ELOGIO DELLA MELA
DELLA PROVINCIA FRANCESE E…DI TUTTO QUEL CHE NE CONSEGUE
(entro in scena, guardo le mele del cestino, ne prendo una, la osservo e, rivolto al pubblico, inizio l’elogio)
La mela è davvero un frutto straordinario…tra l’altro è un frutto presente da sempre nella storia dell’uomo e nelle sue leggende: da Adamo ed Eva a Biancaneve, dalla mitologia greca a Guglielmo Tell e a Isacco Newton, ecc., ecc….
A proposito di mele vi voglio raccontare una breve storia, che mi riguarda e poi vi dirò perché…
(stacchetto con musica francese per creare il clima, il brano poi viene lasciato in sottofondo)
C’erano una volta due sorelle: Caroline e Stéphanie…e non si tratta della Caroline e della Stéphanie a cui state pensando in questo momento e che occupano spesso le copertine dei rotocalchi.
No, questa Caroline e questa Stéphanie erano nate rispettivamente nel 1847 e nel 1838 in una cittadina della provincia francese e, più esattamente, a Lamotte-Beuvron in Sologne, quella regione a sud di Orléans tra la Loira e la Cher, che è il paradiso dei cacciatori, degli amanti della natura e degli amanti dell’arte (i castelli sono circa quattrocento…sì…avete capito bene: quattrocento in un territorio di 500.000 ettari). Ed è anche il paradiso di quelli che apprezzano…la buona cucina.
Nel 1888 moriva il loro papà Jean…Jean Tatin. Caroline e Stéphanie gli succedettero nella direzione dell’Hotel Tatin.
Caroline era bravissima nel far sentire a loro agio gli ospiti. Sapeva creare un’atmosfera così familiare che gli ospiti si sentivano più degli amici che dei clienti.
Attorno a lei si era formata una specie di corte, tanto da far nascere il soprannome di “piccola principessa di Sologne”.
Se Caroline era la “principessa di Sologne” Stephanie era la “regina” dei fornelli. Il suo “regno” era la cucina ed era una cuoca bravissima.
La sua specialità era la torta di mele, croccante, caramellata e che si scioglieva in bocca che era una meraviglia.
Fu proprio in quella cucina che nacque, un mezzogiorno d’una giornata di caccia, una torta, che divenne famosa in tutto il mondo: la…”Tarte Tatin”.
Ci sono molte leggende che vogliono spiegare come nacque ma nessuno sa che cosa sia realmente accaduto quel giorno. Sta di fatto che quel dolce ebbe un enorme successo. Fu un vero colpo di genio:
trattava di una torta…al contrario, cioè con la pasta fatta cuocere sopra le mele invece che sotto.
Per gli abitanti di Lamotte-Beuvron (i lamottois) la Tarte Tatin divenne subito un motivo d’orgoglio e per difenderla dalle imitazioni e per impedire che qualcun altro se ne attribuisse la paternità fondarono, già nel 1901, la “Confrérie des Lichonneux” cioè dei “divoratori”, degli amanti della Tarte Tatin. Partecipano alle manifestazioni di carattere gastronomico in tutta la Francia e anche all’estero sempre difendendo la ricetta originale e condannando gli “eretici”. La loro divisa evoca l’abbigliamento che usavano una volta i contadini della zona: grembiule azzurro, foulard rosso, cappello nero e zoccoli.
Adesso vorrete sapere in che modo tutto questo mi riguarda personalmente e avete ragione…il fatto è che la Tarte Tatin è…il mio dolce preferito, tutto qui.
(musica celtica che poi accompagna quanto segue)
La mela, a quanto pare, proviene dalla Transcaucasia, crocevia di migrazioni e luogo d’origine delle prime comunità agricole. E proprio di lì partì alla conquista delle regioni temperate dell’Europa e, molto più tardi, del mondo. La mela ha fatto parte della cultura dell’uomo fin dalle prime luci della civiltà. Compare, pensate, già nelle antiche leggende mesopotamiche, come quella di Gilgamesh. Furono trovate mele carbonizzate destinate ad accompagnare i defunti nell’ultimo viaggio addirittura in tombe neolitiche in Italia ed in Svizzera
I Greci ne conoscevano già sei varietà. Golosissimi di mele erano gli Etruschi, che, a quanto dice Plinio il vecchio, erano anche dei maghi degli innesti. Furono loro, a quanto pare, a passare ai romani la voglia di mela. Essi ne impararono ben presto il potere nutritivo e portarono a una trentina le sue varietà. Era un frutto facilmente trasportabile e poteva quindi seguire senza difficoltà le legioni, che le portarono fin nelle isole britanniche. Nel Medio Evo i vescovi conti del Trentino favorirono la coltivazione delle mele.
Alla fine del XVI secolo, la “pomologia”, una vera e propria scienza, elenca più di cento tipi di mela solo in Francia. Nell’ottocento se ne contavano già 527 varietà. Gli incroci continui poi hanno portato alla creazione delle circa settemilecinquecento varietà di presenti oggi nel mondo.
Una curiosità:
i primi coloni americani: i “Padri pellegrini”, appena arrivati nel Massachusetts e sbarcarono nella Bay Colony
non piantarono una bandiera ma un melo, il primo a crescere nella terra che diventò gli Stati Uniti d’America.
Gli inglesi dicono: “An apple a day keeps the doctor away”, i francesi: “une pomme par jour éloigne le médecin pour toujours”, i tedeschi: “Ein apfel am Tag haelt den Doktor fern” e noi…meridionali…cosa dice, signora Pautasso? Che noi non siamo meridionali? Ma ne è sicura? Non ha mai pensato che (a parte gli eschimesi) tutti quanti siamo meridionali per chi sta più a nord di noi? Mi viene da ridere e anche un po’ di rabbia quando qualcuno si vanta di essere settentrionale rispetto a qualcun altro. E neanche mi piace quando se la prendono con chi è immigrato per il solo fatto che lo è. Ma come facciamo a non ricordare quanti dei nostri vecchi sono emigrati in altri paesi perché a casa loro si faceva la fame. Se poi abbiamo studiato un po’ di storia, pensandoci un attimo, vediamo che tutti i popoli odierni sono originati dal mescolarsi di genti diverse provenienti da altre terre.
Comunque, tornando alle mele, il nostro detto è, come tutti sanno: “una mela al giorno leva il medico di torno”.
Oggi potremmo anche dire: “leva l’oncologo di torno”, infatti alcuni ricercatori sostengono che alcune sostanze contenute nella mela possono prevenire l’insorgenza del cancro del colon oltre ad avere degli effetti positivi sulle arterie. Ma se ci mettessimo a spiegare tutte le virtù delle mele e dei loro derivati domattina saremmo ancora qua.
Certo per mantenersi in salute non basta mangiare mele o usare l’aceto di mele (derivato dal sidro) ma ci vuole una alimentazione equilibrata in cui certo anche le mele hanno il loro ruolo ma non sono sicuramente la panacea di tutti i mali.
Dalla mela si può partire per un viaggio affascinante, che dalla Tarte Tatin ci porterà al succo di mela, al sidro e poi al Calvados, frutto della distillazione del sidro, la “sublimazione della mela”.
(stop con la musica)
Adesso vorrei che i bambini venissero qui vicino a me perché ho qualcosa per loro (offro una mela ad ognuno).
Mentre sgranocchiate la mela (stiano tranquille le mamme: le ho lavate accuratamente) voglio raccontarvi una favola che spero vi piacerà…
Su un grande albero c’era gran quantità di fiori bianchi e splendenti al sole. Appena c’era un soffio di vento cominciavano a chiacchierare fra loro, a spettegolare e a vantarsi della loro bellezza e a parlare del loro futuro di bellissime mele.
In mezzo a loro c’era un fiorellino molto timido che non osava parlare agli altri.
Veniva canzonato da tutti e gli predicevano un futuro molto triste: “noi diventeremo delle bellissime renette e tu appassirai e non diventerai proprio niente”. Il fiorellino era sempre più triste e pensava: “Hanno ragione, non diventerò mai una bella mela, appassirò, nessuno parlerà mai di me e tutto sarà finito”. Strappava il cuore vederlo in quello stato.
Arrivò l’estate e i fiori cominciarono a perdere i petali e poi ad arrotondarsi. E anche il fiorellino timido perse i petali ma, mentre gli altri si facevano sempre più grandi e assumevano il colore giallastro della renetta matura, lui restava piccolo e verde e da lontano lo si sarebbe scambiato per un pisello.
Inutile dire che questo non migliorava certo il suo morale. Oltretutto le altre più ingrossavano più diventavano smorfiose. Si sarebbe potuto dire che più ingrossavano e più si gonfiavano di vanità. Ogni tanto si voltavano verso la piccola mela verde con disprezzo e bisbigliavano non so cosa ma sicuramente delle cattiverie.
A volte, per ferirla, parlavano forte per farsi sentire: “avete visto come sono ancora ingrossata; mio Dio, se continua questo caldo mi chiedo come diventerò!”
“Anch’io, diceva un’altra, e guardate il mio colore come si fa più bello con questo bel sole!”
“Oh sì, certo, sei bellissima, splendente” e via di seguito.
A sentire tutto questo e a vedere le sue compagne diventare mature si vergognava talmente che arrossiva e, naturalmente, temeva che si vedesse il suo rossore. E cosa succede quando abbiamo paura che ci vedano arrossire? Diventiamo ancora più rossi; e difatti fu proprio quello che avvenne alla melina. Le altre pensate che avrebbero fatto finta di niente? Al contrario. Anzi si misero a prenderla in giro: “ ma che bel colorito, piccolina. E’ stato il sole che ti ha fatta diventare così rossa?” “ Quando si arrossisce così non si ha la coscienza a posto”
La poverina, a forza di vergognarsi, era diventata scarlatta e provò sollievo vedendo arrivare la fine dell’estate. Pensava: “ Almeno quando avranno raccolto tutte queste belle mele resterò sola sull’albero e più nessuno mi prenderà in giro”.
Venne la metà di settembre, il cielo si rannuvolò e il vento minacciava di rompere i rami del melo che erano appesantiti dalla gran quantità di frutti che dovevano sopportare. Le mele erano enormi, mature e più arroganti che mai ma…avrebbero fatto meglio a mostrarsi più umili…infatti la loro buccia, fino ad allora bella liscia, cominciava a coprirsi di strane rughe piuttosto sgradevoli a vedersi.
Un mattino si sentì risuonare un passo pesante nel frutteto. “E’ il contadino! E’ il contadino!” gridarono le mele dei rami più alti, che erano anche quelle più boriose perché potevano sempre vedere quel che succedeva nei ditorni.
Era proprio il contadino e appena vide il melo che stava per cedere sotto il peso di tutti quei frutti esclamò: “Oh! Oh! Il sidro sarà eccezionale quest’anno” ma le mele non avevano mai sentito parlare del sidro e si chiedevano se fosse una particolare varietà di mela. Avrebbero ben presto saputo come si fa il sidro e cioè triturando le mele prima di pressarle e farle fermentare. Avrebbero ricevuto la giusta punizione per la loro boria.
D’improvviso il contadino notò, in mezzo a due grosse mele rugose, una piccola macchia rossa, che faceva di tutto per non farsi notare.
“ Ma è…una ciliegia e anche una bellissima ciliegia” Il contadino non riusciva a capacitarsi di ciò che vedeva.
La piccola mela non riusciva credere a quel che sentiva, era la prima volta che qualcuno diceva che era bella.
“Ma che cosa ci fa una ciliegia su un melo? Maria, vieni a vedere!”
Maria era la moglie del contadino. Appena vide la ciliegia (e si trattava proprio di una ciliegia, non c’erano dubbi) non perse la bussola e disse al marito: “Bisogna subito avvertire la televisione!”.
Detto fatto, in un attimo un esercito di giornalisti, cameraman, fotografi e tecnici delle luci invasero il frutteto. Sotto la luce dei riflettori la ciliegia arrossiva ancora di più. Alcune delle mele, accecate dalla loro vanità, pensavano che fossero venuti tutti per loro, avessero potuto avrebbero fatto la ruota come i pavoni.
Ad un certo punto un fotografo disse: “Non si potrebbe riprendere solo lei” “Nessun problema” rispose il contadino “raccoglierò subito tutte le mele”. E così fece con molta delicatezza per non far cadere la ciliegia. Quando ebbe finito disse ai fotografi: “Adesso potete continuare a fare le vostre foto, io ho del lavoro da fare”.
Andò a prendere la grossa botte che gli serviva per fare il sidro e vi chiuse tutte quelle vanitose, che non avevano giudicato la piccola ciliegia degna della loro amicizia.
L’indomani in tutto il mondo non si parlava d’altro che della piccola ciliegia nata su un melo. Diventò una star amata da tutto il pubblico, ma avendo conosciuto la sofferenza che può nascere dall’orgoglio degli altri, seppe tenere la testa a posto e non si lasciò stordire dalla celebrità.
Per quelle povere mele essere così triturate e torchiate poteva essere un disonore ma il sidro ottenuto era ed è una bevanda da re o addirittura da imperatori, visto che, a quanto pare, anche Carlo Magno ne era un appassionato consumatore.
Neanche gli intellettuali lo disdegnano: Jacques Prévert, il famoso poeta francese, per esempio, ne era un estimatore. Citando Prévert mi è venuta in mente una sua poesia che mi ha sempre emozionato.
Senti, Claudia, potresti leggere qui. Comincio io e poi, ad ogni segno che vedi, fermati e lasciami andare avanti, ok? E’ tutto chiaro.
(lettura poesia a due voci)
(mi verso un bicchiere di sidro e ne bevo un sorso mostrando di gradirlo molto)
(parte la seconda canzone francese, che sfuma in sottofondo quasi subito)
(“Sous le ciel de Paris”)
Non so se avete mai provato ad accompagnare una crèpe appena fatta con una “bolé” di sidro fresco. Se non lo avete mai provato vi invito a farlo, magari andando in qualche paesino della Normandia, dove il sidro è di casa, come anche il Calvados, frutto della sua distillazione. Da un miscuglio di sidro, succo di mela e Calvados nasce un’altra bevanda tipica della Normandia e da noi sconosciuta: il “pommeau”.
(con gesti piuttosto lenti mi metto il Borsalino, che poi toglierò, posandolo sul tavolo appena seduto, metto fra i denti la pipa, mi siedo al guéridon, mi verso un goccio di “Calvados”)
Un giorno, una trentina d’anni fa, mi trovavo per la prima volta a Parigi in compagnia del mio migliore amico, un amico fraterno, che purtroppo non c’è più. Ebbene tra le tante emozioni che provai visitando la “Ville Lumière” ci fu quella di un bicchiere di Calvados sorseggiato in un bistrò pensando alle inchieste del commissario Maigret.
Nella mia immaginazione era la Parigi di Simenon, che mi aveva accompagnato fin dall’adolescenza. La Parigi dei bistrò, delle portinaie chiacchierone, dei piccoli o grandi delinquenti, dei personaggi dalla doppia vita, delle chiatte sulla Senna e sui canali della sonnolenta provincia francese, delle notti insonni trascorse a far confessare gli assassini con l’ostinazione e la pazienza del ragno che tesse la sua tela e poi aspetta immobile la sua preda.
Per me come per tutti gli italiani di una certa età Maigret era Gino Cervi e leggendo i romanzi non riusciamo a non immaginarlo proprio come ce l’ha dipinto Cervi. Forse era un Maigret un po’ “italiano” con quella sua bonarietà tutta emiliana, ma Simenon forse lo aveva immaginato proprio così: un poliziotto sì ma anche un uomo che sapeva capire fino in fondo la psicologia dell’uomo e, proprio per questo, sapeva essere a volte indulgente e a volte implacabile. Non bisogna poi dimenticare che, secondo Simenon, Maigret era di origini provinciali. Suo padre era l’amministratore della tenuta del castello di Saint-Fiacre nell’Allier. I suoi genitori morirono presto e lui fu accolto dalla zia a Nantes. Fu quando la zia morì che si trasferì a Parigi. Importante fu l’incontro con Louise, che era alsaziana e che diverrà sua moglie. La “signora Maigret”, come la chiamava affettuosamente lui, visse sempre all’ombra del marito, che amava profondamente e di cui andava molto fiera.
(breve pausa, mi rimetto il cappello, mostro la pipa)
La pipa e il suo cappello i suoi “segni particolari” di un personaggio che faccio fatica a credere che sia nato dalla fantasia di uno scrittore. Per me esiste davvero e forse mi ha insegnato qualcosa…
Ora faremo una breve sosta, non andate via…
II parte
(musica jazz, che poi sfuma e fa da sottofondo)
Visto che parliamo di mele non possiamo non accennare almeno alla “mela” più grande del mondo. Vedo che qualcuno ha già capito. Sì si tratta della…”Grande Mela”, New York, quella che può essere considerata la capitale del mondo senza essere neanche la capitale dello stato americano dove si trova.
Ma sapete perché viene chiamata così?
Nel 1909 Edward S. Martin in un saggio su New York paragona lo Stato di N.Y. ad un melo il cui frutto “aristocratico” è N.Y.City, che riceve dal governo un sussidio sproporzionato rispetto agli altri stati dell’unione.
Nel 1924 il cronista sportivo John J Fitzgerald sul “N.Y. Morning Telegraph” usò questo termine, che aveva sentito da due stallieri afroamericani, per riferirsi all’ippodromo della città, che veniva considerato il circuito (la “mela”) più ambito e remunerativo. I musicisti jazz degli anni 30 e 40 dicevano che suonare nei club di Harem e Broadway era suonare nella “Grande Mela” mentre suonare lontano da N.Y.City era suonare “sui rami”.
Negli anni 70 Charles Gillet, che era il presidente dell’ufficio del turismo, usò il termine per promuovere l’immagine della città e il simbolo di New York divenne la mela rossa, che noi conosciamo. Nel 97 Rudolph Giuliani battezzò “Big Apple Corner” l’angolo tra la 54^ str. Ovest e Broadway, dove abitò John J. Fitzgerald dal 34 al 63 per rendergli omaggio come padrino della definizione.
(stop al jazz)
Scusate ma ora sento il bisogno di tornare in Italia, un po’ come tutti gli italiani dopo che sono stati per qualche tempo all’estero.
(musica italiana)
Nella Comunità Europea un decimo della produzione di mele viene dall’Alto Adige e
il luogo che potrebbe essere definito la patria della mela italiana è Lana, a due passi da Merano. Poche migliaia di abitanti ma una mela su cento di quelle prodotte nell’Unione proviene proprio di lì. Sono circa 60.000-70.000 le tonnellate prodotte ogni anno, che corrispondono a 6.000-7.000 vagoni . Sono mele oltretutto di ottima qualità. E siccome Lana è al vertice dei produttori altoatesini, proprio lì è stato istituito il museo di frutticoltura sudtirolese.
Ma non sono solo il Trentino e l’Alto Adige ad avere una tradizione nella produzione di mele. Anche il Piemonte ha una buona produzione soprattutto nella zona che fa capo a Cavour e Saluzzo. Il discorso sta rischiando di farsi troppo lungo. Mi limiterò quindi a citare soltanto alcuni luoghi e alcune varietà che sono state riscoperte di recente come la Mela Annurca della Campania, già raffigurata nella Casa dei Cervi
negli scavi di Ercolano, citata da Plinio il vecchio, la mela degli ozi cumani di Annibale, probabilmente.
Si ricomincia a coltivare i “Runsé”, le “Belle di bosco”, le “Lavine”. Si torna ad apprezzare la mela cotogna, molto amata dai pittori di nature morte del ‘600, soprattutto i caravaggeschi, per gli impareggiabili effetti di chiaroscuro.
Un’altra vecchia varietà italiana è la mela dell’Etna, coltivata sulle pendici del vulcano oltre i mille metri.
Ci sono poi le mele della Val di Susa: Carpendù, la Dolce di Chiomonte, la Giacchetta, la rossa di Mofiotto. Nomi degni di un poeta.
Ci sono alcune varietà prodotte in zone molto limitate in coltivazioni che si potrebbero definire familiari: la Carla aretina, la mela di S. Giovanni di Caprarola (che matura in piena estate, appunto a S. Giovanni, accanto al bellissimo palazzo Farnese), la mela Binotto della Lunigiana, che è una delle poche raccolte da piante spontanee, piccola, tonda e dal sentore di rosa.
Adesso torniamo ancora un momento in Francia per parlare di un tipo di frutto un po’ particolare: il frutto dell’Amore. Sì, avete sentito bene il frutto dell’Amore (con la A maiuscola).
Questo particolare frutto ha nomi diversi ma nasce dalla stessa pianta. Volete sapere i nomi di questi frutti ?
E’ impossibile citarli tutti perché nel corso dei secoli ne sono comparsi moltissimi. Ne dirò solo quattro che sono spuntati nel secolo appena trascorso:
Taizé
Emmaus
L’Arche
La Fondazione Raoul Follereau
E adesso vi dirò chi sono stati i “contadini” che hanno duramente lavorato, senza mai risparmiarsi, per ottenere questi meravigliosi frutti:
Frère Roger
L’Abbé Pierre
Jean Vanier e Père Thomas Philippe
Raoul Follereau
Taizé, nel sud della Borgogna, è sede di una comunità ecumenica internazionale fondata da frère Roger nel 1940. La preghiera e la condivisione della vita dei più poveri sono i pilastri su cui si fonda. Purtroppo frère Roger è stato ucciso, a 90 anni, da uno squilibrato il 16 agosto del 2005. E’ stato un maestro di ecumenismo e di carità vissuta in prima persona. Non era francese di nascita (era nato in Svizzera da mamma francese) ma il centro della sua attività fu, come ho detto, in Borgogna.
Comunque frère Roger è stato un regalo del cielo fatto a tutto il mondo. Per lui non esistevano barriere nazionali. L’Amore non ha confini, colore, lingua, religione perché è l’essenza stessa del mondo, dell’universo.
L’Abbé Pierre è stato un personaggio molto amato dai francesi anche se , per certi aspetti, un po’ controverso. E’ innegabile comunque che abbia fatto molto bene alla Francia e al mondo intero.
Quando acquistò, nel ’48 una vecchia casa a Neuilly Plaisance, alla periferia di Parigi, aveva in mente di farne un “albergo internazionale per la gioventù” per giovani orfani di tutti i paesi, affinché conoscendosi potessero dar vita a una nuova società più umana e la chiamò “Emmaus”.
Un giorno l’Abbé Pierre viene chiamato al capezzale di un certo George, un assassino rientrato a Parigi dopo vent’anni di lavori forzati. Era un alcolista, indebolito dalla malaria ed era rifiutato dalla sua famiglia. Aveva tentato di suicidarsi ma senza successo. Queste furono le parole che l’Abbé Pierre gli rivolse: “George, tu sei disperato e vuoi morire…io non ho nulla da darti ma tu vuoi darmi una mano per costruire case per i senzatetto?”. Gorge acconsente perché capisce che, seppur in quelle condizioni, può ancora essere utile a qualcuno. Da questi due uomini così diversi nasce la prima Comunità Emmaus. Nasce quasi “per caso” dunque come era solito dire l’Abbé.
Jean Vanier, canadese, già insegnante di filosofia all’Università di Toronto e padre Thomas Philippe, domenicano, nativo di Cysoin, vicino a Lille, che aveva insegnato teologia anche in Italia alla facoltà di teologia dei domenicani fondarono, nel 1964, l’Arche.
Proposero a Raphael Simi e a Philippe Seux, handicappati mentali di condividere la vita con loro nello spirito del Vangelo e delle Beatitudini enunciate da Gesù. Da quella prima comunità ne nacquero moltissime altre in tutto il mondo (due anche in Italia). Questi due meravigliosi “frutti” dell’Amore hanno saputo vedere il volto di Gesù negli altri, soprattutto in chi è meno fortunato.
E, per finire, Raoul Follereau, nativo di Nevers, che dedicò tutta la sua vita ai lebbrosi di tutto il mondo e a tutti gli emarginati promuovendo infinite iniziative a loro favore.
Suddivideva ogni anno in due parti: sei mesi per percorrere le terre dove sono relegati i lebbrosi, per cercarli, abbracciarli e distribuire loro tutti gli aiuti che era riuscito a raccogliere e sei mesi per viaggiare nelle nazioni ricche e scuotere con ogni mezzo le coscienze di tutti, mobilitandole in favore della sua missione.
Un episodio mi ha colpito leggendo la sua biografia:
nel 1954 e nel 1959 inviò due lettere ai capi di stato degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica chiedendo loro un bombardiere, vendendo i quali si sarebbero potuti curare tutti i lebbrosi del mondo ma non ottenne nessuna risposta.
Questi che ho citato non sono che una piccola parte dei frutti della carità che sono maturati in terra di Francia.
Certo i “contadini” che li hanno coltivati non si sono mai scoraggiati di fronte alle difficoltà, agli insuccessi, all’ingratitudine ed è il loro esempio che ci deve essere d’aiuto quando sembra che i nostri sforzi siano vani.
Se crediamo sul serio all’Amore, quello vero, non quello delle pubblicità o del cinema e della musica diciamo di…poco impegno, per usare un eufemismo, saremo in grado di spostare le montagne.
E adesso vi lascio e…mi raccomando mangiate le mele!
FINE