Elettra
Per questo, dunque, le tragedie vertono sempre attorno a poche famiglie. Infatti i poeti alla ricerca di soggetti, non già Ni obbedienza a canoni artistici ma per caso, hanno scoperto la necessità di usare nelLe loro tragedie favole del genere; e quindi sono costretti a ricorrere sempre a quelle poche famiglie, nelle quali si verificarono così drammatici avvenimenti.
Aristotele - Poetica
PERSONAGGI:
Crisotemide
Clitemnestra
Egisto
Elettra
Oreste
IMPIANTO SCENICO:
Nella zona centrale e più
prossima alla platea, una grande tavola rotonda riccamente imbandita. Sul
fondo, lungo un ideale emiciclo che fa da corona alla tavola, quattro giacigli.
Come una teoria di bianche e meno bianche lenzuola.
Da destra: il giaciglio vasto e sfatto di Clitemnestra ed Egisto; il giaciglio
ben tenuto e fanciullesco di Crisotemide; il giaciglio tormentato di Elettra;
il giaciglio intatto di Oreste bambino.
Dunque: una visione simultanea di cinque luoghi.
INGRESSO DI CRISOTEMIDE
Crisotemide si accosta alla tavola imbandita.
CRISOTEMIDE: Non può dirsi consueta quest’ora
consueta che al pasto mi
porta.
Quest’ora diuturna che odio.
Io che gli esseri umani non odio,
odio l’ora in cui l’odio
imperversa.
Ed è l’ora per tutti innocente.
Non per noi. Questa è l’ora di cena.
(Si siede. Illustra i personaggi riferendosi ai posti vuoti.)
Viene prima mia madre, Clitemnestra, sconvolta
da un lugubre sonno, incapace
di spartire la notte dal giorno, e fissandomi vuota,
roteando
le sbiancate pupille mi dice:
“Sei di carne o un fantasma?”. Poi s’avanza quel triste
compagno di lei ma, al contrario, smembrato
da irriducibili veglie. Lì di fianco
alla sposa sua ostile va a
sedersi tacendo.
Già comincia a mangiare; lui spera,
come spero pur io, che più
nulla succeda.
Quell’insulso ed inerte assassino...
Offrì, stolido, il braccio alla donna
che lo spinse ad uccidermi il
padre.
Sempre lei, quella stessa: mia madre,
che fu moglie alla vittima prima
e al carnefice dopo.
Io non so perché fu. Né ricordo l’evento.
C’è chi dice: fu giusto, e chi dice: fu ingiusto.
Certo è il fatto
che oggi restano loro.
C’è chi dice nel bene e chi dice nel male.
Mia sorella non dice ma urla: nel male
e il suo grido è la sporta che, torva,
ci rovescia puntuale sul cibo.
“Padre! Padre!
Chi mai ti fu iena, e chi segugio?
Qui stanno! Qui li vedi!
Padre, ridammi
il mio splendido fratello. Che faccia a me da spada
siccome questo drudo lo fu per la sua amante!”
Crisotemide, scossa da quello che dice come se stesse avvenendo, si alza in piedi.
Poi s’incrociano offese, ma più strepiti e gesti
di evidente follia, sinché il vino, già sparso
ripugnante per terra,
alle vesti si mischia. Se lo beve il tessuto, e le macchie
l’una all’altra si sommano e
restano.
Io, fra tanti che urlano, piango
perché so che qualcosa di orrendo
sotto queste discordie, che han forma di liti, è nascosto e riaccende
un eterno bisogno: in mia madre,
in Egisto - suo sposo - in
Elettra. E anche in me.
Non vaghezze: è una folle tensione che spinge
a un avvento concreto di
sangue.
Vero e vivo. Non vino, ma sangue.
Non vorrei ma lo sento, e nemmeno
saprei dire il perché.
INGRESSO DI CLITEMNESTRA
Clitemnestra avanza, dal suo giaciglio, verso il tavolo lasciando dietro di sé, a scia, un non bianchissimo lenzuolo. Si siede sgomenta, come fosse preda di un incubo.
CLITEMNESTRA: Uno sparviere qui dentro
stanotte s’invola.
Manda strida d’artigli
mentre in gola ha il
silenzio.
Un soldato, m’han detto,
fu trovato, alle porte, carponi
col viso sommerso nel sangue che a fiotti
dalla gola eruttava.
Lo sparviere l’ha ucciso
e ora dentro è volato.
Ci son crepe nei muri
che non aprono spazio alla luce,
non aumentano l’aria, né sperdono
questa vecchia che intasa i polmoni;
poi consentono, invece,
a ogni morbo l’ingresso.
Hanno fori e vesciche le rocce
delle nostre pareti
che rivelano un pregio mostruoso:
come un sesso dall’altro è attirato,
qui, sedotti, richiamano
i rapaci del mondo.
CRISOTEMIDE: Ma stanotte chi pensi verrebbe?...
CLITEMNESTRA:
Non so.
Ma qualcuno o qualcosa, ti dico, che sento.
Avvicinami il pane.
CRISOTEMIDE: Vuoi da sola iniziare a mangiare?
CLITEMNESTRA: Da sola iniziare?... Son dunque
la prima, con te, qui a sedermi?...
CRISOTEMIDE: Come sempre, la
prima.
CLITEMNESTRA: Oh, ricordami, figlia...
La giornata è trascorsa,
o questa è forse l’ombra
in cui la notte si estingue?
CRISOTEMIDE: Madre, è già
sera.
CLITEMNESTRA: Dunque, l’ora
da cui il buio perdura e non
la luce.
Già, difatti...
Parla chiaro la tavola imbandita: son le tinte
dei cibi per la cena qui
serviti.
Certo, è sera.
Ahimè, vedi come debbo
a viva voce e a freddo valutare
tutto quello che per gli altri
è la norma del corpo a
ricordare!
Poche ore del giorno mi son date
per spiegare il mio dormire, poi è l’angoscia
del sonno che riprende.
poche: nulla
per badare ai miei affetti e per goderne
un istante: è un barlume nell’attesa
che tutto ridisciolga e poi ritorni
a quel magma che ormai mi fa
da casa.
Mentre avviene ho lì Egisto che mi scruta.
Penosissimo Egisto!
Egli crede che il sonno sia una febbre.
Ha pazienza ad avere
una sposa ridotta a una povera cosa
dal più sciocco dei mali.
Ha pazienza e pietà. Per se stesso
pietà. Non per me.
Certi mali si pensa che è facile fingerli.
Come fargli capire che male è per me
ciò che a lui, tristo Egisto, sarebbe un sollievo?
Ed è vero, Crisotemide, è vero:
lui non sbaglia del tutto: è un gran male
che pure contiene una parte
di bene.
Sì, lo dico ridendo...
Di me stessa pietosa:
non è solo sciagura quel mio inutile stare
incapace di agire, quell’inutile avere
membra e sensi in eterno distratti
dal mondo, da quanto
comunque m’è caro.
Sul principio era solo tortura. Non più.
Non è, l’incubo, base
alla vita che vivo,
come un tronco è sostegno alla chioma e ai suoi rami?
E che forse dissipa se gli
occhi dischiudo? No, mai.
Se dormo, però, c’è alimento.
Si congiungono ad altro, mi dicono
di me cose giammai
sospettate.
E m’appagano voglie, ci credi?, anche turpi,
ma ne ho colpa se dormo? No, e dunque? Rivivo
le nozze mie prime e vi scopro
piaceri giammai disfiorati.
Violenti. Feroci.
E per questo lamenta
con latrati di cagna il marito presente:
“Quando al sole, sciagurata, vai narrando
i tuoi sogni d’amore e
l’anima ne sgravi...
Incubi, dici, sono per te - dolorosi, atroci,
possenti e veri... umiliano
me che destato da quei feroci orgasmi
poi tra le coltri ti sorveglio al buio.”
Povero Egisto, che gemendo mi spia
mentre in gemiti godo, e m’ascolta chiamare
di Agamennone il nome.
Ah, quel nome perduto, ben più vivo del suo.
Crisotemide le accosta del cibo.
CRISOTEMIDE: Forse è meglio
per te cominciare.
Una torbida bruma ti offusca lo sguardo.
CLITEMNESTRA: No, stavolta è
un pensiero.
Non torpore: è un ricordo.
Prima dissi di un nome perduto e ripenso
a un perduto figliolo: al mio
Oreste.
Non ho altri che Elettra qui dentro
con cui starne a parlare e
non posso.
La ringhiosa pantera rifiuta parole.
Comunica a graffi. Tu, piccola, invece
m’eri in grembo la notte
di quel tragico ufficio,
quando Oreste sparì.
CRISOTEMIDE: Non perduto: lontano.
CLITEMNESTRA: L’ho sognato.
E’ così.
E’ perciò che ne parlo.
Si è trattato
di quei sogni che danno struggenti
desideri di nuovi possessi.
Ahi, terribili sogni
che dispensano miele e al risveglio
fan di te solo un vuoto scafandro
su cui schianta, a macigni,
la vita.
Meglio l’incubo, allora.
Il mio usuale flagello.
Clitemnestra comincia a mangiare.
INGRESSO DI EGISTO
Egisto va alla tavola, con passi lenti. Si siede. Comincia a mangiare. Anche Crisotemide comincia a mangiare. Egisto osserva Clitemnestra che mangia e che non risponde al suo sguardo. Crisotemide tiene gli occhi bassi. Una pausa così. Infine Egisto abbandona il suo cibo. Si alza.
EGISTO: Devi dirmelo tu!
Cosa credi che possa più farsi?
Tacere?
O vietarglielo una volta per tutte?
Mi guardate stupite. Non sapete che dico?
Cara sposa, ma è ciò di cui prima
si sperava, a parole, di aver
visto la fine e che invece continua.
Ripetevi: ora ha smesso; e io insistevo di no.
E a ragione insistevo.
L’ho vista tua figlia...
Ora, fuori, l’ho vista:
dentro un cerchio di rami, in un brano
di terra spazzato di tutto e ridotto
solo a un liscio papiro di
sabbia.
Vi pestava coi piedi, sembrava
danzasse. Era il fioco
velame del vespro a stagliarne
l’ossessa figura. Una lingua
di nerissima fiamma. Ma Elettra
non danzava, ben altro
faceva.
Clitemnestra, m’hai inteso?
Al suo solito, lei, non avendo
al momento né stoffe né tinte - spargendo
la rena d’attorno e tracciando
convulsi cespugli di linee, tentava
di ritrarre suo padre.
Così, come pazza, per terra.
Sulla crosta del mondo incidendo
le più astratte follie, ma ben so
a che mira e che intende
palesarci la sua
strafottenza.
CLITEMNESTRA: E’ un suo gioco. Caparbio, ma è un gioco.
Disegnare le piace.
Se sta il limite, in questo, di tutto il suo agire
io mi dico contenta.
EGISTO: Per me è un gioco allarmante.
CLITEMNESTRA: Quanto Elettra è, in se stessa,
allarmante comunque.
Egisto torna a sedersi. Riprende a mangiare. Anche Clitemnestra mangia. Crisotemide non aveva smesso di farlo, ma sicuramente per non partecipare al dialogo.
INGRESSO DI ELETTRA
Elettra procede verso la
tavola. Nessuno si azzarda a sollevare lo sguardo su di lei. Ha mani e piedi
sporchi di terra. Si siede. Sta immobile a osservare Crisotemide, Clitemnestra
ed Egisto che mangiano.
Infine:
ELETTRA: Che mescolanza
di brutali pensieri,
più laceranti di rovi
intrecciati, a vedervi!
Chi
può sperare che il suo cuore non sia
tana a oscuri fermenti,
o di ignote presenze?
In me, nel riavervi
ogni sera di fronte,
questi popoli chiusi
nel segreto del petto
hanno guizzi di fiamma
ed impennano ardenti,
come cespi di nervi
percossi da fruste.
E tace. Con le dita arrossate di terra si mette a tracciare segni convulsi sulla tovaglia dinnanzi a sé.
CLITEMNESTRA: Non t’annoia,
figlia mia, ricalcare
anche oggi lo stesso disegno
che ripeti ogni sera e che ormai
ci ha imbrattato l’intera tovaglia?
ELETTRA: Come sbagli!
Non ripeto, ma tento
di arrivare a un’immagine sola, compiuta,
e che ancora mi sfugge.
EGISTO: Se pensassi, piuttosto, a mangiare...
ELETTRA: E tu sai di chi, Egisto,
sarà mai quest’immagine?
CLITEMNESTRA: Hai da bere?
Cosa vuoi che ti dia?
ELETTRA: Sì, lo sai.
Tutti voi lo sapete.
Lo sapete, e mangiate.
Ché mangiare è uno squallido impegno,
si può farlo anche senza volerlo,
simulando una vita normale...
Non foss’altro, qui a cena.
Ma dormire è diverso.
Vero, Egisto?
E dormire non puoi.
Dal tuo cranio non scosti
di Agamennone il pugno,
lì calato a perenne
potestà su di te.
Ti consuma chi hai ucciso.
CLITEMNESTRA: Ci consumi tu sola. Per me
non ha senso restare.
Bercia all’aria i tuoi sfoghi.
Non c’è niente per noi di più tetro.
Crisotemide, aiutami...
ELETTRA: Crisotemide, ferma!
Cara madre, che c’è?
Dunque, hai fretta
di tornare al lenzuolo dove pascola, smorto,
il tuo corpo distrutto tre quarti del giorno?
CRISOTEMIDE: Dammi il piatto,
ti prego.
Se vuoi, lo riempio.
Elettra le lancia contro il piatto che si infrange in terra.
ELETTRA: Ecco il piatto,
sorella! Lodoletta servile!
Lo volevi? L’hai avuto.
Nulla al mondo può aizzare
la mia collera quanto
questo tuo pigolìo.
Sii mansueta con altri
ma diversa con me!
E versa del vino nerissimo sul tavolo.
ELETTRA: Scuri aveva, corvini!,
come questo liquore i
capelli.
Ecco intanto rifatta
la sua chioma furente.
E’ qualcosa! L’inizio! Badate...
evocarlo saprò
prima o poi quel suo volto che fluttua e non fermo
tra gli occhi e la mano.
Evocarlo saprò per imporvelo: a tutti.
E’ l’impresa che tento: rianimarlo così.
Tanta forza vi viene
da quest’arte in cui siete maestri:
d’oscurare il passato e deprimere i segni
di chi, se presente anche solo in effigie,
ridarebbe principio nei cuori a una voglia
d’assoluta giustizia, a una voglia
che adesso è languente. E di questo
basso stagno ove sfoca ogni guizzo
un oceano farebbe attizzato
in tempesta.
Sì: l’immagine almeno
di chi fu vero Re: del padrone, di quello
a cui esser soggetti era
causa di vanto.
E graffiando le pietre, solcando
con le dita la sabbia mi provo
a ridarne una chiara visione.
Una formula è quasi quel volto
che saprò dall’ospizio
delle grandi memorie evocare e mostrarlo
alla gente che, ignara, ne ha
fame.
Sarà zolfo per voi, maledetti!
Contro voi sarà zolfo e scintilla.
Sarà cielo
quel volto dipinto!
Sarà un cielo tonante di rombi
sollevato sui tetti del mondo.
Darà pioggia benefica ai giusti
ma veleno per gli altri, ed io spero
non brevi agonie.
Tace.
EGISTO: S’era questa
l’usuale preghiera serale
che è costume per te recitare
in omaggio del cibo che scosti...
il tuo compito è assolto. Ora mangia,
o digiuna se vuoi, ma
tacendo.
ELETTRA: C’è un perché della
voce e un perché del silenzio.
E’ ovvio, Egisto, che tu
prediliga il silenzio.
Come tutto conferma l’idea che il sostegno
su cui poggi il tuo scranno è un principio
che ha un suo nome preciso: censura!
EGISTO: La tua voce è un
ronzio, non è voce.
ELETTRA: Censura! Tramonto
del vero; irrealtà!
Messinscena! Menzogna!
EGISTO: Ho fame ed ho sonno.
Te l’ordino: zitta!
ELETTRA: Terrore che tutto si sappia: d’un tratto
che tutto riemerga.
CLITEMNESTRA: Pur io te lo chiedo:
pietà... Questa sera, pietà!
ELETTRA: Terrore! Terrore!
EGISTO: Hai i tuoi fogli, hai le pietre
sanguigne: disegna.
Continua i tuoi giochi, ma taci.
ELETTRA: Dimmi: “E’ vero, qui è il nodo.”
e ti giuro che taccio.
EGISTO: Vero cosa?
ELETTRA: La cosa
più vera qui dentro.
EGISTO: Io non bevo
alle fonti malsane.
ELETTRA: La mia bocca è
malsana?
EGISTO: La tua bocca non dice, confonde.
ELETTRA: Di’: “E’ il terrore.” Mi basta.
EGISTO: Sei una sfinge ridicola, Elettra.
CLITEMNESTRA: Ma sì, Egisto... Tu dille di sì.
EGISTO: (ad Elettra)
Se tu sai
che non è il mio pensiero, e lo sai,
quale senso avrà mai
il sentirmelo dire?
ELETTRA: Questo il senso:
sentirtelo dire.
EGISTO: E va bene.
Per indurti alla quiete e finire
il mio pasto lo dico.
ELETTRA:
T’ascolto.
EGISTO: E’ il terro... No,
non voglio!
Poi non so perché debba.
ELETTRA: Finisci.
EGISTO: Non voglio. E ora
basta, sta’ zitta!
ELETTRA: Concludi comunque.
L’accetto, sia pure
per sola finzione, ma dillo.
EGISTO: Son cose impudiche, le spacci
per giochi. Sa il cielo
a che tendono giochi
siffatti.
ELETTRA: Sai benissimo a cosa: a quel vero
che nemmeno per finta
t’azzardi a sfiorare.
E tu, madre?
Perché abbassi lo sguardo?
A noi due! Tocca a te.
ELETTRA: Se ne hai voglia,
procedi.
Più che mai questa sera avrai facile resa.
Quel che vuoi, io ti dico.
ELETTRA: No, da te non lo pretendo.
Lo so che non ti preme
ridurti a cera molle se
questo ti conviene.
Perciò non te lo chiedo.
La tua sostanza, madre,
per me non è un mistero.
Vedere fiacca te
non è la stessa cosa che
veder fiacco lui.
Tu non lo sei comunque. Sia che lo finga o no.
Ti chiederò ben altro.
Quale il colore
degli occhi di Agamennone?
CLITEMNESTRA: Ieri la bocca,
un altro giorno il modo che aveva di parlare,
e questa sera gli occhi...
ELETTRA: M’avessi mai risposto!
CLITEMNESTRA: Sempre t’ho
risposto.
ELETTRA: Sicuro, ed ogni volta
la tua risposta cambia.
Eppure l’ho promesso:
da me non avrai più noia
quando m’avrai ridato le sue fattezze intere.
CLITEMNESTRA: Di modo che tu possa
comporne il tuo ritratto?
ELETTRA: Quel corpo frequentasti
per lungo tempo e a fondo.
CLITEMNESTRA: E’ un morbo, Elettra
questo che ti spinge a simili indecenze.
CRISOTEMIDE: Fùggine, madre!
Come implorarvi: basta?
Tu di aggredire e voi di consentire
questo puntuale
ripetersi di orribili supplizi che hanno forma
di frasi e di parole. A noi sia pane
per una volta il pane, e non questi tormenti!
ELETTRA: Mangialo, il tuo
pane!
Tu non m’interessi.
(A Clitemnestra)
E dunque?... Sto aspettando.
CLITEMNESTRA: Verdi.
Già te l’ho detto ‘verdi’?
ELETTRA: Sì, me l’hai detto.
E un’altra volta neri.
E un’altra ancora azzurri.
CLITEMNESTRA: Neri... già, può essere.
O, se ci penso,
forse davvero azzurri.
E’ vaga la memoria
come un’opinione.
Senza malizia, credimi.
Ti dico verdi
perché così li vedo.
Ti dissi neri
perché così li vidi.
Fatti da te strada
in questa mia incertezza.
ELETTRA: Non lo guardavi in viso
quando su te premeva?
EGISTO: Ti vieto di
risponderle!
Vedi che sforzi compie,
ed ogni sera nuovi,
perché sia poi fra noi
che si scateni guerra?
ELETTRA: Quanto sottile
tu mi supponi, Egisto!
CRISOTEMIDE: E’ vero, invece!
Hai smisurate fauci
da masticarci tutti.
CLITEMNESTRA: Ma no, che dica!
Forse va a scoprire
qualcosa che ti è ignoto?
Parlo per te, mio sposo!
Davvero non mi sembra, e dunque, Elettra, sbagli
a suggerirmi il modo
per farmi chiaro oggi
quel volto dissipato.
Sì, sbagli, perché a notte
lui non voleva luci.
Perciò nessun colore
fu mai tra noi linguaggio.
Cercandomi, nell’ombra
mi si allungava contro
e certo non lo sguardo potevo percepire;
immaginarlo, forse...
Privo di tinte, fosco...
Ben altro
potrei piuttosto dirti:
dell’acre suo respiro...
di tanta carne molle
che al buio si appressava.
Come due manzi ciechi
ci spingevamo addosso.
Quasi temendo
di rivelarsi nudo...
Oscuro nello scuro
veniva alle sue monte.
L’idolo tuo coincide
con quanto ti racconto?
ELETTRA: Non questa è la figura
a cui concedi il ventre
pregno d’umori in sonno.
Eppure il nome è uguale.
Vedi, anche adesso tremi...
Solo a pensarlo, sudi.
S’enfia la carne, chiama.
Egisto, furente, si alza facendo volare via delle stoviglie dal tavolo.
EGISTO: Empia famiglia! Immani
membrane di lussuria si
allacciano tra voi!
Non perché Re ve l’ordino,
ma in quanto maschio, e dunque
qui in mezzo a voi il più forte:
tacete! - E tu mai più (a Clitemnestra)
t’azzarderai a ridire...
CLITEMNESTRA: Cosa, gran
maschio?
Di me contaminata da chi ti precedette?
Ma pure tu lo sei.
Nulla qui che tocchi
ti evita infezioni:
le sedie, le mie carni, o
quel bicchiere...
I panni dove voltoli, le pietre che calpesti...
EGISTO: E tra quei panni vado ad aspettarti.
Stasera, già sappilo, ti voglio.
CLITEMNESTRA: Foss’anche, già sappilo, dormiente?
Egisto tace.
CLITEMNESTRA: Ma che buffo
adulterio fu mai il nostro! Chi tradisce
è colui che viene dopo. Ma
qui no: sei tu l’offeso.
E da un nulla, da un’ombra sei tradito.
Irresolubile
in me quel nulla, quell’ombra ribadisce
un concreto suo dominio. -
Dammi il braccio.
Accompagnami, Egisto.
Egisto e Clitemnestra si allontanano. Elettra aspetta di vederli scomparire.
ELETTRA: O Celesti, m’accorgo
che questi relitti in cui avanzano
le miserabili scorie di due antichi campioni
in nefandezze e lussurie, già scontano
una pena ben dura vivendo.
Lo vedo.
Ma è ancor poco.
Se non fosse per loro peggiore
la morte piuttosto che questo
sopravvivere orrendo,
ma già da se stessi
l’avrebbero scelta.
E’ che voi valutate
con il metro dei grandi, mentre qui son due miseri
che bisogna punire. Questi intendono solo
la lingua più bruta: han paura
di soffrire e morire. Non siate sottili
con loro: che muoiano!
Perché infliggerci, o Dei,
l’inutile peso di questa
misericordia vostra?
Che ora muoiano e basta!
Ormai il giorno è alle porte
in cui rovesciati saranno i destini,
sconvolte le parti e riassunto il potere
da chi è giusto che l’abbia.
Tace. Si volta a guardare Crisotemide che, a sua volta, la fissa spaventata.
ELETTRA: Sembri offesa,
sorella. Da cosa?
Tu sei fuori dall’onda
ove il gemito vibra. - Né per te
è il mio funebre augurio.
CRISOTEMIDE: Si direbbe
che tu parli da mondi che
attorno non vedo.
usi leggi
che decreti tu sola,
ed emetti condanne, vagheggi
riformate coscienze e stermìni.
Colloqui
col divino perorando massacri.
Ti dà gioia l'orrore.
Quest'affresco cruento
che, tu dici, non mi vede ritratta
sol per questo dovrebbe
allietarmi?
Rimanermi straniero e non stringermi il cuore?
ELETTRA: Se ti esorto a blandire
un futuro che presto avverrà,
non ti suoni a minaccia,
al contrario è un avviso.
Tu ti senti ben salda,
Ma è per luoghi sconnessi che vai passeggiando...
Malinconica, ignara.
E galleggi in un tempo
che solo per caso continua a durare.
CRISOTEMIDE: Non da poco
lo vai ripetendo.
Il tuo anatema non sembra efficace.
ELETTRA: Non da poco, sì, è
vero.
Ma per poco dovrò ancora ridirlo.
Più di tanto non sfugge la storia ai tributi
che reclama da lei la
giustizia.
E qui si sconta un ritardo eccessivo.
Dilazioni ormai giunte a scadenza.
CRISOTEMIDE: E come presenti
che possa accadere?
O che forse tu stessa hai deciso di agire?
ELETTRA: Da ogni dove può
giungere il colpo.
Non lo avverti? Ci assedia
un sospiro di morte.
per me è l'alito fresco
di un infante destino.
Ora penso alla guardia
che stamane han trovata trucidata
alle porte.
Sarà stata davvero
una resa dei conti, o non
forse dell'altro?
Poi ricorda: un fratello
si aggira nel mondo nutrito
del medesimo nostro passato.
E' una maglia del nostro tessuto.
Anche lui, quell'Oreste,
potrebbe.
O un ignoto assassino: chiunque.
C'è semenza nell'aria che chiama giustizia.
Non più pace, giustizia.
Può accadere a ciascuno, pure al meno sospetto
- pure a te, Crisotemide, o a me -
di trovarsi, d'un tratto, obbligato
a un'azione impensata:
caricata la mano di un'arma
giammai avvicinata, e
colpire!
Attendiamo, avverrà.
Tutto attorno non senti che trepida
di un'ansia vorace, che tutto è minaccia
ai tiranni? E' un profumo, un colore
mischiato alla luce: si vede,
s'annusa.
Non languire nell'oggi, sorella!
E' moneta da poco il presente.
Io t'induco a pensare
a un domani da cui Egisto è scacciato,
e con lui la sua sposa. A un domani
quando, infine, verrò per mostrarti
la risorta figura del padre.
Elettra si allontana. Crisotemide raccoglie alcuni cocci di terra, li depone sul tavolo, poi anche lei si allontana.
DIALOGO TRA EGISTO E CLITEMNESTRA
Egisto e Clitemnestra sono presso il loro giaciglio. Clitemnestra si sta spogliando. Si stenderà poi tra le lenzuola dove già sta, ma seduto, il suo sposo. Quando scivolerà nel sonno, la si vedrà fare quello che il dialogo dice.
EGISTO: Posso dirti qualcosa
nel tempo che ti spogli?
CLITEMNESTRA: M'aspettavo, ovviamente,
che tu me lo chiedessi.
L'abitudine notturna di metterti a parlare...
Di che mai questa sera?
Della scena d'Elettra?
E' di lei che vorresti
chiacchierare o di cosa?
EGISTO: Di quel solito tutto a cui pure
quest'Elettra squassata
appartiene.
CLITEMNESTRA: Sù, comincia e vediamo
sino a quanto ti posso
ascoltare.
EGISTO: Se così, meglio
niente.
CLITEMNESTRA: Ma no, tu continua,
e procedi tranquillo.
Discuti.
Per adesso son qui.
EGISTO: Ma come continuo? Perché?
CLITEMNESTRA: Te lo dico se sto per dormire.
EGISTO: Ogni sera il saluto
per me riservato è lasciarmi
a sprecare parole da solo
demente nel letto con te che dispari
in un mondo che ignoro.
CLITEMNESTRA: Se per te è necessario
questo sforzo che fai di spiegare
- ogni sera, l'hai detto: ogni ora del giorno -
non sta a me di vietarlo.
EGISTO: Non spiegare: cercare
con te di capire.
Per noi due voglio farlo - tu, invece
m'abbandoni alla gogna dei
miei soliloqui.
CLITEMNESTRA: Son con te. Sù,
prosegui.
EGISTO: Non così.
CLITEMNESTRA: Bene, sappi:
a me stanca e non altro
trascinarmi su cose compiute.
Poi parlarne o tacerne non muta l'evento.
EGISTO: Ma l'anima nostra sì, forse, potrebbe.
CLITEMNESTRA: Non più, se non muta
l'evento avvenuto.
E quello è ormai fermo.
Lontano, finito.
S'è chiuso, non c'entri
a spostarne le rotte.
Se da quello residui, resisti
nei panni che vesti.
Non c'è più maniera
oramai di cambiarli.
EGISTO: Come a volte mi par conseguente
la ferocia d'Elettra ai tuoi
nervi.
Che sia lievito tuo, quasi specchio
d'un egual complessione, è
evidente.
Una sola
differenza in voi scorgo:
l'età.
CLITEMNESTRA: Sì, l'età, ma
non solo.
Anche, appunto, quel fatto lontano.
Ha scolpito alle basi un dolore a due facce:
fa di me quel che sono e d'Elettra
quell'ossessa che appare.
EGISTO: Ma proviamoci ancora.
Proviamo a capire.
Potrà essere, dico,
che un poco per volta un
perché si riveli.
CLITEMNESTRA: Il perché di che cosa?
Di quel che facemmo?
No, non è questo, mio Egisto, che vuoi.
Sarebbe aver voglia di ciò che possiedi.
Tu sai
perché lo facesti. Non meno di me
tu lo sai.
Ci convinse, a quel tempo, l'idea
che fosse, sia all'uno che all'altra, comune
la spinta al delitto.
E delitto
non l'avremmo mai detto.
Ricordi? Un'azione
necessaria era il motto. Un'audace
avventura vissuta nel nome
degli altri.
Una cosa, dicemmo, politica e basta.
Non per noi, ma perché
così è giusto che sia.
Scandagliammo a tal punto
tutti i torti di un Re decretandone
una fine voluta dal cielo, dal corso
dei tempi... Menzogna!
Uno sposo era in me che abolivo, e fu dopo l'ingombro
che portò il suo ritorno.
Di ben altro goloso
eri tu, caro mio: d'un potere e d'un ruolo
che per te, sulla terra, non
eran prescritti.
E forse anche di me.
Com'è vero, d'altronde,
che pur io ti volevo.
Di due brame facemmo un intento, una fede.
Per finta, mio Egisto, per finta!
Fu buon mastice, forse,
all'incontro posticcio quel tanto
di gusto per me nell'averti,
per te nell'avermi.
Ma il resto, menzogna.
E di ciò stanne certo.
EGISTO: Scandagliando, di colpe,
ne trovammo non poche.
CLITEMNESTRA: Ne trovammo,
sicuro!
Di vere e d'inventate.
Ed era un alto grido
di gioia che all'istante
in sdegno mutavamo
scoprendo ancora un nuovo
pretesto alla sentenza.
EGISTO: Eppure, son convinto,
ci volle del coraggio a fare quanto fatto.
CLITEMNESTRA: Ce lo fornì la fame
dei nostri desideri.
EGISTO: Son nulla le tue accuse
circa una prima figlia
che lui lasciò morire?
CLITEMNESTRA: Ifigenia, mia
cucciola!...
Non pronunciarlo, Egisto,
quel nome benedetto!
EGISTO: Non ebbe esitazioni
compiendo il sacrificio.
La regalò alle tenebre
convinto di riaverne
un qualche giovamento.
Che l'abbia avuto o meno
questo non conta. E dunque?
Non fu quell'episodio
pilastro del verdetto?
CLITEMNESTRA: Nell'occasione,
sì.
Tutto piegai, pur quello:
d'Ifigenia il ricordo...
Tutto piegai all'urgenza di muovermi a colpire.
Tutto ho triturato, di tutto ho fatto cibo
senza riguardi, come,
con altre cose tue, sarà
avvenuto in te.
E tutto il nostro sforzo
perché eravamo in due.
Troppe dolenti notti ho avuto per scoprirlo:
l'individuo dinnanzi
alla vita è innocente: un supremo innocente.
dinnanzi alla vita che macina e schiaccia
ogni cuore, se solo, avrà sempre ragione
a spiegare le cose più
orrende commesse.
Ma per noi fu diverso, noi che insieme colpimmo
avverando un delitto che fa
onta agli umani.
Perché, in due, non c'è nulla che induca
ad agire secondo natura,
e sia pure nel male
apparente.
L'istinto è bandito solo il calcolo ha senso.
Ché mi guardi perplesso?
Non è forse da quando
siam tornati divisi che tornammo vicini
a chi vive e sopporta
qui del mondo le pestifere leggi?
Tace.
EGISTO: Tutto m'è ignoto di
quello che racconti.
T'esce dal labbro un fiato
che certo non va in cerca
d'orecchio che l'ascolti.
Forse già adesso dormi.
Certi discorsi in te
non sono che ulteriori
proclami di mutezza.
E' mai un destino il tuo?
Tu non mangi, non parli,
non dormi e non ti svegli.
Clitemnestra non sembra più rispondere ad Egisto.
CLITEMNESTRA: O supremi
Cieli...
Perché vuoi convertirlo
in quello che non è?
Mangiare mangio. Poco, però mangio.
Parlare parlo, e pure troppo a volte.
Ma dormo e sono sveglia al tempo stesso.
Qui sta l'atroce.
Qui l'ineluttabile.
Forse da me scorgo, nemmeno son sicura,
l'esatta circostanza del mio
stato.
Invece lui non sa
qual senso deve dare al mio
parlare.
Non faccio come tutti. Non necessito
di starmene sdraiata, eppure
dormo.
Né di chiudere gli occhi, eppure dormo.
Ora, ad esempio: pure adesso esita...
Misero sposo,
lo vedo il triste dramma
in cui è lì precipitato.
EGISTO: Precipitato chi?
CLITEMNESTRA: Precipitato Egisto.
EGISTO: Ecco il tormento: è a me che parli e dici "è",
non dici "sei".
CLITEMNESTRA: Vuoi copulare? Vieni.
EGISTO: Chi stai chiamando?
Qualcun altro o me?
CLITEMNESTRA: L'ombra che
vedo.
Forse sei tu quell'ombra?
EGISTO: Dimmi il suo nome.
CLITEMNESTRA: Ti dirò, invece,
un tratto del suo corpo:
il petto vasto e chiaro.
Se poi lo guardo in viso:
la cresta nera e folta dei capelli.
EGISTO: Sollàzzati con
l'ombra, disgraziata.
Sai tu come si chiama, non son io.
CLITEMNESTRA: Ah, che
affanno!
Quale pessima gioia m'è prescritta!
EGISTO: Sei un obbrobrio perenne, Clitemnestra. Non so più
come starmene al tuo fianco.
CLITEMNESTRA: Ecco, è arrivato!
Mi palpa dal di dentro,
e tutti i miei vuoti
reclama ad uno ad uno.
EGISTO: Vasto era il petto
di quel tuo primo sposo.
Nero di chioma
colui che assassinammo.
CLITEMNESTRA: Dammi una mano, Egisto!
Lo so che stai di fianco.
Ecco, s'impone! Di nuovo sono sua.
Fruga, mi prende
le viscere più fonde!
Tace. Osserva, impotente, Clitemnestra che singulta affannosa.
EGISTO: Ormai ch'io taccia o parli,
che resti o me ne vada
per te non ha più senso.
Continua il tuo colloquio
coi dèmoni notturni.
Stacca il polso dalla mano
della donna che l'afferrava e si allontana.
Clitemnestra respira più calma. Scivola ai piedi del letto avvolta nelle
lenzuola.
CLITEMNESTRA: Oh, non pace...
Non più pace!...
Ah, ceda
questa assidua angoscia
da presenza umana.
Parlerò
quietamente.
Tra me. Senza grida.
In assenza
di qualcuno vicino.
'Clitemnestra, orsù, vòltati!
Dammi un segno di vita:
solo un cenno degli occhi...
Già mi basta, mi basta...'
Poi non conta sapere se Egisto è vicino
quando io dormo e lui no.
Son da lui
impenetrata. Distanti restiamo
nelle reciproche essenze.
Come il ciotolo e l'acqua in cui il ciotolo sta.
Parlerò...
Anzi parlo come certo mai accade
a nessuno nella vita normale:
sì, nel modo più falso, più pazzo:
a alta voce, da sola...
Risibile sonnambula.
No, che dico? I sonnambuli...
Quelli parlano a lampi, e timbrando
solo cose eccessive.
Come un nome, ad esempio.
Se non meste lagnanze.
Oppure gemono, esclamano e basta.
Io ho ben altro che preme per essere detto.
Io sognando ragiono.
All'apice, pure,
di visioni sconvolte, d'infami deliqui, ragiono.
E formulo.
E dico.
Come adesso che dormo e che niente
io desidero e tutto possiedo.
O una cosa... Una sì, la desidero:
che da me s'allontani ciò che brama di farsi
qui da me possedere, e così
mi possiede.
E' Agamennone, lui.
E' l'immane suo ventre che mai
nella vita, nel mondo dei
corpi, fu tanto possente.
Quiggiù, invece, tra l'ombre, è materia assoluta.
Più carne e più sangue di carne che sudi,
di sangue che pulsi.
E mi strappa, mi smembra. Demolendomi fabbrica
un piacere che è sconcio,
vergogna.
Godimenti m'impone e ne vuota, nel corpo, gli orrori.
Branchi sono di minuscole cagne, di larve feroci
sguinzagliate nei varchi
della mente e del cuore.
Eppure poi, risvegliata, mi dico:
"Fosti tu, Clitemnestra, a volerlo."
Ma che importa? Sia pure!
Tu ritorna, guerriero!
Oh, sì... Vieni!
Rieccoti! Eccomi!
Questa sono
per le tue enormità.
Questa sono: recessi,
solo trepida cava,
umidità e sussulti.
Vieni, più duro
del ferro che ti veste!
Vieni, con l'ascia
che ti divise il cranio!
PRIMA TAPPA DELL'INSONNIA DI EGISTO
Egisto si accosta al letto di Crisotemide, che appare addormentata.
EGISTO: Lieve piuma,
gingillo quieto
esposto a mille squassi...
Resta assopita.
Sei la più intatta cosa
che meriti, qui dentro, un'esistenza
adeguata ai sacri moti
del giorno e della notte.
Egisto si allontana. Crisotemide, che dunque fingeva di dormire, si solleva a sedere sul letto.
CRISOTEMIDE: Ma l'ascolti? A te dice,
cuore mio, per te sono
queste fievoli delizie...
Le rigetti? Perché?
Non c'è nulla
che più possa allietarti?
Cupo cuore,
tu così non nascesti,
ma così divenisti.
Non per te
questo grumo d'opposte
violenze in cui stai!
Tu, mascella
senza denti! Tu, labbro
di capretto in una selva
di zanne lampeggianti!
Fragile è il nerbo
da cui ricavi vita.
Ma altro da ciò non puoi
essere se vuoi
esser te stesso, cuore.
Tutto s'accresce
purché un germe vi sia.
Ma non rabbia né odio
fanno parte di te.
Perciò, afflitto cuore,
non dentro mutasti ma fuori: il chiarore
che di te ricordavo s'è
spento.
Fanne colpa
agli eventi e a chi volle
- è ad Elettra che penso -
non lasciarli sbiadire.
SECONDA TAPPA DELL'INSONNIA DI EGISTO
Egisto mette pìede nel
luogo dove si trova il giaciglio di Elettra.
Non si azzarda ad avvicinarsi più di tanto.
EGISTO: Elettra, riposi?
Elettra non risponde.
EGISTO: Al tuo solito...
Taci.
Te beata, che almeno riesci
a contraffare, tacendo, una requie.
Elettra sorride.
EGISTO: Che mistero ogni volta che muovi
a sorrisi le labbra!
Mi domando se mai fu per te
occasione d'ingenuo piacere il sorriso
e non solo il tuo modo di dire
l'infinito disprezzo che
provi.
Dimmi: mai t'incontrasti
con qualcosa per te di gioioso,
qualcosa non forte, banale
che seppe distrarti? E
d'allegro?
Qualcosa che in quella
cavezza d'acciaio che calzi sul viso abbia inciso
una piega serena.. Una volta,
non tanto.
ELETTRA: Sì, avvenne. Cioè avviene:
qui, adesso:
è la pena che mostri...
Non forte, banale.
Il mio riso è sincero.
Se è giusto si rida, sereni non aspri,
per quanto di buffo la vita ci mostra
ecco, dunque, che rido di te: tu che vieni
qui presso una donna a cui il padre uccidesti
piatendo, mendico,
due chiacchiere, un po' di
conforto...
Ben altro che buffo dovresti apparire.
E non dico poi a me, ma a chiunque.
EGISTO: Che il cielo non voglia
defraudarti del sonno che
anche ai miseri è dato.
Non voglia.
Di tutte le brame e i bisogni terrestri
questo è il solo che sfugga a
ogni prezzo.
Non c'è chi lo venda, non c'è chi lo paghi.
Non lo rubi nemmeno.
Puoi sottrarlo a un compagno, ma mai
quello d'altri tenerlo per
te.
Se non l'hai
è inutile intorno cercare una
fonte.
Che il cielo non voglia
far questo con te. Capiresti.
ELETTRA: Ciò per dire che
adesso m'invidi.
EGISTO: Come un sordo che invidia
l'udito a chi sente.
ELETTRA: Stupefacente Egisto!
Se fosse una merce
questo male che tanto lamenti
e se fossero merce le larve
che infestano me e le mie notti,
sta' certo: già concluso
sarebbe il baratto.
EGISTO: Di te vedo che dormi.
E' già tanto.
Non molto ma dormi. E' già tanto.
ELETTRA: Dunque un sonno qualunque t'andrebbe?
EGISTO: Qualunque.
ELETTRA: Il più immondo?
EGISTO: Qualunque.
ELETTRA: Anche il mio?
EGISTO: Sì, qualunque.
ELETTRA: Nei miei panni, magari, sognarti...
EGISTO: Uomo o donna,
sognando si dorme.
ELETTRA: Tra le braccia d'un
uomo, t'andrebbe?
EGISTO: Ridestato direi: fu
uno scherzo.
EGISTO: Fosse un sogno che
resiste alla veglia?
EGISTO: Purché venga da un troppo dormire.
ELETTRA: Anche un sonno di morte?
EGISTO: Qualunque! Qualunque!
ELETTRA: Anche quello che dorme mio padre?
Egisto tace.
ELETTRA: Fu un tuo dono. Puoi rifarlo a te stesso.
Egisto tace.
ELETTRA: Io credo tu debba
orinare. Va', Egisto!
A quest'ora, di norma, ti levi per questo.
EGISTO: Solo un sonno non voglio, ed è quello
che strazia tua madre. Per questo lo fuggo.
ELETTRA: Va', Egisto! E ringrazia
il piacere che provo a insultarti:
t'ha aiutato a passare la notte.
Egisto si allontana.
NEL SONNO DI CLITEMNESTRA:LA PAURA E LA SPERANZA
Clitemnestra nel suo letto. Giace, si alza, si sdraia di nuovo. E' il suo modo di dormire. Smania. Vaneggia.
CLITEMNESTRA: Perché mai in segni opposti
si traduce il mio cuore?
Uno spinge alla fuga, l'altro
esorta al sorriso.
E fra essi non c'è interferenza.
Ho una parte di me che vorrebbe
soccombere intera all'idea
di un disastro vicino...
Ahimè, troppo vicino!
D'una cosa che, informe, presento.
D'una cosa che ha gambe, che ha mani e fa ombra.
Che tende spedita al mio letto.
Che scivola muta, che elegge
le tenebre a suo domicilio.
E per questo
la più semplice pena mi
prende, ch'è pena di me.
Di me esposta, qui inerte, incapace di dire:
"I suoi moniti ascolta."
E' fatale, si sa,
che il buon senno prevalga, e
il mio è pura roccia.
"Se uno zefiro scuro traversa la mente,
tu non farne un ciclone" risponde
il buon senno alla parte più vile, che geme, che prega:
"Non solo è timore, ma veggenza del vero."
Che ascoltare? E perché?
Farsi pigri e restare,
come a finger coraggio per questa pigrizia,
o con forza ridursi alla scelta più dura
e sottrarsi a ogni rischio
perdendo il decoro?
E fuggire, andar via...
Per poi vivere dove? E per vivere come?
Gli altri intorno direbbero: "Pazza!"
Ma se è la morte che preme, e non solo
un effimero guaio, c'è
bisogno di darsi risposte?
Ahimè, ahimè...
Son domande che inchiodano!
Percezioni che raschiano alla cute dei nervi.
Poi, per contro, un pensiero,
similmente intuìto, m'allegra e scompiglia
di più ancora il coacervo di spinte,
la strinata matassa che ingombra
una mente già occlusa ove, opaco,
si riflette il reale.
E' un improvvido moto, imprevisto, di gioia materna.
Un pulsare inatteso del grembo che chiama
una carne vicina di sua appartenenza,
come un astro che attiri
nell'orbita sua il meteorite
che fu parte di sé:
un suo terreo composto
lanciato nel cosmo.
Ma per questo mistero una chiave
io la posso trovare: è il mio maschio,
il mio unico maschio che sento
vagare non lungi, qui presso...
Ah, se fosse! Se fosse!
Abbia salde radici il timore,
se ha pur salde radici la gioia!
Si scuote, come destandosi.
CLITEMNESTRA: Acqua!
Un goccio d'acqua!... Dove sono?
Ha dell'acqua vicino. La trova. Beve.
CLITEMNESTRA: Che ho sentito? Che ho visto?
Si tocca intorno.
CLITEMNESTRA: Ah, il mio letto...
La vita...
No!
Non ne voglio sapere.
Non ne voglio sapere.
Si corica nuovamente. Dorme.
ULTIMA TAPPA DELL'INSONNIA DI EGISTO
Egisto avanza nella sala della cena. In terra stanno ancora frantumi di oggetti. Resti di cibo. In un angolo, nell'ombra, qualcuno arrota un ferro contro la pietra del gradino su cui sta seduto. Egisto è richiamato da quel suono imprevisto. Si avvicina allo sconosciuto.
EGISTO: Di chi quell'ombra?
Si avvicina di più. Quasi timoroso.
EGISTO: Sei una guardia? Chi
sei?
ORESTE: Non è un'ombra.
E' il mio corpo. Son io.
EGISTO: E il tuo nome sarebbe?
ORESTE: Sei curioso di me?
Non varrebbe il mio nome a spiegarti chi sono.
EGISTO: Perché mai?
Cos'è? Un nome che svia
o che pensi sia ignoto?
ORESTE: Io appartengo alle fila
di quel genere d'uomini, o Re,
il cui nome è una sigla e
nient'altro.
Una guardia, l'hai detto.
Sapere che faccio val più
di sapere chi sono.
EGISTO: E una guardia fedele o scontenta
di colui che lo sfama?
ORESTE: Una guardia mansueta.
EGISTO: Qualcosa nel tono mi dice
che una parte di te fu e resta ribelle.
ORESTE: Quella parte di me sia garante
di coraggio se c'è da combattere.
Egisto è ormai a un passo dallo sconosciuto.
EGISTO: Perché arroti la
lama?
Prevedi, stanotte,
che qualcosa ti chiami ad usarla?
ORESTE: Questa lama è la parte
migliore di me.
EGISTO: Una parte abusata, mi sembra,
se tanto ci vuole
a ridarle buon filo.
ORESTE: No, è che voglio
sia sempre perfetta.
E' un omaggio, comprendi,
alla tua salvaguardia.
EGISTO: Che intendi?
ORESTE: Questo ferro son io che lo impugno,
ma è per te che colpisce.
EGISTO: Ti dan gioia le armi,
confessa.
Tu, sì, sei di quelli
che gode a servire se questo vuol dire
un viatico al sangue
senza tema, per legge, di colpe.
ORESTE: Sangue o meno, sono nato per questo
ed è questo che faccio.
La mia vita è legata
alla lama che affilo
quanto al sacco di biada
lo è il muso di un puledro.
Egisto si siede affianco dell'altro che continua ad arrotare la sua lama.
EGISTO: Siederò qui con te.
Se a te un ordine umano richiede
di star sveglio per tutta la notte,
a me l'ordine è imposto dal
cielo.
Tu mi dici:
è per questo che nacqui.
Non capisco.
Si può nascere, dunque, votati alla guerra?
Io non credo.
La natura dispone altrimenti.
La vita, per sé, ci conduce alla vita.
Prediligere cose
che han sapore di morte è una scelta voluta.
L'altro rinuncia ad affilare il suo ferro.
ORESTE: Questa pietra è
infelice.
Quasi tenera. Inutile
insistere oltre. Ma tu forse, per caso,
hai una spada, un coltello?
EGISTO: Il mio, certo.
Vuoi provare con questo?
Egisto offre il suo pugnale allo sconosciuto che comincia ad affilare le due lame una contro l'altra.
ORESTE: E difatti è diverso.
Lo vedi? Fa attrito. Scintilla.
Il ferro si misura col ferro.
O con la cote - che è pelle, che è carne.
Tutto il resto gli è estraneo, può solo
guastarlo o servire a un bel nulla.
EGISTO: Soldato, rispondi:
da quando iniziò
l'affezione che oggi
hai mutato in mestiere
per le armi e il delitto?
ORESTE: Noiosissima e antica
vicenda!
Ti par bene che un sovrano
si stanchi ad ascoltarla?
EGISTO: Tu comincia, e fino a
che vuoi continua.
ORESTE: Io né braccia né mani possedevo
capaci di delitti quando appresi
quanto il delitto necessiti d'astuzia
e, in pari grado, di muscoli
formati.
Rispondi al mio quesito, Egisto: quando
poté avvenire questo, e come avvenne?
EGISTO: Né braccia né mani possedevi...
ORESTE: Ben formati.
Esattamente. Allora?
EGISTO: Un uomo, penso
quando ancora non è adulto...
ORESTE: Sì, di' meglio!
EGISTO: Appena nati, forse...
ORESTE: Appena nati non si apprende nulla.
EGISTO: Non appena, ma ancora giovinetti...
ORESTE: Lunga è l'età, mio Re... lunghissima,
in cui già essendo del mondo ben coscienti
siamo pur messi alla mercé di
tutti.
Quella, comprendi?, che non ha diritti
e che ci espone a tutte le ingiustizie.
EGISTO: Ma parli di che?
ORESTE:
Di me ti parlo!
Non vuoi saper chi sono? Tu lo domandasti.
Puoi scoprirlo da te, perciò ti dico:
provaci.
EGISTO: Dunque, sarebbe
che già ti ho conosciuto?...
ORESTE: Io ti conobbi. Accade spesso
di gettare scompiglio in altre vite
e poi dimenticarlo.
EGISTO: C'è un debito, forse,
che ignoro e mi lega, mi
vincola a te?
ORESTE: Diciamo: c'è un punto
in cui, il tuo destino, il mio ha traversato
- era presto per me: il mio futuro
ancor tutto da farsi -
e vi ha impresso il suo marchio; per sempre
ne ha sviato le piste e l'ha spinto
lontano: oltre un cerchio di fumo
dopo il quale fu tutto
diverso.
Io perciò posso dire
che, per come t'appaio, son frutto
più tuo che d'un padre, del mio vero padre:
conformato a tua voglia. Su questo
ragiona.
Dunque, Egisto, sai darmi
risposta al quesito?
EGISTO: Ci vorrebbe tu fossi
un'immane montagna che s'erge
su un pianoro di braci
- la mia ottusa memoria! -
perché possa vederti.
ORESTE: Io ti dico: lo sono.
Quel tuo monte svettante: lo sono.
EGISTO: Dammi il volto, non
solo il profilo.
ORESTE: Il mio volto è
un'inezia.
Cerca altrove: liggiù: lì nel punto più fondo
dove un tempo calasti i piloni
sopra i quali fondare il potere
che, da inetto, ora vivi.
EGISTO: Interrompi, ti prego, due cose:
la follia d'un colloquio che irride il mio rango...
ORESTE: E poi cosa?
EGISTO: Questo stridulo
fischio che tanto ti piace.
Ho l'orecchio che sanguina. Basta!
La tua lama è temprata. Ridammi la mia.
ORESTE: Ormai è persa. Rasségnati.
Io ne ho due, tu nessuna e non voglio
che tu possa difenderti.
EGISTO: Ma da cosa, soldato? L'hai detto:
stai qui tu
per curarti di me e della
casa...
Delle nostre esistenze...
ORESTE: All'istante
avrai prova di quanto sia
vero.
La tua vita mi trasse
questa notte a palazzo, e non
solo la tua.
EGISTO: Ma che, forse, tu dunque...
Sei tu l'assassino della guardia là fuori?...
ORESTE: Prova a dire chi
sono.
Ora sì prova a dirlo,
e non quello che ho fatto.
E gli spinge, a forbice, le due lame incrociate contro la gola.
EGISTO: No, allontanati!
Lasciami!
E leva i coltelli!
ORESTE: Ti sia chiaro:
morrai.
Vuoi sapere per cosa?
Vuoi sapere per chi?
EGISTO: Lo sai tu il tuo segreto.
ORESTE: Ma sei tu il mio segreto,
sei la vita che vivo!
EGISTO: Non per nulla, se debbo...
Non per nulla morire!
Non quest'onta!
E' un orrore più grande
di quanti ne ho dentro.
ORESTE: Ma che supplica
strana!
Tu mi chiedi che cosa?
Pietà per la vita?
EGISTO: Il tuo nome ti chiedo.
ORESTE: Non che levi
questi ferri dal collo?
EGISTO: Il tuo nome!
ORESTE: Grazie, Egisto: m'hai detto
come farti morire: ignorante
di quello che accade.
EGISTO: Il tuo nome! Chi sei?
ORESTE: Una morte cialtrona:
questo è il peggio
che possa donarti. Una morte
che è priva di senso.
EGISTO: E che cosa vuol dire
che son io il tuo segreto?
ORESTE: Se da te non lo sai,
non sforzarti più tanto.
Sia il tuo estremo pensiero che ora muori sgozzato
da una guardia ubriaca.
Gli squarcia il collo. Egisto, mani alla gola, procede sino al centro della scena. Boccheggia senza emettere un gemito. L'altro non esce dall'ombra.
ORESTE: Il mio colpo mi pare sia stato imperfetto,
ma t'ha almeno segato le corde vocali.
Non sento il tuo crollo.
Sei tenace, ma aspetto.
MORTE DI EGISTO
Dal fondo entra Elettra. Vede Egisto, in piedi, di spalle. Non si accorge di Oreste che non si è mosso dal suo angolo nell'ombra e sta ancora seduto.
ELETTRA: Tu, ancora!
Lèmure, grumo
di cellule fiacche! Ma che
fai?
Sino a tanto ti è nemica la notte?
La chiamasti a tua complice un tempo,
ora invece la scuoti con
grida che maledicono il buio.
Va', ritorna al tuo letto!
Non sopporto di averti
così brado d'intorno
a passarmi davanti la stanza, ad entrare, a assediare
quella stasi notturna
in cui, pur se dormo, l'attesa non cessa.
Non ricevendo risposta, avanza di qualche passo.
ELETTRA: Ma Egisto, sei tu? Non ti vedo.
Egisto si volta a guardarla, a farsi guardare.
ELETTRA: Tu sgolato!
Tu lordo, squarciato!
Ma da chi assassinato?
E nemmeno puoi dire, parlare...
Oh, ma questa...
Avanza sino quasi a toccare il morente Egisto.
O tristissima
statua di polpe
che si vanno a svuotare...
Ma chi è stato?
Con un cenno rispondi.
Il tuo sangue si effonde nell'inutile spazio
come sabbia da un sacco
forato.
Da chi sparso?
Da te, forse? E perché?
O Supremi... Che orrore l'orrore!
Perché adesso lo fuggo?
Ah, che fremiti
ha il tuo labbro di pesce!
Che dice? Che vuoi?
Già non più. S'è fermato,
vescicola secca.
Cala un velo
di nebbia sugli occhi.
Addio, Egisto!
Scendi là dove è giusto:
sarai un nume del cupo
oltremondo.
Da stanotte i miei insulti
diverranno bestemmie.
Ecco, è adesso che estingui, svanisci.
Addio, Egisto...
Dissipato ora sei dentro questo
spaventoso silenzio di neve.
Egisto crolla a terra morto.
DIALOGO TRA ELETTRA E CRISOTEMIDE E SEPOLTURA DEL RE
Elettra è prona presso il cadavere di Egisto. Sopraggiunge, dal fondo, Crisotemide. A vedere quella scena, soffoca a stento un grido. Elettra si volta a guardarla.
ELETTRA: Tu sei qui?
CRISOTEMIDE: Dunque, l'hai fatto!
ELETTRA: Cosa?
CRISOTEMIDE: E a mani nude? Come?
ELETTRA: Crisotemide, sorella...
Ora m'accorgo:
tu l'ispirata! Tu la
benedetta!
Certo, se non me
oltre di te nessuno
attendere poteva a
quest'ufficio!
CRISOTEMIDE: Con affetto mi
parli?
E proprio tu, assassina!
Ah, non capirlo
per tempo quanto l'urlo
fosse oramai un misero
tributo al tuo rancore!
ELETTRA: E dillo! Dichiaralo:
Perché con me tacerlo?
Tu fosti. Dillo.
E forse proprio spinta
da tanti miei inesausti
appelli alla vendetta.
CRISOTEMIDE: Spietata più di quanto
potessi immaginare!
Regali a me l'orgoglio
di un gesto che mi spezza.
Che scialo miserabile
di sangue inutilissimo!
E dici me l'artefice...
Ah, quelle mani!
Ne piove la tua firma.
Fugge via.
ELETTRA: Quali mani?
Queste?...
Ma che dico? Dovrei pure
ascoltarla? Più facile è da intendere
la voce d'un folle piuttosto che d'un vile,
e Crisotemide è vile. Folle è il mio cuore:
le attribuisce cose
finanche a me precluse.
Eppure lei, d'istinto,
mi figurò capace...
Ah, perché mai, prudente,
non seppi immaginarmi nei
panni di chi uccide?
Forse che non volli?
Lo volli e voglio ancora.
E ancora potrei farlo:
non questo, nella reggia, è il solo corpo
che abbia più prezzo da morto
che da vivo.
E questi è morto... E non di sua mano, certo.
Sia, forse, pure il caso
d'una rissa notturna, o forse il segno
di un'opera voluta... E dunque, allora...
E' carne macellata che altra carne
dovrà chiamare, e presto,
a coniugarsi altrove: negli
inferi recessi.
Tremi mia madre se è vero quel che spero.
Ma chi mai, chi mai
poté far suo un disegno che
tanto m'appartiene?
Oh, ma calmati, Elettra! Che non debba
quest'enigma precluderti la gioia
per quanto, in ogni modo, s'è compiuto!
Elettra tocca, con ansia febbrile, la salma. Ne palpa la ferita mortale.
ELETTRA: Serra le palpebre. - Toccalo! Trovane
le aperte fessure; la gola che fiotta
le sue ultime bave. E regàlati, Elettra,
non più che un minuto, ma un intero minuto
in cui tanto sogno libare
all'estremo.
S'involi ogni cura! Solo questo, nient'altro!
Eccolo, Egisto! un acino, un guscio.
Non dico una cosa ch'è senza memoria,
ma meno, assai meno:
un oggetto che, sperso,
memoria non lascia.
Di mio padre diranno: la morte lo prese.
Di te - pulviscolo, ciotolo, ghiaia...
Nemmeno l'infamia verrà ricordata.
Si scosta, brusca, dal corpo di Egisto.
ELETTRA: Ma presto! E' imperativo
decidere che fare.
Quest'ingombrante cosa,
che 'Egisto' ancora accetto di chiamare,
farla sparire, subito!
Non debba l'altra,
alzandosi per caso,
mettersi in guardia
scoprendone il cadavere.
Sempre sia vero
che già chi uccise il primo
anche di quella s'è messo
sulle tracce.
E, a braccia, trascina via la salma.
ELETTRA: Se parte non ho avuto
nello strapparti al mondo
che sia nell'occultarti
il modo mio di darti
odiosa sepoltura.
Ed esce tirando via con sé il suo carico funebre.
NEL SONNO DI CLITEMNESTRA: L'OMBRA DI ORESTE
Clitemnestra è nel suo letto.
CLITEMNESTRA: Oreste...
Luminoso Oreste...
Che bel nome ti diedi!
Un monile ne ho fatto,
e l'ho sempre con me,
se nient'altro mi resta
che il tuo nome prezioso.
E ripeterlo debbo
per vederlo, mostrarlo ai
miei occhi.
Sei tu, per intero, qui dentro il tuo nome.
Non so dove, se vivo, tu sia
ma qui, certo.
Nel tuo nome resisti.
Oh, figlio, dolcezza
di cui persi quel giorno
memoria.
Era giorno? Era notte?
Non so. Pure questo non so.
Altri nervi
dirompevano in me.
Ma sapevo: per poco
io vi metto da parte,
figlioli!
Non sia vostra, mai vostra
questa scena di sangue che
compio!
Vi pensavo, e pensai:
dopo sarò per lui!
Dopo sarò per lei!
Ora, dissi, pensa a te, Clitemnestra!
Giungi al fondo di ciò che è
prefisso.
E migliora!
La tua vita, te stessa e la casa migliora!
E sia poi, tutto ciò,
fatto pure per loro migliore. Migliore
a svezzarli e a nutrirli. Oggi, certo,
tutto appare grottesco.
E lo sforzo che feci, grottesco.
Ma è destino che il destino sia immune
dagli intenti degli uomini.
Che dispensi le sue grazie per caso.
Oreste... Luminoso Oreste...
C'è un altrove, però,
dove poi tanto forte
la legge del mondo non è,
ed è li che tu stai
predisposto per me.
Ed è lì che a te vengo,
e lì vivi. Per certo tu vivi
tra le pieghe di qualche
mio sogno capace
di arginare, sottile
e lucente frontiera,
lo spingere greve
di due incubi contro.
ORESTE ED ELETTRA
Elettra rientra; procede china, preoccupandosi di far sparire le tracce del sangue versato in terra. Quando giunge al centro dello spazio, Oreste, senza uscir fuori dal suo angolo, lancia ai piedi di lei il coltello di Egisto.
ORESTE: Vai in cerca del suo
sangue?
Qui ne trovi caldo
della sua voce ancora:
vien dritto dalla gola
di Egisto, e questa è l'arma
che scese a sigillare
uno sperpero di fiati
in quella ròca cassa
ch'era il suo corpo vizzo.
Una reliquia eccelsa:
è il suo pugnale, prendilo!
ELETTRA: Da chi questo
regalo?
Di chi queste parole?
ORESTE: Di chi fece
ciò per cui ti esalti.
Oreste sono: è un nome che conosci?
ELETTRA: Oreste!
L'eternamente atteso...
Come puoi dire
se ti conosco? A me
che sono tua sorella!
ORESTE: So di contarne due.
Tra quelle chi sei tu?
Elettra o Crisotemide?
ELETTRA: Più truce è la domanda
del dono che mi offri.
Io sono, tra le due,
chi volle il tuo ritorno.
ORESTE: Insomma, chi saresti?
ELETTRA:
Elettra sono!
Nulla mai di me
dunque sapesti?
ORESTE: E cosa?
ELETTRA: Chi ti sottrasse, chi?,
a quella turpe vampa
che in quella notte avvenne?
Io fui!
E ciò non basterebbe
a dirti con certezza
nel cuore di chi palpiti
ancora il nome tuo?
Intendo dir: quandanche
null'altro mai e nessuno,
prima di me adesso, sino a te sia giunto per raccontarti come
abbia vissuto da allora ad
oggi Elettra.
ORESTE: Tu mi salvasti?
ELETTRA: Io. Non ricordi?
ORESTE: Solo ricordo
di quella notte questo: un braccio d'uomo
che al polso non ha mano ma
un artiglio di femmina assassina.
E il padre mio che casca.
E la carcassa gonfia
che trema dentro l'onda
sgorgata dallo squarcio
aperto da una zanna
lustrissima di lacche.
Tu che squittisci, tenue sorella...
Questo ricordo...
L'abbraccio d'una balia
che rapida mi strappa
da quella soglia fredda.
Ulula tremende
nel corridoio vasto.
E di te bagnata
di rosso alle caviglie,
alta non quanto
Agamennone riverso.
E lei:
già moglie del suo amante e carne da bordello
nel letto dello sposo. Quanto ricordo è tutto
ciò che allora vidi.
Poi non vidi più.
ELETTRA: Chi ti sospinse
a quella balia, Oreste?
Chi, dimmi...
Chi lanciò il grido: "Salvalo, nutrice!"?
ORESTE: Non voci mi ricordo,
ma spettri di visioni.
Pupille ho deste ormai
per fissar quelle e basta.
ELETTRA: Perché stai lì? A me vieni.
Troppo ti attesi. Toccami.
Guardami. Di':
"Ti riconosco, Elettra."
Almeno questo puoi?...
ORESTE: Ti riconosco,
Elettra.
Sì, dalla voce, e bene.
Pur se mutata, e molto.
Come sarà, penso,
per le linee del corpo e la
statura.
ELETTRA: Ma, in queste, quelle
di me bambina tu riconosci ancora?
ORESTE: Che vanità curiosa!
Cosa vorresti? Non essere cresciuta?
ELETTRA: Fratello, tu sapessi
con quanta forza volli
non aver mai corrotte
le forme mie infantili dall'usura
degli anni che maturano le
carni!
Perciò ignorata crebbi
dal più breve mio sguardo su
me stessa.
Ferma, di ghiacco, avrei voluto stare.
Statua e memento
di quell'atroce notte.
Epigrafe incarnata:
nell'odio tanto, quanto nel
sembiante.
A resistere appresi
allorquando trasmutai
il filo dei giorni, che inerti si susseguono,
in un sol giorno,
indissolubile e violento.
Un giorno solo, che mai più consente
alla noia di aumentare, e non consente
alla rabbia di svanire. Uno per sempre:
lo stesso, quello
acceso, all'alba, dal sangue
di mio padre.
ORESTE: Che bell'impresa, bella davvero,
fu questo tuo resistere!
Ma saprai, spero, spiegarmi adesso meglio
quali vantaggi contavi di riaverne.
ELETTRA: E lo domandi! E' chiaro:
serbare della casa
una memoria intatta.
ORESTE: Sterile culto
se vuoto dell'azione.
ELETTRA: Fu la mia forza: stare
immota e ben sicura
che eternamente mai
il cielo condiscende
all'ingiustizia.
ORESTE: E sapevi, di me, che sarei giunto?
ELETTRA: Tu o qualcun altro, ma qualcosa certo.
Esci dal'ombra adesso!
Vieni, fratello!
ORESTE: Vengo, sorella, e guarda:
eccolo Oreste che non ti può guardare.
Oreste fuoriesce dall'ombra. Avanza a passi pesanti, insicuri. Con le braccia distanziate dal corpo, e con una mano ancora armata. E' cieco.
ELETTRA: Ma cos'è che ti
spinge?
Non è l'occhio, è la mano.
E più ancora:
come quasi fiutando
per dirigere i passi
tu mi vieni di fronte e non vedi
tutto ciò che è d'intorno.
Tu sei cieco, o mio Oreste!
ORESTE: Ed è vero che fiuto.
L'odorato è in me il senso più fine.
E qui annuso i medesimi spazi
che fecero albergo a
un'infanzia tranquilla.
Lascia stare l'epilogo.
L'ho reciso, spiccato:
come un seme da mettere
altrove.
Lo deposi nel nido
delle orbite vuote, ora morte.
Del germoglio fu il frutto
questo buio che spando
d'attorno.
ELETTRA: Di chi l'opera? Tua?
Come fu? Quando avvenne?
Da quand'è che hai due piaghe per occhi?
ORESTE: E' da quando tu fremi.
ELETTRA: Da sempre? Da
allora?
ORESTE: Più preciso, più deciso che in te
fu in me il culto dell'odio.
Ecco i segni.
Vidi quello e nient'altro. T'ho detto:
la mattanza
è stata l'ultima scena ben chiara,
come un fermo dipinto, che la
luce m'ha impresso.
Poi, man mano, dapprima,
lungo l'arco dei mesi,
poi, più svelto, dei giorni e dell'ore,
declinò questo senso, passando
come grige vernici sul mondo. Murando
contorni e figure.
ELETTRA: Ma il motivo?...
Che male, o che mano lo
volle?
ORESTE: Non la mia. Cioè, non quella che vedi.
Ma una terza che ognuno possiede e non sa.
Una mano che rumina dentro,
che vegeta, sta.
Che, scordata, poltrisce e che a tratti
si desta, devasta e colpisce in ragione
di ciò che noi stessi davvero vogliamo.
Punirci, mia cara - capisci?
ELETTRA: Punirci per cosa?
ORESTE: La mano ti dice
per cosa tu implori una
qualche espiazione.
E sai come lo dice? Portandoti danno
alle gambe, al tuo sesso, nel
cuore o negli occhi...
Così te lo dice, e dal tipo
di danno che fa.
Bada: è giusto
bramare espiazioni,
poiché è giusto per gli uomini, a volte,
commettere colpe.
Son le Furie, sorella, le Furie.
Le ho vissute, le Furie, di dentro.
In questi anni di Furie ho vissuto.
E le Furie m'han tolto la vista.
Fu da quando m'avvidi dell'odio
che mi fece volere la morte
di Clitemnestra, mia madre...
Fu da lì che non vidi,
che la mano si mosse: le Furie
avvamparono in me. Sono un
reduce loro.
ELETTRA: Non comprendo il castigo
quando manca il delitto.
ORESTE: Il delitto non è
solo un gesto che compi,
ma una cosa che cresce.
E lentissima spesso.
A commetterlo, poi, da redenti
non residua che il gusto,
pari a quello che prova
l'affamato a sfamarsi.
ELETTRA: Ma tu dove sei stato
per tutto questo tempo?
Oreste sorride.
ELETTRA: E non ridere, rispondi!
ORESTE: Ad annoiarmi altrove.
ELETTRA: Ad annoiarti come?
ORESTE: Con le noiose Furie, eternamente ossesso
da un unico pensiero che era richiamo a quelle.
ELETTRA: L'odio, vuoi dire?
Simile al mio potente?
ORESTE: Non similmente
sterile.
Il tuo, vedi bene, esiste.
Niente ha fruttato, solo
questa vibrante cosa che percepisco sei.
Innocua quanto immota. Il mio, al contrario,
è ormai smaltito. Ne avanza quanto basta
per consumare il tempo di
giungere a mia madre.
ELETTRA: Sterile no!
E non estinto, è vero.
ORESTE: ... D'attraversare
quest'aula vasta e vuota dove, ricordo,
un tempo si mangiava.
ELETTRA: E più importanza ha ora
che in te non ha più forza.
ORESTE: ... E a quelle coltri giungee
più sudice del fango.
ELETTRA: Se tu distruggi io almeno
preservo una bandiera.
Nell'odio mio è serbato
lo stemma antico, Oreste.
E' quel che serve, credimi,
per nuovamente esistere.
ORESTE: ... Per lei sarà una gioia
sapermi ancora in vita.
ELETTRA: E perché poi rinneghi
una donna che arse
in attesa di te?
ORESTE: Io vado. Una seconda
esecuzione è da farsi.
Sta' serena,
Crisotemide o Elettra che tu sia.
Oreste retrocede
nell'ombra e scompare.
ELETTRA: Un assassino e basta
s'è dunque insinuato stanotte nei meandri
del palazzo e, quasi ignaro
di quanto sacro sia il colpo che disferra
tra noi s'aggira, da una
stanza all'altra.
Ma che importa? Che avvenga!
Lo faccia, è già molto.
Sarà, dopo, per me
un secondo e più alto dovere nutrire
di assoluto valore quel
colpo.
Ridare
alla casa memoria. Ridare
vero senso alle cose. Ridare
al futuro, alla Storia, il suo cuore.
PRIMA TAPPA DELLA RICERCA DI ORESTE
Oreste è presso il suo letto di quando era bambino.
ORESTE: Che luogo puro
e inabitato è questo?
Lo sento, ne non certo:
mai nessuno, da tempo, qui
s'inoltra.
Nulla lo traversa, non il vento
rapinoso di qui,
né l'afrore di marce
e stagnanti dolcezze che in altre stanze avverto.
Si tocca intorno.
ORESTE: Solo vuoto e paralisi
di oggetti.
Strette mura e qui un minuscolo
lettuccio imbalsamato.
Ma l'intaglio sopra ai bordi
fatti a chiocciola di mare...
Ah, sì, li riconosco!
M'afferravo a questi riccioli con mani di bambino.
Dunque è il mio letto, e attorno è la mia stanza.
E questa la traversa che quando stava eretta
era per me una sfida a
crescere più in fretta.
Adesso più nemmeno alla cintola m'arriva.
Ma ancora qui di sotto...
Mi pare c'è dell'altro...
Ma certo... Il vecchio vaso...
Sì, l'anfora sbrecciata
che ruppi in cima e che poi qui nascosi
timoroso del castigo. Il mio
segreto.
Dentro ci tenevo, un tempo, qualche gioco
poco gradito ai miei. Adesso, invece,
solo polvere lo colma. - O
no, piuttosto...
Non è polvere qui dentro.
E affonda la mano all'interno del vaso.
ORESTE: Non pulviscoli, ma falde
leggere di materia.
Sì, è cenere.
E dunque, questo vaso...
L'anfora mia
è diventata un'urna.
Segreta come allora, o forse più.
Ma cenere di chi?
In nome di chi e da chi
voluta e preservata?
DIALOGO TRA CLITEMNESTRA ED ELETTRA
Nella sala centrale. Clitemnestra, provenendo dal suo letto, avanza incontro ad Elettra.
ELETTRA: Perché mi perseguiti? Che vuoi?
CLITEMNESTRA: Io perseguito
me stessa.
Cerco pace, Elettra, solo pace.
ELETTRA: Tutti, qui dentro,
non chiedete nient'altro.
Ma a chi si deve se un tempo, in questa casa,
ogni ipotesi di pace fu estirpata?
CLITEMNESTRA: Ecco, fra tanti,
il solito tuo tema
prediletto.
Noto, però,
non il solito furore
ma afflizione, stavolta, ad
affrontarlo.
Perché non lo vuoi dire che pure tu sei stanca?
ELETTRA: Rinuncia a certe
indagini.
Più confacente, credimi,
per te è lo stordimento
che ormai ti fa da maschera.
CLITEMNESTRA: Fammi star qui.
Fammi parlare, Elettra.
ELETTRA: Non con me. Va' via!
Vattene in camera!
Chiuditi dentro e aspetta
che spenti siano i fuochi
di questi rari lampi di
coscienza.
Vedrai: ti lasceranno, come di norma, illesa.
CLITEMNESTRA: Ricordati chi
sei.
E chi son io per te.
ELETTRA: Non è paradossale? Tu che vieni
per dire a me: ricorda!
CLITEMNESTRA: Comprendi: è alla memoria
di affetti naturali che
voglio richiamarti.
ELETTRA: Troppo son forti, e densi di qualcosa
che molto non ci vuole perché muti
l'amore esagerato
in livida avversione.
CLITEMNESTRA: Ma è impossibile, volendo,
percorrere all'opposto quella
strada?
Son qui per questo, Elettra: per tentare,
a costo d'umiliarmi, di spegnere l'incendio.
Prima, ad esempio,
di lui mi domandavi
qualcosa dello sguardo, e
quali i suoi colori...
Non t'ho mentito il giorno in cui ti dissi
che gli occhi di tuo padre
erano scuri.
ELETTRA: Questo cos'è? Il tributo
perché noi due si parli? Oppure la maniera
di offrire la tua resa?
CLITEMNESTRA: Certo, m'arrendo e pago
il prezzo che m'hai imposto.
ELETTRA: Non più. S'è fatto
tardi.
Prima dovevi: innanzi a tutti dirlo.
CLITEMNESTRA: Ma già qualcosa
ho fatto.
Vedi? Ho ceduto.
E di più ancora: quanto
vuoi che ti dica sarò
disposta a dirti.
ELETTRA: E' tardi, madre.
Tardi.
CLITEMNESTRA: Tardi per cosa?
ELETTRA: Semplicemente tardi.
CLITEMNESTRA: Ti parlerò per
forza.
ELETTRA: Non c'è più tempo.
Poi non ha senso. Vattene!
CLITEMNESTRA: Lo farò, invece,
e per reciproco dovere.
Quasi vorrei
fare con te come fa lui con me
- per 'lui', capisci, intendo quello sposo
che ancora, scellerato, sta a ridosso del mio fianco. Sì, vorrei,
assai più che confessare, penetrare
ossa e midolla della mia vita stessa
che lì, a un diabolico
uncino s'è impigliata,
e ammatassata come in un groppo informe.
Disancorarmi: è questo
il sogno al quale ambisco.
Disciogliere la scorza che il tempo mio trattiene,
riprendere a patire
e, forse mai, a gioire
secondo la misura che ad ogni
età è dovuta.
L'involucro s'invecchia
ma dentro di me ancora in dura gabbia è chiusa
l'anima che è esclusa
da ogni esperienza umana.
E sino a smaltire il fiato che possiedo
questo sarò: una scriteriata
sonnambula vegliata
da un lamentoso insonne.
ELETTRA: Torna da lui:
t'aspetta.
Se vuoi riprova
a esibire la tua questua un altro giorno.
Un silenzio.
CLITEMNESTRA: Non c'è goccia
di speranza in quest'offerta.
Ma accetterei di tutto.
Tanto che accetto come una promessa
il modo in cui tu, figlia, mi discacci.
E va.
ELETTRA: Qualcosa in me ti porge
l'estremo suo saluto.
Non più ti rivedrò sgusciare da quell'antro
che il buio ha drappeggiato e in cui di te conservi
il peggio di te in reliquie.
Ho pena, ma non debbo.
Vicenda triste è questa
che solo la morte cura.
Anche Elettra si allontana.
SECONDA TAPPA DELLA RICERCA DI EGISTO
Oreste è dinnanzi al letto di Crisotemide, che si è tirata sù a guardarlo sconvolta. Oreste fiuta l'aria. Gli cola sangue dal braccio che impugna la spada.
ORESTE: Che improvvisa dolcezza
ora penetra il naso!
Ma chi vive qui dentro? Che clima
s'aggrega alle mura e calcina
di mite tepore i mattoni?
Inusuale alla casa
- e fluttuante, non come
nella stanza mia chiusa -
è il vivace profumo che
sento.
Tutto acido è altrove.
Oh, che requie! Qui a lungo sostare!
CRISOTEMIDE: Sei pagato da Elettra
per le sue sepolture? Chi
sei?
ORESTE: Io non credo un nemico.
E non credo
che tu debba temermi;
CRISOTEMIDE: Perché dici: "non credo"?
Può essere allora.
ORESTE: Tremi solo la donna
che ho per meta al mio viaggio.
CRISOTEMIDE: Quale donna?
ORESTE: Mia madre.
CRISOTEMIDE: Perdi sangue dal braccio...
ORESTE: Non è
sangue mio.
CRISOTEMIDE: Tu dunque sei
stato!...
Sei tu l'assassino!
ORESTE: Di chi?
CRISOTEMIDE: D'Egisto, scannato
questa notte qui dentro.
ORESTE: Tu ne piangi la morte?
CRISOTEMIDE: Era molto
per me. Mi fu padre. Mi
crebbe.
ORESTE: Ti fu padre e non padre,
mi par di capire.
CRISOTEMIDE: Rispondi:
sei tu che l'hai fatto?
ORESTE: Son io
l'assassino di chi fu l'assassino
di un autentico padre.
CRISOTEMIDE: Agamennone,
dici?
ORESTE: Sapevi chi fosse?
CRISOTEMIDE: Ora è chiaro chi sei: sei il fratello
di cui intesi parlare.
ORESTE: Crisotemide!
CRISOTEMIDE: Il figlio
che mia madre, sia in sonno che in veglia, vagheggia.
ORESTE: Lo riavrà con sé presto il suo caro figliolo.
CRISOTEMIDE: E pur tu lo sparviere
che, ululava, è volato stanotte qui dentro!
ORESTE: Come vedi
non sono un mistero. Il mistero
piuttosto sei tu.
CRISOTEMIDE: Allontanati! Grondi
un'orribile pioggia.
ORESTE: Ecco, è questo:
perché orribile dici qualcosa
che a te, orfana, allietarti dovrebbe?
Questa è pioggia di linfa
che più vita non dona ad Egisto?
CRISOTEMIDE: Questo è sangue,
anzitutto.
Ed io il sangue detesto.
Tutti i segni dell'odio,
li odio.
ORESTE: Ma tu, prima,
m'hai detto che Egisto fu
molto per te.
CRISOTEMIDE: Che mi crebbe,
t'ho detto.
E fu lui che conobbi. Agamennone no.
ORESTE: Ma fu lui
che sottrasse a te un padre, e a quel padre
di educarti, d'avere
con lui confidenza. Non vale
dunque nulla quel seme
che ti fece avvenire?
La radice nemmeno
da cui intera provieni?
CRISOTEMIDE: A pensarlo, sì, vale,
ma non sempre, per quanto si voglia,
il pensiero matura emozioni.
Pure Elettra era bimba e può a stento
ridirmi d'un naso, una bocca. Ma a caso.
Tenta, a volte, di farne
disegni.
Me li mostra per dirmi: "E' tuo padre!"
Non fu mai
in me posto quel germe che in
lei è contenuto.
Se sia un male od un pregio non so.
Ma in lei c'è, non in me: questo è il fatto.
E' la rabbia che intendo. La rabbia.
ORESTE: Di qui a dire che Egisto
fosse quasi un brav'uomo, parlarne
come di uno che amabile fosse...
CRISOTEMIDE: Per me questo lui fu.
ORESTE: Sicché è vero: ne
piangi la morte.
CRISOTEMIDE: L'emozione
vorrebbe, ma lo so che non debbo.
Vedi bene: non piango.
Con rabbia - ora sì - ma non piango.
E lo faccio in ossequio alla mia religione
che ha riassunto Agamennone
in dio.
Come dio resta ignoto - ma lo venero, certo.
Mentre Egisto fu noto,
e per me buon tutore.
Varie volte ha mischiato
il suo tempo col mio per
inezie...
Per un gioco infantile, o per dirmi,
tra due cose, qui sta il
meglio e qui il peggio.
Insegnandomi cifre e parole.
ORESTE: Ma che uccise lo sai?
CRISOTEMIDE: Ti dirò cosa credo.
Clitemnestra lo spinse.
Clitemnestra lo volle.
Solo adesso m'accorgo
che il mio cuore l'ha sempre
saputo.
E ora giunti a quel ciglio
che non mai valicare era un sogno,
ora a fronte del sangue che urge,
il velame si squarcia e lo vedo:
un imbelle era Egisto. A me pari
e a me padre per triste
elezione.
Un capretto, capisci? Un capretto
hai sgolato. Un indegno
di accedere a colpe superbe.
ORESTE: M'hai spiegato. M'astengo
da commenti o giudizi.
Il giudizio rinasce
ogni volta diverso.
Ma se è vero
che un'accusa tu muovi, e con
rabbia, a qualcuno...
Anzi, meglio: a qualcuna...
Dammi prova che è uguale la fibra
che trama ad entrambe le
carni.
Crisotemide, alzati!
Io lo sento che giaci.
Oreste tende verso di lei il braccio armato.
ORESTE: Questo braccio che gronda ora impugna
come un'arma e pilotalo al letto
dove ha tana la causa di tutto.
Crisotemide esita.
ORESTE: Da me solo non posso,
lo vedi.
Sono un vacuo ornamento
questi occhi ormai asciutti
di lacrime e luce.
Se ne giova il mio viso, non io.
Sù, prendimi e andiamo.
Crisotemide si alza. Prende per mano Oreste. I due vanno.
NELL'ULTIMO SONNO DI CLITEMNESTRA
Clitemnestra sta accucciata, tremante, ai piedi del suo letto.
CLITEMNESTRA: Di nuovo... Ah, di nuovo
fantasmi e variopinte menzogne fanno allegri
banchetti dove sono
io stessa la migliore
pietanza, la più ambita
delizia di quest'orgia.
Appigli, rostri, brecce
di terra fresca a cui
protendere le dita!
Sostegni!...
Sostegni a cui aggrapparmi!
Ai quali trattenermi! Che mano mi raggiunge?
Un braccio sù alla luce m'attira mentre l'altro
più fondo mi sospinge
in quest'orrido budello.
Tu, Egisto... Almeno tu...
Ah, restami compagno
e sposo qui all'estremo!...
SPARGIMENTO DELLE CENERI E MORTE DELLA REGINA
Nella sala centrale. Elettra è tornata con l'anfora già trovata da Oreste. In essa Elettra ha conservato le ceneri di Agamennone.
ELETTRA: Ineffabili scorie,
in cui intero s'addensa
del mio gran genitore
lo stupendo organismo!
Qui ancor tocco intestini e caviglie,
mani forti e pensieri,
e le palpebre e il viso
levigati nel buio
combusto colore
che ogni cosa equipara.
Giunto è il tempo
di non più riposare. Via, all'aria,
sacri resti del sommo sovrano!
E lancia intorno manciate di cenere.
ELETTRA: Vi ho serbati al sicuro
di chi, sciocco, credeva
ch'eravate dispersi.
Si ode, dall'interno, Clitemnestra che urla.
ELETTRA: Ecco una di quelli
là che piange i suoi torti.
Sia ben altro
destino al suo corpo:
sparisca!
Già so dove:
non ha limiti
la fredda cisterna in cui Egisto ho affondato.
Elettra vuota l'intera anfora in terrra. Sparge cenere ovunque e inizia a tracciarvi astrusi segni dentro, con le mani e coi piedi.
ELETTRA: Tu sollèvati, padre!
Tu sollèvati adesso, ritorna!
Ora vedo ov'è scritto compaia
nuovamente il tuo riso: in te
stesso.
Nella carne mutata
che carne tua fu! Sii materia
al tuo riavvenire! Rinasci!
Ritorna!
Ch'io ti possa vedere!
Clitemnestra sopraggiunge, disfatta, dal fondo. Crolla in terra.
ELETTRA: Dove cerchi
rifugio? Non più viva
ti voglio davanti!
E urlando
ELETTRA: E' qui, Oreste!
Vieni, prendila: è qui!
CLITEMNESTRA: Vieni,
Oreste...
La mia vita lo dice...
Tu ripeti il mio pianto.
Ah, sapessi che mostri
son venuti a braccarmi!
O sei tu un personaggio
delle mie fantasie,
o vederli non puoi.
Tanto forte è la voglia
di portarmi con loro
che facendolo in sogno
lo faranno comunque.
ELETTRA: Non c'è valico più
per te, madre, fra sogno e
non sogno.
Ecco i mostri che dici!
Sopraggiunge Oreste. Dopo di lui, Crisotemide.
CLITEMNESTRA: Perché muoio?
Ahi, perché tutto questo?
ORESTE: Sta lì al centro,
dove sento che geme?
ELETTRA: E' giù in terra,
caduta.
CRISOTEMIDE: No, si è alzata, ora fugge!
Clitemnestra è ora crollata tra le ceneri disparse. Non riesce più a venirne via.
CLITEMNESTRA: Non su questa
sabbia nera, non qui!
Mi penetra, mi punge
a sangue! Mi lacera. Macella.
Brucia! S'impasta
alle ferite, aspra
più del sale! E' fuoco!
Via!
Fatelo altrove, barbari, non
qui!
ELETTRA: Lo riconosci
qualche sembiante, in questa
sabbia, madre?
CLITEMNESTRA: Ah, che sete
del corpo mio ha la terra!
ELETTRA: Sia qui la pozza
che ti raccolga in liquidi!
Fallo, Oreste, fallo!
E nasconde gli occhi per non vedere.
ORESTE: Crisotemide, spingimi
lì verso il luogo mio.
CLITEMNESTRA: Chi quest'Oreste
che azzarda tanto nome?
Venga quel solo, l'altro...
Protegga me e ricacci
quest'impostura! Larve,
dove voi siete adesso?
ELETTRA: E' morta e ancora parla?
ORESTE: Non vedi che non vedo,
né so dov'è che sta?
ELETTRA: Se tanti cuori avesse
per quante parti ha il corpo,
non scoraggiarti, Oreste!
Punto per punto, uccidila!
Trafiggila nel centro
degli occhi e della lingua!
Giustiziale le mani,
le gambe, il petto, il dorso!
ORESTE: Pesto nel vuoto! Dove?
CRISOTEMIDE: Segui i miei passi, vieni.
CLITEMNESTRA: Ah, questa
sabbia è fango!
Ha giunchi, reti, maglie
come un pantano, e peggio.
Più non ne fuggo!
ELETTRA: E' presa
nel sortilegio: il volto
sotto di lei s'è fatto.
Come l'avvinghia! E' mosca
al centro delle bave.
CLITEMNESTRA: Coltre funesta, talamo
che già sognando vidi!
ORESTE: Ora ti tocco.
Più non parlare: urla!
CLITEMNESTRA: O figlio mio, difendimi da Oreste!
Oreste la colpisce. Clitemnestra, morta, ricade tra le ceneri.
ELETTRA: Di lui vestita,
di lui cosparsa e negra,
eccoti, madre:
Agamennone, adesso,
diventa il tuo sudario.
DOPO LA STORIA
Oreste, Crisotemide ed Elettra sono dinnanzi al corpo di Clitemnestra.
CRISOTEMIDE: Fratello mio...
Come potei guidarti?
In nome di che l'ho fatto?
ORESTE: Probabilmente
per vendicare Egisto.
Elettra va a passare una mano nera di cenere sulla guancia di Oreste. Poi lo farà con Crisotemide.
ELETTRA: E' qui tuo padre
che ti carezza il volto.
Anche a te, Crisotemide...
A te, che nell'aurora
una gran parte hai avuto;
Oreste si scosta. Asciuga la spada con un lembo della tovaglia. Si avvicina alla tavola. Un silenzio.
ORESTE: Questa lieve
inimicizia è superata.
Non è che il frutto di una lite in terra.
Inutile, sorelle, esagerarne
il peso e lo sconforto. Consumata
è ogni crisi. Questo è quanto. Crisotemide,
sorridi. E tu con lei, Elettra: ridi.
S'apre
dopo un lungo interludio innanzi a voi la vita.
ELETTRA: Né prima né durante
mi colse la stanchezza. Solo
adesso.
Brama ho di sogni, ma il sonno m'è vietato.
Vedono gli occhi cose
che, a cercarle, la mano non
le trova.
Deliro e del delirio
ho una coscienza quieta.
Questo sarà, infine,
serbato al mio futuro:
immagini che impastano il
nulla a ciò che esiste?
E vivere da insonni torpori inestinguibili?
Essere Egisto, insomma,
e Clitemnestra anche.
Cercare pace al corpo nel tempo che lo sfibra?
No, non lo voglio! Tutto
non è finito, Oreste! Tutto
per me comincia adesso!
CRISOTEMIDE: Ma in cosa ti smarrisci, Elettra cara?
ELETTRA: In un mostro, che
sorge per avermi.
Bene tu hai detto, Oreste: è la mia vita.
La grana dei miei giorni che si dispone in fila...
Di nuovo l'uno all'altro susseguenti:
impervi e tediosissimi
misteri.
Via da me ronzoni, blatte: èlitre cieche, ali... Via!
Non fu nulla lo sforzo sopportato. Ora mi scuoto.
E' di qui che esisto.
Siccome un'onda, di cui traudisco il suono,
alla realtà si ricongiunge il
tempo mio.
Come un serpe liberato
dalla morsa dei ghiacciai, si
spande e striscia...
E penetra, m'invade!...
CRISOTEMIDE: Ma guarda me, sorella: cerca
non nei troppi pensieri la tua pace, ma smorzando
questo rogo solitario in cui consumi.
ELETTRA: Dopo il delitto,
di cui già scordo il segno di giustizia,
donna dovrò
rimanere e basta.
Viver da donna, stretta
nelle funzioni ignote
che un senso danno
al grembo, alle chiome, al
seno, a queste forme?
Viver per gli altri, e viver d'altri? No!
Oh, no, non voglio! No, non voglio ciò che non conosco.
Ma un padre ancora!
Piuttosto, Egisto! Datemi un padre!
Una madre ancora! E queste notti,
e questi giorni...
Un'ingiustizia ancora!
La mia attesa, Oreste, perché me l'hai sottratta?
ORESTE: Elettra, per gli umani
la ragione è tutto.
Torna in te stessa. Vivi
coscientemente o dovrò fare con te come
con un povero cavallo storpiato nella corsa:
utile a sé
per tribolare e basta.
Crisotemide si accosta ad Elettra. Vorrebbe condurla alla tavola presso la quale è già seduto Oreste.
CRISOTEMIDE: Sta' qui con noi. Procàcciati
a forza un po' di quiete.
Forse ora hai fame. Siediti.
Già stilla il primo sole. E' freddo, eppure pesa
da giorni lo scirocco.
Anche le due sorelle vanno a sedersi. Oreste versa loro da bere.
ORESTE: Ho ucciso una madre,
e in qualche modo un padre.
Che di più
si può chiedere a un uomo?
Ora dovremo
ramificarci altrove.
E spartisce il pane con Elettra e Crisotemide.