con loro

(Ch'io senza dubio ciò farò avenire)

Fuori di casa, senza alcun sospetto,

Lasciati i dardi, gli archi e le faretre.

Io, ciò avenuto, tenterò di fare

Ch'entrino in danza co' fanciulli vostri,

E certa i' son che si porranno in ballo:

Allora voi, secondo l'ordin dato,

Cercherete goder de l'amor vostro.

Or parti che condotto abbia il mio ingegno

Ogni cosa a buon fine?

FAUNO

Egle mia dolce,

Tu ci hai data la preda ne le mani.

Or veggio ben che spesso spesso aviene

Ch'uomo che imponga una ambasciata pensa

Bene secondo sé la cosa e, poi

Che vien l'imbasciatore in fatto, è d'uopo

Ch'usi lo 'ngegno e un altro modo tenga.

Se tu facevi come avevam detto,

Se n'andava ogni cosa a la malora.

EGLE

Saper bisogna usare il luoco e 'l tempo

A chi una cosa vuoi condure al fine.

FAUNO

Ma entriam nel bosco a dar la nova a gli altri.

EGLE

Entriam, ma vi bisogna stare ascosi,

Sì che non diate lor di ciò sospetto.

CORO

Come avaro bifolco, poi che 'n terra

Il gran con piena mano

Ha sparso, lieto aspetta

Che 'l verno fugga che le fronde atterra

E si rivesta il piano

Di varii fiori e di minut'erbetta

E prega che sia vano

Tutto il furor ch'irato il ciel disserra

E che gli sian così le stelle amiche,

Che 'l frutto accolga de le sue fatiche;

Così bramiamo noi, dopo le molte

Pene e dopo il lamento,

Aver giusta mercede

Da queste ninfe, al mal nostro sì volte

Che ci dan più tormento,

Quanto più ogniun di noi pietà lor chiede,

Con doloroso accento.

Però preghiamo ch'oggi a sera accolte

Le veggiàn tutte in questa selva insieme,

Sì che 'l frutto accogliàn del nostro seme.

Pero Vener, s'Amor giamai t'accese

Pel bello Adoni il core,

Tra amiche selve ombrose,

Non ti sia grave d'esserne cortese

Del tuo santo favore;

Così corone di vermiglie rose

E di soave odore

A' tuoi altar con grata man sospese

Siano da' lieti e fortunati amanti,

Né turbin le tue gioie affanni o pianti.

E se mai sempre la tua forza dome

Ogni mente rubella,

Almo Signor Cupido,

E voli altiero il tuo divino nome,

In questa parte e 'n quella,

Con glorioso et onorato grido,

Leva le gravi some

Del fier dolor che 'l cor sì ne puntella

Che bramiamo, se noi d'aiutar schivi,

Per più non ci doler, non esser vivi.

Né grave ciò ti fia, che se le tigri

Sentono la tua fiamma

Non men che damme o lepri,

E s'i fieri leoni e i pardi impigri

L'alta tua face infiamma,

Et aspi e crudi tiri entro a le vepri,

Se per te, a dramma a dramma,

Ardon gli augei veloci, ardono i pigri,

Esser non puote che di noi accese

Non siano queste ninfe e da noi prese.

Adunque a questa impresa

Sii, Signor, sì benigno,

Che da caso maligno

Non ne sia la mercé nostra contesa:

Che se non vanno i nostri preghi vuoti,

Ti darem sempre e sacrifizii e voti.

ATTO QUARTO

SCENA I

PANE solo

PANE

Che giova a me l'esser d'Arcadia Dio,

E l'aver sotto me tutti i pastori,

E che mi pascan mille greggie i prati,

Poi ch'io non ho me stesso, e quella cruda

Che tratto m'ha di me col dolce sguardo

Sen va soperba de gli affanni miei,

Come leonessa che persegua il lupo,

Né mi val prego o lamentar ch'io faccia?

Non sono già sì senza amor le selve,

Che non devesse anco costei sentire

Con che fuoco arda Amor, con che stral fera.

Né pur le cose c'hanno senso sono

Arse d'amor, ma le insensibili anco;

Si vede pur la palma amar la palma

E l'un platano l'altro e l'alno l'alno:

E costei che donn'è, ch'atta è ad amare,

Non deve mai sentir fiamma d'amore?

Ma che credi tu, Pan, ch'ella non ami

Qualche vile caprar, se ben te sdegna?

Deh non sai tu che de le donne è proprio

Fuggire il meglio et appigliarsi al peggio?

Ahi, se ventura tal oggi ha un capraro,

Capraro esser vorrei, non esser Dio.

Ma che pens'io de la Siringa mia?

So pur che perderebbe ella la vita,

Più tosto che macchiar la sua onestade,

E che, s'alcun di lei goder devesse,

Io sol sarei tra tutti gli altri eletto.

Deh non sai, Pan, com'è mutabil cosa

La donna per natura? e che da terza

Nel pensiero non è de la mattina?

Non hai veduto, Pan, per le tue greggie

Spesso un montone per l'amata agnella

Con un altro cozzar, ch'ella più amava,

E al fine al fine ella lasciare il primo

E darsi a quel ch'avea dianzi sprezzato?

Non potria far costei anco il medesmo?

E mostrarti che 'l por la speme in donna

Altro non è ch'edificar sul vento?

Ahi che fredda onestà sì 'l cor l'agghiaccia,

Che non la può scaldar fiamma d'amore;

Tal che, se me disprezza, altri non ama.

O felice Vertunno, che potesti

Mutare, per goder la tua Pomona

Che un fiore intatto era di pudicizia,

In tante forme, ch'ella a le tue voglie

Discese e del suo amor ti fece dono!

Se potessi così mutarmi anch'io,

Io non mi muterei in metitore,

Né 'n un che accòr volesse poma o 'n uno

Che portasse sembianza di bifolco,

Ma mi farei Diana, come Giove

Si fece per Calisto, e cercherei

Accòrla o sotto un'ombra o dentro a un fonte

E compir ivi il mio disio con lei.

Ma poi che ciò non posso, almen mi fosse

Lecito per fatica alcuna averla,

Come 'n premio del corso ebbe Atalanta

Ippomene, mal grato a Citerea!

Ma si vedranno senza fiere i boschi

E i fior verranno a la stagion più fredda,

Prima ch'io arrivi a sì felice giorno.

Ohimè, da poi che congiurate sono

Tutte le crude stelle ne' miei danni,

Sì che mai non morendo, io moro sempre,

Perché non vengo un insensato tronco

Esposto al procelloso mar sul lito,

Sì che spegnessi con la vita il fuoco?

O perché, come già da Cefal morta

Fu la dolente Procri, ne le selve

Non sono ucciso anch'io da la sua mano?

Sapess'io pur per qual lucco ella avente

Dardi e saette contra cervi e damme,

Ch'io mi nasconderei dentro a un cespuglio

E farei sì ch'ella m'aventerebbe,

Credendomi una fiera, in core un dardo;

Pur spererei allor ch'ella devesse

Esser verso di me tanto pietosa,

Che con qualche sospir facesse segno

Che le 'ncrescesse avermi dato morte.

Ahi miser Pan, tu vai facendo sogni

E la Siringa tua di te si ride!

Quanto fia meglio ch'a Liceo ritorni,

Ad aver cura de le pecorelle

Che senza guardia se ne vanno errando

E potriano venir preda de' lupi,

Che sparger tante voci indarno al vento!

Se ti disprezza questa cruda ninfa,

Cerca d'un'altra, che non sei sì vile

Che non possi trovare una che t'ami.

Ma che ombra è questa che da lato viemmi?

Ell'è Siringa ch'escie fuor del bosco:

Attender qui la voglio, per vedere

S'indur la posso a aver di me pietade.

SCENA II

SIRINGA, PANE

SIRINGA

Io mi meravigliava aver vist'oggi

Le selve sì quiete e sì sicure

Da le 'nsidie de' Fauni e mi pareva

Cosa nova di lor non veder orma;

E perch'io so ch'a la lascivia nati

Son tutti e soglion sempre insidie o 'nganni

Apparecchiarci, i' non potea pensare

Che ciò avenisse perché più modesti,

Fuor del solito lor, fusser venuti:

Che vizio natural, che 'n un sia impresso

E sia con lui cresciuto, non s'emenda

In un momento. Or mentr'io mi stava

Tutta dubbiosa e sovra me sospesa,

Diana, che di ciò avea maraviglia,

Ne chiese la cagione ad una ninfa;

Et ella le rispose che tentata

Avean costoro ogni possibil cosa

Per goder de le ninfe, e dopo ch'essi

Le avean trovate più ferme che scoglio

Ad ogni assalto e avean veduto espresso

Ch'era il costoro amor a lor di noia,

Avean deliberato di cercare

Altro paese e men fiera ventura,

E 'l camin preso avean verso la Spagna.

PANE

Che cosa od'io? Non ho già udito dire

Oggi di tal partenza ad alcun Fauno.

SIRINGA

Diana si mostrò di ciò assai lieta,

Come colei che ben sapea ch'un lungo

Pregare, un lungo amore, una continua

Battaglia un duro cor spesso fa molle.

E rimasi io via più lieta di tutte,

Ancor che nol mostrassi allor nel viso,

Pensandomi che fosse con costoro

Andato ancora Pan, che tanto tempo

Mi ha dato noia.

PANE

Intendi, s'hai orecchio,

A che termine sei de l'amor tuo.

O miser me, o 'nfelice!

SIRINGA

Non perch'io

Fossi mai per amarlo o per mutarmi

Del mio primo pensier fisso in diamante

PANE

Ahi miser me, dov'ho io posto speme?

Per chi mi consumo io? per chi mi struggo?

SIRINGA

Ma perché non è rocca sì munita,

Che non brami più tosto aver lontani

I suoi nemici, che d'avere assalto,

Per mostrar combattendo il suo potere.

Dunque sicure omai per queste selve

Ce ne potremo andar per ogni canto.

Ma chi è dietro a quel pino? Ahi ch'egli è Pane,

Ahi povera Siringa, a che sei giunta!

Forse ch'ei non mi ha visto; ohimè, ch'ei viene!

Che farai? Se ti dai, lassa, a fuggire,

Tu sai com'ei velocemente corre

E com'egli potrà giungerti tosto.

Mi fermerò, dopo c'ho in mano l'arco,

Che teme costui più che 'l lupo il fuoco;

E così minacciando di ferirlo,

Mal grado suo, il farò lontano starmi.

PANE

Ahi Siringa crudel, Siringa ingrata,

FINE