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W I L L I A M S H A K E S P E A R E

WILLIAM SHAKESPEARE

ENRICO V

Dramma storico in 5 atti

Traduzione e note di Goffredo Raponi

TITOLO ORIGINALE: “The Life of Henry the Fifth”


NOTE PRELIMINARI

1) Il testo inglese adottato per la traduzione è quello dell’edizione dell’opera completa di Shakespeare curata dal prof. Peter Alexander (“William Shakespeare - The Complete Works, Collins, London & Glasgow, 1960, pp. XXXII, 1370, con qualche variante suggerita da altri testi, in particolare quello della più recente edizione dell’Oxford Shakespeare curata da G. Welles & G. Taylor per la Oxford University Press, New York, 1994, pp. XLIX, 1274; quest’ultima contiene anche “I due cugini” (“The Two Kinsmen”) che manca nell’Alexander.

2) Alcune didascalie e altre indicazioni sceniche (“Stage instructions”) sono state aggiunte dal traduttore per la migliore comprensione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente ordinata ed intesa, il traduttore essendo convinto della irrapresentabilità del teatro shakespeariano - ed elisabettiano in genere - sulle scene moderne.

Si è lasciato comunque invariato, all’inizio e alla fine di ciascuna scena, e al movimento dei personaggi nella stessa, il rituale “Enter” - “Exit/Exeunt” (“Entra/Entrano” - “Esce/Escono”), avvertendo peraltro che non sempre queste dizioni indicano un movimento di entrata o uscita, potendosi dare che i personaggi cui si riferiscono si trovino già in scena all’inizio o vi rimangano alla chiusura.

3) Il metro è l’endecasillabo sciolto alternato da settenari. Altro metro si è usato per rendere citazioni, canzoni, strofette, strambotti, proverbi e altri, ogni qualvolta, insomma, si sia inteso riprodurre lo scarto stilistico presente nel testo.

4) I nomi dei personaggi sono dati nella forma italiana, se esiste, tranne quando sono preceduti dal titolo inglese (es. sir John Falstaff, lord Richard (Scroop)). Per Enrico, principe di Galles, si è conservato il diminutivo di Hal e Harry, quando ricorre nel testo, così come s’è fatto nelle due parti dell’“Enrico IV”. Nomi che in inglese sono sdruccioli o bisdruccioli, e perfino trisdruccioli (come Worcester, Lancaster, Westmoreland e altri) per ragioni di metrica sono a volte diversamente accentati.

5) Il traduttore riconosce di essersi avvalso di traduzioni precedenti, dalla prima versione poetica di Giulio Carcano (Sansoni,1858) alle più recenti di Cesare Vico Lodovici (Einaudi, 1960), Gabriele Baldini (Garzanti, 1980-88), Giorgio Melchiori (Mondadori, 1976-91) e altre, dalle quali ha preso in prestito, oltre all’interpretazione di passi non ben chiari o controversi, intere frasi e costrutti, di tutto dando opportuno credito in nota.


PERSONAGGI

IL CORO in funzione di prologo

RE ENRICO V

fratelli del re(I):

IL DUCA DI BEDFORD

IL DUCA DI GLOUCESTER

IL DUCA DI EXETER zio del re(II)

IL DUCA DI YORK zio del re(III)

IL CONTE DI SALISBURY

IL CONTE DI WESTMORELAND

IL CONTE DI WARWICK

L’ARCIVESCOVO DI CANTERBURY

IL VESCOVO DI ELY

cospiratori contro il re:

IL CONTE DI CAMBRIDGE

LORD SCROOP

SIR THOMAS GREY

ufficiali dell’esercito del re:

SIR THOMAS ERPINGHAM

GOWER

FLUELLEN

MAC MORRIS

JAMI

soldati dell’esercito del re:

BATTISTA

CURZIO

GUGLIELMO

NYM

BARDOLFO

PISTOLA

UN RAGAZZO paggio di Falstaff

UN ARALDO

CARLO VI re di Francia

LUIGI IL DELFINO suo figlio

IL DUCA DI BORGOGNA

IL DUCA D’ORLEANS

IL DUCA DI BORBONE

IL DUCA DI BRETAGNA

IL CONNESTABILE DI FRANCIA

nobili francesi:

RAMBOURES

GRANPRÉ

IL GOVERNATORE DI HARFLEUR

MONTJOIE araldo francese

ISABELLA regina di Francia

CATERINA figlia di Carlo VI e di Isabella

ALICE dama di compagnia della principessa Caterina

L’OSTESSA della taverna “Alla testa di cinghiale” a Eastcheap, già Mistress Quickly, ora moglie di Pistola.

Ambasciatori del re d’Inghilterra

Nobili inglesi e francesi

Dame

Ufficiali e soldati inglesi e francesi

Messaggeri

Persone del seguito dei due re

SCENA: parte in Inghilterra, parte in Francia.


PROLOGO

Entra il CORO

CORO -                                  Oh, aver qui una Musa tutto fuoco,(1)

per poterci levar sempre più in alto

nell’immaginazione,

verso più intense e luminose sfere!!

E un regno per scenario,

principi per attori,

una platea di re per spettatori

di questa grande rappresentazione!

Vedremmo allora agir, come dal vero,

su questa scena, il bellicoso Enrico,

nel portamento simile ad un Marte,

recandosi al guinzaglio come cani

impazienti di agire al suo comando,

la fame, il ferro, il fuoco…

Perdonate, cortesi spettatori,

le nostre disadorne e anguste menti

se abbiamo osato presentarvi qui,

su questo nostro indegno palcoscenico,

sì grandioso argomento.

Come potrebbe mai questa platea

contenere nel suo ristretto spazio,

le sterminate campagne di Francia?

Come stipare in questa “O” di legno(2)

pur solo gli elmi che tanto terrore

sparsero per il cielo di Azincourt?

E perciò, vi ripeto, perdonateci;

ma se può un numero, in breve spazio,

con uno sgorbio attestare un milione,

che sia concesso a noi, semplici zeri

d’un sì grande totale, stimolare

col nostro recitar le vostre menti.

Immaginate dunque che racchiusi

nella cinta di queste nostre mura

si trovino due regni assai potenti,

e che le loro contrapposte fronti

alte erigentesi su opposte sponde

separi un braccio di rischioso mare.

Sopperite alle nostre deficienze

con le risorse della vostra mente:

moltiplicate per mille ogni uomo,

e con l’aiuto della fantasia

createvi un poderoso esercito.

Quando udrete parlare di cavalli

pensate di veder cavalli veri

stampar l’orme dei lor superbi zoccoli

sopra il molle terreno che le accoglie.

Sarà così la vostra fantasia

a vestire di sfarzo i nostri re,

a menarli dall’uno all’altro luogo,

saltellando sul tempo,

e riducendo a un volger di clessidra

gli eventi occorsi lungo diversi anni;(3)

e a questo fine vogliate permettere

a me, Coro, d’entrare in questa storia,

e di pregarvi qui, in veste di Prologo,

di ascoltar con benevola pazienza

il dramma che vi andiamo a presentare,

e con molta indulgenza giudicarlo.


atto primo

SCENA I - Londra, il palazzo reale.

Entrano l’ARCIVESCOVO DI CANTERBURY E IL VESCOVO DI ELY

CANTERBURY -                 Vi dirò, monsignore: il Parlamento

sta per riesaminare quel progetto

che già stava sul punto di approvare

nell’undicesimo anno di regno

dell’altro re; e lo avrebbe passato,

senza dubbio, con nostro grave danno,

se non l’avessero rimesso indietro

i tumulti ed i torbidi del tempo.

ELY -                                     E adesso come fare, monsignore,

per impedir la sua approvazione?

CANTERBURY -                 Eh, converrà pensarci seriamente:

se quel progetto dovesse passare,

noi ne verremmo a soffrire la perdita

d’una buona metà dei nostri beni:

ci verranno sottratte, in verità,

tutte le terre venute alla Chiesa

per lascito di pii benefattori,

per un valore calcolato eguale

a quanto servirebbe a mantenere,

per l’onore del re, quindici conti

con equipaggiamento al più completo,

più millecinquecento cavalieri,

più seimiladuecento palafreni;

a provvedere inoltre a un centinaio

fra lazzaretti e ospizi per vecchi,

ed a versare alle casse del re

mille sterline all’anno.

Ecco quanto dispone quel progetto.

ELY -                                     Una bella bevuta, in fede mia.

CANTERBURY -                 Da tracannarci giù pure il bicchiere!

ELY -                                     Ma in che modo impedirlo all’ora attuale?

CANTERBURY -                 Il re si mostra pieno di riguardi

con noi, e d’affettuosa umanità.

ELY -                                     Ed è fedele amico della Chiesa.

CANTERBURY -                 I trascorsi della sua giovinezza

non ce l’avrebbero fatto sperare;

eppure appena l’ultimo respiro

ebbe lasciato il corpo di suo padre,

fu come se la sua dissolutezza,

si partisse da lui, mortificata;

e discendesse in lui, in quell'istante

come dal cielo un angelo, uno spirito

d’austerità, a sradicarne il seme

di Adamo peccatore, (4)

e fare del suo corpo un paradiso

capace d’albergar celesti sensi.

Mai scolaro fu tanto pronto e vivo

nell’imparare; mai fu conversione

tanto improvvisa e tanto travolgente

da lavar, con il suo flusso violento,

i peccati; né fu mai così presta

la pervicacia dalla testa d’Idra(5)

a perdere il dominio su di un uomo.

ELY -                                     Un mutamento che per noi è stato,

senza alcun dubbio, una benedizione.

CANTERBURY -                 E a sentirlo parlar di teologia,

vi suscita una tale ammirazione

da farvi nascere il desiderio

di veder questo re fatto prelato;

a sentirlo, per contro, disquisire

sugli affari civili dello Stato,

si direbbe che in tutta la sua vita

non si sia mai interessato d’altro;

ascoltatelo poi parlar di guerra,

e sarà come udire messo in musica

il tremendo fragor d’una battaglia.

Portategli il discorso su argomenti

che richiedano acume e sottigliezza,

vi saprà sciogliere il nodo gordiano(6)

di tutto, come la sua giarrettiera;

basta che parli appena, e l’aria intorno,

come un’impenitente libertina,

si ferma, ed una muta meraviglia

s’acquatta negli orecchi della gente,

quasi a volerne carpire le frasi

che gli sgorgano dolci come il miele;

talché sei pur costretto a riconoscere

ch’è stata l’esperienza sua di vita

ad essergli di ciò buona maestra;

e c’è davvero da meravigliarsi

come sua grazia n’abbia profittato

da ricavarne tanto,

se si pensa quanto sia stato incline

ad andar dietro a vane frivolezze

a preferire certe compagnie

di gente rozza e illetterata e vuota;

alle tante ore trascorse in bagordi

e vani passatempi d’ogni specie,

senza che mai potesse in lui notarsi

il minimo interesse per gli studi,

per il raccogliersi in solitudine

lontano dai rumori della piazza

e dalle compagnie rozze e volgari.

ELY -                                     La fragoletta germoglia e matura

sotto l’ortica, e bacche salutari

si sviluppano e crescono più belle

vicino ad altre di specie inferiore;

così il principe Enrico:

sotto il velo della selvatichezza

ha oscurato la sua indole seria,

che, senza dubbio, dev’esser cresciuta

di notte, come l’erba nell’estate

che si sviluppa meglio inavvertita,

di notte, per innata facoltà.

CANTERBURY -                 Così è stato di lui, sicuramente;

perché è passato il tempo dei miracoli,

e se succede quello che succede,

non si può non ammetter la presenza

di forze che producon quegli effetti.

ELY -                                     Ma per tornare ora a quel progetto

in discussione davanti ai Comuni,

che fare per almeno mitigarlo?

Il re è incline ad approvarlo, o no?

CANTERBURY -                 Per il momento sembra indifferente,

anzi, più incline dalla nostra parte

che ben disposto a lusingar le attese

dei suoi presentatori, a noi contrari;

e ciò perché io stesso,

nel nostro usato incontro spirituale,

parlando con sua grazia un po’ alla larga

degli affari che sono sottomano

e accennando alla spedizione in Francia,

ho offerto al re una somma di denaro

assai maggiore di quanto la Chiesa

abbia mai dato ai suoi predecessori.

ELY -                                     E come è stata accolta questa offerta?

CANTERBURY -                 Con molta buona grazia, devo dire;

salvo che mancò il tempo per parlare

- come parve che anch’ei desiderasse -

delle molteplici e chiare ragioni

che gli dan titolo ad avanzare,

in quanto discendente da Edoardo,

suo trisnonno,(7) legittime pretese

sopra alcuni ducati, ed in sostanza,

sulla corona e sul trono di Francia.

ELY -                                     E che cosa ha interrotto quel colloquio?

CANTERBURY -                 Proprio in quel punto è giunta una richiesta

d’udienza dall’ambasciator francese;

e mi pare sia proprio questa l’ora

fissatagli dal re. Non son le quattro?

ELY -                                     Esattamente.

CATERBURY -                                          Andiamo dentro, allora,

per conoscere questa ambasceria;

di cui, del resto, posso indovinare

facilmente il tenore, prima ancora

che il francese apra bocca.

ELY -                                                                                  V’accompagno,

ché sono anch’io ansioso di ascoltarlo.

(Escono)


SCENA II - Londra, la sala del trono del palazzo.

Entrano RE ENRICO, GLOUCESTER, BEDFORD, EXETER, WARWICK, WESTMORELAND e altri

ENRICO -                              Dov’è sua grazia il mio Lord di Canterbury?(8)

EXETER -                              Non è qui, maestà.

ENRICO -                              Mandatelo a chiamare, caro zio.

WESTMORELAND -           Mio sovrano, possiamo far entrare

l’ambasciatore?

ENRICO -                                                          Ancora no, cugino.

Prima di sentir lui,

vorremmo aver deciso qui, tra noi,

certe questioni di grande importanza

riguardo me e la Francia,

che occupano molto i miei pensieri.

Entrano l’ARCIVESCOVO di CANTERBURY e il VESCOVO di ELY

CANTERBURY -                 Dio Signore e i suoi angeli

proteggano il vostro sacro trono,

e facciano che l’occupiate a lungo!

ENRICO -                              Vi ringraziamo, mio dotto signore,

e vi preghiamo ora di spiegarci,

se, secondo giustizia e religione,

la legge salica esistente in Francia(9)

potrebbe o no precluderci la via

a far valere le nostre pretese.

Dio ne guardi, però, vi dico subito,

che voi, mio caro e fedele signore,

aggiustiate e pieghiate e snaturiate,

per compiacenza, le vostre letture,

così da caricarvi la coscienza

di bei sofismi a difesa di titoli

la cui pretesa legittimità

non sia d’accordo con la verità:

perché Dio solo sa

quanti che oggi son vivi e in salute

dovran versare il sangue

per sostenere quelle decisioni

alle quali la reverenza vostra

potrà spronarci con il suo responso.

Perciò pensate bene

a quali impegni voi potrete esporre

questa nostra persona, e risvegliare

la spada della guerra, ora assopita.

Vi comandiamo nel nome di Dio,

di ponderare bene il vostro avviso:

perché questi due regni

mai vennero a conflitto tra di loro

senza che fosse sparso molto sangue;

ed ogni goccia innocente di esso

sarebbe come un grido di dolore,

una voce d’accusa e di protesta

contro chi avesse, senza giusta causa,

affilato le spade

a cagionar tal massacro di vite

già fatte da natura tanto brevi.

Con questo avvertimento, monsignore,

parlate pure, e noi vi ascolteremo

prendendo nota dei vostri consigli,

convinti come siamo, in fondo all’animo,

che tutto quanto vi uscirà di bocca

ha già trovato purificazione

nel lavacro della coscienza vostra,

come il primo peccato nel battesimo.

CANTERBURY -                 Bene, allora, grazioso mio sovrano,

ascoltatemi; e voi, nobili Pari,

che a questo trono avete consacrato

la vostra vita ed i vostri servigi.

Alle pretese della altezza vostra

sopra il trono di Francia

non ci son preclusioni, salvo questa

da loro attribuita a Ferramondo:

“In terram salicam mulieres ne succedant”(10)

“Non succedano donne in terra salica”.

I francesi sostengono, ma a torto,

che “terra salica” è il regno di Francia,

ed esser Ferramondo il promotore

di questa legge che esclude le donne

dal diritto di successione al trono.

Senonché son gli stessi loro autori

a precisare in modo chiaro e netto

che il territorio detto “terra salica”

è in Germania, tra i fiumi Sala ed Elba,

ossia nel luogo dove Carlomagno,

dopo aver vinto e sottomesso i Sassoni,

lasciò che s’insediassero colonie

di genti franche; e queste, avendo a sdegno

le donne di quel popolo germanico

per certi mali lor comportamenti

e disonesto costume di vita,

stabilirono appunto quella legge:

e cioè - dico - che nessuna donna

potesse ereditare in terra salica;

la quale “terra salica”, ripeto,

è la terra che sta tra l’Elba e il Sala,

oggi chiamata dai tedeschi Meissen.

È chiaro dunque che la legge salica

non fu sancita pel regno di Francia.

Del resto i Franchi vennero in possesso

della sunnominata “terra salica”

dopo ben quattrocentoventun anni

dalla morte di quel re Ferramondo,

di quella legge ritenuto a torto

il padre; e Ferramondo venne a morte

nell’anno quattrocentoventisei

dell’era della nostra redenzione,

e fu solo nell’ottocentocinque

che Carlomagno sottomise i Sassoni

e fece stabilir colonie franche

nelle terre di là dal fiume Sala.

Inoltre dicono i loro scrittori

che re Pipino il Breve, (11)

dopo avere deposto Childerico,

avanzò la pretesa alla corona

di Francia, come erede universale

in quanto discendente da Bitilde,

figlia del re Clotario.

E del resto lo stesso Ugo Capeto,

usurpò il titolo e la corona

ch’era di Carlo, duca di Lorena

- unico erede maschio in linea retta

da Carlomagno - e per dare al suo titolo,

impuro e nullo al cospetto del vero,

una parvenza di legalità,

si proclamò erede di Lingarda,

figlia di Carlomanno, che, a sua volta,

era figlio a Luigi imperatore,

e Luigi era figlio a Carlomagno.

E re Luigi Decimo,(12) anche lui,

erede del Capeto imperatore,

non si sentì con la coscienza a posto

nel rivestir la corona di Francia

finché non fu accertato che sua nonna,

l’affascinante regina Isabella,

discendeva in diretta da Ermengarda,

figlia del detto Carlo di Lorena,

grazie al cui matrimonio col re franco(13)

si poté dire che la linea retta

di Carlomagno s’era riallacciata

alla corona di Francia. E così

è chiaro a tutti come il sol d’estate

che tanto il titolo di re Pipino

quanto le aspirazione del Capeto,

quanto i fatti che fecero svanire

gli scrupoli di re Luigi Decimo,

trassero tutti il loro fondamento

da un diritto ed un titolo di donna;

e questo è vero per i re di Francia,

oggi, per quanto vogliano essi addurre

la vigenza di quella legge salica

per rigettare le vostre pretese

derivate da linea femminile,

e preferiscano andarsi a nascondere

dietro tutta una rete di cavilli,(14)

per evitare di esporre alla luce

gli zoppi loro titoli, usurpati

da loro a voi ed ai vostri proavi.(15)

ENRICO -                              Poss’io dunque, in diritto ed in coscienza,

far valer oggi questa mia pretesa?

CANTERBURY -                 Se c’è peccato, mio temuto sire,

ricada sul mio capo,

poiché sta scritto nel libro dei Numeri:(16)

“Se muore il figlio maschio,

passi l’eredità alla figlia femmina”.

Riprendetevi dunque, senza scrupoli,

mio grazioso signore, ciò che è vostro;

date al vento i vessilli della guerra,

lo sguardo volto ai vostri avi possenti.

Recatevi, temuto mio signore,

alla tomba del vostro grande nonno

dal quale derivate il vostro titolo,

invocate il suo spirito guerriero

insieme a quello del “Principe Nero”

vostro prozio Edoardo di Galles

che fu per i francesi una tragedia,

quando distrusse tutto il loro esercito,

mentre il padre, dal sommo d’un’altura,

contemplava, seduto e sorridente,

il suo leoncello che spargeva intrepido

lo sterminio tra i nobili di Francia.

Oh, quegli eroici figli d’Inghilterra

che con solo metà delle lor forze

impegnarono vittoriosamente

tutto il superbo esercito francese,

mentre l’altra metà, fuor dalla mischia,

se la rideva come spettatrice!

ELY -                                     Di quei morti gloriosi

risvegliate, signore, la memoria

e rinnovate le lor gesta eroiche

col forte vostro braccio.

Voi siete il loro erede e successore,

e sedete sul loro stesso trono;

lo stesso sangue che diè loro fama

scorre animoso nelle vostre vene,

e il mio tre volte possente sovrano

è nel radioso mattino di maggio

della sua giovinezza, ormai maturo

per magnifiche imprese militari.

EXETER -                              I vostri confratelli re e monarchi

di tutto il mondo attendono da voi

che vi leviate in piedi,

come al lor tempo fecero i leoni

del vostro sangue antico.

WESTMORELAND -           Essi sanno che vostra maestà

ha dalla parte sua la buona causa

e i mezzi e la potenza necessari

per perseguirla: mai re d’Inghilterra

ebbe con sé più facoltosi nobili

e più leali e affezionati sudditi:

i loro cuori han già lasciato il corpo

in Inghilterra, e sono acquartierati

sotto una tenda sui campi di Francia.

CANTERBURY -                 Fate perciò, amato mio sovrano,

che appresso ai cuori vadano anche i corpi

a riscattar col sangue, il ferro e il fuoco,

in Francia, quei diritti che son vostri.

Mentre noi del potere spirituale,

come contribuzione a questa impresa

raccoglieremo per vostra maestà

tale imponente somma di denaro

qual mai provvide il clero in una volta

a nessuno degli antenati vostri.

ENRICO -                              Noi non dobbiamo solamente armarci

per invader la Francia;

è necessario che lasciamo qui

un tal presidio che sia sufficiente

a difenderci contro lo Scozzese,

che non mancherà certo l’occasione

d’avvantaggiarsi della situazione

e di saltarci addosso.

CANTERBURY -                 Le genti delle marche di confine

basteranno da sole, vostra grazia,

a difendere i nostri territori

da certi predatori di frontiera.

ENRICO -                              Non intendiamo solo i predatori

e le possibili lor scorribande;

è che temiamo le brutte intenzioni

dello Scozzese, il quale sempre è stato

per noi un malsicuro vicinante;

perché potete legger nelle cronache

che non ci fu una volta

che il mio avo passasse con l’esercito

in Francia senza che questo Scozzese

dilagasse nel suo sguarnito regno

con l’impeto di tutte le sue forze,

come fa il mare attraverso una breccia,

infierendo, con furibondi assalti,

sugli indifesi nostri territori,

e cingendo di doloroso assedio

città e castelli; sì che l’Inghilterra,

vuota di difensori, ne fu scossa,

tremante e sbigottita dal terrore

di quel pericoloso suo vicino.

CANTERBURY -                 Fu comunque per essa, mio sovrano,

più paura che danno: udite infatti

qual mirabile esempio di se stessa

ha lasciato alla storia l’Inghilterra:

quando tutta la sua cavalleria

era in terra di Francia, e il paese,

privato dei suoi nobili,(17)

sembrava come una vedova in lutto,

non solo seppe difendersi bene,

ma catturò e ridusse prigioniero

come un cane randagio accalappiato

il re di Scozia,(18) che spedì in Francia

a riempire di re prigionieri

la gloria di Edoardo ed arricchire

d’altra lode la vostra dinastia,

così come la melma in fondo al mare

s’arricchisce d’innumeri relitti

e d’ingenti tesori inabissati. (19)

WESTMORELAND -           In Inghilterra c’è un antico detto

dimostratosi sempre veritiero:

“Se la Francia volete conquistare,

“dalla Scozia dovete cominciare”.

Perché ogni volta che l’aquila inglese

è uscita dal suo nido per predare,

la faina scozzese, come un ladro,

s’è accostata furtivamente al nido

per succhiarne le uova principesche;

e, come il topo quando non c’è il gatto,

ha provocato più danno e rovina

di quanto avesse potuto mangiare.

EXETER -                              Ne consegue che mai dovrebbe il gatto

lasciar la casa; ma è rimedio estremo,

visto che non ci mancan serrature

per custodire quanto ci necessita,

né trappole per acchiappare i ladri.

Mentre la mano combatte con l’armi

fuori casa, l’accorta mente in casa

ben sa come difendersi;

e il buon governo, armonizzando insieme,

come in musica, l’alte e basse parti,

tutte le accorda in natural cadenza.

CANTERBURY -                 Perciò il cielo provvede a scompartire

in diverse funzioni l’uman genere,

e le mantiene sempre in movimento

assegnando a ciascuna,

come supremo fine e vocazione,

un’obbediente subordinazione;

così è delle api, creature

che, seguendo una legge di natura,

insegnano ad agire con quell’ordine

che si conviene a un popoloso regno:

esse hanno infatti una loro regina,(20)

e funzionari d’ogni ordine e grado,

dei quali alcuni fanno i magistrati

e amministrano in casa la giustizia;

altri, ch’hanno l’ufficio di mercanti,

s’avventurano in traffici all’esterno;

altri, come soldati di un esercito,

vanno in giro a predar, coi pungiglioni,

i vellutati calici d’estate,

per poi tornare, con allegro volo,

a riportare a casa il lor bottino,

nella tenda del loro imperatore;

il quale, nella alacre sua maestà,

sorveglia tutt’intorno nel suo regno

i fuchi muratori che, cantando,

innalzano dorate costruzioni;

i fuchi addetti ad impastare il miele;

quelli addetti ai trasporti

che fan ressa davanti al breve ingresso

per entrare coi loro gravi carichi;

il giudice che, con severo sguardo

e col tetro ronzio delle sue ali

affida i fuchi oziosi e sonnolenti

alle grinfie di pallidi carnefici.

Da tutto questo son tratto a concludere

che molte cose, quando siano volte

consensualmente ad uno stesso fine,

possono tutte, pur da opposte parti,

convergere in un punto, come frecce

che, scoccate da opposte direzioni,

convergono su un unico bersaglio;

così come anche, dentro una città,

vie provenienti da diverse parti,

o come molti corsi d’acqua dolce

che confluiscono allo stesso mare;

come le linee della meridiana

che s’incontrano al centro del quadrante.

Alla stessa maniera, molte azioni

possono confluire a un solo scopo,

e ciascuna attuarsi pienamente,

senza che l’una sopraffaccia l’altra.

E dunque, mio sovrano, in Francia, in Francia!

Spartite in quattro parti l’Inghilterra:

una in Francia con voi,

e farete tremar tutta la Gallia;

e noi, con le tre parti qua rimaste,

se non sarem capaci di difenderle

dai cani, questi che ci sbranino pure,

e perda pure la nostra nazione

la sua reputazione di arditezza

e di sagace accortezza politica.

ENRICO -                              Introducete i messi del Delfino.

(Escono alcuni del seguito)

Ora sappiamo bene quel che fare:

con l’aiuto di Dio e di voi tutti

che della nostra forza militare

siete la nobile muscolatura,

la Francia essendo nostradi diritto,

o la pieghiamo in nostra signoria,

o ne facciamo un mucchio di rovine.

O siederemo là

a governare con maestà imperiale

la Francia e i suoi ducati,

vasti molti di loro come regni,

o faremo giacere le nostre ossa

dentro un’urna ingloriosa, senza tomba,

o altro segno che ne dia memoria;

o di noi parlerà alto la storia

proclamando le nostre gesta al mondo,

o il luogo della nostra sepoltura,

simile a un turco muto,(21)

avrà una bocca priva della lingua,

e nemmeno l’effimera onoranza

d’un epitaffio inciso sulla cera.

Entrano gli AMBASCIATORI DI FRANCIA

Eccoci preparati ad ascoltare

i desideri del nostro cugino,

il nobile Delfino: ché è da lui,

siccome abbiamo udito, e non dal re,

suo padre, voi venite.

PRIMO AMBASC. -             Vorrà vostra maestà darci licenza

di espletare con piena libertà

di parola la nostra ambasceria,

o ci dovremo invece limitare

a riferirne in termini generici,

risparmiandoci le parole grosse,

e il pensiero e il messaggio del Delfino?

ENRICO -                              Voi siete qui in faccia a un re cristiano,

non davanti a un tiranno;

un re cristiano in cui divina grazia

mantiene ben costrette le passioni,

così come lo son nei loro ceppi

i condannati nelle nostre carceri.

Diteci dunque in modo franco e netto

quello che vuole da noi il Delfino.

PRIMO AMBASC. -             Allora, in breve, così stan le cose:

vostra altezza ha mandato ultimamente

in Francia a reclamare dei ducati

in forza di diritti ereditari

che fanno capo al suo grande antenato

il re Edoardo Terzo d’Inghilterra;

in risposta alla qual vostra pretesa

il nostro principe vi manda a dire

che voi forse sentite ancora troppo

del sapor della vostra giovinezza,

e v’invita a riflettere che in Francia

non c’è nulla che possa conquistarsi

a disinvolto passo di gagliarda,(22)

né vi si possono ottenere regni

a suon di gozzoviglia e di bisboccia.

Perciò ha pensato di mandarvi in dono,

come più congeniale alla vostra indole,

questo barile con dentro un tesoro;

in cambio vi domanda, d’ora innanzi,

di non discorrere più di ducati,

su cui vantar pretese qual che siano.

ENRICO -                              Un tesoro… Quale tesoro, zio?

EXETER -                              (Guardando nel barilotto)

Sono palle da tennis, mio sovrano.

ENRICO -                              Ci fa molto piacere che il Delfino

si compiaccia a giocar con noi d’arguzia.

Vi ringraziamo di questo suo dono

e del disturbo che vi siete preso.

Tosto che avremo le nostre racchette

adattate a giocar con queste palle,

verremo in Francia a fare una partita,

se Dio vorrà, che metterà in pericolo

la corona regale di suo padre.(23)

Egli sfida così - dovete dirgli -

un avversario che con i suoi colpi

gli metterà a soqquadro

tutti i campi di tennis della Francia;

ditegli anche che capiamo bene

com’egli trovi gusto a farci carico

dei giorni della nostra gioventù,

selvaggiamente spesi, perché ignora

quale uso di essi abbiamo fatto.

Abbiamo, sì, sempre poco stimato

questo povero trono d’Inghilterra,

e, vivendone sempre distaccati,

ci siamo dati alla sregolatezza;

e gli uomini, si sa, fuori di casa

indulgon facilmente alla baldoria.

Dite però al Delfino che quel giorno

che sarò riuscito a trarmi in alto

sul mio trono di Francia,

sarò bene all’altezza del mio stato,

essere un vero re, e spiegare al vento

tutte le vele della mia grandezza:

e che per ciò ho tenuta fino ad oggi

accantonata la mia maestà,

e mi son sobbarcato a lavorare

come uomo qualunque ai dì feriali;

ma m’ergerò da voi

sì circonfuso e fulgido di gloria

da abbagliar tutti gli occhi dei Francesi

e da accecare quelli del Delfino,

sol ch’egli li rivolga verso noi.

Dite dunque al faceto vostro principe

che con questo burlesco suo giochetto

ha trasformato in palle da cannone

le sue palle da tennis;

e che per questo sarà la sua anima

a portare da sola tutto il carico

della devastatrice punizione

che volerà con esse su di voi.

Per migliaia di donne questa beffa

sarà la morte dei loro mariti;

per molte madri la morte dei figli,

e per molti castelli la rovina.

E tanti e tanti, non ancora nati

e nemmen concepiti avranno un giorno

a maledire il Delfino di Francia

per questa burla a Enrico d’Inghilterra.

Ma tutto questo è ancora in mano a Dio;

ed io a Lui m'appello; e nel suo nome

verrò - dite al Delfino - a far vendetta

come potrò, levando la mia spada

a far giustizia d’una giusta causa.

Così, andate in pace; ed al Delfino

dite che la sua arguzia avrà il sapore

d’una funerea spiritosaggine, (24)

quando coloro che dovranno piangere

per essa saran mille e mille in più

di quanti possan pur averne riso.

Si faccia loro buona scorta. Addio.

(Escono gli ambasciatori di Francia, accompagnati da ufficiali del seguito)

EXETER -                              Allegra ambasceria, non c’è che dire!

ENTICO -                              Speriamo di far sì

che il suo mandante ne possa arrossire.

Perciò, signori miei,

che non si perda più un solo istante

a preparare questa spedizione;

perché ormai ogni nostro pensiero,

- salvo quelli che son rivolti a Dio,

che sono sempre in cima a tutti gli altri -,

è rivolto alla Francia.

Procediamo pertanto senza indugio

a reclutar milizie per la guerra

e a procacciare quanto necessario

per aggiungere penne alle nostre ali:

perché noi, vero com’è vero Dio,

andremo a castigar questo Delfino

fino alla soglia di casa del padre.

Ciascuno adoperi perciò l’ingegno

affinché questa audace nostra impresa

sia messa in movimento quanto prima.

(Escono tutti. Tromba)


ATTO SECONDO

Entra il CORO

CORO -                                  Tutta la gioventù in Inghilterra

ora arde d’impazienza.

Hanno tutti riposto negli armadi

le seriche vanezze.

Or sono gli armaioli a prosperare,

e nel petto di ognuno

regna solo il pensiero dell’onore.

Hanno venduto i pascoli

per acquistarsi le cavalcature

e seguire così, Mercuri inglesi,

con alati talloni questo re,

specchio di tutti quanti i re cristiani.

Nell’aria siede sovrana l’Attesa,

e nasconde, dall’elsa fino in punta,

la sua spada al coperto d’un gran fascio

di corone imperiali e nobiliari

promesse a Enrico e a tutti che lo seguono.

I Francesi, tremanti di paura,

avvertiti dai loro informatori

di questi minacciosi apprestamenti,

vanno studiando, con pallida astuzia,

il modo di sventar le mire inglesi.

O tu, Inghilterra, brutta copia esterna

dell’interna tua fulgida grandezza!(25)

Piccolo corpo con un grande cuore!

Che cosa non saresti tu capace

di compier per l’onore,

se i tuoi figli sentissero il richiamo

del sangue! E invece, ecco: il re di Francia

ha scoperto codesta tua mancanza

in un gruppetto di petti cariati(26)

che da quel re si fanno riempire

dell’oro traditore,

onde tre tuoi uomini corrotti:

Riccardo conte di Cambridge, il primo,

Enrico Scroop di Masham, il secondo,

Tomaso di Northumberland, il terzo,

si sono uniti - oh, vergognosa colpa! -

per denaro francese al re di Francia

in un complotto contro il loro re;

sì che per loro mano, a Southampton,

questa perla di re

deve perire prima di salpare

per la Francia, se inferno e tradimento

potranno mantener quanto promesso.

Concedeteci ancora pochi istanti

di pazienza, e provvederemo noi

a rimediare qui alle distanze

stringendo i tempi e il corso dell’azione.

I traditori han ricevuto il prezzo,

e si sono accordati sul da fare;

il re ha lasciato Londra. La scena,

gentile pubblico, è ora a Southampton

Immaginate là il nostro teatro,

e di star là seduti, e noi di là

vi porteremo sani e salvi in Francia,

donde poi vi riporteremo indietro,

esorcizzando l’onde dello Stretto

a favorirvi un passaggio tranquillo;

per evitare, se sarà possibile,

che qualcuno di voi soffra di stomaco

con il nostro lavoro.

Avvertiamo comunque che la scena

sarà portata a Southampton non subito,

ma dopo che vi sarà apparso il re.

(Esce)


SCENA I - Londra, una strada del quartiere di Eastcheap, davanti alla taverna “Alla Testa di Cinghiale”(27).

Entrano il caporale NYM e il luogotenente BARDOLFO

BARDOLFO -                       Bene incontrato, caporale Nym.

NYM -                                    Buona giornata a voi, luogotenente.

BARDOLFO -                       Beh, siete tornati buoni amici

con l’alfiere Pistola? Com’è andata?

NYM -                                    Per parte mia, non me ne importa un fico.

Io son un tipo di poche parole,

e infine riderà chi riderà.

Che succeda comunque quel che vuole.

A battermi, io, non son tagliato;

ma se ci son costretto, giuraddio,

chiudo gli occhi e ti sfodero il mio ferro:

è un catorcio di ferro, ma che fa?…

Servirà per abbrustolirci il cacio,

e regge al freddo quanto ogni altra spada:

e questo è quanto.

BARDOLFO -                                                      Bah, vuol dire allora

che v’invito da me a colazione

per farvi ritornare buoni amici;

poi tutti e tre, da buoni camerati,

in Francia. E così sia, caporal Nym.

NYM -                                    In coscienza, io cerco di campare

il più a lungo che posso, questo è certo;

e quando non potrò viver più a lungo,

farò quel che potrò.

Così ho deciso, ed è chiusa l’antifona.(28)

BARDOLFO -                       Però una cosa è certa, caporale:

che Nelly Quickly l’ha sposata lui,

e lei, in verità, t’ha fatto torto,

perché s’era promessa a te, o no?

NYM -                                    Non so. Le cose vanno come vanno.

Uno può addormentarsi, ed al risveglio

ritrovarsi la gola sana e salva:

eppure c’è chi dice che i coltelli

hanno lame che tagliano.

Ve l’ho detto: la va come la va;

e la pazienza umana,

pur se talora è una cavalla stanca,

deve sempre trottare. Prima o poi,

si dovrà giungere a una conclusione…

Beh, proprio non saprei che cosa dire…

Entrano PISTOLA e l’ostessa QUICKLY

BARDOLFO -                       Ecco l’alfiere Pistola e sua moglie.

Caporale, da bravo, statti calmo.

Caro oste Pistola, come va?

PISTOLA -                            E che! Mi dài dell’oste, vil cagnaccio?

Giuro per questa mano,

questo termine io l’ho in gran dispregio,

né la mia Nelly avrà più pensionanti.

QUICKLY -                          Ah, no, non più, non più, parola mia!

Una non può fornire vitto e alloggio

a una dozzina di brave signore

che campano la vita onestamente

a sferruzzare e lavorare d’ago,

senza che subito si pensi in giro

che noi in casa si tiene un bordello.

(Nym e Pistola sfoderano le spade)

Vergine santa, questi si sbudellano!(29)

Vedremo qui commessi tutto insieme

consenziente adulterio ed assassinio!(30)

BARDOLFO -                       Alfiere! Caporale!(31) Via, da bravi!

Niente scenate.

NYM -                                                              Pfuà!(32)

PISTOLA -                                                                     Pfuà a te,

cane d’Islanda con le orecchie a pizzo!

QUICKLY -                          Sii buono, caporale Nym, da bravo,

fatti vedere uomo di coraggio,

rimetti quella tua spada nel fodero.

NYM -                                    (A Pistola)

Vieni da parte, solus io ti voglio.

PISTOLA -                            Emerito cagnaccio! Vile vipera!

Il tuo solus te lo ricaccio io

in quella tua meravigliosa faccia!

Il tuo solus te lo ricaccio io

tra i denti, in gola, nei polmoni fradici,

e anche nello stomaco, perdio!

E, peggio, nella tua bocca fetente,

e lo attorciglio con le tue budella,

il tuo solus; perché se prende fuoco,

il Pistola, e il suo pistolone è carico,

al lampo seguirà subito il colpo.

NYM -                                    Io non son Belzebù;

i tuoi scongiuri con me non funzionano.(33)

E sono proprio in vena di suonartele,

e brutto pure. Se mi fai il puzzone,

Pistola, posso, per parlar pulito,

darti una lisciatina con la spada.

Se vuoi venir da parte,

io ti pizzico un poco le budella,

come meglio saprò,

a dirla sempre con belle parole.

E con questo, per me, chiusa l’antifona.

PISTOLA -                            Vile smargiasso, maledetta furia!

La tua tomba spalanca le sue fauci,

e la morte, di te innamorata,

è propinqua. Perciò esala il ferro!(34)

BARDOLFO -                       No, fermi, statemi bene a sentire:

per quanto è vero che sono un soldato,

quello di voi che tira il primo colpo,

lo infilo con la spada, fino all’elsa!

(Sfodera la spada)

PISTOLA -                            Di fronte a un giuramento

di sì grande momento

non può che rabbonirsi ogni dissento.

(A Nym)

Porgimi la tua mano!

Porgimi l’anteriore tuo zampino.

Tu sei uomo di spirito extrafino.

NYM -                                    Io prima o poi ti taglierò la gola,

a dirla bene. Ed è chiusa l’antifona.

PISTOLA -                            “Couple a gorge!!”(35) È la parola giusta.

Cane di Creta, io ti sfido ancora.

Credi di prenderti la mia mogliera?

No, all’ospedale va’,

e dall’infame botte affumicata(36)

tirati fuori quella gatta marcia,

erede della stirpe di Cressida(37)

che corrisponde al nome di battaglia

di Pupetta Strappalenzuola, (38) e sposala.

Io ho, e mi terrò, la quondam Quickly

sola e sempre per moglie… Pauca, e basta.(39)

Entra il PAGGIO di Falstaff

PAGGIO -                             Mio buon oste Pistola,

dovete correre dal mio padrone,

ed anche voi, ostessa: sta assai male,

e vuol mettersi a letto. Buon Bardolfo,

mettigli la tua faccia tra i lenzuoli,

gli farai da scaldino.(40)

Ché davvero, si sente molto male.

BARDOLFO -                       Vattene via, canaglia!

QUICKLY -                          In fede mia, quello, un giorno o l’altro

sarà un ottimo pudding per i corvi.

Il re gli ha ucciso il cuore.(41)

Marito caro, va’ subito a casa.

(Esce con il paggio)

BARDOLFO -                       Insomma, andiamo, via, proprio voi due,

non volete ridiventare amici?

Dobbiam partire insieme per la Francia,

e per che diavolo dovremmo avere

pronti in mano i coltelli:

per tagliarci la gola uno con l’altro?

PISTOLA -                            Che straripino i fiumi,

e urlando vi galleggino

famelici demoni!

NYM -                                    E quegli otto scellini che t’ho vinto

nella scommessa, me li paghi o no?

PISTOLA -                            Carogna chi li paga.

NYM -                                    Li voglio, e subito. E chiusa l’antifona.

PISTOLA -                            Secondo quello che deciderà

la mia virilità. Avanti, sguaina!

(Sguainano le spade)

BARDOLFO -                       (Interponendosi tra i due, e sguainando anche lui la spada)

Giuro su questa spada,

chi tira il primo colpo è un uomo morto.

Giuro su questa spada che lo ammazzo.

PISTOLA -                            La spada è giuramento,

ed ogni giuramento

deve avere il dovuto adempimento.

BARDOLFO -                       Caporal Nym, se vuoi tornargli amico,

bene; se no, sei anche a me nemico.

Rinfodera, ti prego.

NYM -                                    (A Pistola)

Otto scellini!

Li ho vinti alla scommessa?

Li avrò o no?

PISTOLA -                                                    Avrai subito un nobile,

subito ed in contante,(42)ed altresì

con esso t’offrirò un buon bicchiere,

e sia così amicizia e fratellanza

fatta tra noi, ond’io vivrò per Nym,

e Nym vivrà per me. (43) Va bene, no?

Perché sul campo farò il vivandiere,

e farò buoni affari. Qua la mano.

NYM -                                    Avrò allora il mio nobile?

PISTOLA -                            Te l’ho detto: pagato a pronta cassa.

NYM -                                    Bene allora così. Chiusa l’antifona.

(Si stringono la mano)

Rientra QUICKLY

quickly -                          Se foste mai partoriti da donna,

presto, venite a casa da Sir John.

Ah, pover’anima! È talmente scosso

da un’ardente terzana giornaliera,(44)

che fa pena a guardarlo.

Oh, venite da lui, cari signori!

NYM -                                    Il re ha sfogato i suoi cattivi umori

sul cavaliere, questa è la morale.

PISTOLA -                            Hai detto bene Nym:

franto e corroborato è il cuore suo.(45)

Il re, per essere un buon re, è buono.

Ma tant’è, pure lui ha le sue lune

e i suoi momenti di cattivo umore.

PISTOLA -                            Col cavaliere a condolerci andiamo;

quanto a noi, agnellini miei, pensiamo

che seguitare a vivere dobbiamo.(46)

(Escono)


SCENA II - Southampton, la sala del Consiglio.

Entrano EXETER, BEDFORD e WESTMORELAND

BEDFORD -                          Davanti a Dio, vi dico

che sua grazia è davvero temerario

a fidarsi di questi traditori.

EXETER -                              Stanno per essere tratti in arresto.

WESTMORELAND -           Già, ma intanto guardate con che calma

e con che faccia tosta essi si mostrano;

quasi che nei lor petti abbia dimora,

sia di stanza la lealtà in persona,

di fedeltà e costanza incoronata.

BEDFORD -                          Il re però è informato di tutto,

avendo intercettato i lor messaggi,

e sa, come nemmeno essi si sognano,

d’ogni loro segreto intendimento.

EXETER -                              Ah, pensare che il suo più caro amico, (47)

da lui sempre cullato e ricolmato

di graziosi favori, si sia indotto,

per straniera mercede,

a vendere la vita del suo re

al vile tradimento ed alla morte!

Trombe. Entrano RE ENRICO, SCROOP, CAMBRIDGE, GREY e gente del seguito

ENRICO -                              Il vento è favorevole. Salpiamo.

Miei cari Lord di Cambridge e di Masham,

ed anche voi, cortese cavaliere,

fatemi parte dei vostri pensieri:

queste truppe che ci portiamo dietro,

che pensate, sapranno aprirsi un varco

attraverso l’esercito francese,

e portare a felice compimento

quest’impresa per cui le abbiam raccolte?

SCROOP -                             Nessun dubbio su ciò, vostra maestà,

se ognun di loro farà del suo meglio.

ENRICO -                              Di ciò non dubito. Sono convinto

di non aver portato qua un solo cuore

che non pulsi all’unisono col nostro,

come di non aver lasciato a casa

un sol cuore che non stia palpitando

con voti di successo e di vittoria.

CAMBRIDGE -                    Mai fu monarca più temuto e amato

della maestà vostra: e non c’è suddito,

credo, che versi in pene e in ristrettezze

all’ombra grata del vostro governo.

GREY -                                  È vero. Anche coloro

che furono nemici a vostro padre

han temprato nel miele il loro fiele

e vi servono tutti a cuore pieno

di zelo e di leale devozione.

ENRICO -                              Questo è per noi motivo

di molta gratitudine per tutti;

e vorremmo dimenticar piuttosto

come usare le mani,

che omettere di compensare il merito

in proporzione all’importanza e al grado.

SCROOP -                             Otterrete così che, per servirvi,

s’adopreranno muscoli d’acciaio,

e che sarà sollievo alla fatica

sperare di servirvi sempre e meglio.

ENRICO -                              Non ci aspettiamo meno.

Zio Exeter, vogliate provvedere

che sia lasciato libero quell’uomo

tratto in arresto ieri

per vilipendio alla nostra persona.

Fu senza dubbio il troppo aver bevuto

a spingerlo a quel gesto;

e pensando che sia ritornato in sé,

gli perdoniamo.

SCROOP -                                                       Questa è sì clemenza,

ma eccessiva mancanza di cautela,

anche, da parte vostra, mio sovrano.

Fate invece, mio re, che sia punito,

perché, se tollerato, il suo esempio

non abbia a generare casi analoghi.

ENRICO -                              Oh, consentiteci d’esser clementi!

CAMBRIDGE -                    La clemenza può usarla vostra grazia

anche dando a costui il suo castigo.

GREY -                                  E ne avrete mostrata già abbastanza

se gli farete grazia della vita,

non senza avergli dato tuttavia

d’assaporare una pena adeguata.

ENRICO -                              Ahimè, questo eccessivo vostro amore

e questa cura della mia persona

vi fa troppo severi accusatori(48)

di questo povero malcapitato!

Se non chiudiamo un occhio a picciol fallo

commesso in preda all’ebbrezza del vino,

quanto non li dovremmo spalancare

in presenza di ben più grossi crimini

masticati, inghiottiti e digeriti.

Quell’uomo lo faremo andare libero,

nonostante che Cambridge, Scroop e Grey

in tanta tenera loro premura

di preservare la nostra persona

vorrebbero vederlo castigato.

Ma ora ai nostri affari di Francia:

chi sono i commissari

che abbiamo nominato ultimamente?

CAMBRIDGE -                    Uno son io, signore.

Vostra maestà oggi stesso m’ha richiesto

di farne istanza.

SCROOP -                                                       E così a me, signore.

GREY -                                  E così a me, regale mio sovrano.

ENRICO -                              Ebbene, allora Riccardo di Cambridge,

ecco il vostro mandato, ed ecco il vostro

lord Scroop di Masham;

e il vostro, cavaliere di Northumberland.

Leggeteli, e saprete come a fondo

io conosca chi siete e che valete.

Signore di Westmoreland, zio Exeter,

noi salpiamo stanotte…

(Ai tre, che si guardano sbalorditi)

Come? Che c’è? Che cosa avete letto

in quei fogli, da scolorarvi il viso?

Toh, guardateli, han cambiato faccia!…

Le lor guance sbiancate come carta.

Perché? Che avete letto in questi fogli

da render tanto vile il vostro sangue

da farlo scappar via dai vostri volti?

CAMBRIDGE -                    Confesso, mio signore, la mia colpa,

e mi rimetto alla vostra clemenza.

GREY e SCROOP -              E ad essa noi facciamo pure appello.

ENRICO -                              Quella clemenza ch’era viva in noi

ancor poc’anzi, è stata soffocata

e spenta proprio dai vostri consigli.

Ed ora, svergognati, proprio voi

ci venite a parlare di clemenza?

Ma si rivoltano contro di voi

i vostri stessi argomenti, azzannandovi

come cani in rivolta ai lor padroni.

Eccoli qua, guardateli, miei principi,

e miei nobili pari, questi mostri

figlioli d’Inghilterra! Questo Cambridge

il nostro affetto, lo sapete tutti,

è stato sempre pronto a ricolmarlo e titolo

d’ogni onore addicentesi al suo rango;

ed eccolo che ora,

per un pugno di misere corone

ha vilmente tramato a nostro danno,

ed a giurato agli agenti francesi

di ucciderci qui ad Hampton;

e con lui anche questo cavaliere

(Indica Grey)

a noi legato, non meno di Cambridge,

dai molti benefici ricevuti.

Ma che cosa dirò - ahimè! - di te,

Lord Scroop di Masham, ingrata creatura,

selvatica, crudele ed inumana?

Tu, che dei miei pensieri più segreti

possedevi la chiave,

e conoscevi sì profondamente

la mia anima da poter coniare

a momenti nell’oro la mia immagine(49)

se volevi sfruttarla a tuo vantaggio…

Come ha potuto mai oro straniero

riuscire a tanto da trarre da te

una sola scintilla di malanimo

per me, da farmi male solo a un dito?…

È così assurdo, che la sua realtà

se pure appaia chiara ed evidente

come il nero sul bianco,

il mio occhio fatica ancora a scorgerla.

Il tradimento sempre s’è accoppiato

all’assassinio, come due demoni

aggiogati allo stesso giuramento

di reciproco aiuto a perseguire

sì rozzamente e sì naturalmente

la stessa causa da non mai stupire.

Ma tu, oltrepassando ogni misura,

hai riportato ora lo stupore

al seguito dei due; e quel demonio

che t’ha così scaltramente plasmato

in una forma assurda come questa,

dev’essersi acquistata nell’inferno

la fama d’un artista raffinato.

Tutti gli altri demòni

ch’hanno assegnato dell’inferno il compito

di consigliare il tradimento agli uomini

devon preparare alla confusa,

con un pezzo di qua, uno di là,

la loro dannazione,

prendendo in prestito dalla virtù

vivi colori e ingannevoli forme;

ma quello che s’incaricò di te,

per farti consumare il tradimento

non deve averti offerto altro movente

che quello di poterti tu gloriare

d’aggiungere al tuo nome: “traditore”.

Se il diavolo che t’ha così truffato

percorresse con passo di leone

in lungo e in largo lo spazio del mondo,

tornato nello sconfinato Tartaro,

potrebbe dire all’infere legioni:

“Mai più potrò conquistare all’inferno

un’anima così a buon mercato,

come ho potuto far con questo Inglese.”

Ah, come hai infettato con l’invidia

la dolcezza della mia confidenza!

Se ci fu uomo al mondo

che si mostrasse ligio al suo dovere,

quello eri tu! Sapiente ed assennato?

Quello eri tu. Di nobile prosapia?

Quello eri tu. Timorato di Dio?

Quello eri tu. Temperante nel cibo,

alieno dagli eccessi grossolani

della gaiezza come della collera,

d’un umore costante, misurato

e non soggetto agli impulsi del sangue,

modesto e dignitoso nel contegno,

sempre schivo dal giudicar con l’occhio

senza averne conferma dall’orecchio

e dal far credito a Tizio e Sempronio

senza previa matura riflessione,

tale, e di tal finezza di natura,

sembravi tu. Talché la tua caduta

lascia dietro di sé come sua orma

una specie di macchia originale

che marchia con un’ombra di sospetto

anche l’uomo più puro ed illibato.

Per causa tua, io verserò lacrime,

perché per me questo tuo voltafaccia

è una seconda caduta di Adamo.(50)

(A Exeter)

Le loro colpe sono manifeste.

Che ne rispondano secondo legge.

Arrestateli, dunque, tutti e tre,

e Dio li assolva dei loro misfatti.

EXETER -                              Riccardo conte di Cambridge,

io t’arresto per alto tradimento;

Enrico Scroop di Masham,

io t’arresto per alto tradimento;

Tomaso Grey, signore di Northumberland,

io t’arresto per alto tradimento.

SCROOP -                             Iddio Signore, nella sua giustizia,

ha voluto scoprire i nostri piani;

ed io della mia colpa

più mi rammarico che di mia morte;

ed il perdono dell’altezza vostra

per essa imploro, pure se il mio corpo

dovrà pagarne giustamente il prezzo.

CAMBRIDGE -                    Per me dichiaro che non m’ha sedotto

l’oro di Francia a fare quel che ho fatto;

anche se l’ho accettato come mezzo

per raggiungere più rapidamente

e in modo più diretto i miei intenti:

ma Dio ha fermato la mia mano,

e a Lui sian rese grazie; esulterò

a dover espiare le mie colpe,

e imploro Dio e voi di perdonarmi.

GREY -                                  Mai suddito fedele, più di me

si rallegrò di vedere scoperto

il più subdolo e turpe tradimento,

e di vedersi trattenuto in tempo

dal consumar questa dannata impresa.

Vogliate perdonare, mio sovrano,

alla mia colpa, ma non al mio corpo.

ENRICO -                              Iddio v’assolva, nella sua mercé!

Udite, ora, la vostra condanna:

voi siete rei d’avere cospirato

contro la nostra regale persona

associati a un nemico dichiarato

dalle cui casse avete ricevuto

l’arra dorata della nostra morte;

con che avreste voluto ignobilmente

vendere il vostro re all’assassinio,

i suoi pari e i suoi principi al servaggio,

all’oppressione e al disprezzo i suoi sudditi,

ed il suo regno alla desolazione.

Per ciò che tocca la nostra persona

non cerchiamo vendetta;

ma noi dobbiamo ben tenere a cuore

la salvezza del regno,

la cui rovina avete voi cercato.

Perciò vi consegniamo alle sue leggi.

Da qui uscirete, dunque, sciagurati!,

verso la morte; il cui sapore amaro

Dio, nell’immensa sua misericordia,

vi dia di sopportare rassegnati,

insieme ad un sincero pentimento

di tutte le pesanti vostre colpe.

Conduceteli via!

(Scroop, Cambridge e Grey sono condotti via sotto scorta)

Ed ora, in Francia,

signori! Vi sarà gloria per tutti!

Non dubitiamo più, a questo punto,

che la nostra campagna avrà successo,

dal momento che Dio, nella sua grazia,

s’è compiaciuto di portare in luce

questo pericoloso tradimento

ch’era in agguato sul nostro cammino,

pronto a fermarci fin dalla partenza.

Ora siamo sicuri che ogni ostacolo

è ripianato sulla nostra via.

Avanti, dunque, miei compatrioti!

Nelle mani di Dio

affidiamo le nostre forze armate(51)

e passiamo a eseguire senza indugio

i nostri piani. Al mare! In allegria!

Al vento i nostri vessilli di guerra!

Non è re d’Inghilterra

quello che non è anche re di Francia!

(Trombe. Escono tutti)


SCENA III - Londra, davanti alla taverna “Alla testa di cinghiale”, a Eastcheap.

Entrano PISTOLA, l’ostessa QUICKLY, BARDOLFO e il PAGGIO di Falstaff

QUICLY -                             (A Pistola)

Marito mio dolcissimo, ti prego,

permettimi di accompagnarti a Staines.(52)

PISTOLA -                            No, che il viril mio cuore oggi dolora.

Bardolfo, stammi allegro!

Nym, risveglia la tua vena smargiassa!

Ragazzo, drizza il pelo al tuo coraggio!

Falstaff è morto, e noi dobbiamo piangerlo.

BARDOLFO -                       Ah, vorrei tanto essere con lui,

dovunque sia, inferno o paradiso!

QUICKLY -                          Ah, no, all’inferno lui non è di certo.

È nel seno di Artù,(53)

se mortale vi sia mai salito…

Però che bella fine!… Se n’è andato

come un bambino appena battezzato;

tra le dodici e l’una è trapassato,

giusto giusto al voltar della marea…

Quando l’ho visto raspar con le dita

le lenzuola, giocherellar coi fiori,

sorridersi alla punta delle dita,

mi sono detta: “Addio, questa è la fine!”

Il naso infatti s’era già affilato

da sembrare la punta d’una penna,

ed egli seguitava a balbettare

un non so che di verdi praterie…

“Su, su, sir John - gli dico - su, coraggio!

Che uomo siete?… Via, su, fate cuore!”

Al che lui ha gridato: “Dio! Dio! Dio!”

tre-quattro volte, e io a confortarlo

dicendogli di non pensare a Dio,

perché pensavo che non fosse il caso

di sprofondarsi in certi pensamenti.

A questo punto lui m’ha domandato

di mettergli sui piedi altre coperte.

Ho infilato la mano sotto coltre

e li ho palpati: freddi come pietra.

Allora gli ho tastato anche i ginocchi,

e poi su, su, più su, sempre più su,

ed era tutto freddo come pietra.

NYM -                                    Dicono che sul punto di morire

abbia imprecato contro il vin di Spagna…

QUICKLY -                          Oh, sì.

BARDOLFO -                                   E con le donne.

QUICKLY -                                                                Ah, questo no!

PAGGIO -                             E invece sì, vi dico che l’ha fatto.

Diceva ch’eran diavoli incarnati.

QUICKLY -                          L’incarnato non gli è piaciuto mai:

non era un colorito di suo gusto.(54)

PAGGIO -                             Una volta mi disse che le donne

gli avevan fatto dar l’anima al diavolo.

QUICKLY -                          Gli è successo, difatti, qualche volta

con le donne di prendersela brutto;

ma fu un momento d’umore reumatico;(55)

e parlava così della puttana

di Babilonia.

PAGGIO -                                                   Ma vi ricordate

quando vide sul naso di Bardolfo

immobile una pulce

e disse ch’era un’anima dannata

che bruciava nel fuoco dell’inferno?(56)

BARDOLFO -                       Ahimè, la legna che faceva arderlo,

quel fuoco, è ora tutta consumata!

E questo naso è tutta la ricchezza

che ho guadagnato stando al servizio!

NYM -                                    Allora, ci muoviamo?

Il re sarà salpato già da Southampton.

PISTOLA -                            Sì, andiamo.

(A Quickly)

Amore, dammi le tue labbra.

Fa’ buona guardia a tutte le mie cose,

le mobili e le immobili

Ti guidi il tuo buon senso femminile.

Parola d’ordine: “pronti contanti”.

Non fidar di nessuno; i giuramenti

sono di paglia e la fede degli uomini

è solo pastafrolla, e “Tieni duro”

è il migliore mastino, ochetta mia.

Perciò caveto(57) sia tuo consigliere.

Su, tergi i tuoi cristalli.

E voi, compagni, aggiogati con me

in armi, andiamo in Francia,

a succhiare, succhiare sangue nobile,

fino all’ultima goccia, miei ragazzi.

PAGGIO -                             Come cibo, però, fa male, dicono.

PISTOLA -                            (A Bardolfo e Nym, indicando Quickly)

Sfiorate appena la sua bocca, e in marcia.

BARDOLFO -                       (S’avvicina a Quickly e la bacia)

Addio, ostessa!

NYM -                                                              Io non so baciare,

ed è chiusa l’antifona. Ma addio.

PISTOLA -                            Mia cara, ora si paia

la tua perizia di buona massaia.

E tieni tutto chiuso col lucchetto.

È il mio comando. Ho detto.(58)

QUICKLY -                          Sta’ tranquillo. Buon viaggio, mio diletto!

(Escono tutti)


SCENA IV - Francia, il palazzo reale.

Trombe. Entrano il RE DI FRANCIA, il DELFINO, i DUCHI di BERRY, di BRETAGNA e il CONNESTABILE, con seguito

RE -                                        Dunque l’Inglese marcia su di noi

con forte nerbo: converrà perciò

che noi ci adoperiamo a contrapporgli

una difesa a misura di re.

I duchi di Berry e di Bretagna,

d’Orléans e Brabante escano in campo;

voi, principe Delfino, penserete

a rifornir le nostre piazzeforti

d’uomini di coraggio e buoni mezzi,

giacché l’Inglese irrompe con la furia

d’una corrente succhiata dal vortice.

Gioverà quindi provvedere a tutto,

come ci deve dettar la paura,

dopo gli esempi ancor lasciati impressi

sui nostri campi da questi fatali

e troppo sottovalutati Inglesi.

DELFINO -                           Padre mio temutissimo,

è certamente quanto mai sensato

star sempre armati in vista di un nemico;

poiché la stessa pace,

quand’anche non vi fossero in presenza

né guerre né palesi ostilità,

mai dovrebbe cullare in sogno un regno

fino al punto da fargli trascurare

difese, arruolamenti e apprestamenti,

che son da mantenere sempre in atto

come nell’imminenza d'una guerra.

Perciò ritengo che sia opportuno

che noi si vada attorno a ispezionare

le regioni più deboli di Francia

e più sguarnite; avendo però cura

di far da parte nostra tutto questo

senza dar mostra di maggior paura

che avremmo nel sapere che gli Inglesi

fosser tutti occupati a casa loro

a una moresca della Pentecoste.(59)

Giacché, mio buon sovrano, l’Inghilterra

è retta da un così svagato re,

il suo scettro è tenuto nelle mani

d’un tal bislacco, insulso, inconcludente,

vanesio e capriccioso giovinastro,

che proprio non ci deve far paura.

CONNESTABILE -              Eh, piano, principe Delfino, piano,

a giudicar così questo sovrano!

Vi sbagliate di grosso. Vostra grazia

s’informi pur dai nostri ambasciatori

testé da lui tornati: le diranno

con quale dignitosa maestà

ha ascoltato le loro ambascerie,

da quali consiglieri era assistito,

quanto discreto si sia dimostrato

nel contestare, e quanto, nel contempo,

terribilmente fermo nel decidere.

V’accorgerete con vostra sorpresa

come le sue trascorse frivolezze

non fossero che un abito esteriore,

simile a quello del romano Bruto,

che nascondeva la sua perspicacia

sotto un manto di folle stravaganza;(60)

esattamente come i giardinieri

coprono col letame le radici

che saranno le prime a metter fuori

i germogli più belli e delicati.

DELFINO -                           Ebbene, caro mio Gran Connestabile,

non è affatto così come voi dite;

ma non importa quel che noi pensiamo.

Anzi, quando si tratta di difendersi,

meglio è sempre supporre che il nemico

sia più forte di quanto può apparire;

uno si appresta meglio alla difesa,

in proporzione; a trascurar la quale,

preparandosi con più leggerezza,

magari lesinando sulla spesa,

ci si comporta come quell’avaro

che a voler risparmiare un po’ di stoffa

finì per perdere tutto il vestito.

RE -                                        Sì, dobbiamo pensare a questo Enrico

come ad un forte re;

sicché voi, principi, dovete armarvi,

al vostro meglio per tenergli fronte.

La sua casata s’è rimessa in carne

sopra la nostra pelle; egli discende

appunto da quel ceppo sanguinario

che ci ha incalzato fin dentro i sentieri

di casa nostra: n’è testimonianza

quella indimenticabile vergogna

della fatal giornata di Crecy,(61)

quando per mano di quel nero nome

Edoardo, Principe Nero di Galles,

tutti i principi nostri furono presi,

mentre quella montagna di suo padre,(62)

assiso su una gigantesca altura

stagliata in un’aureola di sole,

riguardava dall’alto sorridendo

l’eroica sua progenie devastare

l’opra della natura e sfigurare

coi suoi colpi quelle fattezze umane

che Dio e padri e madri della Francia

vent’anni prima avevano creato.(63)

Questo, di quella vittoriosa stirpe,

è l’ultimo rampollo; e noi temerne

dobbiamo la potenza originaria

ed il destino che gli è favorevole.

Entra un MESSO

MESSO -                                Ambasciatori del re d’Inghilterra

chiedono udienza a vostra maestà.

RE -                                        Gliela accordiamo subito.

(A quelli del seguito)

Signori,

vada qualcuno a scortarli fin qui.

(Escono il messo e alcuni nobili)

Ecco, vedete amici, questa caccia

con quale accanimento vien condotta.

DELFINO -                           E voi, sire, volgete il capo indietro,

e fermate la muta inseguitrice;

perché i cani vigliacchi

abbaiano più forte se la preda

che sembrava volessero assalire

fugge loro davanti. Mio buon sire,

tagliate corto con codesti Inglesi,

che si rendano facilmente conto

di quale monarchia voi siete a capo.

L’amore di se stessi,

non è sì vil peccato, mio sovrano,

come la disistima di se stessi.

Rientrano i nobili introducendo EXETER ed altri dell’ambasceria inglese

RE -                                        Dal nostro confratello d’Inghilterra?

EXETER -                              Da lui, coi suoi saluti a vostra altezza,

e, nel nome di Dio onnipotente,

con l’invito a spogliarvi e a rinunciare

a tutte quelle glorie prese a prestito

che per dono del cielo,

per legge di natura e delle genti

appartengono a lui a ai suoi eredi:

intendo la corona

e i privilegi ad essa pertinenti

per uso e prescrizione secolari

E al fine che possiate aver contezza

che non è questa sua una pretesa

di natura sbilenca o temeraria,

o spulciata da antiche tarlature,

e raccattata dopo aver frugato

nella polvere d’un annoso oblio,

vi manda qui, per vostra informazione,

questa schematica genealogia

che mostra chiaramente, in ciascun ramo,

l’esatta linea della discendenza.

Vogliate esaminarla attentamente:

e quando vi sarete persuaso

ch’egli discende per linea diretta

dal Terzo Edoardo, il più insigne e famoso

dei suoi progenitori, in mano sua

rassegnerete, poi ch’egli ve l’ordina,

la corona ed il regno,

illegittimamente tolti a lui,

lor naturale e giusto pretendente.

RE -                                        Se no, che cosa ne potrà seguire?

EXETER -                              Una cruenta azione di revindica.

Ché, se pur vi teneste la corona

chiusa e nascosta in fondo ai vostri cuori,

egli non si farebbe alcuno scrupolo

di venirvi a frugare anche là dentro

per portarvela via. Ed è già pronto

a venir qui in violenta tempesta,

con tuoni e terremoti, come un Giove,

per ottener di forza quel che chiede

se fallirà la nostra ambasceria.

Perciò vi chiede, per le Sacre Viscere,

di lasciargli senz’altro la corona,

per pietà altresì di tante anime

sulle quali questa vorace guerra

spalanca già le sue enormi fauci;

se non volete che sul vostro capo

ricadano il pianto delle vedove,

i lamenti dei miseri orfanelli,

il sangue degli uccisi,

il gemere sommesso delle vergini

per i mariti, i padri, i fidanzati

che saranno inghiottiti dal conflitto.

Questa la sua richiesta e la sua sfida,

e questo il mio messaggio;

ammenoché non sia presente qui

il Delfino, cui sono incaricato

di recare un saluto personale.

RE -                                        Per quello che sta a noi,

vogliam riflettere ulteriormente;

vi faremo conoscere domani

le nostre decisioni da portare

al nostro confratello d’Inghilterra.

DELFINO -                           In quanto a me, il Delfino son io.

Che c’è per me da parte d’Inghilterra?

EXETER -                              Sdegno e sfida; scarsissimo riguardo,

disprezzo ed ogni sorta di giudizio

che sia men disdicevole

alla grandezza di chi ve lo manda.

Questo vi manda a dire il mio sovrano;

e se la maestà di vostro padre

non addolcisce, con l’accoglimento

di tutte quante le nostre richieste,

l’amaro della beffa da voi fattagli,

vi chiamerà con tal foga a risponderne

che le caverne e le tortuose grotte

del sotterraneo grembo della Francia

vi tuoneranno addosso quell’insulto,

e vi rimanderan la vostra beffa

sul rombo delle sue artiglierie.

DELFINO -                           Ditegli che quand’anche da mio padre

egli s’abbia risposta favorevole,

ciò sarà contro la mia volontà;

perché io non aspiro ad altra cosa

che a giocarmi la sorte in campo aperto

con il re d’Inghilterra.

Ed è proprio con questo intendimento

che, per essere in tutto confacente

alla vanesia sua giovane età,

gli ho mandato in regalo da Parigi

quelle palle da tennis.

EXETER -                                                                 E per questo,

darà al vostro Louvre di Parigi,

fosse pur esso la signora corte

della possente Europa,

tale scrollata, che voi scoprirete,

state certi, la grande differenza

- che noi sudditi abbiamo con stupore

già scoperto - tra quelle ch’eran state

le aspettative dei suoi anni verdi

e le doti che oggi padroneggia.

Egli soppesa scrupolosamente

il tempo fino all’ultimo granello;(64)

e, se rimane in Francia,

lo sperimenterete a vostre spese.

RE -                                        Domani avrete la nostra risposta.

EXETER -                              Congedateci ora in tutta fretta,

che il nostro re non venga di persona

a chieder conto del nostro ritardo;

ché ha messo piede già sul vostro suolo.

RE -                                        Sarete congedati quanto prima,

e con proposte buone e ragionevoli.

Una notte è fin troppo breve lasso

per poter maturare una risposta

a richieste di tanta gravità.

(Trombe. Escono tutti)


ATTO TERZO

Entra il CORO

CORO -                                  Così sull’ali della fantasia

si libra rapida la nostra scena,

ora di qua ora di là spostandosi,

ratta come il pensiero.

Immaginate dunque d’aver visto

partire il nostro re ed imbarcarsi

dal molo di Southampton per la Francia,

di tutto punto armato; e la sua flotta

coi vessilli di seta far ventaglio

gagliardamente al giovinetto Febo.(65)

Giocate ancora con la fantasia

e cercate con essa

di contemplare i mozzi delle navi

che velosi s’arrampicano su

per le sartie di canapa;

ascoltate lo stridulo fischietto

che dà comandi tra confusi suoni;

guardate le vele di tela gonfiarsi

all’invisibile soffio del vento

e sospingere sul solcato mare

gli enormi petti dei ventruti legni

a fendere gli altissimi marosi.

Oh, immaginate di star sulla riva

e di veder danzar sull’onda mobile

un’intera città: ché tale appare

alla vista la maestosa flotta

che dirige la rotta verso Harfleur.

Seguitela, non la perdete d’occhio!

Tenetevi aggrappati con la mente

al cassero di poppa delle navi;

abbandonate la vostra Inghilterra,

silenziosa come la morta ora

della notte, rimasta sol vegliata

dai vecchi, dai fanciulli e dalle nonne:

da tutti insomma che hanno già passato

o non ancor toccato

l’età della pienezza del vigore;

perché chi è, che abbia appena un pelo

sul mento, che non brami di seguire

in Francia questi eletti cavalieri?

Aguzzate, aguzzate ora il pensiero

e immaginate una città assediata,

i cannoni piazzati sugli affusti,(66)

le lor bocche fatali spalancate

sull’assediata Harfleur; e figuratevi

l’ambasciatore inglese che, al ritorno,

riferisce ad Enrico che il re Carlo

gli offre in sposa la figlia Caterina,

e con lei, per sua dote,

un certo numero di territori

di piccola estensione e poca rendita.

L’offerta non è accolta;

e già sul campo gli agili artiglieri

metton la miccia alle infernal bombarde

(Allarme. Sparo di cannoni)

ed ogni cosa crolla innanzi a loro.

Siate dunque cortesi,

ed ancora una volta, col pensiero

vogliate voi colmare le lacune

di questa nostra rappresentazione.

(Esce)


SCENA I - In Francia, il campo inglese davanti ad Harfleur.

Entrano RE ENRICO, EXETER, BEDFORD, GLOUCESTER e soldati con scale a pioli.

Trombe d’allarme.

ENRICO -                              Alla breccia, miei prodi, un altro assalto!

Un altro assalto! O chiuderemo il varco

con i cadaveri dei nostri Inglesi.

In pace nulla si conviene all’uomo

quanto la calma e la moderazione;

ma se risuona lo squillo di guerra,

s’ha da imitare quel che fa la tigre:

contrarre i muscoli, chiamare subito

tutto il sangue a raccolta,

nascondere ogni moto di pietà,

sotto la bieca maschera

d’una rabbia spietata; dare all’occhio

uno sguardo dal piglio pauroso,

come bocca di bronzea bombarda

puntata tra le roste della fronte,

e la fronte la domini aggrottata

come paurosa roccia

sporgente sulla sua base corrosa

dal morso dell’oceano selvaggio.

Stringete i denti, dilatate al massimo

le vostre nari, trattenete il fiato,

tendete l’arco delle vostre forze

fino a spezzarlo! Avanti, avanti, avanti,

nobilissimi Inglesi! Il vostro sangue

vi discende da valorosi padri

assuefatti al mestiere della guerra;

quei padri che, come tanti Alessandri,(67)

guerreggiarono in questi stessi luoghi,

infaticabili, da mane a sera,

e non rinfoderarono le spade

se non quando non ebbero più nulla

contro cui battersi. Sul loro esempio,

dimostrate che foste generati

da quelli che chiamate vostri padri;

non infangate l’onor delle madri;

siate modello ad uomini

di sangue meno nobile, e maestri

a loro tutti di come combattere.

E voi, miei bravi fanti,

voi, corpi fabbricati in Inghilterra,

mostrate qui di qual pastura siete;

lasciateci giurare

che siete degni della nostra razza.

Io non ne dubito, perché tra voi

non c’è nessuno che, pur d’umil nascita,

non abbia nei suoi occhi una scintilla

di nobiltà. Vi veggo tutti pronti,

impazienti come levrieri al laccio,

ad avventarsi via. La caccia è aperta.

Seguite il vostro coraggioso istinto,

e gridate, lanciandovi alla carica:

“Dio con Enrico! Inghilterra e San Giorgio!”

(Escono tutti, Allarme e spari di bombarde)


SCENA II - La stessa

Entrano NYM, BARDOLFO, PISTOLA e PAGGIO

BARDOLFO -                       Alla breccia! Alla breccia! Su, su, su, su!

NYM -                                    Un momento, ti prego, caporale.

Qui piovon colpi caldi, e, quanto a me,

non ho una vita di ricambio, io.

Questo giochetto è un po’ troppo bollente.

Questa è la vera antifona.

PISTOLA -                            La vera antifona, hai detto giusto,

ché con questi giochetti qui si esagera.

I colpi vanno e vengono,

i vassalli di Dio cadono e muoiono;

sui campi insanguinati scudo e ferro

ti procacciano fama in sempiterno…

PAGGIO -                             Ah, come mi vorrei trovare a Londra,

in una birreria! Sarei disposto

a barattare tutta la mia gloria

per un gotto di birra e la pellaccia.(68)

PISTOLA -                            Ed io, potessi dare prevalenza

ai desideri miei,

non mancherei al mio intendimento,

e ad esso darei subita osservanza.

PAGGIO -                             “Così presto, eppur non così onesto”

come canta l’uccello in cima al ramo.

Entra FLUELLEN

FLUELLEN -                        Figli di cani, afanti! Su, alla preccia!

Alla preccia, coglioni! Afanti, afanti!(69)

(Li caccia avanti a spintoni)

PISTOLA -                            Sii pietoso, gran duca,

con noi, miseri esseri di creta;

la tua collera acquieta,

abbatti la tua ira, o magno duca.

Da bravo, cocco bello,

abbatti l’irruenza,

fa’ coraggiosa prova di clemenza,

mio dolce pollastrello!

NYM -                                    (A Pistola)

Finalmente si ride: vostro onore

ha vinto e conquistato il buon umore.

(Escono tutti meno il Paggio)

PAGGIO -                             Giovane come sono, questi tre

me li sono studiati: tre spacconi.

A tutti e tre io faccio da garzone,

ma se fossero loro a farlo a me,

non mi farebbero, tra tutti e tre,

il servizio d’un solo: tre fantocci,

che tutti insieme non formano un uomo.

Bardolfo ha il fegato bianco-slavato

e la faccia di fuoco, ed è la faccia

che fa fuoco per lui, lui non combatte.

Quanto a Pistola, ha la lingua che uccide,

ma non la spada; spezza le parole

senza intaccar minimamente l’armi.

Nym, poi, è uno che ha sentito dire

che gli uomini migliori sono quelli

che han poche parole sulla lingua,

perciò sdegna perfino di pregare

per tema di passare da vigliacco;

e le poche cattive sue parole

s’accordano con fatti poco buoni:

perché teste non è mai riuscito a romperne,

fuorché la sua, la volta che, ubriaco,

la sbatté contro un palo.

Essi rubano tutto quel che capita

a portata di loro svelta mano,

e lo chiamano “andare a fare acquisti”.

Una volta Bardolfo ha sgraffignato

l’astuccio di custodia di un liuto,

se l’è portato per dodici leghe

e se l’è rivenduto a un penny e mezzo.

Nym e Bardolfo nelle ruberie

si danno mano, amici per la pelle.

A Calais si rubarono una pala

per ammucchair carbone al caminetto;

e da questo ho capito che son due

che ingoierebbero qualsiasi rospo.(70)

Rientra FLUELLEN seguito da GOWER

GOWER -                              (A Fluellen)

Capitano, dovete andare subito

al posto dove scavano le mine:

vi richiede il signor Duca di Gloucester.(71)

FLUELLEN -                        Alle mine!… Tofete tire al duca

che puttarsi alle mine non è il caso,

perché, sentite pene, quelle mine

non sono fatte a recola di querra;

s’è scafato in maniera insufficiente;

perché fedete, dico, l’affersario,

potete pure riferirlo al Duca,

ha scafato per circa quattro yarde

per collocare le sue contromine.

Per Cristo Santo, qui saltiamo tutti,

se non si prentono proffedimenti!

GOWER -                              Eppure il Duca di Gloucester, signore,

al quale è stato affidato il comando

di questo nostro assedio,

ha come consigliere un Irlandese,

un uomo di prim’ordine, perbacco!

FLUELLEN -                        Il capitano MacMorris, voi dite?

gower -                              Credo di sì.

FLUELLEN -                                              Cessù, ma quello è un asino,

se ce n’è al mondo, e glielo dico in faccia!

Quello lì della fera arte di guerra,

non ha, fi dico, nessuna esperienza,

e riguardo alla strategia romana

ne sa quanto un paggetto da salotto!

Entrano, dal fondo, MACMORRIS e JAMY

GOWER -                              Eccolo appunto, e viene insieme a lui

il capitano Jamy, lo scozzese.

FLUELLEN -                        Il capitano Jami, quello sì,

è un uomo di falore, questo è certo.

Ed ha crande e spedita conoscenza

delle antiche battaglie; e, Cristo Santo,

sa sostenere pene le sue tesi,

come qualunque uomo d’arme al mondo,

sull’argomento delle discipline

delle più antiche guerre dei Romani.

JAMY -                                  Buondì, capitan Fluellen.

FLUELLEN -                        Buonciorno a voi, buon capitano Jamy.

GOWER -                              Capitano MacMorris, come mai?

E le mine? Le avete abbandonate?

I minatori sono andati via?

MACMORRIS -                    Eh, sì, per Crisste, malissimo fatto!

Piantare tutto quanto lì, a mezz’opera

perché la tromba dà la ritirata!

Ciuro su questa mano

e sull’anima santa di mio patre,

che è fatto male, lavoro sprecato.

Ci avrei puttato all’aria la città

entro ti un’ora. Mal fatto, ah!, mal fatto!

FLUELLEN -                        Capitano MacMorris, con licenza,

concetetemi, preco, ecco, fedete,

di scampiar tue parrole in amicizia,

ciusto a titolo di arcomentazione,

in parte sulla scienza della cuerra,

le cuerre tei Romani, ecco fedete,

ed in parte per mia sottisfazione,

sui principii dell’arte militare,

perché il punto è questo.

JAMY -                                  Anch’io sarò assai lieto, in fete mia,

miei prafi capitani, con licenza,

al momento opportuno. Eh, sì, perbacco!

MACMILLAN -                    Non mi sempra però questo il momento,

Dio ci salvi, di fare discussioni.

La giornata è scottante, e tutto è caldo,

il tempo, la battaglia, il re, i duchi;

non è il momento questo di discutere.

La città è assetiata,

e le trompe ci chiamano alla breccia,

e noi tre, qui, a discutere, per Crisste,

senza far niente. È proprio una fercogna,

che Dio m’assista, starsene qui fermi,

una fercogna, sì, per questa mano!

E là ci sono gole da tagliare,

e lavori da fare, e niente è fatto,

che Crisste ci perdoni a tutti quanti!

JAMY -                                  Eh per la santamessa,

prima che gli occhi mi si diano al sonno,

il mio servizio io lo voglio fare,

a costo di restar stecchito a terra,

sì, dico, di morire

più valorosamente che potrò;

e questo, per mia parte, è il quinci e il quinti.

Mi sarebbe piaciuto assai, però,

sentirvi questionare tra foi tue.

FUELLEN -                           Capitano MacMorris, beh, fetete,

io credo, e se mi spaglio correccetemi,

che nel paese vostro non son molti…

MACMORRIS -                    Il mio paese? Cos’è il mio paese?

Tutti villani, tutti farabutti,

tutti bastardi, eh, al mio paese?

Che c’è da dire sopra il mio paese?

FLUELLEN -                        Se prendete le cose alla rovescia,

ecco, fetete, mi farete cretere

che non mi usate la cortialità

che, sol per discrezione, mi tovreste,

essento io ferrato quanto voi

in quanto a discipline tella cuerra,

sia per derivazione talla nascita,

sia per mie altre peculiarità…

MACMILLAN -                    Come son pravo io nella materia

non so se voi lo siete…

E così, Tio mi salvi, taglio corto.

GOWER -                              Signori miei, voi vi fraintendete.

JAMY -                                  Eh, sì, c’è un maledetto qui pro quo.

(Trombe all’interno)

GOWER -                              Dalla città: chiamano a parlamento.

GOWER -                              Capitano MacMorris,

a miglior tempo mi tarò l’artire

ti tirvi, ecco, fedete,

che io le discipline della cuerra

le conosco. E per ora tanto basta.

(Escono)


SCENA III- In Francia, davanti alle mura di Harfleur.

Sulle mura della città compare il GOVERNATORE con alcuni cittadini. Di sotto, l’esercito inglese.

Entra RE ENRICO con seguito

ENRICO -                              Governatore della città di Harfleur

quali sono le vostre decisioni?

Sappi che questa è l’ultima occasione

che noi vi offriamo per scendere a patti.

Perciò, o vi arrendete a discrezione,

o ci provocherete al vostro peggio,

agendo come uomini orgogliosi

soltanto della vostra distruzione;

ché, com’è certo ch’io sono un soldato

- e questo titolo, nel mio pensiero,

è quello che mi si conviene meglio -,

se riprendo di nuovo a bombardare

la vostra mezzo-conquistata Harfleur,

non la lascio finché non l’avrò vista

tutta sepolta sotto le sue ceneri.

Chiuse saranno allor della pietà

per voi tutte le porte, ché il soldato,

una volta ch’abbia assaggiato il sangue,(72)

reso duro di cuore, la coscienza

larga come la porta dell’inferno,

avrà libero il braccio ad ogni strage,

falciando come tanti fili d’erba

le vostre fresche e belle verginelle

ed i vostri fiorenti giovinetti.

Che potrà più importare a me, a quel punto,

se l’empia guerra, vestita di fiamme

come il re dell’inferno,

e col volto coperto di fuliggine,

commetterà nella vostra città

tutte le odiose azioni che accompagnano

sempre la distruzione ed il saccheggio?

Che può importarmi, allora,

quando voi stessi ne sarete causa,

se le vostre innocenti e caste vergini

cadranno nell’abbraccio

focoso e costrittore dello stupro?

Che cosa può frenare più la foja

quando spietata corre a precipizio

per la sua china? Ordinare alla truppa,

quando si sia scatenata al saccheggio,

è tanto vano quanto mandar ordini

al Leviatano d’accostare a riva.(73)

Vi prenda, uomini d’Harfleur, pietà,

dunque, finché ne siete ancora in tempo,

della vostra città, del vostro popolo,

mentr’io posso tenere ancora in pugno

i miei soldati sotto il mio comando,

e il vento fresco e mite della grazia

tiene lontane ancor dal vostro cielo

le nubi sozze e infette del massacro,

del saccheggio e d’ogni altra atrocità.

Altrimenti, aspettatevi tra poco

di veder da soldati ebbri di sangue

insudiciate con luride mani

le chiome delle urlanti vostre figlie,

tirati per le lor barbe d’argento

i vostri vecchi e sfracellate al muro

le lor canute venerande teste,

ed infilzati in cima alle lor picche

i corpi nudi dei vostri fanciulli,

e le lor madri, pazze di dolore,

squarciar con disperate grida il cielo,

come un tempo le madri di Giudea

correndo dietro ai sanguinari sgherri

di Erode. Ebbene, uomini di Harfleur,

al fine di evitare tutto questo,

che rispondete? Non volete arrendervi?

O, decisi a colpevole difesa,

volete farvi proprio sterminare?

GOVERNATORE -              Per noi ogni speranza di difesa

da oggi è spenta. Il principe Delfino

dal quale attendevamo dei rinforzi,

ci risponde non esser le sue truppe

pronte per ora a rompere un assedio

sì pesante. Perciò, nobile re,

affidiamo alla tua buona indulgenza

questa città e la vita di noi tutti.

Varca dunque coi tuoi le nostre porte;

di noi disponi e delle nostre cose.

non possiamo difenderci più a lungo.

ENRICO -                              Apriteci le porte! Zio Exeter,

andate voi ed entrate in Harfleur;

insediatevi là e fortificatela

quanto più solida contro i Francesi.

Noi, caro zio, con l’inverno alle porte

e con la maledetta epidemia

che va infierendo tra le nostre file,

ripiegheremo intanto su Calais.

Questa notte saremo ospite vostro

in Harfleur, per trovarci domattina

pronti a riprendere la nostra marcia.

(Trombe. Entrano tutti in città)


SCENA IV - Rouen, una stanza nel palazzo reale

Entrano CATERINA e ALICE(74)

CATERINA -

Alice, tu a été en Angleterre et tu parles bien le language.

Alice, tu sei stata in Inghilterra, e parli bene la lingua.

ALICE -

Un peu, madame.

Un po’, signora.

CATERINA -

Je te prie de m’enseigner; il faut que j’apprenne à parler. Comment appelez-vous la main en anglais?

Ti prego d’insegnarmi; bisogna ch’io impari a parlare. Come chiamate in inglese la mano?

ALICE -

La main? Elle est appelée “the hand”.

La mano? È chiamata “the hand”.

CATERINA -

“De hand”. Et les doigts?

“De hand”. E le dita?

ALICE -

Ma foi, j’oublie les doigts! Mais je me souviendrai. Les doigts?… Je pense qu’ils sont appelés “de fingers”.

Oh, Dio, ho dimenticato le dita! Ma me ne ricorderò, Le dita?… Penso siano chiamate “de finghers”.

CATERINA -

La main, “de hand”; les doigt“de fingers”. Je pense que je suis le bon écolier. J’ai gagné deux mots d’anglais vitement. Comment appellez-vous les ongles?

La mano, “de hand”; le dita “de finghers”. Penso di essere il buon scolaro. Ho guadagnato due parole d’inglese presto.

Come chiamate voi le unghie?

ALICE -

Les ongles? Nous les appellons “de nails”.

Le unghie? La chiamiamo “de nails”.

CATERINA -

“De nails”. Ecoutez: dites-moi si je parle bien: “de hand”, “de fingers”,“de nails”.

“De nails”. Sentite: ditemi se parlo bene: “de hand”, “de finghers”, “de nails”.

ALICE -

C’est bien dit, madame; il est fort bon anglais.

È ben detto, signora; è un ottimo inglese.

CATERINA -

Dites-moi l’anglais pour le bras.

Ditemi l’inglese per “il braccio”.

ALICE -

“De arm”, madame.

“De arm”, signora.

CATERINA -

Et le coude?

E il gomito?

ALICE -

“D'elbow”.

“D’elbow”.

CATERINA

“D’elbow”. Je m’en fais la repétition de tous les mots que vous m’avez appris dès à présent.

“D'elbow”. Adesso mi ripeto tutte le parole che m’avete insegnato fino ad ora.

ALICE -

Il est trop difficile, madame, comme je pense.

È troppo difficile, signora, come penso.

CATERINA -

Excusez-moi, Alice, écoutez: “de hand”, “de fingres”, “de nails”, “de arm”, “de helbow”.

Scusatemi, Alice, ascoltate: “de hand”, de fingres”, “de nails”, “de arm”, “de helbow”.

ALICE -

“D’elbow”, madame.

“D’elbow”, signora.

CATERINA -

O, Seigneur Dieu, je m’en oublie: “d’elbow”. Comment appellez-vous le col?

O, Dio Signore, io me ne dimentico: “d’elbow”. Come chiamate voi il collo?

ALICE -

“De nick”, madame.

“De nick”, signora.

CATERINA -

“De nick”. Et le menton?

“De nick”. E il mento?

ALICE -

“De chin”.

“De chin”.

CATERINA -

"De sin". “De nick”, le col, “de sin”, le menton.

“De sin”. “De nick”, il collo, “de sin”, il mento.

ALICE -

Oui, sauf votre honneur, en verité, vous prononcez les mots aussi droit que les natifs d’Angleterre.

Sì. Salvo che vostro onore, in verità, pronunciate le parole così bene come i nativi d’Inghilterra.

CATERINA -

Je ne doute point d’apprendre par la grace di Dieu, et en peu de temps.

Non dubito che imparerò, Diograzia, e in poco tempo.

ALICE -

N’avez-vous pas déjà oublié ce que je vous ai enseigné?

Non avete mica già dimenticato quello che v’ho insegnato?

CATERINA -

Non, je reciterai à vous promptement:“de hand”,“de fingres”,“de mails”…

No, ve li reciterò subito: “de hand”, “de fingres”, “de mails”…

ALICE -

“De nails”, madame.

“De nails”, signora.

CATERINA -

“De nails”, “de arm”, “de ilbow”…

“De nails”, “de arm”, “de ilbow”…

ALICE -

Sauf votre honneur, “d’elbow”.

“D’elbow”, vostro onore.

CATERINA

Ainsi dis-je: “d’elbow”, “de nick”,“de sin”. Comment appellez -vous le pied et la robe?

Così, dunque: “d’elbow”, “de nick”, “de sin”. Come chiamate voi il piede e la gonna?

ALICE -

Le “foot”, madame, et le “count”.

Il “foot”, signora, e il “count”.

CATERINA -

Le “foute”et le “cant”? O Seigneur Dieu! Ils sont des mots de son mauvais, corruptible, gros et impudique, et non pour les dames d’honneur d’user. Je ne voudrais prononcer ces mots devant les seigneurs de France, pour tout le monde…(75). Foh!” Le “foute” et le “cant”! Néanmoins, je reciterai une autre fois ma leçon ensemble: “d'hand “,”de fingres”,”de nails”, “de arm”,“de nick”, “de sin “, “d’elbow”, “de foute”, “de cant”.

Il “foute” e il “cant”! Dio Signore! Sono parole di suono cattivo, corruttibile, grossolano e impudico, e non da usare dalle dame onorate. Io non vorrei pronunciare queste parole davanti ai signori di Francia, per tutto il mondo! Puah! Il “foute” e il “cant”!… Nondimenoreciterò da capo”, lamia lezione: “d’hand”, “de fingres”,“de nails”, “de arm”, “d’elbow”, “de foute”, “de cant”.

ALICE -

Eccelent, madame.

Perfetto, signora.

CATERINA -

C’est assez, pour une fois. Allons-nous à diner.

Basta, ora, come prima volta. Andiamo a pranzo.

(Escono)


SCENA V - La stessa

Entrano il RE DI FRANCIA, il DELFINO, il DUCA DI BORBONE, il CONNESTABILE e altri

RE -                                        È accertato: ha passato già la Somme.

CONNESTABILE -              E se non lo fermiamo combattendo,

rassegniamoci pure, mio signore,

a non vivere più in terra di Francia.

Abbandoniamo tutto,

e regaliamo i nostri bei vigneti

a un popolo di barbari invasori.

DELFINO -                           O Dieu vivant!(76) Dovranno pochi arbusti

di noi, qui nati dal soverchio seme

della libidine dei nostri padri,

nostri virgulti su selvaggio tronco

innestati, così all’improvviso,

crescere fino a toccare le nuvole,

e dall’alto guardare in basso noi,

che siamo il loro ceppo originario?

BORBONE -                         Già, normanni anche loro, ma bastardi,

mort de ma vie!(77) Bastardi di Normanni!

Se lasciamo che avanzino così,

senza attaccarli, vendo il mio ducato

e mi vado a comprare dritto dritto

una sporca e fangosa fattoria

sulle coste dell’isola di Albione.

CONNESTABILE -              Dieu des batailles!(78) Dove avranno preso

costoro tanto ardore? Il loro clima

non è forse nebbioso, aspro, pesante,

e non li guarda forse un sole pallido,

come disprezzo, con quel suo cipiglio

isterilendo sopra il loro suolo,

i loro frutti? Può forse un po’ d’acqua

fermentata - quel lor decotto d’orzo(79)

buono ad abbeverar sfiancate rozze -,

rinsaldare a tal punto d’ardimento

il rigido lor sangue? E dovrà il nostro,

invece, così vispo, esuberante

e tale fatto ancora più dal vino,

mostrarsi intirizzito? Ah, no, perdio!

Per l’onore di questa nostra terra,

non stiamo ancora ancora a pencolare                                  

tra il sì e il no come tanti ghiaccioli

alle grondaie delle nostre case,

mentre gente più gelida di noi

trasuda di gagliarda giovinezza

attraversando i nostri ricchi campi,

che ben potremo dichiarare poveri

per la fiacchezza dei loro padroni!

DELFINO -                           Sulla parola mia, le nostre donne,

credetemi, si fan beffa di noi,

e dicon chiaro e tondo

che siam ridotti tanti smidollati;

e che offriranno tutte i loro corpi

all’ardore della gioventù inglese,

per riapprovvigionare almen la Francia

di guerrieri, sian essi pur bastardi.

BORBONE -                         E ci invitano a fare da maestri

nelle scuole di ballo in Inghilterra,

a insegnargli le audaci piroette

della lavolta, e l’agile corrente;(80)

perché la nostra sola maestria

è quella che si trova nei calcagni,

e perché tutta la nostra eleganza

sta nell’alzare i tacchi per fuggire.

RE -                                        Dov’è Montjoie,(81) l’araldo?

Lo si spedisca subito

a recare a Inghilterra il mio saluto

con la mia secca sfida. In piedi, principi!

E, con il vostro senso dell’onore

affilato più delle vostre spade,

affrettatevi a scender tutti in campo!

Voi, Carlo Delabreth, Gran Connestabile,

e voi, Duchi d’Orléans, Berry, Borbone,

Brabante, Bar, Borgogna ed Alençon;

Giacomo Chatillon, Ramboures, Vaudemont,

Beaumont, Granpré, Roussi et Faulconbridge,

Foix, Lastrale, Bouciqualt e Charolois,

granduchi e grandi principi,

e voi tutti, baroni e cavalieri,

in nome delle vostre grandi origini

questa è l’ora per voi

di riscattar le passate vergogne

fermando questo Enrico d’Inghilterra

che scorrazza altezzoso in lungo e in largo

sul nostro suolo, coi vessilli al vento

tinti del sangue della nostra Harfleur.

Rovesciatevi sopra le sue truppe

come valanga per rocciosa china,

quando l’alpe scaracchia il suo catarro

sul fondovalle, quale suo vassallo,

prono ai suoi piedi. Piombate su lui,

e portatelo, nostro prigioniero,

a Rouen, sulla carretta degli ostaggi.

CONNESTABILE -              Questo è parlar da grandi! Mio rammarico

è soltanto che sian così ridotte

sparute le sue schiere, e sol composte

di uomini fiaccati dalla fame,

dalle fatiche e dalle malattie;

poiché son certo che gli basterà

avvistar da lontano il nostro esercito

per sentirsi affondare il cuore in petto

per la paura, e non saprà far altro

che venirci ad offrire il suo riscatto.

RE -                                        Perciò spedite subito Montjoie,

Connestabile, e dica ad Inghilterra

d’esser da noi mandato al solo scopo

di sapere da lui quanto denaro

è disposto ad offrirci in suo riscatto.

Nell’attesa, voi, principe Delfino,

resterete a Rouen al nostro fianco.

DELFINO -                           No, sire, vi scongiuro!

RE -                                        È necessario che restiate qui.

Dovete rassegnarvi. Ed ora a voi,

Connestabile, a voi principi tutti;

partite e riportateci al più presto

la resa a discrezione d’Inghilterra!

(Escono)


SCENA VI - Il campo inglese in Picardia

Entrano i due capitani, GOWER, inglese, e FLUELLEN, gallese, incontrandosi.

GOWER -                              Oh, capitano! Tornate dal ponte?

FLUELLEN -                        Dal ponte, sì, lattofe, v’assicuro,

si commettono cesta strepitose.

GOWER -                              Che n’è del Duca d’Exeter, è salvo?

FLUELLEN -                        Il Duca d’Exeter è un faloroso,

quanto Acamennone, un uomo in campa,

che io amo e d onoro

con tutta l’anima, con tutto il cuore,

e con il mio tovere e la mia vita,

con tutto quello di cui son capace.

Non ha subìto un’ombra di ferita

- che sia lotato e penetetto Ittio -

e tiene il ponte con molto falore

e con crande perizia militare.

E c’è pure un tenente alfiere, al ponte,

che, in coscienza, mi sempra un Marcantonio

per quanto si dimostra coraggioso;

sì, dico, uno cui nessuno al monto

tareppe manco una spanna di cretito,

ma l’ho visto far cose strabilianti.

GOWER -                              Come si chiama?

FLUELLEN -                                                     È l’alfiere Pistola.

GOWER -                              Non lo conosco.

Entra PISTOLA

FLUELLEN -                                                     Eccolo qua il nostro.

PISTOLA -                            (A Fluellen)

Capitano, ti chiedo un gran favore.

Il Duca di Exeter ti vuole bene…

FLUELLEN -                        Sì, rincraziato Ittio, ma un po’ di pene

l’ho pure meritato, al suo servizio.

PISTOLA -                            C’è un soldato, Bardolfo,

cuor saldo e generoso, un fegataccio,

che, per crudel destino

e capriccioso voler della ruota

della Fortuna - la bendata dea,

volubile, che sta diritta in piedi

su una pietra che ruota…

FLUELLEN -                                                                   La Fortuna,

con tua pazienza, alfiere Pistola,

fiene tipinta cieca,

con una penta afanti agli occhi suoi,

a inticare che la fortuna è cieca;

ed è pure tipinta con la ruota

per inticare - questa è la morale -

che la Fortuna cira, cira sempre

ed è incostante, mopile, variapile;

e il suo piete, lo veti, sta pocciato

su un sasso sferico, che cira, cira…

In ferità ti dico che il poeta

fa ti lei una pella tescrizione;

eccellente morale, la Fortuna.

PISTOLA -                            A Bardolfo però essa è nemica

e lo guarda con piglio corrucciato;

perché Bardolfo ha rubato una pisside,

e per questo dev’essere impiccato.

Dannata Morte! Stringa il suo capestro

la forca a strangolare solo cani;

vada libero l’uomo,

e mai capestro gli soffochi il fiato!

Ma Exeter l’ha condannato a morte

per una pisside da quattro soldi.

Parlagli tu, so che t’ascolterà;

che il filo della vita di Bardolfo

non abbia ad essere falciato via

ignominiosamente

dal laccio d’una corda dozzinale.

Parla tu in favor della vita,

ne avrai da me adeguata ricompensa.

FLUELLEN -                        Alfiere, concepisco solo in parte

il tuo discorso.

PISTOLA -                                                      S’è soltanto in parte,

rallegratene allora con te stesso.

FLUELLEN -                        Eh, no, alfiere, questa non è cosa

proprio da rallecrarsene, per me;

perché, fedi, foss’anche mio fratello,

io non potrei che tomantare al Duca

ti teciter la cosa a suo talento,

e giustiziarlo, ché la tisciplina

tev’essere comunque rispettata.

PISTOLA -                            Muori dannato, allora!

Dell’amicizia tua mi faccio fiche!

FLUELLEN -                        Pene così.

PISTOLA -                                             Fiche spagnole!

FLUELLEN -                                                                   Meglio!

(Esce Pistola)

GOWER -                              Eh, ma costui è un celebre gaglioffo

che si dà l’aria di gran galantuomo.

Lo conosco: un ruffiano, un tagliaborse

che si dà l’arie di gran galantuomo.

FLUELLEN -                        Però quand’era al ponte, v’assicuro,

emetteva parole così serie

come a federe in un ciorno t’estate.

Ma sta bene così; quello che ha tetto

sta penissimo, fe lo carantisco,

quando se ne presenterà il momento.

GOWER -                              Ma che dite! È un cialtrone, un impostore,

un lestofante, che, di tanto in tanto,

si fa arruolare per andare in guerra

per poi potere, quando torna a Londra,

pavoneggiarsi nei panni del reduce.

Questi cialtroni sono formidabili

nel ricordarsi a pappagallo i nomi

di tutti gli ufficiali comandanti,

nel sapere a memoria tutti i luoghi

in cui si sono svolti fatti d’arme,

tale e tale ridotta, tale breccia,

tale convoglio, chi è rimasto ucciso,

chi con infamia ha salvato la pelle;

le condizioni poste dal nemico…

E tutto questo imparato a memoria,

ed in perfetto gergo militare,

confortato e condito da bestemmie

coniate lì per lì. E straordinario

è vedere l’effetto che producono,

innanzi a dei boccali spumeggianti

e fra cervelli saturi di birra,

una barba tagliata a perfezione

e una divisa tutta sbrindellata.

Ah, imparate a conoscerli anche voi,

questi cialtroni, vergogna del secolo,

o rischierete grosse fregature!

FLUELLEN -                        Fi tirò, capitano, ecco fetete,

io capisco penissimo, fetete,

che lui non è quel che vuole apparire,

e se una volta lo pizzico in fallo, (82)

gli tico il fatto suo.

(Tamburi)

Ma ecco il re.

Gli tevo tire com’è antata al ponte.

Entra RE ENRICO con GLOUCESTER e soldati con tamburi e bandiere

Tio penedica la Fostra Maestà!

ENRICO -                              Salute, Fluellen! Venite dal ponte?

FLUELLE -                           Sì, così piaccia a Fostra Maestà.

Il ponte l’ha tenuto il Duca d’Exeter

valorosissimamente: i Francesi

sono stati respinti, ecco, fetete,

con azioni prillanti e coracciose.

Càspita, l’avversario a un certo punto

stava lì lì per prenderne possesso,

e il Duca l’ha costretto a retrocedere;

e il ponte è saldamente in mano al Duca,

atesso, posso pen testimoniarlo,

altezza: il Duca è un crande comandante.

ENRICO -                              Quante perdite abbiamo avuto, Fluellen?

FLUELLEN -                        Dalla parte nimica

la pertizione è stata molto crande.

Per parte nostra, reputo che il Duca,

non abbia perso nessuno dei suoi,

all’infuori di un uomo

che sempra tover essere impiccato

per un furto che ha fatto in una chiesa:

si tratta di un alfiere, un tal Bardolfo,

non so se Fostra Crazia lo conosce:

ha la faccia fiorita di pitorsoli,

di pustole, bubboni ed eruzioni,

e le lappra gli soffiano nel naso,

che somiglia a un tizzone sempre acceso,

ora rosso, ora blu… Però a quest’ora

quel naso sarà stato ciustiziato,

e quel foco sarà spento per sempre.

ENRICO -                              E così sia di tutti i manigoldi

della sua stessa risma;

ed ordine sia dato nell’esercito

che nelle marce attraverso il paese

nulla sia preso a forza dai villaggi,

nulla che non sia preso a pagamento,

e che inoltre nessuno dei Francesi

abbia ad esser ripreso ed oltraggiato

con accento superbo e burbanzoso;

perché quando mitezza e crudeltà

si ritrovano a disputarsi un regno,

vince per primo il giocator più mite.

Tromba. Entra MONTJOIE

MONTJOIE -                         La mia tenuta vi dirà chi sono.

ENRICO -                              Ti riconosco, infatti. Ma da te

che cosa ho da aspettarmi di sapere?

MONTJOIE -                         Il pensiero del mio signore.

ENRICO -                                                                           Esponilo.

MONTJOIE -                         Ecco quel che m’ha detto il mio sovrano:

“Va’ e fa’ sapere a Enrico d’Inghilterra

che se pur sembravamo tutti morti,

eravamo soltanto addormentati.

Sempre l’attesa fu miglior soldato

della cieca e precipite irruenza.

Digli che già ad Harfleur

noi avremmo potuto sbaragliarlo,

se non ci fosse apparso intempestivo

spiaccicare un ascesso non maturo.

Adesso la battuta tocca a noi,(83)

e lo diciamo con voce imperiale:

Enrico d’Inghilterra avrà a pentirsi

amaramente della sua follia;

misurerà la propria debolezza

e ammirerà la nostra tolleranza.

Digli, perciò, che pensi al suo riscatto

il cui prezzo sarà commisurato

alle perdite già da noi subite,

al numero dei sudditi perduti

ed alle umiliazioni digerite:

se tutto ciò dovesse ei ripagare

con ugual peso, la sua piccolezza

ne sarebbe schiacciata: le sue casse

son troppo povere per tali perdite,

tutti gli arruolamenti del suo regno

non basterebbero a ricompensarmi

dell’effusione di sangue dei nostri;

ed in quanto alle nostre umiliazioni

la sua stessa persona

che stesse inginocchiata ai nostri pedi

sarebbe ancora una riparazione

misera e insufficiente, in proporzione.

Aggiungi a tutto questo la mia sfida,

e digli infine che ha tradito i suoi,

la cui condanna a morte è pronunciata”.

Così il mio re, signore, e il mio messaggio.

ENRICO -                              La tua funzione la conosco già.

Il tuo nome?

MONTJOIE -                                              Montjoie.

ENRICO -                                                                   Egregiamente

hai compiuto, Montjoie la tua missione.

Torna ora dal re, fagli sapere

ch’io pel momento non cerco uno scontro,

ma che vorrei seguitare la marcia

fino a Calais, senza incontrare ostacoli;

ché, in verità - se pur non è da senno

confessar tanto ad un nemico scaltro

e pronto a trarne subito vantaggio -,

ho un esercito molto indebolito

dalla morìa, che me l’ha decimato;

e quei pochi che son rimasti in piedi

non si può dire valgano di più

di soldati francesi in pari numero,

laddove quando tutti erano sani,

ti posso dire francamente, araldo,

che su ogni paio di gambali inglesi

potevano marciare tre Francesi.

Dio mi perdoni se mi lascio andare

a certe vanterie; ma è tutta colpa

di quest'aria di Francia, il cui soffiare

ha rigonfiato in me un tal difetto

del quale sono deciso ad emendarmi.

Va’, dunque, e riferisci al tuo signore

ch’io sono qua: e quanto al mio riscatto

non ho che questo mio fragile corpo

che non val niente, mentre la mia truppa

è ridotta a una misera accozzaglia

di uomini ammalati ed infiacchiti.

Ma digli pure, nel nome di Dio,

che siamo ben decisi ad avanzare,

foss’anche il re di Francia, lui in persona,

o chiunque del suoi potenti amici

a sbarrarci il cammino… Toh, Montjoie,

prendilo, questo è per il tuo disturbo.

(Gli dà una borsa di denaro, che quello accetta)

E di’ al tuo re di rifletterci bene:

se mi fate passare, passeremo;

ma se saremo comunque impediti,

tingeremo la vostra bruna terra

del vostro rosso sangue… Addio, Montjoie,

t’auguro buon ritorno.

In breve, la risposta mia è questa:

noi, ora, nelle nostre condizioni,

non cerchiamo lo scontro in campo aperto,

ma neppure diciamo di evitarlo.

Di’ questo al tuo padrone.

MONTJOIE -                                                                   Lo farò,

con tante grazie a vostra maestà.

(Esce)

GOWER -                              Spero che non ci salteranno addosso

proprio in questo momento.

ENRICO -                              Nelle mani di Dio siamo, fratello,

non nelle loro. Avanti per il ponte.

Sta calando la notte.

Passiamo il fiume e ci accampiamo là,

per riprender la marcia domattina.

(Escono tutti)


SCENA VII - Il campo francese presso Azincourt. Notte.

Entrano il CONNESTABILE DI FRANCIA, ramboures, il DUCA D’ORLEANS, il DELFINO e altri

CONNESTABILE -              Armatura più bella della mia

non credo proprio ce ne siano al mondo.

Non vedo l’ora che si faccia giorno.

ORLEANS -                          Sì, la vostra armatura è molto bella;

ma diamo pur la lode che si merita

al mio bravo corsiero…

CONNESTABILE -              Il migliore d’Europa, senza dubbio.

ORLEANS -                          Ma non verrà mai giorno?

DELFINO -                           Signore d’Orléans e Connestabile,

parlate di cavalli e d’armature?

ORLEANS -                          Voi siete sia degli uni che dell’altre,

tra i principi del mondo, lo sappiamo,

il meglio provveduto.

DELFINO -                           Che diavolo di notte lunga è questa!…

Il mio cavallo? Non lo cambierei

con nessun’altra bestia a quattro zampe.

“Za’, hop!”, e ti rimbalza sul terreno

come se fosse imbottito di crine.(84)

Pare davvero le cheval volant,

il Pégaso, chez les narines de feu.(85)

Quando gli sono in sella,

è come se volassi: sono un falco

che galoppa per l’aria insieme a lui.

La terra canta, quando lui la tocca.

Il più banale corno del suo zoccolo

è più armonioso della piva d’Ermes.(86)

ORLEANS -                          Ha il mantello color noce moscata.

DELFINO -                           E il calor dello zenzero.(87)

Una bestia che andrebbe a perfezione

ad un Persèo, tutto aria e fuoco;

gli elementi più torpidi,

terra ed acqua, traspaion solo in lui

nella paziente sua docilità

quando gli monta in sella il cavaliere.

Lui solo è quel che può dirsi un cavallo;

gli altri sono tutti miseri ronzini,

da dirsi tutt’al più degli animali.

CONNESTABILE -              Oh, sì, davvero, un cavallo eccellente,

monsignore, il migliore in assoluto.

DELFINO -                           È il vero principe dei palafreni;

il suo nitrito è l’ordine imperioso

d’un monarca, l’aspetto impone ossequio.

ORLEANS -                          Questo, cugino, mi sembra eccessivo…

DELFINO -                           Niente affatto, cugino. Scarso d’anima(88)

chi dal primo levarsi dell’allodola

al rientro all’ovile dell’agnello(89)

non sa variare meritate lodi

al mio cavallo. Esso offre all’altrui lode

un motivo fluente come il mare:

se tramutate i granelli di sabbia

in eloquenti lingue, il mio cavallo

saprà offrire a ciascuna un argomento.

È argomento da re solo il parlarne;

il cavalcarlo, poi, da re dei re.

Degna cosa sarebbe in tutto il mondo,

quello a noi noto e quello sconosciuto,

se gli uomini, per contemplare lui,

accantonassero ogni lor faccenda.

Una volta ho composto in lode sua

un sonetto il cui primo verso era:

“Meraviglia della natura…”

ORLEANS -                                                                       Anch’io

so di un sonetto in lode di un'amante

che comincia così: per un’amante.

DELFINO -                           Han voluto copiare certamente

quello scritto da me pel mio cavallo,

perché per me il cavallo è la mia amante.

ORLEANS -                          Un’amante che regge bene in groppa.

DELFINO -                           Sì, ma me solo: ch’è la prima lode

e il primo segno della perfezione

d’un’amante fedele e costumata.

CONNESTABILE -              Ciò non toglie che questa vostra amante

pare che ieri v’abbia scavalcato

piuttosto bruscamente.

DELFINO -                                                                 Vi sbagliate.

Avrà fatto così con voi la vostra.

CONNESTABILE -              Quella mia non aveva alcuna briglia.

DELFINO -                           Vuol dire allora ch’era mansueta

per vecchiaia, e che voi la montavate

alla maniera d’un kern irlandese,(90)

coi calzoni attillati pelle-pelle,

senza le larghe braghe alla francese.

CONNESTABILE -              D’equitazione v’intendete, vedo.

DELFINO -                           Difatti. E quindi statemi a sentire:

coloro che cavalcano in quel modo

e non son più che accorti nella marcia,

cadono in qualche fetido pantano.

Preferisco a un’amante il mio cavallo.

CONNESTABILE -              Ed io la mia donna a una giumenta.

DELFINO -                           Ti posso garantire, Connestabile,

che la mia amante non ha una solo pelo

che non sia quello suo.(91)

CONNESTABILE -              Lo stesso vanto menerei anch’io

se tenessi una scrofa per amante.(92)

DELFINO -                           Le chien est retourné

à son propre vomissement,

et la truie lavée à son bourbier.(93)

Per te tutto è accettabile.

CONNESTABILE -              Salvo avere il cavallo come amante

e pronunciar proverbi fuori luogo.

RAMBOURES -                    Mio signor Connestabile,

le luci che brillavano stanotte

sulla vostra armatura,

come ho visto, sotto la vostra tenda,

erano stelle o soli?

CONNESTABILE -                                             Stelle, stelle.

DELFINO -                           Domani ne cadranno alcune, spero.

CONNESTABILE -              Nel mio cielo ne resteranno sempre.

DELFINO -                           Questo è possibile, perché più d’una

voi ne portate addosso di superfluo,

e se qualcuna ne venisse tolta

non potrebbe che ritornarvi a onore.

CONNESTABILE -              Come ad onore del vostro cavallo

tornerebbe se certe vanterie

delle quali l’avete caricato

potessero smontargli giù di sella.

Trotterebbe sicuramente meglio.

DELFINO -                           Potessi caricarlo quanto merita!…

Ma, insomma, qui non si fa giorno mai?

Domani vo’ trottare per un miglio

su un lastricato di facce d’Inglesi.(94)

CONNESTABILE -              Se fossi in voi, non parlerei così,

per tema di doverlo ripercorrere

a ritroso quel miglio; pur se anch’io

non vedo l’ora che si faccia giorno;

muoio letteralmente dalla voglia

di dare una strigliata a questi Inglesi.

RAMBOURES -                    Chi accetta di scommettere con me

che ne catturo almeno una ventina?

CONNESTABILE -              Vi conviene scommetter con voi stesso,

prima di catturarli.

DELFINO -                                                          È mezzanotte.

Io vado a indossare l’armatura

(Esce)

ORLEANS -                          Il Delfino è impaziente di aspettare

che faccia giorno.

RAMBOURES -                                                  E di mangiarsi Inglesi.

CONNESTABILE -              Ho idea davvero che li mangerà

tutti quelli che ammazzerà domani.

ORLEANS -                          Sulla mano della mia dama, candida,

giuro ch’è un valoroso cavaliere.

CONNESTABILE -              Meglio giurarlo sul piede di lei,

così può calpestarlo

il vostro giuramento.

ORLEANS -                                                              Certamente

è il gentiluomo più attivo di Francia.

CONNESTABILE -              Attività vuol dire far qualcosa;

ed egli è sempre in procinto di fare.

ORLEANS -                          Non ha mai fatto male ad una mosca,

per quanto so.

CONNESTABILE -                                      Né ne farà domani:

si manterrà questa sua buona fama.

ORLEANS -                          Lo conosco per uomo di coraggio.

CONNESTABILE -              Così m’è stato detto anche da altri,

che lo conosce certo più di voi.

ORLEANS -                          E da chi?

CONNESTABILE -                               Beh, lui stesso me l’ha detto,

aggiungendo che non gli importa niente

che si risappia.

ORLEANS -                                                    Non ce n’è bisogno;

la sua non è una virtù nascosta.

CONNESTABILE -              Eppure sì, signore, in fede mia;

quella virtù nessuna l’ha mai vista,

tranne che il suo staffiere. È una virtù,

ecco, possiamo dire, incappucciata,(95)

come un falcone: gli togli il cappuccio,

e quello svolazzando si dilegua.

ORLEANS -                          “ Malvolenza fu sempre maldicenza.”

CONNESTABILE -              Proverbio per proverbio, vi rispondo:

“Non c’è amicizia senza piaggeria”.

ORLEANS -                          Replico: “Al diavolo ciò ch’è del diavolo!”.

CONNESTABILE -              Perfettamente: il diavolo

sarebbe in questo caso il vostro amico,

e il proverbio che calza è “Peste al diavolo!”

ORLEANS -                          A proverbi mi soverchiate sempre,

solo perché “la freccia dello sciocco

scocca dall’arco sempre troppo presto”.

CONNESTABILE -              Colpo sbagliato, il vostro. Mira alta.

ORLEANS -                          Non sarebbe però la prima volta

che qualcuno vi passa sulla testa.

Entra un MESSO

MESSO -                                Signor Gran Connestabile,

gli Inglesi sono a cinquecento passi

dai vostri attendamenti.

CONNESTABILE -              Chi è che ha misurato la distanza?

MESSO -                                Il signor di Granpré.

CONNESTABILE -                                               Gran galantuomo,

il signor di Granpré, brava persona

e gentiluomo pieno d’esperienza…

Ah, fosse giorno fatto!…

Ahimè, povero Enrico d’Inghilterra!

Lui l’alba non la sta certo aspettando

con l'impazienza che qui abbiamo noi.

ORLEANS -                          Ma che razza di scemo sprovveduto

è mai questo sovrano d’Inghilterra,

che se ne viene così allo sbaraglio

in luoghi sì lontani e sconosciuti!

CONNESTABILE -              Avessero una stilla di criterio,

gli Inglesi, se n’andrebbero di corsa.

ORLEANS -                          Il fatto è proprio questo: che non l’hanno;

perché se avessero le teste armate

d’intelligenza, sarebbe impossibile

portarle chiuse in elmi sì pesanti.

RAMBOURES -                    E tuttavia quell’isola

genera creature assai pregevoli:

i lor cani mastini, per esempio,

che per coraggio sono impareggiabili.

ORLEANS -                          Coraggio… Sono stupidi cagnacci,

capaci di gettarsi ad occhi chiusi

nelle fauci d’un orso siberiano

e farsi maciullare il muso a morsi

come una mela fradicia… Coraggio!

Tanto varrebbe chiamar coraggiosa

la pulce che osa fare colazione

sul labbro del leone.

CONNESTABILE -                                               Giusto, giusto!

Sono davvero come dei mastini,

attaccano con pari virulenza,

lasciando però a casa

l’intelligenza con le loro mogli.

Date loro a mangiare

carne di manzo a iosa, ferro e acciaio:

li vedrete mangiare come lupi

e combattere come tanti diavoli.

ORLEANS -                          Carne di manzo, però, qui da noi

ne trovano ben poca.

CONNESTABILE -                                               Tanto meglio.

Vuol dire che domani avranno stomaco

soltanto per mangiare, non per battersi.

È tempo che anche noi ci decidiamo

a indossar l’armatura. Ci muoviamo?

ORLEANS -                          Vediamo un po’: sono le due di notte.

Non saranno le dieci domattina,

e ciascuno di noi avrà già fatto

i suoi bei cento prigionieri inglesi.(96)

(Escono)


ATTO QUARTO

Entra il CORO

CORO -                                  Ora sforzatevi con il pensiero

di figurarvi quell’ora del giorno

che un brulichio confuso e l’alta tenebra

si fondono a riempir l’immenso vaso

dell’universo. Dall’un campo all’altro,

per il grembo sinistro della notte

si può ascoltare il sordo mormorio

che vien per l’aria dagli opposti eserciti,

sì che le scolte, immobili ai lor posti,

quasi avvertono, dagli opposti campi,

il reciproco tenue bisbigliare.

Dai gran falò, fuoco risponde a fuoco,

e attraverso le lor pallide vampe

l’un esercito scorge, come un’ombra,

di quell’altro la faccia. Da lontano

i cavalli si lanciano la sfida

cogli acuti e spavaldi lor nitriti

che foran della notte il sordo orecchio;

e gli alacri armaioli, dalle tende,

dan gli ultimi ritocchi alle armature,

ribatton stringhe, serrano chiavarde

coi lor martelli e spandon tutt’intorno

l’orrenda nota dei preparativi.

Cantano i galli già per la campagna,

battono gli orologi delle torri

e annunciano al mattino sonnolento

l’ora terza. Superbi del lor numero,

fiduciosi, in cuor loro, di se stessi,

i troppo allegri e sicuri Francesi,

giocando ai dadi,(97) danno già spacciati

i troppo sottovalutati Inglesi,

e non cessan di rimbrottar la notte

che, con passo di piombo, zoppicante,

simile ad un’immonda, brutta strega,

s’attarda ancora, fastidiosamente.

I poveri malaugurati Inglesi,

come gente votata al sacrificio,

siedon pazienti ai lor vigili fuochi,

ruminando ciascuno nel suo animo

le incognite dell’imminente giorno;

ed in ciascuno i gesti di tristezza,

le guance smunte, le divise lacere

li fan sembrare, al chiaror della luna,

che li contempla dall’alto del cielo,

come altrettanti paurosi spettri.

Oh, ma ora chi sa con la sua mente

figurarsi il regale condottiero

di questa banda d’uomini disfatti

mentre trascorre da una scolta all’altra,

dall’una all’altra tenda, esclami pure:

“Gloria e onore sul capo d’un tal re!”

Se ne va a piedi, solo,

a visitare tutti i suoi soldati,

dando a tutti il buongiorno, ad uno ad uno;

ed umile e tranquillo, sorridendo,

li chiama amici, fratelli, paesani.

Sul suo volto regale nessun segno

fa trasparir la consapevolezza

di trovarsi serrato e circondato

da un pauroso esercito,

né lascia trapelar dal colorito

nemmeno la più lieve sfumatura

della notturna spossante vigilia;

fresco d’aspetto, domina il disagio

della trepidazione dell’attesa

facendo mostra di giovial sembiante

e d’un tono d’amabile maestà;

sicché anche i più miseri dei suoi,

stati finora pallidi e languenti,

si riconfortano solo al vederlo,

e riprendono animo. Il suo occhio,

prodigo e liberale come il sole,

distribuisce a tutti il proprio ardore,

dissolvendo le gelide paure,

e così, nella notte, ogni soldato,

dall’umil fantaccino al cavaliere

                                               - per quanto possa darvene un’idea

l’incapacità nostra a riprodurlo -

ha con Enrico un piccolo contatto.

Ora deve così la nostra scena

volar dritta sul campo di battaglia,

dove saremo noi - ah, che miseria! -

con quattro o cinque spadacce di latta

tutte intaccate e male maneggiate,

in grotteschi e ridicoli duelli

a diffamare il nome di Azincourt.

Ma voi, seduti e attenti dove siete,

costruitevi la realtà dei fatti,

dalla nostra ch’è sol lor parodia

.

(Esce)
SCENA I - Il campo inglese davanti ad Azincourt. Notte.

Entrano RE ENRICO e GLOUCESTER

ENRICO -                              È vero, Gloucester, siamo in gran pericolo;

perciò tanto più grande

dovrà essere in tutti noi il coraggio.

Entra BEDFORD

Oh, buongiornoBedford, fratello mio.

O Dio Onnipotente,

c’è un’anima di bene in tutti i mali,

se l’uomo si sforzasse a distillarla!

Vedete, i nostri scomodi vicini

ci costringono ad esser mattinieri,

il che non solo giova alla salute,

ma è buona regola di economia;

essi sono anche per ciascuno di noi

la sua coscienza esterna che gli predica

e l'ammonisce di tenersi pronto

a morir nella grazia del Signore.

Così cacciamo miele dall’erbaccia

e precetto morale dal demonio.

Entra ERPINGHAM

Buongiorno, vecchio sir Tomaso Erpingham!

Un soffice origliere questa notte

meglio si converrebbe certamente

a quella vostra bella testa bianca

che non la ruvida zolla di Francia.

ERPINGHAM -                     No, mio sovrano; un simile giaciglio

mi dà assai più piacere; grazie ad esso

posso dire: “Ora dormo come un re”.

ENRICO -                              Oh, sì, accettar di buon grado i disagi

sull’esempio di quel che fanno gli altri

fa bene all’uomo, gli solleva l’animo;

e quando questo è sveglio, anche le membra

ch’erano prima spente e quasi estinte,

rompono il lor sepolcrale letargo

e riprendono nuovamente vita

con nuovo slancio e fresca leggerezza.

Prestatemi il mantello, voi, sir Thomas,(98)

(A Bedford e Gloucester)

Voi due, fratelli, andrete di conserta

a dare il mio buongiorno a tutti i principi

del nostro accampamento,

con l’invito a trovarsi quanto prima

alla mia tenda.

GLOUCESTER -                                          Ai vostri ordini, sire.

ERPINGHAM -                     Vostra grazia desidera ch’io resti

a fargli compagnia?

ENRICO -                                                               No, vi ringrazio,

buon cavaliere; andate pure voi

coi miei fratelli dai nobili inglesi.

La mia coscienza ed io, per un momento,

dobbiamo conversare un po’ da soli.

ERPINGHAM -                     Nobile Enrico! Dio ti benedica!

(Escono tutti, tranne il Re)

ENRICO -                              Dio te ne ricompensi, vecchio cuore!

Le tue parole mi ridan la carica!

Entra PISTOLA

PISTOLA -                            Qui va là?

ENRICO -                                                 Un amico.

PISTOLA -                                                                  Di’ chi sei:

ufficiale di grado o bassa forza?

ENRICO -                              Gentiluomo, reparto fanteria.

PISTOLA -                            Trascini allora la picca possente?(99)

ENRICO -                              Appunto. E tu chi sei?

PISTOLA -                                                                  Un gentiluomo

che non val meno d’un imperatore.

ENRICO -                              Allora tu sei superiore al re.

PISTOLA -                            Il re è un bel galletto, un cuore-d’oro,

un ragazzo che fa la bella vita,

un germoglio di gloria,

buona progenie e pugno vigoroso.

Io gli bacio la scarpa inzaccherata

e l’amo dalle fibre del mio cuore,

quel caro zerbinotto. Ed il tuo nome?

ENRICO -                              Harry Le Roy.

PISTOLA -                                                    Le Roy…

cognome tipico di Cornovaglia

Sei dei reparti della Cornovaglia?

ENRICO -                              No, no, sono gallese.

PISTOLA -                            Conosci allora Fluellen?

ENRICO -                                                                      Lo conosco.

PISTOLA -                            Digli allora che il giorno di San Davide

gli schiaccerò quel porro sulla zucca.(100)

ENRICO -                              Farai bene, quel giorno,

a non portare tu sul tuo cappello

la tua daga, altrimenti sarà lui

a darla in testa a te.

PISTOLA -                                                             Gli sei amico?

ENRICO -                              E parente.

PISTOLA -                                               Eh, fico, allora, a te!

ENRICO -                              Grazie, e che Dio t’assista.

PISTOLA -                            Il mio nome è Pistola.

(Esce)

ENRICO -                                                                 Bene adatto

questo nome alle tue rodomontate!

Entrano FLUELLEN e GOWER, incontrandosi.

Re Enrico si ritrae appartandosi in fondo non visto

GOWER -                              (A voce alta)

Oh, il capitano Fluellen!

FLUELLEN -                        Eh, Crisste Sante, parlate più piano!

Si fa crande stupore in tutto il monto

quanto si vetono non osservate

le fere e antiche leggi

ed antiche ordinanze tella cuerra.

Se vi tate la pena, capitano,

ti esaminar le storie delle cuerre

del Cran Pompeo, fi potrete trovare,

fi carantisco, che nessun bla-bla

si faceva nel campo di Pompeo;

che per le cerimonie e le lor forme

e per la soprietà e la motestia,

era tutto diverso che ta noi.

GOWER -                              Però, quale nemico fracassone!

Sono stati a far chiasso tutta notte.

FLUELLEN -                        Se il nemico è somaro ed impecille,

buffone, chiacchierone, fracassone,

cretete forse voi che anche noi

doppiamo essere somari e sciocchi

e buffoni, cratassi, fracassoni?

Eh? Che ne dite spassionatamente?

GOWER -                              Ve lo dirò abbassando la voce.

FLUELLEN -                        Bravo, sì, ve ne preco e vi sconciuro.

(Escono)

ENRICO -                              (Venendo avanti)

Questo gallese forse può apparire

un po’ fuori registro, ma c’è in lui

valore e disciplina, in abbondanza.

Entrano tre soldati: JOHN BATES, ALEXANDER COURT e MICHAEL WILLIAMS

COURT -                               John Bates, confratello, non è l’alba

la luce che balugina laggiù?

BATES -                                Penso proprio di sì,

ma noi davvero non abbiam motivo

di salutare allegri questo giorno.

WILLIAMS -                         Laggiù vediamo il cominciar del giorno,

ma non penso vedremo più la fine.

(Vedendo Re Enrico)

Chi è là?

ENRICO -                                            Un amico.

WILLIAMS -                                                          Di quale reparto?

ENRICO -                              Quello agli ordini di sir Thomas d’Erpingham.

WILLIAMS -                         Un anziano ed esperto condottiero,

oltre che gentiluomo cortesissimo.

Che pensa della nostra situazione?

ENRICO -                              Ch’è come quella di chi, naufragato,

si trova fermo su un banco di sabbia

e aspetta d’essere spazzato via

dal prossimo riflusso di marea.

BATES -                                Ha detto questo suo pensiero al re?

ENRICO -                              No, né sarebbe bene che lo faccia;

perché, detto fra noi, penso che il re

è anche lui un uomo, come me;

la viola emana in aria il suo profumo

per lui come per me; lo stesso cielo

si mostra a lui come si mostra a me,

tutti i suoi sensi sono suscettibili

delle stesse impressioni che gli altri uomini;

se gli togli di dosso le sue pompe,

nudo è un uomo come tutti gli altri;

e se pure le sue aspirazioni

si librino più alte delle nostre,

quando scendono in basso,

scendon con ala simile alla nostra.

Perciò s’egli ha ragione di temere,

non c’è alcun dubbio che le sue paure

sono del tutto simili alle nostre;

e sarebbe per tutti buona regola

perciò non suscitare in lui paure,

per evitare che, manifestandole,

egli scoraggi poi tutto l’esercito.

BATES -                                Lui può mostrare pure, agli occhi altrui,

tutto il coraggio; ma io son convinto

che in una notte fredda come questa

preferirebbe ben trovarsi immerso

nell’acqua del Tamigi, fino al collo.

E magari ciò fosse, ed io con lui

vorrei trovarmi in qualunque sbaraglio,

pur di trovarmi lontano da qui.

ENRICO -                              Per dirti francamente ed in coscienza

quel che penso del re,

son convinto che non vorrebbe stare

ora in luogo diverso

che quello in cui si trova questa notte.

BATES -                                Quand’è così, che ci stesse da solo;

perché del suo riscatto lui è certo,(101)

e sarebbero salve anche le vite

di molti poveracci come noi.

ENRICO -                              Dimostri di volergli molto male

ad augurargli di restar qui solo;

ma tu parli così per scandagliare

ciò che pensano gli altri. Per mio conto,

non c’è altro luogo al mondo

in cui potrei morire più contento

che là ove fossi in compagnia del re;

perché ritengo la sua causa giusta

ed onorevole la sua querela.

WILLIAMS -                         Di questo noi ben poco ne sappiamo.

BATES -                                Né spetta a noi di saperne di più.

È già abbastanza quel che ne sappiamo

sapendo d’esser sudditi del re.

Se la sua causa è ingiusta,

l’obbedienza che noi dobbiamo al re

ci lava da ogni crimine

che possiamo commettere per essa.

WILLIAMS -                         Se la sua causa è ingiusta, sarà il re

a dover rendere un pesante conto

quando le gambe e le braccia e le teste

che la sua guerra avrà tagliato a pezzi

si riuniranno tutte ai loro corpi

il giorno del Giudizio universale,

e grideranno: “Siamo morti là!”,

chi bestemmiando, chi invocando un medico,

chi piangendo la sorte della sposa

lasciata a casa a vivere in miseria,

chi per i debiti non soddisfatti,

chi per i figli lasciati sul lastrico.

Sono pochi, ho paura,

quelli che in guerra muoion nella grazia;

perché come si può disporre l’anima

a sentimenti d’amore del prossimo

se la mente non ha altro pensiero

che il sangue, già versato o da versare?

Ora, se a tutti questi disgraziati

è tolto di morire nel perdono,

peserà ciò come un nero peccato

sul re che li condusse a un tal sbaraglio;

perché se avessero disobbedito

sarebbe stato contro il lor dovere

di fedel sudditanza al re medesimo.

ENRICO -                              Sicché, secondo questo vostro dire,

se un figlio ch’è mandato da suo padre

in giro per commercio, muore in mare

senza poter mondarsi dei peccati,

questi dovrebbero poi ricadere

sul padre suo che l’ha mandato in viaggio?

O se un servo, mandato dal padrone

a portare una somma di denaro

è assalito per strada dai ladroni

e muore senza aver riconciliato

le sue diverse iniquità con Dio,

sarebbero gli affari del padrone,

secondo voi, la causa responsabile

dell’eterna condanna di quel servo?

Non è così. Il re non è tenuto

a risponder di come può avvenire

la fine di ciascuno dei suoi uomini,

così come quel padre di suo figlio,

e come quel padrone del suo servo;

e ciò perché nessuno dei mandanti

nel richiedere loro quel servizio

si proponeva di mandarli a morte.

E non c’è re al mondo,

che, buona e santa che sia la sua causa,

se costretto a difenderla con l’armi,

si muova a sostenerla con soldati

anch’essi mondi da ogni peccato.

Ci sarà tra di loro anche qualcuno

che avrà sulla coscienza un omicidio

premeditato e fatto a sangue freddo;

qualcun altro porterà in se la colpa

d’aver sedotto una fanciulla vergine

con la falsa promessa di sposarla;

altri vorrà profittar della guerra

per farne personale paravento

dopo avere, con frodi e ladrocinii,

ferito il dolce seno della pace.

A questi potrà forse riuscire,

facendo tanto da sfuggire agli uomini,

di sfuggire al rigore della legge

e ad un giusto castigo sulla terra;

ma non avranno ali per volare

lontan da Dio: la guerra è il Suo castigo

e lo strumento della Sua vendetta.

È così che qui uomini

ch’hanno violato le leggi del re

nella guerra del re trovan la pena

che li punisce dei loro delitti;

talché quando temevano la morte

son riusciti a scampare la vita,

e quando si credettero al sicuro

venne per loro l’ora della morte;

e se muoiono allora impreparati,

non si può imputare certo al re

la colpa della loro dannazione

più di quanto foss’egli responsabile

delle empietà di cui ciascun di loro

si trova ora a render conto a Dio.

L’obbedienza del suddito è del re;

ma l’anima del suddito è del suddito.

Perciò il soldato che si trova in guerra

dovrebbe fare quel che fa di regola

l’infermo nel suo letto:

lavarsi la coscienza d’ogni macchia;

perché così se muore,

la morte gli sarà di beneficio;

se non muore, avrà bene impiegato

il tempo consumato a prepararsi:

e non sarebbe peccato pensare

che in chi riesca a scampare la vita

Dio stesso abbia voluto, come premio

di quella sua spontanea contrizione,

ch’egli sopravvivesse alla battaglia

a testimone della Sua grandezza

e ad esempio di come prepararsi

all’ora della morte.

WILLIAMS -                         È certo che chi muore nel peccato

il peccato ricade su di lui.

Perché dovrebbe risponderne il re?

BATES -                                Ah, io, per me, non lo vorrei davvero;

anche se son fermamente deciso

a battermi per lui fino alla morte.

ENRICO -                              L’ho sentito io stesso il re affermare

che mai vorrebbe esser riscattato.

WILLIAMS -                         Già, lui dice così

per far che combattiamo di buon cuore;

ma quando avremo la gola tagliata,

sia egli riscattato, o non lo sia,

a noi non ne verrà nessun vantaggio.

ENRICO -                              S’io viva tanto da vedere questo,

non avrò fede più alla sua parola.

WILLIAMS -                         Che grande dispiacere gli avrai dato!

Per un monarca la sdegnata collera

d’un poveraccio è come lo scoppietto

d’un fucile di legno di sambuco.

È come se tu avessi la pretesa

di trasformare il sole in un ghiacciaio

sventolando una penna di pavone.

“Non avrò fede più alla sua parola…”

Non diciamo scemenze!

ENRICO -                              Il tuo sarcasmo è un po’ troppo pesante,

mi pare, e se il momento fosse adatto

ti farei ben sentire la mia collera.

WILLIAMS -                         Rimandiamola a dopo, tra di noi,

allora, se riesci a sopravvivere.

ENRICO -                              Intesi.

WILLIAMS -                                    Come faccio a riconoscerti?

ENRICO -                              Dammi un tuo qualsivoglia contrassegno,

ed io lo porterò sul mio cappello:

se vedendolo tu avrai il coraggio

di riconoscerlo e rivendicarlo

per tuo, sarà motivo alla mia lite.

WILLIAMS -                         Toh, il mio guanto. Dammi il tuo.

ENRICO -                                                                                    Eccolo.

(Si scambiano i guanti)

WILLIAMS -                         Anch’io lo porterò sul mio cappello.

Se tu dopodomani vieni e dici:

“Quel guanto è mio”, io su questa mano

ti giuro che ti mollo un ceffone sull’orecchio.

ENRICO -                              Ed io, se vivo e te lo vedo in testa,

verrò a richiederlo a brutto muso.

WILLIAMS -                         È come se ti andassi ad impiccare.

ENRICO -                              Bene, io lo farò, ti garantisco,

stessi tu pure in compagnia del re.

WILLIAMS -                         Bada a tenere la parola. Addio.

BATES -                                Evvia, non leticate, sciocchi Inglesi,

siate amici, perbacco!

Ne abbiamo già abbastanza coi Francesi,

fra poco qui, se sapete contare.(102)

ENRICO -                              Proprio così. I Francesi

posson puntare venti contro una

le lor corone, che ci batteranno,

tanto loro le portan sulle spalle

le corone;(103) ma non c’è fellonia

da parte inglese a dare una tosata,(104)

alle loro corone, e domattina

il tosatore sarà il re in persona.

(Escono i tre soldati)

Sulle spalle del re! Le loro vite,

le loro anime, i loro debiti,

l’ansia delle lor mogli, i loro figli,

i lor peccati, tutto addosso al re

l’enorme peso. A noi reggere il tutto!

O dura condizione,

partorita gemella alla grandezza,

esposta al fiato di qualunque sciocco

ansioso solo delle sue miserie!

Di quale immensa varietà di gioie

deve privarsi il cuore d’un sovrano,

e che invece il comune cittadino

può godere a completo suo talento!

E che cos’hanno di più i re, alla fine,

che non abbia anche l’uomo della strada,

salvo la pompa, la pompa regale?

E che cosa sei tu, pompa regale,

idolo vano? Che specie di dio

sei tu, se soffri più pene mortali

dei tuoi adoratori? Quali rendite

provengono da te, quali profitti?

Mostrami dunque quanto vali, o pompa!

Che spirito si cela nel tuo culto?

Sei tu forse qualcosa di diverso

da un grado, un rango, una forma esteriore

da incutere timore e soggezione,

se, pur tanto temuta e riverita,

ti senti di gran lunga men felice

di quanti vivono nel tuo timore?

Di che cosa t’abbeveri, assai spesso,

se non di velenosa adulazione,

in luogo d’un omaggio dolce e schietto?

O tu, grandezza, prova ad ammalarti,

e poi chiedi alla pompa di guarirti.

Credi davvero che possa sparire

dal tuo corpo l’ardore della febbre

coi titoli che soffia su di te

la bassa piaggeria? O che il tuo male

possa cedere il passo ai grandi inchini

ed alle ipocrite genuflessioni?

Tu puoi ben comandare, a tuo talento,

al ginocchio piegato d’un mendico,

ma puoi disporre della sua salute?

No, tu, orgoglioso sogno,

che così sottilmente sai giocare

con la pace d’un re, tu non lo puoi:

son io quel re che ha scoperto i tuoi trucchi,

e sa benissimo che unzione e scettro,

e globo, e mazza e corona imperiale,

e manto d’oro e perle arabescato,

e titoli infarciti, e tutto il resto

che fa da battistrada ad un sovrano,

e il trono stesso su cui egli è assiso,

e l’onda dello sfarzo, il cui riflusso

percuote gli alti liti della terra,

niente di tutto ciò, pompa sfarzosa,

niente di tutto ciò, posto a giacere

sotto ricco e maestoso baldacchino,

potrà mai propiziare al re quel sonno

ch’è ristoro al più umile dei servi

che con la mente sgombra e a pancia piena

solo imbottita di stentato pane

si stenda a riposarsi su un giaciglio;

l’orrida notte, figlia dell’inferno,

egli così non vede;

come un lacchè ha sudato tutto il giorno,

sotto l’occhio di Febo(105); ma la notte

la trascorre dormendo nell’Eliso;(106)

e l’indomani, appena dopo l’alba,

si leva e dà una mano ad Iperione

per aiutarlo a montare sul carro;(107)

e segue così il volgere dell’anno

in proficuo lavoro fino a morte;

e se non fosse che gli manca il fasto,

questo povero diavolo

che trascina nella fatica i giorni

e nel sonno benefico le notti

può dire d’essere, rispetto al re,

un essere privilegiato. Il servo,

membro di una tranquilla società,

si gode questa in pace

e la rozza sua mente afferra a stento

quali veglie possa costare al re

conservar quella pace le cui ore

il contadino mette a gran profitto.

Entra ERPINGHAM

ERPINGHAM -                     Signore, i vostri nobili,

sono allarmati per la vostra assenza,

e vi cercan pel campo dappertutto.

ENRICO -                              Mio caro e venerando cavaliere,

radunateli tutti alla mia tenda.

Mi troveranno là.

ERPINGHAM -                                                 Va bene, sire.

(Esce Erpingham)

ENRICO -                              O Dio delle battaglie,

tempra d’acciaio il cuore del miei uomini,

che di loro non s’impossessi il pànico;

togli a ciascuno il senso di contare,

se sia il numero degli avversari

a scoraggiarli. Non oggi, o Signore,

non pensare, Signore, proprio oggi

alla colpa commessa da mio padre

nel conquistar di forza la corona!(108)

Al corpo di Riccardo

ho dato nuova e degna sepoltura

e vi ho versato più contrite lacrime

ch’egli gocce di sangue dal suo corpo.

Mantengo ogni anno cinquecento poveri

che innalzan tutti insieme verso il cielo

due volte al giorno le lor braccia scarne

ad impetrar perdono per quel sangue.

Ho fatto edificare due cappelle

dove i gravi e solenni sacerdoti

intonano preghiere di continuo

per la sua anima; e mi propongo

di fare per Riccardo ancor di più,

anche se tutto quel che posso fare

a nulla valga, se la mia coscienza

insoddisfatta implora ancora e sempre

il tuo perdono…

Entra GLOUCESTER

GLOUCESTER -                                               Sire!

ENRICO -                              È la voce di Gloucester, mio fratello.

(Forte)

Sì, fratello, so già che vieni a dirmi:

il giorno, i miei amici e tutto il resto

attendon solo me. Vengo con te.

(Escono)


SCENA II - Il campo francese. Giorno.

Entrano il DELFINO, ORLEANS, RAMBOURES e altri

ORLEANS -                          Il sole indora le nostre armature.

Signori in marcia!

DELFINO -                                                          Montez à cheval!(109)

Il mio cavallo! Valletto! Lacchè!

ORLEANS -                          O coraggioso spirito!

DELFINO -                           Avanti, dunque! Les eaux et la terre!(110)

ORLEANS -                          Rien puis?… L’air et le feu!(111)

DELFINO -                           Le Ciel, cugino Orléans!(112)

Entra il CONNESTABILE

Oh, signor Connestabile!

CONNESTABILE -              Sentite come ansiosi della mischia

alto nitriscono i nostri destrieri!

DELFINO -                           Montate loro in sella,

e speronate a sangue i loro fianchi,

che il loro sangue caldo

vada a schizzar negli occhi degli Inglesi

e ne smorzi l’inutile baldanza.

RAMBOURES -                    Che! Li volete far piangere lacrime

di sangue di cavallo?

Come faremo poi a riconoscere

le vere lacrime dai loro occhi?

Entra un MESSO

MESSO -                                Cavalieri di Francia,

gli Inglesi sono schierati in battaglia!

CONNESTABILE -              Presto, presto, a cavallo! Baldi principi,

mostratevi soltanto da lontano

a quella banda di morti di fame,

e la vostra smagliante apparizione

risucchierà dai loro corpi l’anima

riducendoli a valve e gusci d’uomini!

Qui ci sono più braccia che lavoro

per tutti noi,(113) e troppo scarso sangue

è quello delle lor vene malate

per macchiare le spade

di tutti i nostri gagliardi Francesi,

che dovranno perciò rinfoderarle

asciutte per mancanza di bersaglio.

Basterà il vento del nostro coraggio

per mandarli per aria tutti quanti.

È sicuro, signori, garantito

al di là d’ogni avversa congettura,

che basterebbe a ripulire il campo

da un nemico così insignificante,

l’impiego del superfluo dei servi

e quello sciame di contadinume

che viene solo a metter confusione

attorno ai nostri schierati in battaglia,

e noi, ai piedi di quella montagna,

immobili a goderci lo spettacolo;

ma il nostro onore non ce lo consente.

Che ho da dire di più? Un leggero sforzo,

leggerissimo ancora, e tutto è fatto.

Diano le trombe il segnale d’attacco

e il buttasella, e al sol nostro apparire

sarà sì sbigottito il campo inglese

che già li vedo inginocchiati a terra

terrorizzati e consegnarsi a noi.

Entra GRANDPRÉ

GRANDPRÉ -                       Che aspettate, miei nobili di Francia?

Laggiù quelle carogne d’isolani

che non sperano più salvare l’ossa,

fanno sul campo un misero spettacolo

alla luce dell’alba: i lor stendardi

laceri e flosci pendono dalle aste

timidamente, e il nostro venticello

li scuote come per farsene beffa.

Sembra come se nelle loro

sbrindellate e straccione fila il grande Marte

abbia fatto davvero bancarotta,

e che vada sbirciando, tremebondo,

dalle occhiaie d’un elmo arrugginito;

fissi ed immobili, i lor cavalieri

stanno lì come tanti candelabri,

brandendo le lor picche come ceri;

i lor cavalli, smunti, a testa bassa,

han la pelle ed i fianchi a penzoloni,

sgocciola il muco dai loro occhi spenti

e il morso, nelle loro froge esangui,

insudiciato d’erba ruminata

se ne sta fermo, immobile.

Nel cielo i corvi, loschi giustizieri,(114)

volteggiano impazienti in larghe ruote,

aspettando che giunga il lor momento.

In conclusione, non ci son parole

a descriver la vita inanimata

che sembra trasparir da questo esercito.

CONNESTABILE -              Avran già detto le loro preghiere,

ed aspettano solo di morire.

DELFINO -                           Dobbiamo forse, prima di attaccarli,

mandar loro del cibo,

e della biada pei i lor cavalli,

e rivestirli con freschi vestiti?

CONNESTABILE -              Io sto solo aspettando il mio vessillo.

Ma non importa. Avanti, avanti in campo!

Me lo farò prestar da un trombettiere

per tagliare ogni indugio. Su, muoviamoci!

Il sole è alto, e qui si perde tempo.

(Escono)
SCENA IV - Il campo inglese

Entrano GLOUCESTER, BEDFORD, EXETER, ERPINGHAM,

SALISBURY, WESTMORELAND con soldati

GLOUCESTER -                   Il re dov’è?

BEDFORD -                                               È uscito cavalcando

a scrutar di persona il loro numero.

WESTMORELAND -           Saran sessantamila.

EXETER -                                                               Cinque a uno

con noi… e inoltre tutte truppe fresche.

SALISBURY -                      Per noi colpisca Iddio, con il suo braccio:

la sproporzione è veramente enorme.

E dunque, principi, sia Dio con voi!

Io raggiungo il mio posto di comando.

Se non dovessimo più rivederci,

prima di rincontrarci in cielo, Bedford,

mio nobilissimo signore, e voi,

carissimo lord Gloucester, e voi, Exeter,

mio buon signore e nobile congiunto,

e voi tutti, miei combattenti, addio!

BEDFORD -                          Addio, nobile Salisbury, addio!

E t’accompagni la buona fortuna.

EXETER -                              Addio, nobile Salisbury!

E combatti da prode… ma che dico,

ti faccio torto ad esortarti a tanto,

giacché so bene come sei impastato

della più dura tempra del valore.

BEDFORD -                          Del valore e della cavalleria,

principe in ambedue queste virtù!

Entra RE ENRICO

WESTMORELAND -           Oh, aver oggi qui, non dico tanto,

un diecimila in più, tra tutti quelli

che son rimasti in ozio in Inghilterra!

ENRICO -                              Chi è che formula un tal desiderio?

Sei tu, cugino Westmoreland?(115)

No, mio caro cugino, niente affatto!

Se noi siamo segnati per la morte,

qui siamo già abbastanza

perché si possa dir che siamo stati

una perdita grave per la patria;

se poi siamo segnati per la vita,

quanti meno saremo,

tanta maggiore gloria per ciascuno.

Perciò ti prego, per l’amor di Dio,

non augurarti un sol uomo di più.

Io, per Giove, non son bramoso d’oro,

né mi son mai curato di sapere

quanti sono che campano a mie spese,

né m’ha giammai procurato fastidio

s’altri si sia vestito dei miei panni:

queste esteriorità non hanno posto

tra la cose che il cuore mio desidera.

Ma se è peccato aver sete di gloria,

io sono l’anima più peccatrice

di quante vivono su questa terra.

No, cugino, che non ti venga in animo

il desiderio d’un sol uomo in più

dall’Inghilterra. Ma, pace di Dio!,

neanche a costo di dannarmi l’anima(116)

mi sentirei disposto a rinunciare

sia pure ad un millesimo di gloria

ch’io ritenessi di dover spartire

con un sol uomo in più di quanti siamo!

Per favore, non lo desiderare.

Anzi, sai che ti dico, caro Westmoreland?

Va’ a proclamare per tutti i reparti

che se ci sia qualcuno in mezzo a loro

che non si senta di prendere parte

a questo scontro, se ne vada a casa:

riceverà il suo bel lasciapassare

e gli saranno messe nella borsa

le corone pel viaggio di ritorno.

Non vogliamo morire con nessuno

ch’abbia paura di morir con noi.

Da noi in Inghilterra questo giorno

è la festa di Santo Crispiniano;(117)chi a questo giorno sopravviverà

ed avrà la fortuna d’invecchiare,

ogni anno, alla vigilia della festa,

radunerà i vicini intorno a sé:

“Domani è San Crispino e Crispiniano”,

dirà e, rimboccandosi le maniche

ed esibendo le sue cicatrici,

“Queste son le ferite

che ho toccate nel dì di San Crispino”.

I vecchi sono facili all’oblio,

ma lui avrà obliato tutto il resto,

non però la memoria di quel giorno,

anzi infiorando un poco quel ricordo

per quel che ha fatto lui personalmente.

E allora i nostri nomi, alle sue labbra

già stati famigliari - Enrico Re,

e Bedford, Warwick, Talbot, Gloucester, Exeter,

e Salisbury - gli ritorneranno

vivi alla mente tra i boccali colmi,

e il brav’uomo tramanderà a suo figlio

questa nostra vicenda;

ed i Santi Crispino e Crispiniano,

da questo giorno alla fine del mondo

non passeranno più la loro festa

senza che insieme a loro

non s’abbia a ricordarsi anche di noi;

di questi noi felicemente pochi,

di questa nostra banda di fratelli:

perché chi oggi verserà il suo sangue

sarà per me per sempre mio fratello

e, per quanto sia umile di nascita,

questo giorno lo nobiliterà;

e quei nobili che in Inghilterra

ora dormon ancor nei loro letti,

si dovran reputare sfortunati

per non essere stati qui quest’oggi,

e si dovran sentire sminuiti

perfino nella essenza d’uomini

quando si troveranno ad ascoltare

alcuno ch’abbia con noi combattuto

il dì di San Crispino.

Rientra SALISBURY di corsa

SALISBURY -                                                       Mio sovrano,

sbrigatevi; i Francesi sono in campo

perfettamente schierati in battaglia

e fanno mossa di attaccarci subito.

ENRICO -                              Qui tutto è pronto, se son pronti i cuori.

WESTMORELAND -           E morte colga a chi si tira indietro!

ENRICO -                              Allora non desideri, cugino,

nessun aiuto più dall’Inghilterra?

WESTMORELAND -           Oh, sire, giuraddio,

vorrei che questa regale battaglia

potessimo combatterla noi due,

da soli voi ed io, senz’altri aiuti.

ENRICO -                              Eh, ma allora, così, cugino Westmoreland,

tu non desideri nemmeno più

i nostri cinquemila che son qui;

il quale desiderio, in verità,

mi piace ancor di più del tuo di prima

d’averne anche sol uno in sovrappiù…

Ai vostri posti! E che Dio sia con voi!

Tromba. Entra MONTJOIE

MONTJOIE -                         Enrico Re, io son di nuovo qui

per sapere se sei meglio disposto

ora a trattare per il tuo riscatto,

prima della sicura tua disfatta;

perché tu sei così vicino al gorgo

che non potrai non esserne inghiottito.

Inoltre il Connestabile di Francia

in segno di cristiana compassione

ti chiede d’esortare i tuoi seguaci

a fare contrizione avanti a Dio

dei lor peccati, sì che le loro anime

se ne volino in pace e dolcemente

da questi campi dove i loro corpi,

sventurati!, dovran presto soccombere

e rimanere a putrefarsi all’aria.

ENRICO -                              Da parte di chi vieni questa volta?

MONTJOIE -                         Mi manda il Connestabile di Francia.

ENRICO -                              Bene, ripeti a lui la mia risposta:

mi finiscano prima,

e si vendano dopo le mie ossa.

Bontà di Dio! Perché vogliono là

prendersi gioco fino a questo punto

di noi poveri diavoli?

Dovrebbero sapere che quel tale

che vendette la pelle del leone

avanti che la bestia fosse morta

fu lui stesso a rimetterci la pelle

nel cacciarla.(118)Di tutti nostri corpi

molti avran senza dubbio sepoltura

in patria, e sulle loro tombe là

vivrà per sempre in lettere di bronzo

la memoria della lor gesta odierna;

ed anche quelli che dovran lasciare

in Francia le lor valorose ossa,

poiché saranno caduti da uomini,

se pur sepolti in vostri letamai

diverranno famosi, perché il sole

anche in quei luoghi li saluterà

e leverà come un incenso al cielo

il dolce effluvio della loro gloria,

le lor terrene spoglie

lasciando ad ammorbar la vostra aria,

e con il loro fetore

a generare pestilenze in Francia.

Pensa dunque alla grande esuberanza

del valore di questi nostri inglesi

i quali, pur da morti,

come un proiettile in contraccolpo,

saranno stati ancor per voi Francesi

una seconda causa di sciagure,

facendo strage, pur decomponendosi.

E lascia ch’io ti parli con orgoglio

per una volta: di’ al tuo Connestabile

che qui dal primo all’ultimo noi siamo tutti

combattenti da giorno di lavoro:

addosso a noi le belle dorature,

i bei colori son tutti insozzati

dalle spossanti massacranti marce

sotto la pioggia per i vostri campi.

Non c’è una piuma in tutto il nostro esercito:

- buon segno, per voi, spero,

che non siamo apprestati a volar via -

e il tempo ci ha costretti a trascurare

tutto quel ch’è esteriore; ma all’interno,

ma i nostri cuori, per la Santa Messa,

son in bell’ordine, pronti a salpare,(119)

e questi sbrindellati miei soldati

mi fan sapere che prima di notte

o saranno in più freschi e nuovi abiti,

o avranno sfilato dalla testa

dei soldati francesi

le loro fresche e vistose monture,

lasciandoli così fuori servizio.(120)

Se questo essi faranno,

e ci riusciranno, a Dio piacendo,

il mio riscatto sarà ben pagato.

Dunque, araldo, risparmiati il disturbo

di ritornare a chiedermi il riscatto,

cortese araldo: non ne avranno alcuno,

se non queste mie ossa, te lo giuro.

E puoi anche informare il Connestabile

che le mie ossa, se pure le avranno,

nello stato in cui io le lascerò

ne ritrarranno ben scarso guadagno.

MONTJOIE -                         Riferirò, Re Enrico.

E così addio, non sentirai più araldi.

ENRICO -                              Ho idea però che tornerai da me

ancora per parlarmi di riscatto.

Entra il DUCA DI YORK

YORK -                                 Sire, molto umilmente ed in ginocchio

chiedo il comando della prima schiera.

ENRICO -                              Prendilo, valoroso York, è tuo!

Ed ora tutti in marcia, miei soldati.

E Tu, Signore Iddio disponi Tu,

secondo il tuo altissimo volere,

delle fortune di questa giornata!

(Escono)


SCENA IV - Il campo di battaglia

Allarmi ripetuti. Passaggi di soldati. Entrano PISTOLA,

un SOLDATO FRANCESE e il PAGGIO di Falstaff

PISTOLA -                            (Al soldato francese)

Figlio d’un cane, arrenditi!

SOLDATO FR. -                   Je pense que vous ètes le gentilhomme de bonne qualité.(121)

PISTOLA -                            “Cali te, cali me”… Sei gentiluomo?

Come ti chiami? Di’.

SOLDATO FR. -                                                    O Seigneur Dieu!(122)

PISTOLA -                            Ti chiami O’ Signordiù?

Nome da gentiluomo, questo, certo.

Ascolta, O’ Signordiù, e prendi nota:

tu morirai infilzato, O’ Signordiù,

sulla punta di questo mio schidione,

ammenoché, mio caro O’Signordiù,

non mi disborsi un cospicuo riscatto.

SOLDATO FR. -                   Oh, prenez miséricorde! Ayez pitié de moi!(123)

PISTOLA -                            Un “muà” non basta, ne voglio quaranta,(124)

o ti sradico per il gargarozzo

le interiora stillanti sangue cremisi.

SOLDATO FR. -                   Est-il impossible d’échapper à la force de ton bras?(125)

PISTOLA -                            “Forse”, cagnaccio? Lascivo caprone!

Lo metti pure in forse?(126)

SOLDATO FR. -                   Oh, pardonnez-moi!

PISTOLA -                                                             Così mi dici?

Cos’è, una tonnellata di “muà”?(127)

(Al paggio)

Vieni, ragazzo, tu che sai il francese:

chiedi qual è il suo nome a questo schiavo.

PAGGIO -                             (Al soldato francese)

Comment ètes-vous appélé?

SOLDATO FR.-                                                                   Monsieur Le Fer.

PAGGIO -                             Mi dice di chiamarsi Mastro Fer.

PISTOLA -                            Mastro Fer!… Bene, allora io lo ferro,

poi lo frusto e dopo lo sbudello.

Diglielo tu in francese tutto questo.

PAGGIO -                             In francese non so come si dice

“ferrare”, “fustigare”, “sbudellare”.

PISTOLA -                            Digli che si prepari,

perché fra poco gli taglio la gola.

SOLDATO FR. -                   (Al paggio)

Que dit-il, monsieur?(128)

PAGGIO -                             Il me commande à vour dire

que vous faites-vous pret,

car ce soldat est-il disposé

tout à cette heure de couper votre gorge.(129)

PISTOLA -                            Oui, mi cupper gorge, permafuà!,

se non mi dài corone, zoticone,

e corone sonanti, e di buon conio;

o ti maciullerò con questa spada.

SOLDATO FR. -                   Oh, pour l’amour de Dieu, je vous supplie

me pardonner! Je suis le gentilhomme

de bonne maison, monsieur: gardez ma vie,

et je vous donnerais deux cent écus.(130)

PISTOLA -                            (Al paggio)

Quali parole profferì costui?

PAGGIO -                             Che gli salviate la vita, vi prega,

ch’è gentiluomo di nobile nascita

e che è pronto a pagar pel suo riscatto

duecento scudi.

PISTOLA -                                                         Bene, digli allora

che la mia collera si placherà

e che acconsento ai suoi duecento scudi.

SOLDATO FR. -                   (Al paggio)

Petit monsieur, que dit-il?(131)

PAGGIO -                             Encore qu’il est contre son jurement

de pardonner aucun prisonnier, néanmoins

pour les écus que vous lui avez promis, il est content

de vous donner la liberté, le franchissement.(132)

SOLDATO FR. -                   Sur mes génoux, je vous donne mille remerciements;

et j’estime heureux que je suis tombé

entre le mains d’un chevalier, je pense,

le plus brave, vaillant et distingué seigneur d’Angleterre.(133)

PISTOLA -                            (Al paggio)

Esponimi, ragazzo.

PAGGIO -                             In ginocchio vi rende mille grazie

e si reputa un uomo fortunato

d’esser caduto, pensa, nelle mani

di uno dei più valenti e coraggiosi

e più degni signori d’Inghilterra.

PISTOLA -                            Poiché gli succhio sangue,

avrò di lui misericordia.

(Al soldato francese)

Seguimi.

PAGGIO -                             (c.s.)

Suivez-vous le grand capitaine.(134)

(Escono Pistola e il soldato francese)

PAGGIO -                             Mai ho sentito voce sì tonante

uscir fuori dal un petto sì vacante.

O verità dell’antico proverbio:

“Vaso vacante più forte rimbomba”!

Quei poveracci di Bardolfo e Nym

avevan dieci volte più coraggio

di questo roboante satanasso

da palcoscenico dei vecchi tempi,

cui chiunque poteva tagliar l’unghie

con una semplice daga di legno;

e tutti e due sono stati impiccati.(135)

E poteva toccare anche a costui,

se almeno avesse avuto, come loro,

il coraggio di qualche furtarello.

Ora devo tornare tra i valletti

a custodir le salmerie del campo…

Quale opimo bottino pei Francesi,

se soltanto venissero a sapere

che a guardia son rimasti dei ragazzi!

(Esce)


SCENA V - Altra parte del campo di battaglia

Allarmi. Entrano, in affanno, il CONNESTABILE di Francia, ORLEANS, BORBONE, il DELFINO, RAMBOURES

CONNESTABILE -              Oh, diable!…(136)

ORLEANS -                          Oh, Seigneur, tout est perdu!

Ah, le jour est perdu!(137)

BORBONE -                                                               Mort de ma vie!(138)

Tutto, tutto in rovina!

Il disonore e la vergogna eterna

sono assisi ridendosi di noi

sopra le piume dei nostri cimieri.

O méchante fortune!… (139) Non fuggite!

CONNESTABILE -              Tutte le nostre schiere sono in rotta!

DELFINO -                           Vergogna incancellabile! Uccidiamoci!

E sarebbero questi gli straccioni

la cui fine ci siam giocati ai dadi?

ORLEANS -                          È questo il re cui mandammo un araldo

a chiedergli in anticipo il riscatto?

BORBONE -                         Vergogna, eterna vergogna, e nient’altro!

Moriamo almeno con le armi in pugno.

Torniamo ancora una volta all’attacco,

e chi non vuol seguire ora Borbone,

che se ne torni a casa,

e si prepari, col cappello in mano,

a stare a guardia, lurido ruffiano,

all’uscio della camera da letto

in cui uno di questi miserabili

di non più nobil razza del mio cane

starà stuprando con sozza lascivia

la più vezzosa delle sue figliole.

CONNESTABILE -              Il disordine che ci ha provocato

tanta rovina, ci sia ora amico:

andiamo tutti in massa, un solo mucchio,

a offrir le nostre vite!

ORLEANS -                          Siamo ancora abbastanza i vivi in campo

per stringere l’Inglese in una morsa,

s’è ancor pensabile di avere un ordine.

BORBONE -                         Al diavolo ormai l’ordine!

Io torno a battermi. Una vita corta

vale assai più d’un disonore lungo.

(Escono tutti)


SCENA VI - Altra parte del campo di battaglia

Allarmi.EntraRE ENRICO con soldati

ENRICO -                              Finora, valorosi compatrioti,

ci siamo comportati egregiamente.

Ma la partita non è ancora chiusa.

I Francesi tengono ancora il campo.

Entra EXETER con altri

EXETER -                              Porto a Vostra maestà

il saluto del duca Edoardo York.

ENRICO -                              Il mio buon zio! È vivo?

Tre volte nel trascorrer di quest’ora

l’ho visto a terra, tre volte rialzarsi,

e combattere, tutto insanguinato

dalla cima dell’elmo agli speroni.

EXETER -                              E in quell’aspetto quel bravo soldato

giace ora al suolo, ad ingrassar la terra;

ed accanto al suo corpo insanguinato,

compagno a lui d’onore e di ferite,

giace anche il nobile conte di Suffolk.

Questi cadde per primo,

e York, il corpo pieno di ferite,

si porta accanto a lui, che giace a terra

immerso già nei grumi del suo sangue,

lo prende caramente per la barba,

gli bacia le ferite

che ancor gli versano sangue sul volto,

e grida: “Aspettami, cugino Suffolk!

L’anima mia vuol esserti compagna

nel volo verso il cielo. Anima cara,

aspetta che sia pronta anche la mia,

e voleremo insieme a fianco a fianco

gloriosamente, come in questo campo

gloriosamente abbiamo combattuto

insieme, con cavalleresco spirito!”

Udito ch’ebbi queste sue parole,

gli andai da presso e presi a confortarlo:

mi sorride, prendendomi la mano,

e, con debole stretta della mia,

così mi parla: “Caro mio signore,

fate sapere voi al mio sovrano

come io l’abbia servito”.

Quindi reclina sul corpo di Suffolk,

gli cinge il collo col braccio ferito,

lo bacia sulle labbra,

e in quella, quasi sposo della morte,

suggella con il sangue un nobilissimo

testamento d’affetto. Quella scena

con la toccante sua umanità

fu tale da strapparmi quelle lacrime

che avrei voluto tanto trattenere;

ma non mi ritrovai forza bastante,

e mi sentii salire su per gli occhi

tutta mia madre,(140) e m’arresi alle lacrime.

ENRICO -                              Non te ne biasimo; perché ad udirti

mi sento anch’io costretto a patteggiare

coi miei occhi, che sento annuvolarsi,

per impedir che si sciolgano in pioggia.

(Allarme)

Ascoltate: che nuovo allarme è questo?

Dev’essere il segnale che i Francesi

han rinforzato le disperse file.

Ogni nostro soldato

uccida i prigionieri in suo possesso!

Passate l’ordine per tutto il campo!

(Escono)


SCENA VII - Altra parte del campo di battaglia

Entrano FLUELLEN e GOWER

FLUELLEN -                        Uccitere i racazzi tella cuardia

al teposito del fettofagliamento

è contrario alle recole dell’armi!

Il peccior atto di ripalteria,

ecco, fetete, che si possa fare!

Non è così, in coscienza, anche per foi?

GOWER -                              Oh, sì, certo, e non uno dei ragazzi

è scampato alla strage. Questo scempio

dev’esser opera di quei vigliacchi

ch’han disertato il campo di battaglia;

e per di più hanno appiccato il fuoco

alla tenda del re,

portando via tutto quello che c’era.

E bene ha fatto allora il nostro re

ad ordinare che ciascun soldato

tagli la gola al proprio prigioniero.

Ah, davvero gagliardo il nostro re!

FLUELLEN -                        Eh, capitano Gower, non per niente

egli è nato a Monmouth.(141)

Come chiamate foi quella città

tove è nato Alessantro tetto il Crosso?(142)

GOWER -                              Volete dire il Grande.

FLUELLEN -                        Perché non è lo stesso “crosso” e “crante”?

Il crosso, il crante, il possente, l’immenso,

il magnanimo, son sempre lo stesso;

sol che la frase ha qualche variazione.

GOWER -                              Credo, signore, che Alessandro il Grande

sia nato in Macedonia; il padre suo,

Filippo, lo chiamavano il Macedone,

se ben ricordo.

FLUELLEN -                                                Sì, è la Macedonia

tofe nacque Alessandro, creto proprio;

Ed io fi dico, signor capitano,

che se quardate alle mappe del monto,

scoprirete - lo posso carantire -

confrontando Monmouth e Macedonia,

che la conformazione è tale quale:

c’è un fiume in Macedonia, ed uno a Monmouth;

il fiume di Monmouth si chiama Wye,

il nome di quell’altro l’ho scortato,

ma fa lo stesso: sono tale quale

come le tita di questa mia mano,

e si pesca il salmone in tutti e due.

Se osserfate la fita di Alessantro,

fi accorcerete che quella di Enrico

la seque proprio pene ta vicino:

ci sono paralleli in ogni cosa.

Alessantro, Tio sa, e foi sapete,

nelle sue collere, nelle sue rappie,

nelle sue furie, sdegni, malumori

e furori, e capricci e intignazioni,

ed anche intossicato un po’ di mente,

per via, diciamo, della troppa pirra

e telle sue sfuriate, ecco fetete,

uccise Clico, il suo migliore amico.

GOWER -                              In questo il nostro re non gli assomiglia,

lui non ha ucciso mai nessun amico.

FLUELLEN -                        Capitano, fetete, non sta bene

di togliermi il tiscorso talla bocca

prima che sia compiuto e rifinito.

Io parlo solo in fia di paracone

per tire insomma che come Alessantro

nei fumi tella pirra e telle coppe

uccise Clito, il suo migliore amico,

così similemente Enrico Monmouth

pene in senno e nel ciusto suo ciudizio,

s’è liperato di quel cavaliere,

quel pancione così confio di lazzi,

di puffonate, peffe e canagliate:

ora mi sfugge il nome…

GOWER -                                                                      Sir John Falstaff?

FLUELLEN -                        Appunto. V’assicuro che a Monmouth

nascono uomini in camba.

(Squilli di tromba)

GOWER -                                                                         Ecco il re.

Entrano RE ENRICO, WARWICK, GOUCESTER, EXETER, e altri, con prigionieri francesi

ENRICO -                              Dal momento che ho messo piede in Francia

non mai m’era successo, fino ad ora,

che alcuno mi facesse andare in collera.

Araldo, prendi con te un trombettiere

e al galoppo raggiungi i cavalieri

che si trovan lassù, su quella altura;

se vogliono combattere con noi,

scendano giù, se no, sgombrino il campo.

Ci offendono la vista. E se non vogliono

decidersi a far l’una o l’altra cosa,

di’ che ci recheremo noi da loro,

e li faremo schizzar via di là

come sassi da antiche fionde assire.

Che inoltre noi taglieremo la gola

a tutti quelli loro

che teniamo già nostri prigionieri;

e gli altri che potremo catturare

che non s’illudano d’assaporare

da noi clemenza. Va’ e di’ loro questo.

Entra MONTJOIE

EXETER -                              Ecco l’araldo dei Francesi, sire.

GLOUCESTER -                   Il suo occhio mi pare più dimesso

dell’altre volte.

ENRICO -                                                        Araldo, che c’è più?

Vieni ancora a parlare di riscatto?

Non ti ricordi che pel mio riscatto

ho offerto le mie ossa?

MONTJOIE -                                                               No, gran re:

vengo a chiederti un atto di pietà:

di darci il tuo permesso

d’andar per questo campo insanguinato

a riconoscere i nostri morti

al fine di poterli sotterrare

tenendo accortamente separati

i nobili dagli uomini di truppa:

molti dei nostri principi - oh, sventura! -

giacciono a terra immersi ed affogati

in sangue mercenario; e parimenti

molti dei nostri uomini di plebe

inzuppano le lor rustiche membra

in principesco sangue; e i lor cavalli

feriti vanno sguazzando nel sangue

profondamente, fino ai pasturali,

e van pestando coi ferrati zoccoli

rabbiosamente i lor padroni morti,

che così sono doppiamente uccisi.

Oh, vogliate, gran re, darci licenza

di perlustrare senza rischio il campo,

e di poter disporre dei lor corpi.

ENRICO -                              Araldo, ti confesso, in verità,

ch’io non so ancora se questa giornata

si possa dire o no vinta da noi,

perché molti dei vostri cavalieri

sono testé comparsi, a quanto vedo,

a scorrazzare ancora per il campo.

MONTJOIE -                         No, la giornata è vostra.

ENRICO -                                                                      Lode a Dio,

non alle nostre forze, se è così.

Dimmi, come si chiama quel castello

qui vicino?

MONTJOIE -                                            Lo chiamano Azincourt.

ENRICO -                              E noi questa battaglia di Azincourt,

chiameremo, battaglia combattuta

nel dì di San Crispino e Crispiniano.

FLUELLEN -                        Se così piace a Fostra maestà,

il fostro nonno, d’illustre memoria,

et il vostro prozio, il crande Etoardo,

chiamato “Il Principe Nero di Calles”,

seconto quanto ho letto nelle cronache,

compatterrono qui con cran falore,

qui, sul suolo di Francia.

ENRICO -                                                                      Infatti, Fluellen.

FLUELLEN -                        Fostra maestà l’ha detto molto pene,

se la Fostra maestà se ne rammenta:

i Gallesi riuscirono vincenti

in un frutteto coltivato a porri,

e perciò s’appiccarono quei porri

in cima ai lor cappelli di Monmouth;

talché da allora il porro, pei Gallesi,

come Fostra maestà sa molto pene,

divenne un onorato distintivo

del servizio prestato da soldato;

e son sicuro che Fostra maestà

non si fa scorno di portare il porro

il ciorno della festa di San Tavite.

ENRICO -                              Lo porto infatti anch’io,

a ricordo di quel glorioso evento,

ché sono anch’io gallese,

come sapete, caro compaesano.

FLUELLEN -                        Eh se lo so! Tutta l’acqua del Wye,

vi posso assicurare,

non saprebbe lavare il vostro corpo

del suo sangue gallese, Dio l’assista

e lo preservi fino a quando piaccia

alla Sua Grazia ed alla Maestà vostra.

ENRICO -                              Ti ringrazio, mio buon compatriota.

FLUELLEN -                        Eh, sì, per Crisste, se lo son daffero

compatriota di Fostra maestà!

E non m’importa che si sappia in ciro,

e anzi lo dirò al monto intero

io stesso che non ho ta vercognarmi

tella Maestà fostra, crazie a Dio,

almeno fino a quando Fostra Crazia

si manterrà specchiato calantuomo.

ENRICO -                              Tale Dio mi conservi, caro Fluellen.

(Indicando Montjoie)

I nostri araldi vadano con lui,

e mi riportino notizia esatta

sul numero del morti, nostri e loro.

(Esce Montjoie con gli araldi)

Sul fondo appare il soldato WILLIAMS

Chiamatemi ora quel tipo laggiù.

EXETER -                              (Avvicinandosi a Williams)

Soldato, devi presentarti al re.

ENRICO -                              (A Williams che si è avvicinato)

Perché porti quel guanto sul cappello?

WILLIAMS -                         Col permesso di Vostra maestà,

questo è il pegno di sfida

di uno con il quale dovrei battermi,

se ancora è in vita.

ENRICO -                                                            Un Inglese?

WILLIAMS -                                                                             Un cialtrone,

col permesso di Vostra maestà,

che stanotte si dava, in faccia a me,

tante arie da spaccone;

e se porta il mio guanto sul cappello,

come da buon soldato m’ha giurato

di metter ben in mostra, se viveva,

ho giurato di farglielo saltare

a suon di sganassoni.

ENRICO -                              Che ne pensate, capitano Fluellen?

Questo soldato agisce rettamente

a tener fede al proprio giuramento?

FLUELLEN -                        Eh, in coscienza, se lui non lo facesse,

me lo consenta Fostra maestà,

sarebbe un cran figliacco faraputto.

ENRICO -                              Può darsi tuttavia che il suo avversario

sia persona di troppo alto lignaggio

per mettersi a competere con lui.

FLUELLEN -                        Fosse pure un eletto centiluomo

nopile quanto il tiafolo Lucifero,

o perfino lo stesso Pelzebù,

è necessario, tico a Fostra crazia,

che mantenca promessa e ciuramento:

se tovesse mancare di parola,

la sua reputazione, ecco, fetete,

sarebbe del più vile e scellerato

furfante ch’abbia calpestato mai

con la sua nera scarpa questa terra,

questo suolo di Dio, ecco, in coscienza.

ENRICO -                              (A Williams)

Allora, amico, se incontri quel tale,

mantieni la parola.

WILLIAMS -                                                       E lo farò,

sire, per quanto è vero che son vivo.

ENRICO -                              Chi è il tuo comandante?

WILLIAMS -                         Il capitano Gower, mio sovrano.

FLUELLEN -                        Gower è un eccellente comantante,

ed è persona di molto istruita,

litteratissima in fatto di cuerra.

ENRICO -                              Va’, digli di venir da me, soldato.

WILLIAMS -                         Sì, mio sovrano.

(Esce)

ENRICO -                                                          Ascolta, adesso, Fluellen:

porta tu questo segno in vece mia,

bene in mostra, appuntato sul cappello.

Quando Alençon ed io

ci siam trovati a combattere a terra,

gli ho strappato dall’elmo questo guanto.

Se qualcuno te lo reclamerà

vorrà dire ch’è amico di Alençon,

perciò nemico nostro personale;

se mai ti capitasse d’incontrarlo,

arrestalo, se mi vuoi bene, Fluellen.

(Gli consegna il guanto, che quello si fissa sul cappello)

FLUELLEN -                        Fostra crazia mi fa il più crande onore

che può tesiterare il cuor d’un suddito;

forrei feterlo un uomo su tue campe

che cuarda questo cuanto, non tico altro.

Forrei proprio veterlo; e foglia Iddio,

nella sua crazia, che possa incontrarlo.

ENRICO -                              Conosci Gower?

FLUELLEN -                                                     È un mio caro amico,

se non dispiace a Fostra maestà.

ENRICO -                              Vallo a cercare, e portalo, ti prego,

alla mia tenda.

FLUELLEN -                                                Subito, signore.

(Esce)

ENRICO -                              Warwick, signore, e voi, fratello Gloucester,

andate, state dietro a questo Fluellen,

perché quel guanto che testé gli ho dato

può procurargli un ceffone all’orecchio.

Esso appartiene a quel soldato Williams

e, secondo l’impegno da me preso,

dovrei portarlo io stesso sul cappello.

Seguitelo, mio buon cugino Warwick:

se quel soldato dovesse percuoterlo

- e, a giudicare dai suoi modi spicci,

manterrà certamente la promessa -,

ne potrebbe scoppiar qualche fattaccio:

conosco Fluellen, è un uomo di fegato,

e, se s’imbestialisce, prende fuoco

più presto della polvere da sparo,

e ritorce di subito l’offesa.

Stategli dietro, dunque, e state attenti

che non si faccian male loro due.

Voi, zio Exeter, venite con me.

(Escono)


SCENA VIII - Davanti alla tenda di re Enrico

Entrano GOWER e WILLIAMS, poi FLUELLEN

WILLIAMS -                         Vi garantisco, signor capitano,

vi convoca per farvi cavaliere.

Entra FLUELLEN

FLUELLEN -                        Capitano, per folontà ti Tio,

e con Suo peneplacito, vi preco

fenite subito con me dal re;

c’è qualcosa di puono forse là

per voi, più che possiate mai sognare.

WILLIAMS -                         (A Fluellen, vedendogli il guanto sul cappello

e mostrandogli il suo)

Signore, conoscete questo guanto?

FLUELLEN -                        Se conosco quel guanto… Che tomanta!

Io so che un guanto è un guanto, e basta là.

WILLIAMS -                         Io quello vostro invece lo conosco.

È mio, e lo reclamo. Ecco, così.

(Gli allenta un ceffone sull’orecchio)

FLUELLEN -                        Sanquetiddio! Figliacco tratitore

come non se ne trova in tutto il mondo

universale, o in Francia o in Inghilterra!

GOWER -                              Che succede, signore?

(A Williams)

Ehi, tu, furfante!

WILLIAMS -                         Credete ch’io mi voglia far spergiuro?

FLUELLEN -                        State da parte, capitano Gower:

ci penso io a tar quel che gli spetta

al tratimento, a base di schiaffoni.

WILLIAMS -                         Traditore non sono.

FLUELLEN -                        E buciardo! Tu menti per la cola.

(A Gower)

In nome di Sua maestà, arrestatelo:

è un amico del duca di Alençon.

Entrano WARWICK e GLOUCESTER

WARWICK -                         Ehi, che succede qui? Di che si litiga?

FLUELLEN -                        Mio signore di Warwick, lote a Tio,

ecco scoperto qua, fenuto in luce

il più pestilenziale tradimento,

in tanta luce, dico, ecco, fetete,

quanta possiate mai tesiterare

in piena estate… Ma ecco Sua Crazia.

Entra RE ENRICO con EXETER

ENRICO -                              Ehi, che succede qui?

FLUELLEN -                        Sire, questo è un furfante tratitore

che ha colpito, fetete, maestà,

il guanto che ha strappato Fostra crazia

dall’elmo di Alençon.

WILLIAMS -                                                            Quel guanto è mio,

mio sovrano, e questo è il suo compagno.

E quello con il quale l’ho scambiato

promise di portarlo sul cappello,

ed io a promisi a lui, a giuramento,

di schiaffeggiarlo se l’avesse fatto.

Ora ho visto costui

che portava il mio guanto sul cappello

e ho tenuto fede alla parola.

FLUELLEN -                        Ecco, afete sentito, Fostra crazia,

col tofuto rispetto a Fostra crazia,

che razza di furfante canagliesco

pezzente e pitocchioso è questo qui?

Creto che Fostra crazia

mi farà fete e buona attestazione,

e insomma che vorrà certificare

che questo è proprio il guanto di Alençon

datomi poco fa ta Fostra crazia:

è fero o no, sulla fostra coscienza?

ENRICO -                              Soldato Williams, dammi qua il tuo guanto;

ecco, lo vedo, il suo compagno è questo.

Ed io sono quel tale

cui promessa facesti di suonargliele,

con l’aggiunta delle più basse ingiurie.

FLUELLEN -                        Piaccia a Fostra maestà

che ne tebba risponter col suo collo,

se è fero che nel monto esiste ancora

una legge marziale.

ENRICO -                              (A Williams)

Come vuoi riparare ora con me?

WILLIAMS -                         Le offese, sire, vengono dal cuore,

e nessuna dal mio n’è mai venuta

che potesse toccare Vostra grazia.

ENRICO -                              Ma l’offesa da te l’ho ricevuta.

WILLIAMS -                         Vostra maestà non mi si offrì alla vista

come mio re; mi siete apparso innanzi

come un comune soldato di truppa,

il vostro arnese, il vostro portamento,

testimone la notte, erano tali;

e tutto ciò che, sotto quell’aspetto,

vostra maestà ha potuto subire,

non a mia colpa prego d’imputarlo,

ma alla vostra; giacché se foste stato

la persona ch’io ho creduto foste,

offesa al re non c’era.

Vi supplico perciò di perdonarmi.

ENRICO -                              Venite qua, Zio Exeter,

riempite di corone questo guanto

e passatelo a questo giovanotto.

Tienlo, amico, ed appuntalo al cappello

come un segno d’onore,

finché non sia io stesso a reclamarlo.

Dategli le corone, zio Exeter,

e voi, capitan Fluellen,

dovete nuovamente essergli amico.

FLUELLEN -                        Per la luce del ciorno, il ciofanotto

ha fecato appastanza. Tieni, amico,

ci acciunco uno scellino da mia parte:

ti raccomando di serfire Iddio,

di tenerti alla larca da paruffe,

querele, tiscussioni, pattipecchi,

chiacchiericci, bisticci e fia dicendo;

sarà meglio per te, lo carantisco.

WILLIAMS -                         Dei soldi vostri non ne vo’ sapere.

FLUELLEN -                        Ma te li to con tutta convinzione!

Ti potranno servire, posso dirtelo,

per farti risuolare quelle scarpe.

Antiamo, perché fare il fergognoso?

Le tue scarpe non sono tanto puone,

e il mio scellino è puono, carantito;

se per te non è puono, te lo cambio.

Entra un ARALDO INGLESE

ENRICO -                              Ebbene, araldo, i morti son contati?

ARALDO -                            (Inginocchiandosi e consegnandogli un foglio)

Questo è l’elenco dei Francesi uccisi.

ENRICO -                              (A Exeter)

Che prigionieri di nobile rango

abbiamo fatto, zio?

EXETER -                              Il nipote del re, Carlo d’Orléans,

Giovanni di Borbone, Bouciqualt,

e più di altri millecinquecento

fra nobili, baroni e cavalieri

e scudieri, oltre agli uomini di truppa.

ENRICO -                              Questo foglio mi dice che sul campo

diecimila Francesi sono uccisi,

e fra essi son centoventisei

i principi ed i nobili d’insegna;(143)

ai quali vanno aggiunti cavalieri,

scudieri ed altri prodi gentiluomini,

in totale ottomilaquattrocento,

cinquecento dei quali solo ieri

erano stato fatti cavalieri:

sicché dei diecimila che han perduti,

i mercenari son milleseicento,

il resto sono principi, baroni,

cavalieri, scudieri e nobiluomini.

Ecco i nomi di alcuni dei lor nobili

caduti in campo: Carlo Delabret,

Supremo Connestabile di Francia;

Giacomo Chatillon, grande ammiraglio;

Ramboures, il comandante degli arcieri;

il valoroso Guicciardo Dauphin,

gran maestro di Francia;

ed ancora Giovanni d’Alençon;

Antonio di Brabante,

il fratello del duca di Borgogna,

il duca Edoardo di Bar; e fra i conti,

Granpré, Roussi, Foy e Faulconbridge,

Beaumont, Varle, Lestrale, Vaudemont:

che regale brigata della morte!

Dov’è l’elenco dei caduti inglesi?

(L’araldo gli porge un altro foglio)

(Leggendo)

“Edoardo York, il conte di Suffolk,

sir Richard Ketly, David Gam scudiero…”

Nessun altro di nobile casato:

in tutto venticinque… O grande Iddio,

il tuo braccio davvero era con noi!

E soltanto al tuo braccio, non a noi,

dobbiamo attribuire tutto questo.

Quando mai nella storia s’è saputo

che in un unico scontro, combattuto

in leale conflitto e senza astuzie,

vi sia stata sì grande sproporzione

nelle perdite fra gli opposti eserciti?

O Dio, prendine tu tutto l’onore,

perché soltanto tua è la vittoria!

EXETER -                              Prodigioso!

ENRICO -                                                   Su, avanti, ora, in corteo

tutti al villaggio! E si proclami ai nostri

che chiunque sia colto a menar vanto

di questo giorno, sottraendo a Dio

il merito che a Lui solo appartiene,

sarà punito a pena capitale.

FLUELLEN -                        Con licenza, maestà, sarà legittimo

almeno tire quanti sono uccisi?

ENRICO -                              Sì, certo, capitano,

sempre però col riconoscimento

che Dio ha combattuto al nostro fianco.

FLUELLEN -                        Sì, in coscienza, ci ha dato crante mano.

ENRICO -                              Andiamo a celebrare i sacri riti.

S’intonino il “Non nobis” e il “Te Deum”;(144)

si dia pietosa sepoltura ai morti;

dopo di che, a Calais per l’Inghilterra,

dove non approdaron mai da Francia

uomini più contenti.

(Escono tutti)


ATTO QUINTO

Entra il CORO

CORO -                                  Quelli che mai studiarono la storia

concedano ora a me di suggerirgliela;

quelli che la conoscono

son pregati d’accogliere umilmente

ogni scusa se noi, riguardo al tempo,

al numero ed al corso degli eventi

non possiamo rappresentarli qui

nella precisa e grande lor realtà.

Ora accompagneremo il re a Calais;

anzi, facciam che già vi sia giunto,

e, dopo averlo visto,

seguitelo, sull’ali del pensiero,

sul mare: ecco, già una palizzata

fitta d’uomini, donne e di fanciulli,

cinge la costa inglese; le lor grida

e il fragore dei loro battimani

coprono il cupo fragore dell’onda

sospinta che, possente battistrada,

sembra spianar la via dinanzi al re.

Lasciatelo sbarcare, ed in gran pompa

diriger verso Londra.

Il pensiero ha sì rapido il suo passo,

che già potete immaginarlo a Blackheath

dove viene richiesto dai suoi nobili

di far che sia recato, innanzi a lui,

per la città, alla vista di tutti

il suo cimiero con le ammaccature,

e la contorta sua spada; ma lui,

schivo com’è da ogni vanità

e da inutile personale orgoglio,

lo vieta, perché vuol ch’ogni trofeo

ogni segno d’esterna distinzione

sia riferito alla gloria di Dio.

Ed ora nell’alacre vostra forgia

del pensiero e nel suo laboratorio

guardate come Londra da ogni dove

riversa per le strade la sua gente:

il sindaco con tutti gli assessori

in tenuta di gala, somiglianti

ai senatori dell’antica Roma,

che, con sciami di plebe alle calcagna,

procedono con gran solennità

incontro al loro vittorioso Cesare.

Così, se pure in più dimessa pompa,

ma con pari esultanza, quanta gente

non lascerebbe l’ozio cittadino

per accorrere in massa a salutare,

il giorno che tornasse dall’Irlanda

- e tornerà probabilmente un giorno! -

il generale inviato colà

dalla nostra graziosa imperatrice

recandosi infilzata sulla spada,

la vinta ribellione!(145)

Tanto più ora, e per ben miglior causa,

essi corrono a salutare Enrico.

Immaginatelo di nuovo a Londra,

ché ormai le condizioni miserevoli

alle quali la Francia è ormai ridotta

ben autorizzano il re d’Inghilterra

a restarsene tranquillamente in patria,

ed attendere là l’imperatore(146)

che viene ad interceder per la Francia,

e restaurar la pace fra i due regni.

Saltate dunque ogni altro accadimento,

ogni altro caso, quale che esso sia,

fino al ritorno di Re Enrico in Francia,

perché è là che dobbiamo riportarlo.

Io v’ho riassunto quello che è successo

nell’intervallo fino a quel momento;

consentiteci dunque questo salto

e, seguendo il pensiero, il vostro sguardo

si volga dritto un’altra volta in Francia.

(Esce)


SCENA I - Il campo inglese in Francia

Entrano FLUELLEN e GOWER

GOWER -                              Sì, questo è vero; ma perché quel porro

ve lo portate ancora sul cappello?

La festa di San Davide è passata.

FLUELLEN -                        C’è occasione e motivo in ogni cosa,

e c’è perché, e per come, e per quando.

Vi tirò, capitano, in amicizia,

come quando quel pezzo di canaglia,

accattone, pezzente, pitocchioso,

cradasso vigliaccone d’un Pistola

che foi, foi in persona e tutto mondo

conosce come uno puono a niente,

ieri mi fiene afanti

e mi porta - fetete - pane e sale,

da manciare, mi disce, col mio porro.

Questo è stato in un luoco

tove io non potevo intafolare

una lite con lui; ma afrò il coraccio

di portarmi quel porro sul cappello

fino a quanto lo incontro un’altra folta;

e allora sì, gli dico, ecco, fetete,

una certa cosetta che so io.

Entra PISTOLA

GOWER -                              Toh, eccolo che viene a questa volta,

gonfio come un tacchino.

FLUELLEN -                        Tel suo confiarsi e tel suo tacchinare

non me ne importa un fico.

Ittio v’assista, alfiere Pistola,

rognoso, pitocchioso faraputto,

Ittio v’assista!

PISTOLA -                                                    Olà! Sei mentecatto?(147)

O forse, ignobile troiano(148), hai sete

di vederti da me reciso il filo

della fatale tela della Parca?(149)

Statti alla larga, non venirmi accanto:

l’odor di porro mi dà il voltastomaco.

FLUELLEN -                        E invece io ti preco cordialmente,

rognoso, pitocchioso farabutto,

che dietro mia richiesta e petizione,

tu manci questo porro;

e proprio, feti, perché non ti piace

e tue pretilezioni e dicestioni

non lo appetiscono, ti trancuciarlo.

PISTOLA -                            No, per il re Cadwàlleder(150)

e tutte le sue capre! Niente affatto!

FLUELLEN -                        Capre? Toh, questa una è per te.

(Lo batte)

Fuoi esser così prafo ti manciarlo,

cran furfante?

PISTOLA -                                                      Morrai, vile troiano!

FLUELLEN -                        Questo è più che sicuro, ti morire,

rognoso e pitocchioso manicoldo,

quanto sarà la folontà di Tio!

Nel frattempo tesitero che tu

vivi e ti manci le tue fettovaglie,

e con questa salsetta per contorno.

(Lo batte ancora)

Tu m’ha chiamato ieri

scutiero ti montagna, e io oggi

ti chiamerò scutiero di pianura.

Mancia, insomma, ti preco:

se sei capace di schernire un porro,

sarai anche capace di manciarlo.

GOWER -                              E basta adesso, capitano Fluellen!

L’avrete frastornato a sufficienza.

FLUELLEN -                        Ho tetto che gli voglio far manciare

un pezzo del mio porro,

o gli stampurerò quella sua zucca

per quattro ciorni… Mordi, su, ta prafo!

È uno specifico miracoloso

per meticar le tue fresche ferite

e la tua zucca tutta insanguinata.

PISTOLA -                            Devo mordere?

FLUELLEN -                                                  Sì, fuor t’ogni tubbio,

t’ogni questione e t’ogni ampiquità!

PISTOLA -                            Per questo porro farò, giuraddio,

orribile vendetta, giuraddio…

Mangio, mangio, ma giuro…

FLUELLEN -                                                                        Prafo, mancialo…

(Gli mostra il randello)

Non cratiresti ancora un po’ di salsa

per il tuo porro? N’è rimasto poco

ormai da reccere il tuo ciuramento.

PISTOLA -                            Pace a quel tuo randello… Mangio, mangio.

FLUELLEN -                        Tanto meglio per te. Con tutto il cuore,

rognoso e pitocchioso faraputto…

Eh, no, ti preco, non puttarlo via.

La scorza è un ottimo medicamento

per cotesta tua zucca fracassata.

E t’ora innanzi, quando ti succete

ti trovarti alla vista qualche porro,

fattene pure beffa. E questo è tutto.

PISTOLA -                            Buono.

FLUELLEN -                                       Sì, il porro è buono. Ecco per te:

un soldo, ti ci fai curar la zucca.

PISTOLA -                            Un soldo a me?

FLUELLEN -                                                  Sì, sì, lo tevi prentere,

in ferità e coscienza, con le puone,

altrimenti ho in tasca un altro porro

e tu tovrai manciare pure quello.

PISTOLA -                            Prendo il tuo soldo a pegno di vendetta.

FLUELLEN -                        Pegno? Ti tevo forse qualche cosa?

Dillo, che te lo pago a randellate.

Così farai il mercante di legnami,

coi randelli che buscherai da me.

Addio, Dio ti protegga,

e ti restauri quella zucca rotta.

(Esce)

PISTOLA -                            Per questo fremerà tutto l’inferno!

GOWER -                              Va’, va’, che sei soltanto un vil codardo

che si dà l’aria di gran coraggioso.

Come ti viene in mente

di farti beffa d’una antica usanza

sorta da un onorevole episodio

e tramandata poi come trofeo

a ricordo di gesta coraggiose?

E poi non hai il coraggio

di sostener coi fatti le tue burle?

T’ho visto beffeggiare ed ingiuriare

due, tre volte quel bravo capitano:

credevi forse che perché incapace

di pronunciare ben la lingua inglese,

fosse altresì incapace

di maneggiare un manganello inglese?

Hai ben appreso che così non era;

da oggi in là fa’ in modo

che la lezione di questo gallese

t’insegni a vivere da buon inglese.

(Esce)

PISTOLA -                            Eh, madama Fortuna,

ora con me fa proprio la puttana!

Ho saputo che la mia Dolly è morta

all’ospedale di male francese;

così mia ultima speranza addio.

Sto diventando vecchio,

e da queste mie stanche e antiche membra

si caccia via l’onore a randellate…

Bene: vuol dire che farò il ruffiano,

scivolando talvolta a tagliaborse,

mano lesta. Ritorno in Inghilterra,

furtivamente e vivrò là… di furto.

Alle ferite delle randellate

metterò bene in vista dei cerotti,

e giurerò di averle ricevute

nelle guerre di Gallia, da soldato.

(Esce)

.


SCENA II - In Francia, il palazzo reale.

Entrano, da una parte, RE ENRICO, EXETER, BEDFORD, GLOUCESTER, WARWICK, WESTMORELAND e altri lords; dall’altra, il RE DI FRANCIA, la REGINA ISABELLA, la principessa CATERINA, ALICE e altre dame; il DUCA DI BORGOGNA col seguito.

ENRICO -                              Sia pace a questo nobile consesso,

ché per la pace qui siamo riuniti.(151)

Al nostro confratello Re di Francia,

alla nostra sorella sua regina

auguriamo salute e giorni lieti;

alla bellissima nostra cugina,

principessa di Francia, Caterina,

letizia e voti di felicità,

ed a voi infine, Duca di Borgogna,

che di codesto principesco tronco

siete ramo di stretta appartenenza,

e dal quale questa solenne accolta

è stata preparata, il mio saluto;

e salute a voi tutti,

principi e gentiluomini di Francia.

RE DI FRANCIA -               Degnissimo fratello d’Inghilterra,

felici di vedervi faccia a faccia.

Benvenuto voi siete, e benvenuto

è ciascuno di voi, principi inglesi.

REGINA ISABELLA -        E felice, fratello d’Inghilterra,

sia l’esito di questo fausto giorno

e di questa leggiadra riunione;

come felici siamo tutti qui

di vedere i vostri occhi che pur dianzi

han tenute dirette sui Francesi

le fatali pupille

del basilisco, che dànno la morte;(152)

il loro sguardo, spero ardentemente

abbia perduto il suo funesto influsso,

e possa questo giorno tramutare

in amore ogni lite ed ogni affanno.

ENRICO -                              Noi siamo appunto qui

per rispondere “amen!” a questo voto.

RE DI FRANCIA -               Principi inglesi, a tutti il mio saluto.

BORGOGNA -                      Il mio devoto omaggio

con pari affetto a entrambi, o grandi re

di Francia e d’Inghilterra!

Ch’io mi sia adoperato alacremente

con tutte le risorse del mio ingegno

e con travaglio e sforzi sovrumani

a condurre le vostre maestà

a un tal confronto e regale convegno,

le vostre altezze possono elle esse

fornire la miglior testimonianza.

Ed ora, visto che i miei buoni uffici

son riusciti a questo faccia a faccia,

questo incontro regale occhio-con-occhio,

non mi sia sconvenevole richiedere

innanzi alla regal vostra presenza,

quale ostacolo, quale impedimento

sia da rimuovere perché la pace,

questa povera, nuda e bistrattata

nutrice d’arti, di bontà di vita,

di chiara e limpida fecondità,

si dispieghi nel suo sereno aspetto

su questa fertile terra di Francia,

il giardino più splendido del mondo.

Troppo a lungo bandita

essa è stata, ahimè, da questa terra

i cui frutti ora giacciono a marcire

dentro la stessa lor fertilità:

le sue viti, che rallegravan gli animi,

non più potate, intristiscono e muoiono;

le siepi, un tempo sì ben pareggiate,

sono tanti virgulti scompigliati

simili a zazzere di prigionieri

cresciute con selvaggia scompostezza;

sulle maggesi mettono radici

il loglio, la cicuta, la gramigna,

e coperto di ruggine è l’aratro

che dovrebbe estirpare col suo vomere

tanta selvaggia fioritura; il prato,

un tempo così bene livellato

e fiorito di primule screziate

e di verde trifoglio e pimpinella,

ora incolto e privato della falce,

inerte, brutto, tutto scarmigliato,

concepisce soltanto per pigrizia

e non produce che odiose bardane,

ruvidi cardi, lappole, cicute,

scaduto di bellezza e nobiltà.

E come quei vigneti, quei maggesi,

quei prati, quelle siepi

abbandonati alla loro natura

crescono e si sviluppano in selvatico,

così le nostre case, i nostri figli

e noi abbiam perduto conoscenza

(o ignorato, per non averne il tempo)

di quelle scienze che son congeniali

al nostro suolo, e cresciamo selvatici

come soldati che non sanno altro

che pensar sangue, e vomitar bestemmie,

ed atteggiare il volto alla ferocia,

e comportarsi, insomma, in ogni modo

che sembri contrastar col naturale.

Ecco perché voi siete qui riuniti:

per ricondurre alfine tutto questo

al primitivo suo stato di grazia;

e il mio discorso vuol solo scrutare

le ragioni che vietano alla pace

di espellere da sé queste jatture,

e d’offrirci serena, nuovamente,

la benedetta qualità d’un tempo.

ENRICO -                              Se vostra aspirazione,

o Duca di Borgogna, è aver la pace,

la cui assenza è la vera cagione

di tutti i mali da voi deplorati,

voi potete soltanto conquistarla

con la vostra totale accettazione

delle nostre legittime richieste,

il cui tenore e i cui particolari

si trovano in succinto dichiarati

nello scritto ch’è nelle vostre mani.

BORGOGNA -                      Il re già le conosce,

ma non vi ha dato a tutt’oggi risposta.

ENRICO -                              Ebbene, proprio nella sua risposta

sta quella pace che voi invocate.

RE DI FRANCIA -               Ho dato solo una rapida scorsa

agli articoli: piaccia a vostra grazia

di nominare qui, seduta stante,

qualche membro del suo regal consiglio

che voglia dedicarsi, insieme a noi,

ad un più diligente esame d’essi;

e allora noi vi renderemo nota,

con la nostra risposta conclusiva,

se le accettiamo o no.

ENRICO -                                                                 Bene, fratello.

Andate voi, zio Exeter, col re,

e tu, fratello Clarence, e anche tu,

fratello Gloucester, e Warwick e Huntington,

e abbiatevi da noi pieni poteri

d’approvare, d’aggiungere, emendare,

secondo che nella coscienza vostra

lo riteniate di maggior vantaggio

alla nostra regale dignità,

tutto quanto si trova, o non si trova,

nelle nostre richieste; e noi fin d’ora

ve lo diamo per rato e sanzionato.

(Alla regina Isabella)

E voi, amabilissima sorella,

desiderate unirvi a questi principi,

o preferite rimaner con noi?

REGINA -                             Andrò con loro, grazioso fratello:

la voce d’una donna,

potrà riuscire d’alcun giovamento

quando sorgesse sopra qualche clausola

un qualsivoglia puntiglioso intoppo.

ENRICO -                              Lascerete comunque qui con noi

nostra cugina Caterina: è lei

l’oggetto principale degli articoli

preliminari del nostro trattato.

REGINA -                             Gliene diamo licenza volentieri.

(Escono tutti, eccetto Enrico, Caterina e Alice)

ENRICO -                              Bella, anzi bellissima Katina,

non vorreste insegnare ad un soldato

tali parole ch’abbiano l’effetto,

entrando nell’orecchio d’una dama,

di perorar la causa del suo amore

dinnanzi al nobile cuore di lei?

CATERINA -                        Vostra maestà si fa gioco di me:

io non lo so parlare il vostro inglese.(153)

ENRICO -                              O bella Caterina!

Se mi vorrete amare fortemente

col vostro cuor francese,

sarò felice s’anche me lo dite

nel vostro zoppo inglese.

Vi piaccio Kate?

CATERINA -                                                     Oh, pardonnez-moi,

ma non so proprio che vuol dire “piaccio”.

ENRICO -                              “Piace” un angelo Kate,

come sei tu, che rassomigli a un angelo.(154)

CATERINA -                        (Ad Alice)

Que dit-il, que je suis semblable à un ange?(155)

ALICE -                                 Oui, vraiment, votre grace, ainsi dit-il.(156)

ENRICO -                              Sì, così ho detto, dolce Caterina,

e non provo davvero alcun rossore

nel somigliarti a un angelo.

CATERINA -                                                                     Bon Dieu!

Les langues des hommes sont pleines de tromperies!(157)

ENRICO -                              (Ad Alice)

Che dice ella, bellezza? Che noi uomini

abbiam la lingua imbevuta d’inganni?

ALICE -                                 Oui, che lingue d’uomini

piene d’inganni, dice principessa.

ENRICO -                              La principessa ad uno come me

sta tanto meglio così, come inglese.(158)

Se devo dirtelo sinceramente, Kate,

la mia maniera di parlar d’amore

s’adatta meglio alla tua comprensione:

che tu non sia capace

di esprimerti in un migliore inglese,

mi sta bene, perché tu se lo fossi,

potresti essere indotta anche a pensare

ch’io sia un tal bifolco sempliciotto

di sovrano, da vendere il podere

per comprar la corona: perché, vedi,

io non conosco smancerie d’amore,

Ketty, so dir soltanto, chiaro e netto:

“Io t’amo”; e s’anche tu m’incoraggiassi

a dir di più col chiedermi: “Ah, sul serio?”,

la mia corte sarebbe già finita.(159)

Dimmi perciò, qual è la tua risposta,

Ketty, sinceramente e senza ambagi,

stringiamoci la mano e affare fatto.

Che rispondi, signora?

CATERINA -                        Sauf votre honneur,(160) io capire tutto.

ENRICO -                              Per la Vergine, Kate,

se pretendessi ch’io per amor tuo

cominciassi a ballare e a poetare,

mi metteresti veramente a terra!

Per mettermi a far versi

non ho né le parole né la metrica;

per mettermi a danzare,

non ho la forza di tenere il ritmo,

pur se ritmo di forza ne ho parecchio.

Potessi conquistare a me una dama

col salto del ranocchio,(161)

o col balzare in sella ad un cavallo

con tutta l’armatura sulle spalle,(162)

sarebbe facile per me saltare

in braccio a quella che vorrei per moglie;

o se, per guadagnarmi il suo favore,

dovessi fare una partita a pugni

o andar caracollando sul cavallo,

allora sì, saprei menar le mani

come un beccaio, e star come una scimmia

saldo in sella, ben fermo sulle staffe.

Ma son negato, giuro, Caterina,

a far l’occhio di triglia ad una dama

o a sfoggiare eloquenza sospirando,

come sono sprovvisto della tecnica

del protestare amore sviscerato.

So fare solo schietti giuramenti

quando siano davvero necessari,

e tali che, una volta pronunciati,

niente potrebbe farmi rinnegare.

Se ti senti di amare, Caterina,

uno di dura scorza come me,

cui non serva abbronzar la faccia al sole,

e che non cerca mai nel proprio specchio

un volto con il quale compiacersi,

fa’ che il tuo occhio sia il tuo buon cuoco.(163)

Io ti parlo da semplice soldato;

e se tu senti di amarmi per questo

prendimi per marito;

dirti che morirò se non mi vuoi,

sarebbe dirti il vero; ma, perdio,

non morirò per te di mal d’amore.

Eppure t’amo, ed anche questo è vero.

Ma tu per la tua vita, cara Kate,

prenditi per compagno un uomo semplice

e di costanza non sofisticata,

che ti sarà fedele in ogni caso,

perché sprovvisto della qualità

d’andare sfarfallando in altri luoghi.

I bellimbusti dalla lingua sciolta

così bravi a imbastir rime alle dame

per penetrare nei loro favori

son anche bravi a trovar le ragioni

per piantarle e rifare il gioco altrove.

La lingua facile è del ciarlatano;

una rima è soltanto una ballata.(164)

Ed ogni bella gamba poi si fiacca,

ogni diritta schiena si rincurva,

ogni testa ricciuta si fa calva,

ogni bel viso si raggrinzerà,

ogni occhio vivido s’appannerà,

solo un cuore fedele è sole e luna,

o meglio, Kate, sole e niente luna,

perché splende radioso ed immutabile

fedele a mantener sempre il suo corso.

Se ti va a genio uno così fatto,

prendimi, e prenderai con te un soldato,

e prendendo un soldato, prendi un re.

Ma tu come rispondi all’amor mio?

Parla, bellezza, e chiaro, te ne prego.

CATERINA -                        È possibile io poter amare

l’ennemi de la France?(165)

ENRICO -                                                                        No, Katina,

non possibile tu poter amare

il nemico di Francia; ma se m’ami,

tu amerai l’amico della Francia;

perché io l’amo tanto la tua Francia,

che non sono disposto a rinunciare

nemmeno al suo piccolo villaggio.

La voglio tutta, e quando sarà mia

la Francia, ed io tuo, Caterina,

tu sarai mia, e tua la sarà la Francia.

CATERINA -                        Io non capire questo.

ENRICO -                                                                 No, Katina?

Allora te lo dico in un francese

che son sicuro mi si appenderà

forte alla lingua come una sposina

al collo del marito,

che sarà poi difficile staccarlo.

Ecco: Je quand pour la possession de France

et vous avez la possession de moi…(166)

dunque, vediamo, poi che altro dirti…

che San Dionigi mi venga in aiuto…(167)

donc votre est France et vous ètes mienne…(168)

Caterina, è più facile per me

conquistarla la Francia,

che dire una parola più in francese!

Non saprò mai commuoverti in francese,

se non per farti ridere di me.

CATERINA -                        Sauf votre honneur, le fançais que vous parlez

il est meilleur que l’anglais lequel je parle.(169)

ENRICO -                              No, no, in coscienza, Kate;

ma un fatto è certo, cara: che il tuo inglese

e il mio francese sono sì perfetti

nella loro imperfetta perfezione,

che verità e bugia sono tutt’uno.

Ma, Kate, sai almeno tanto inglese

da capir questo: “Senti tu di amarmi?”

CATERINA -                        Questo non saprei dire.

ENRICO -                              Lo saprebbe per te forse qualcuna

delle tue dame? Chiederò a loro…

Ma io lo so che m’ami, e che stasera

rientrando nei tuoi appartamenti,

domanderai a quella gentildonna

chi lo sa quante cose su di me;

e posso dire anche, Caterina,

che fingerai con lei di disprezzare

quelle cose di me che più col cuore

invece apprezzi ed ami; ma Katina,

se dovessi sorridere di me,

fallo pietosamente; perch’io t’amo

senza pietà, mia dolce principessa,

e se tu sarai mia,

come una voce interna m’assicura,

io t’avrò conquistata a viva forza,

e tu dovrai per forza dimostrarti

una buona fattrice di soldati.

E non dovremmo, tu ed io accoppiati,

pronubi San Dionigi con San Giorgio,

esser capaci di forgiare insieme

mezzo francese e mezzo inglese un figlio

che andrà a Costantinopoli

a tirare la barba il Gran Sultano?

Che ne dici, mio dolce fiordaliso?(170)

CATERINA -                        Non so.

ENRICO -                              Già, questo è da sapere in seguito.

Ora mi basta che tu lo prometta:

promettimi soltanto ora, Katina,

che farai tutto quanto è in tuo potere

per la parte francese d’un tal figlio;

in quanto alla mia mezza parte inglese,

ti basti la parola mia di re

e di scapolo in gamba.

Che risponde la plue belle Kate du monde,

mon très chére et divine déesse?(171)

CATERINA -                        Vostra Majesté conosce francese

fausse abbastanza per trarre inganno

la plus sage demoiselle dat is in France.(172)

ENRICO -                              Abbasso allora il mio “falso” francese!

Nel mio più schietto inglese, e sul mio onore,

io ti dico che t’amo, Caterina,

se pur non me la sento di giurare,

su quello stesso onore, che tu m’ami;

ma sento il sangue che comincia a illudermi

che malgrado lo scoraggiante aspetto

della mia faccia, tu mi puoi amare.

Oh, dannata ambizione di mio padre!

Egli pensava alle guerre civili

quando mi generò, e così son nato

con questo grifo così grossolano,

con questo duro e sì ferrigno aspetto

col quale se corteggio una signora

riesco solo a incuterle paura.

Ma, Katina, migliorerò cogli anni,

e mi consolo a pensar che l’età,

questo spietato corrosivo tarlo

della bellezza, non potrà riuscire

ad imbruttir vieppiù le mie fattezze.

Se tu mi vuoi, mi prendi nel mio peggio,

perciò, e se mi serberai con te,

mi scoprirai ogni giorno migliore.

Dimmi dunque, bellissima: mi vuoi?

Metti da parte il virginal rossore,

confessami i pensieri del tuo cuore,

e, con far da regina,

dichiarami, prendendomi per mano:

“Enrico d’Inghilterra, io sono tua!”;

e questa frase non avrà finito

di risuonar felice nel mio orecchio

che udrai risponderti forte da me:

“E tua è l’Inghilterra, tua l’Irlanda,

tua la Francia, e tuo è questo Enrico

Plantageneto!”, il quale, se non è

- e glielo dico in faccia -

compagno al miglior re, potrai scoprire

ch’è il miglior re dei buoni compagnoni.(173)

Su, dunque, in quella tua storpiata musica,

la tua risposta; che se pure storpio

è il tuo inglese, la tua voce è musica;

perciò, regina delle regine, dimmi

nel tuo storpiato inglese: vuoi avermi?

CATERINA -                        Sarà al piacere du roi mon père.(174)

ENRICO -                              Oh, per piacergli, sì, gli piacerà,

e molto.

CATERINA -                                       Allora piacerà anche a me.

ENRICO -                              Quand’è così, io ti bacio la mano,

ecco, così, e ti chiamo mia regina.

(Le prende la mano ma quella la ritrae)

CATERINA -                        Laissez, monsieur, laissez, laissez, ma foi!

Je ne veux que vous baissiez votre grandeur

en baisan la main d’une de votre seigner

indigne serviteur. Excusez-moi,

je vous supplie, mon très puissant seigneur!(175)

ENRICO -                              Allora, Kate, bacio le tue labbra.

(Fa per abbracciarla, ma ella gli sfugge)

CATERINA -                        Les dames e les demoiselles

pour etre baisées devant leur noces

il n’est pas la coutume de la France!(176)

ENRICO -                              (Ad Alice)

Madama interprete, che cosa ha detto?

ALICE -                                 Che non è usanza in Francia pour les ladies

di “baiser”… ma non so questo in inglese

come si dice…

ENRICO -                                                     Si dice “baciare”.

ALICE -                                 Vostra altezza capisce mieux que moi.(177)

ENRICO -                              Non è costume delle donne in Francia

farsi baciare prima delle nozze.

È questo che vuol dire?

ALICE -                                                                         Oui, vraiment.(178)

ENRICO -                              Oh, Katina, dinanzi ai grandi re

s’inchinano le usanze più bislacche.

Noi non possiamo, cara, io e te,

lasciarci confinare dentro i limiti

angusti delle usanze d’un paese.

Le usanze, cara, le facciamo noi,

e il privilegio di libera scelta

che s’accompagna con il nostro rango

chiude la bocca a tutti quei censori

che trovan da ridire in ogni cosa;

così com’io vo’ chiudere la tua

che vuol negarmi un bacio,

per esser rispettosa dell’usanza

del tuo paese, per quanto grottesca.

E dunque, Kate, arrenditi.

(La bacia sulle labbra)

Tu hai sulle tue labbra una magia;

c’è, nel loro soavissimo contatto

più eloquenza che in tutte le concioni

del Consiglio di Francia messe insieme:

esse sarebbero mezzo più rapido

a convincere Enrico d’Inghilterra

d’una richiesta in massa di monarchi.

Ma ecco il re tuo padre e tutti gli altri.

Entrano tutti i Grandi di Francia e i Lords inglesi

BORGOGNA -                      Iddio protegga la vostra maestà!

Mio regale cugino,

insegnate l’inglese, a quanto vedo,

alla nostra charmante principessa?

ENRICO -                              Vorrei solo ch’ella imparasse bene

quanto io l’amo, amabile cugino:

questo sarebbe già un buon inglese,

per lei.

BORGOGNA -                                 Com’è, non ci ha disposizione?

ENRICO -                              La nostra lingua è ruvida, cugino,

e il mio carattere, sicuramente,

non si può dire che sia tanto morbido;

sicché non possedendo né la voce

né lo spirito adatti alla lusinga,

non so evocare in lei spirto d’amore

che si mostri nei suoi tratti veraci.

BORGOGNA -                      Se mi perdonerete la franchezza,

io vi fornisco, a gioco, la risposta.

Se davvero volete esorcizzarla,

dovete disegnarle un cerchio intorno;(179)

e se riuscite ad evocare in lei

l’amore nella sua vera sembianza,

esso le apparirà nudo e bendato.

Come potete allora biasimarla

se, essendo una fanciulla ancora incline

ad arrossir di verginal pudore

ella, nel nudo dell’anima sua

rifiuti di vedere innanzi a sé

apparirle un ragazzo nudo e cieco?(180)

Sarebbe troppo grave turbamento

imposto a una fanciulla, mio signore.

ENRICO -                              Eppure, proprio perché Amore è cieco,

quando le assale, esse chiudono gli occhi,

e s’abbandonano a lui.

BORGOGNA -                                                           E per questo

motivo son scusate e perdonate,

perché non vedono quello che fanno.

ENRICO -                              Ecco, appunto. Perciò, mio buon signore,

istruitela voi vostra cugina

su come consentir chiudendo gli occhi.

BORGOGNA -                      Io posso farle tanto d’occhiolino

per farla consentire, mio signore,

a condizione che voi le insegniate

ad intendere il senso del mio gesto.

Perché vedete, sire, le fanciulle,

tenute in caldo per tutta l’estate,

non son molto diverse dalle mosche

alla stagion di San Bartolomeo,(181)

che si fan cieche pur avendo gli occhi,

e si lascian toccare facilmente,

mentre prima sfuggivano volando

sol che le si guardasse.

ENRICO -                              Questo apologo mi consiglia allora

di dare tempo al tempo

e di lasciar passar la calda estate

così ch’io possa prendere, alla fine

la mia mosca - vostra cugina, intendo -,

quando anch’ella si sarà fatta cieca.

BORGOGNA -                      Così è l’amore… prima dell’amore.

ENRICO -                              Infatti; e voi, o alcuni fra di voi,

ringraziano l’amore

che mi fa cieco sì

da non esser più in grado di vedere

tante belle città di questa Francia

perché una bella vergine francese

si para innanzi lungo il mio cammino.

RE DI FRANCIA -               Sì, mio signore, infatti le vedete,

come nel gioco d’una prospettiva,

come mutate tutte in una vergine,

perché son cinte di vergini mura

non mai state violate da una guerra.

ENRICO -                              Sarà Kate mia moglie?

RE DI FRANCIA -                                                     Se vi piaccia.

ENRICO -                              Lo voglio, sì, purché le città vergini

di cui parlate le facciano seguito;

così la vergine che s’era posta

tra me e l’oggetto dei miei desideri

m’insegnerà la via per soddisfarli.

RE DI FRANCIA -               Bene, così abbiamo acconsentito

ad ogni ragionevole richiesta.

ENRICO -                              È così, miei signori d’Inghilterra?

WESTMORELAND -           È così, sire. Il Re s’è detto pronto

ad accettare ogni nostra richiesta,

prima di tutte quella di sua figlia,

e poi, ad una ad una, tutte l’altre,

così come son state formulate.

EXETER -                              Una non ha tuttavia sottoscritto:

quella secondo cui vostra maestà

chiede che il re di Francia

in tutti gli atti che hanno per oggetto

sue concessioni, nomini in francese

in questa formula e con queste aggiunte

vostra altezza: “Notre cher fils Henri,

roi d’Angltererre, Heritier de France”,

ed in latino: “Praeclarissimus, filius noster

Henricus, rex Angliae et Haeres Franciae”.(182)

RE DI FRANCIA -               Però il mio “no”, fratello, su tal punto

non vuol significare che in prosieguo,

io non possa aderirvi, se richiesto.

ENRICO -                              Bene, quand’è così, vi prego, sire,

come pegno di affetto e fratellanza,

di aggiunger questa clausola alle altre,

e di darmi in isposa vostra figlia.

RE DI FRANCIA -               Prendila, caro figlio;

e fa che dal suo sangue scaturisca

una bella e gagliarda genitura;

sì che i regni di Francia e d’Inghilterra

fino ad oggi rivali, e le cui sponde

si guardan sempre pallide d’invidia,

per la posterità l’una dell’altra,

depongano il lor odio,

e questa unione installi nei lor cuori

ammansiti fraternità e concordia,

sì che mai più nei secoli la guerra

interponga tra Francia ed Inghilterra.

la sua spada di sangue.

TUTTI -                                                                        E così sia!

ENRICO -                              E allora, Kate, sii la benvenuta!

E voi siatemi tutti testimoni,

ch’io qui la bacio come mia regina.

(L’abbraccia e la bacia)

(Squilli di tromba)

REGINA ISABELLA -        Iddio, signore e artefice supremo

di tutti i matrimoni,

unisca in un sol nodo i vostri cuori

ed in un solo regno i vostri regni!

Così come in amore

marito e moglie sono due in uno,

si stringa oggi tra i vostri due regni

tal connubio, che mai perverse pratiche

o crudel gelosia, che tanto spesso

turbano il letto di unioni felici,

si frappongano al patto d’amicizia

fra i nostri regni e spingano al divorzio

la loro indissolubile alleanza:

sì che l’Inglese sia francese in Francia,

ed inglese il Francese in Inghilterra.

Voglia Dio pronunciare il suo “Amen”

a questo mio auspicio.

TUTTI -                                                                     E così sia!

ENRICO -                              Ed ora apparecchiamoci alle nozze.

Quel giorno, mio signore di Borgogna,

riceveremo il vostro giuramento

e quello della nobiltà di Francia,

a garanzia della vostra alleanza.

Io giurerò a quel punto la mia fede

a Caterina, e voi la vostra a me.

E possan tutti questi giuramenti

essere lealmente mantenuti

e recar frutti di prosperità!

(Trombe - Escono tutti)


epilogo

Entra il CORO

CORO -                                  Fin qui, con rozza e inadeguata penna,

il nostro autore - che vi riverisce -

ha proseguito a narrar la sua storia,

contenendo in così angusto spazio

possenti personaggi,

e riducendo a brevi accadimenti

l’intero corso della loro gloria.

Breve il tempo, ma in quella brevità

fulgido risplendé nella sua luce

questo astro d’Inghilterra: la Fortuna

temprò la spada che gli conquistò

il giardino più splendido del mondo,

di cui lasciò signore

l’imperiale suo figlio Enrico Sesto.

Coronato costui, ancora in fasce,

re d’Inghilterra e Francia,

divenne erede del suo grande padre;

ma durante il suo regno

tanti furono a reggere le redini

e tenere il governo dello Stato,

che ottennero di perdere la Francia

e di far sanguinare l'Inghilterra:

vicenda che fu già rappresentata

con successo su questo palcoscenico;(183)

e in grazia della quale,

possa dal vostro amabile giudizio

essere bene accolta pure questa.

FINE


(I) Sono gli altri due figli maschi di Enrico IV. Quello che viene indicato qui come Duca di Bedford è il secondogenito Giovanni di Lancaster, (1389-1435) che ha una parte cospicua nell’“Enrico IV” - prima e seconda parte; l’altro, qui chiamato Duca di Gloucester, è il più giovane, Humphrey (1391-1447), che avrà una parte importante nell’“Enrico VI” come Lord Protettore del regno durante la minore età del re.

(II) Questo personaggio, indicato in tutti testi come “zio del re” è Giovanni di Baufort, fratello minore di Enrico IV (1370-1410) che, però, all’epoca del dramma non è ancora duca di Exeter, ma semplicemente conte di Somerset; duca di Exeter sarà fatto da Enrico V nel 1416 il figlio di lui, Tomaso: se questo è il personaggio che Shakespeare mette sulla scena, è dunque il cugino, non già lo zio del re.

(III) Costui è Edoardo, figlio di Edmondo di Langley, duca di York e fratello di Giovanni di Gaunt, padre di Enrico V. È perciò erroneamente indicato da tutti i testi nel “cast” come “cugino del re”: egli è lo zio del re, e con tale appellativo lo chiama Enrico all’inizio della sesta scena dell’atto IV (“Lives, he, good uncle?”). Suo fratello, Riccardo conte di Cambridge, milita nel dramma tra i cospiratori contro il re. Edoardo morirà nella battaglia di Azincourt, contro i francesi; Riccardo sarà giustiziato come congiurato, nel corso del dramma.

(1) “O, for a Muse of fire!”: il fuoco, nella cosmologia tolemaica, alla quale spesso Shakespeare si rifà, è, dei quattro elementi di cui si compone la materia - acqua, terra, aria, fuoco - il più leggero, quello che tende ad ascendere sempre più in alto. Il poeta chiede alla sua Musa di adeguargli il canto alla nobiltà del tema, il suo ingegno ritenendo insufficiente a tanta impresa.

(2) Il teatro elisabettiano aveva la forma ellittica di una “O”; il “Globe”, dove si rappresentò la prima volta questo dramma, ne era un classico modello.

(3) L’azione scenica di questo dramma coprirà un periodo di 6 anni, dal 1414 al 1420.

(4) “The offendig Adam”, cioè la colpa originale dell’umana fragilità di fronte alle tentazioni terrene, ch’è costata ad Adamo la cacciata dal paradiso terrestre.

(5) “… hydra-headed wilfulness”, la protervia umana ha tante teste difficili da abbattere, come l’Idra di Lerna, il mitologico mostro-serpente dalle mille teste (una se ne tagliava, e due ne spuntavano) ucciso da Ercole.

(6) “The Gordian knot of it he will unloose familiar as his garter”: il “nodo di Gordio”, che Alessandro Magno si dice sciolse con un colpo di spada, tanto era intricato, è simbolo di problema di massima difficoltà.

(7) Il trisnonno di Enrico V è Edoardo II (1284-1327), padre di Edoardo III, padre di Giovanni di Gaunt, padre di Enrico IV, padre di Enrico V. Edoardo II aveva sposato Isabella, figlia di Filippo IV, re di Francia, donde la pretesa dinastica di Enrico sul trono di Francia.

(8) L’arcivescovo di Canterbury e quello di York erano - e sono tuttora - gli unici due prelati ad aver diritto al titolo di “Lord” e alle relative dignità.

(9) “… the Salic law that they have in France”: la legge salica, in Francia, escludeva dalla successione al trono le femmine. Enrico, come s’è visto, rivendica i territori in Francia in virtù di discendenza femminile (v. sopra la nota (7)).

(10) “In terra salica sia negato alle donne di succedere”: “salica” è sinonimo di “franca” (dal nome di “salii” dato dai romani ad alcune genti della Gallia. Ferramondo è nome leggendario. In realtà di questo codice scritto dei Franchi Salici del V sec. esistono vari testi di origine piuttosto oscura.

(11) “Il Breve” non è nel testo, che ha semplicemente “King Pepin”, ma è noto che i re col nome di Pipino furono quattro: dopo quello detto “Il Breve” di cui qui trattasi, figlio di Carlo Martello e fratello perciò di Carlomagno (714-768), son venuti Pipino, figlio di Carlomagno e re d’Italia dal 781 all’818; Pipino I, figlio di Luigi I “Il Pio” e re d’Aquitania dall’814 all’838; e il figlio di questi, Pipino II, pure re d’Aquitania (838-869). Childerico III è l’ultimo re merovingio (652-670)

(12) Errore storico: in realtà non di Luigi X si tratta, ma di Luigi IX, detto “Il Santo”. Shakespeare deve averlo derivato acriticamente dalle “Cronache” dell’Holinshed, che furono la maggior fonte di questa e delle altre sue tragedie storiche d’Inghilterra”.

(13) Cioè Carlomagno.

(14) “… and rather chose to bide them in a net”: “nascondersi in una rete” è l’ironica immagine di chi vuol nascondere qualcosa invano, perché una rete non nasconde nulla.

(15) È palese in questo sproloquio dell’Arcivescovo di Canterbury l’intento di Shakespeare di spiegare a modo suo al pubblico inglese l’origine storica della guerra dei cento anni tra Francia e Inghilterra, che fu appunto il rifiuto di Edoardo III, il nonno di Enrico V, di riconoscere ed accettare la “legge salica” esistente in Francia. All’epoca, nell’assenza di altri mezzi d’informazione di massa, il teatro e la chiesa erano gli unici luoghi di aggregazione e di diffusione del pensiero: qui Shakespeare, facendo parlare un prelato dal palcoscenico, li riunisce entrambi.

(16) Il “Libro dei Numeri” (“The Book of Numbers”) è uno dei libri della Bibbia, quello che contiene un censimento dei membri delle tribù d’Israele.

(17) Solo i nobili - titolari di un titolo nobiliare e cavalieri - andavano in guerra a cavallo, potendosi solo loro mantenere il relativo costoso equipaggiamento.

(18) Davide II, che gli inglesi sconfissero e fecero prigioniero nella battaglia di Nevill’s Cross, il 17 settembre 1346, mentre Edoardo III era impegnato in Francia.

(19) I “re prigionieri” di cui s’arricchisce la dinastia sono, oltre a questo scozzese, il re di Francia, Giovanni “Il Buono”, che il figlio di Edoardo, Edoardo prìncipe di Galles, detto il “Principe Nero”, farà prigioniero a Poitiers dieci anni dopo (1356).

(20) Il testo ha “they have a king”, “esse hanno un re”: così chiama anche Virgilio, nelle “Bucoliche” l’ape regina, e, prima di lui, Aristotile nella sua “Storia degli animali”.

(21) “… like Turkish mute”: i turchi avevano in uso di impiegare agenti muti in missioni segrete, e di farsi assistere, in casa, da schiavi privati della lingua, per paura che potessero riferire quanto vedessero.

(22) La gagliarda era una danza di ritmo vivace assai in voga nelle corti del sec. XVI.

(23) “… shall strike his father’s crown into the hazard”: continua la metafore del tennis; “to strike the hazard” è locuzione di quel gioco, per intendere il colpo vincente quando, nel tennis di allora, il giocatore riusciva ad infilare la palla nella buca.

(24) “His jest will savoue but a shallow wit”: “shallow”, “vuoto” ha figurativamente il senso di “tombale”, “sepolcrale”, per connessione col vuoto della tomba.

(25) “O England, model to thy inward grearness!”: “model” ha qui il senso di “imperfect manifestation of”. Per “model” con lo stesso valore in Shakespeare cfr. “Amleto”, V, 2, 50: “Which was the model of the Danish seal”.

(26) Il testo ha “in un nido, in una nidiata (“a nest”) di petti vuoti”.

(27) È la stessa taverna dell’ostessa Quickly, scenario delle furfantesche imprese della compagnia di Sir John Falstaff, rappresentate nelle due parti dell’“Enrico IV” e della quale ha fatto parte il giovane principe di Galles, qui ora re Enrico V. Di quei personaggi ritroviamo qui Bardolfo, divenuto luogotenente dell’esercito regio; Pistola, che ha sposato l’ostessa Quickly, e Pet; ad essi si aggiunge qui Nym, come caporale dello stesso esercito, che nell’“Enrico IV” non c’era, ma figura anche nelle “Gaie mogli di Windsor”.

Questa scena, con la sua gente comune, dal linguaggio tra comico e volgare, punteggiato di allusive lubricità, ha teatralmente la funzione di interludio all’apparizione, prima e dopo, del re e di nobili, che parlano del tutto diversamente: un espediente di tecnica teatrale di cui Shakespeare fa spesso buon uso.

(28) “That is my rest, that is the rendevous of it: che cosa esattamente s’intendesse al tempo di Shakespeare con l’espressione “that is the rendevous” non è ben chiaro; essa è resa dai vari traduttori nei modi più diversi. Il senso più probabile è “Questo è il succo”: “rendez-vous” era preso in prestito dal francese per l’equivalente di “last resort”, “ultima ratio” (“Oxford Universal Dictionary”).

(29) Il testo ha tutt’altro: “O, well-a-day, Lady, if he not here now!”: “Oh, poveri noi, Madonna mia, non l’avessimo mai incontrato!”

(30) “Adulterio consenziente ed assassinio “ (“wilful adultery and murder”) è la tipica trama della ballata o del dramma popolare, che Quickly pensa di vivere in prima persona.

(31) Il testo ha, in realtà “Good Lieutenant! Good Corporal!”, ma “Luogotenente” è un’evidente svista del copione, perché luogotenente è lui, Bardolfo, che parla.

(32) Il testo ha “Pish!” che è un suono della bocca che accompagna un gesto, più che un’esclamazione.

(33) “I am not Barbazon; you cannot canjure me”, letteralm.: “Io non sono Belzebù (Barbazon è il nome d’un diavolo), e tu non puoi evocarmi”.

(34) “… therefore exhale”: Pistola si picca di usare un linguaggio eufuistico, e Shakespeare con lui fa il verso a quelli che all’epoca seguivano la moda del parlare retorico e artificioso. “Exhale” non ha perciò qui - come intendono molti - il senso di “esala l’ultimo respiro”; “to exhale” nel linguaggio eufuistico, aveva il senso di “to drag out”, “to draw forth”, “estrarre”, riferito alla spada. L’invito a estrarre la spada lascia intendere che Nym la sua l’abbia rinfoderata prima, quando glielo ha richiesto Quickly.

(35) Pistola cita scorrettamente, come farà più sotto (IV, 4, 35), l’espressione francese “couper la gorge”. Il suo parlare è tutto uno sfoggio di frasi francesi e latine scorrette o deformate.

(36) “… and from the powdering-tub of infamy…”: la sifilide, o “mal francese”, malattia professionale delle prostitute, si curava negli ospedali con suffumigi bollenti dentro apposite tinozze (“powdering-tubs”).

(37) Cressida, l’eroina della commedia shakespeariana “Troilo e Cressida”, è il simbolo dell’astuta e corrotta civetteria femminile.

(38) Questo personaggio è lo stesso che ha una parte minore nell’“Enrico IV”, seconda parte: è la prostituta che frequenta la locanda dell’ostessa Quickly, dove ha un esilarante battibecco con Falstaff. Il suo cognome “Tearsheet”.

è di quelli che Shakespeare s’inventa per accordarli con le spiccate qualità del personaggio.

(39) “Quondam… pauca…”: Pistola seguita a sproloquiare in latino. La “quondam Quickly”, “colei che era per me un tempo l’ostessa Quickly (e ora è Nelly, mia moglie)”; “pauca” è la contrazione della stizzosa frase latina “intelligenti pauca”, “a buon intenditor poche parole”.

(40) Bardolfo ha la faccia rosso-fuoco e il naso paonazzo dell’ubriacone, sui quali ha spesso motteggiato Falstaff nell’“Enrico IV”.

(41) Questa frase dell’ostessa Quickly è il secco epilogo della storia di Sir John Falstaff, il personaggio più brillante e più grottescamente vero uscito dalla fantasia di Shakespeare, e che tanto piacque alla regina Elisabetta. Abilmente, Shakespeare non fa morire Falstaff sulla scena: ne fa annunciare la morte dall’ostessa, la quale descriverà più sotto la pietosa scena. “Il re gli ha ucciso il cuore” quando Enrico, diventato re, ha chiuso definitivamente con il suo passato scapestrato e con i suoi compagni di dissolutezze. Alla fine dell’ultimo atto dell’“Enrico IV”, seconda parte, è la scena di questo distacco, che provoca a Falstaff il trauma mortale: questi, mentre si trova nella contea di Gloucester, appresa la notizie della morte di Enrico IV e dell’elevazione al trono del figlio Enrico, corre a Londra per mettersi sul passaggio trionfale di questi, gli si avvicina esultante (“Mio re, mio Giove, parlo a te, cuor mio!”), per sentirsi rispondere un secco: “Non ti conosco, vecchio”. Falstaff da ciò è ferito a morte; e non può che morirne. “Nella tenda di Re Enrico V, alla vigilia di Azincourt, non può più trovar posto Falstaff e tutto ciò che egli rappresenta” (I. H. Walter).

(42) “A noble shall thou have, and present pay”: Il “nobile” (“noble”) era moneta di poco valore, poco più di uno scellino. “In contante” (“present pay”) detto di una tale moneta è palesemente provocatorio.

(43) Bisticcio intraducibile: Pistola gioca qui sul nome di Nym, che suona come “nim”, “rubare”, ed è come se, dicendo “Io vivrò di Nym”, dicesse: “Io vivrò rubando”, E dicendo “… e Nym vivrà per me”, dicesse: “… e il rubare vivrà per me”, come del resto annuncia subito dopo.

(44) Come al solito, Shakespeare, nei momenti più tragici, conosce il segreto di far ridere il pubblico, mettendo in bocca ai suoi personaggi qualche strafalcione linguistico. Qui è Quickly che fa uno dei suoi soliti svarioni, con l’ossimoro “terzana giornaliera”: la terzana, se è “terzana”, non può esser “giornaliera”.

(45) “His heart is fracted and corroborate”: Pistola usa spesso parole di senso contrario: “corroborate” è forma arcaica del participio passato di “corroborate”, “dar forza”, “dare energia”: uno svarione che fa il paio col precedente di Quickly.

(46) “… for, lambkins, we will leave”: frase diversamente intesa dalla traduzione. Altri intende infatti “we will live”, “vogliamo vivere” nel senso di “spassiamocela”: che pare piuttosto stridente col carattere, canagliesco quanto si voglia, ma non disumano del personaggio Pistola.

(47) “… the man that was his bedfellow”, letteralm.: “… l’uomo che gli era stato compagno di letto”.

(48) “Alas, your too much love and care of me / Are heavy orisons ’gainst this poor wrench!”: letteralm.: “Ahimè, il vostro eccessivo amore e cura di me sono pesanti orazioni a carico di questo poveraccio!”. Per “orison” nello stesso senso di “preghiera”, “orazione”, v. anche in “Amleto”, III, 1, 88: “Nymph, in thy orisons…”

(49) Cioè battere moneta con la mia immagine, tanto bene la conoscevi.

(50) “… is like another fall of man”: “… è come una seconda caduta dell’uomo”; con riferimento alla prima, quella di Adamo, che ha macchiato l’intero genere umano. Si è tradotto a senso.

(51) “Our puissance”: nello stesso senso in Shakespeare, cfr. in “Re Giovanni”, III, 1, 339: “Go, draw your puissance together”.

(52) Località del Middlesex, a circa 20 km. da Londra, sulla via di Southampton, dove, verosimilmente, Pistola, Bardolfo e Nym vanno a raggiungere l’esercito di Enrico V che s’imbarca per la Francia.

(53) L’ostessa Quickly, come al solito, sproposita: chi muore si dice che torni “nel seno di Adamo”.

(54) Bisticcio tra “incarnate” e “carnation”: “… and said they were devils incarnate” - ha detto il paggio, intendendo “diavoli in carne ed ossa”; Quickly intende invece “incarnate” per “incarnato”, “il colorito roseo del viso”, e risponde che Falstaff non lo trovava di suo gusto nelle donne.

(55) “… but then he was rheumatic”: Quickly vuol dire “lunatic”, “lunatico”; è una delle sue papere. Ma l’allusione di Shakespeare è più sottile: fa dire “rheumatic” alla Quickly, che lo pronuncerà “romatic”, corruzione dialettale di “romish”, “pertinente alla Chiesa di Roma”, per preparare il successivo accenno alla “puttana di Babilonia”, come è chiamata la Chiesa di Roma dell’“Apocalisse”, XV, 4-5, e come la chiamavano i protestanti della Chiesa d’Inghilterra, con riferimento alla corrotta regina di Babilonia, Semiramide “che libito fe’ licito in sua legge” (Dante, Inf., V, 56).

(56) Sul naso di Bardolfo v. sopra la nota (40).

(57) Latino per “fate attenzione” (imperativo plurale di “caveo”).

(58) L’intera battuta è presa di peso dalla traduzione del Lodovici (cit.).

(59) “… were busied with a Whitsun morris-dance”: la “moresca” (“morris-dance”) era una danza grottesca assai popolare in Inghilterra; in essa i danzatori, bizzarramente vestiti, rappresentavano personaggi fantasiosi, solitamente legati alla leggenda di Robin Hood. La festa della Pentecoste era una delle occasioni per questa danza, che si svolgeva nelle piazze.

(60) Questo aspetto di Bruto è posto magistralmente in risalto da Shakespeare del suo “Giulio Cesare”. Altri ritiene invece che il riferimento sia al Bruto Lucio Giulio, che fu primo console di Roma dopo la cacciata dei re Tarquini; si dice che simulasse di esser pazzo per sfuggire alla tirannia di quelli.

 (61) A Crecy, presso Abbeville, nel Ponthieu, nel nord della Francia, nel 1346 Edoardo III aveva sconfitto i francesi, dando inizio alla “guerra dei cento anni” tra Francia e Inghilterra.

(62) Edoardo III era di corporatura gigantesca.

(63) Re Edoardo aveva di proposito lasciato al figlio, il giovane Edoardo Principe di Galles, detto “Il Principe Nero” dal colore della sua armatura, il comando delle truppe inglesi alla battaglia di Crecy, standosene egli appartato a vederne lo svolgimento su di un’altura. Una cronaca del tempo racconta che ad un certo punto, trovandosi il giovane a mal partito, per l’intervento massiccio della gendarmeria francese agli ordini del conte d’Alençon, un ufficiale corse dal re ad avvertirlo del pericolo in cui il figlio era venuto a trovarsi, domandadogli di inviargli soccorsi. “È morto mio figlio o ferito?” - gli chiese freddamente il re - “No, signore, ma ha da fare fortemente, ed avrebbe grand’uopo della vostra assistenza”, “Tornate - ripigliò Edoardo - e non mi mandate a cercare finché mio figlio è vivo. Gli riservo l’onore della giornata; bisogna bene che il garzoncello guadagni i suoi speroni”… “Dopo la vittoria, Edoardo corse ad abbracciare il principe di Galles, gridando: “Sei mio figlio; hai ben adempiuto al tuo dovere: caro figlio, or ti mostrasti degno della corona” (L. Galibert & C. Pellé, Storia d’Inghilterra, vol. I, pag. 367-368, Antonelli edit., Venezia, 1845).

Dieci anni più tardi, il Principe Nero sconfiggerà a Poitiers e farà prigioniero lo stesso re di Francia.

(64) L’immagine è tratta dalla clessidra, che segna il trascorrere del tempo con la caduta di granelli di sabbia da un emisfero di vetro superiore ad un altro inferiore.

(65) “… and his brave fleet / With sillen streamers the young Phoebus fanning”: Febo è uno degli attributi del sole; “giovane”, perché appena apparso all’orizzonte, e le bandierine di seta delle navi gli fanno ventaglio.

(66) L’esercito inglese portò in Francia, in appoggio ai balestrieri, “sei bombarde, le prime che si fossero ancora vedute… ”, le quali “vomitavano nelle file serrate della cavalleria francese una grandine di palle che atterrivano ed uccidevano uomini e cavalli.” (L. Galibert & C. Pellé, Storia d’Inghilterra, cit., I, pag. 367).

(67) È stato osservato dalla critica che questa seconda reminiscenza di Alessandro in questo dramma (la prima è quella messa in bocca all’Arcivescovo di Canterbury nella prima scena del I atto, quando dice che Enrico “scioglierà il nodo gordiano” d’ogni più difficile questione sottopostagli) è un velato segno dell’intento di Shakespeare di stabilire un parallelismo tra Enrico V e il grande macedone.

(68) Il paggio di Falstaff ha evidentemente imparato dal suo padrone quella tal filosofia della vita che distingueva il povero Sir John. È come se Shakespeare voglia, d’un tratto, far rivivere un guizzo del suo spirito.

(69) “Preccia… afanti…”: Fluellen è scozzese, e il suo parlare ha pronuncia e modi dialettali che sarebbe impossibile rendere in italiano; sarà lo stesso più sotto per gli altri ufficiali Jamy e MacMorris. Il Baldini, per rendere in qualche modo lo stacco dialettale, li fa tedescheggiare, mettendo la “p” al posto della “b”, la “f” al posto della “v”, la “c” al posto della “g”. Ho seguito qua e là la stessa traccia; anche se l’espediente, se può aver qualche efficacia nella dizione recitante, alla lettura è inefficace e perfino fastidioso. Ma il dialetto gallese sulla scena doveva divertire lo spettatore inglese, se Shakespeare ne fa un uso cospicuo anche nella seconda parte dell’“Enrico IV” nel personaggio di Lady Mortimer.

(70) “I know by that piece of service the men would carry coals”: letteralm. “Riconosco da questo servizio che gli uomini carreggerebbero carbone”; espressione che in italiano non significa niente. “To carry coal”, “carreggiar carbone” è espressione idiomatica che sta a significare “ingoiare ogni offesa senza reagire” o anche “essere disponibili ad ogni più bassa attività”. (V. anche “Romeo e Giulietta “, I, 1,1).

(71) Si pronunci, per la metrica, “Glo - ster”.

(72) “… and the fleshed sodlier”: “il soldato accarnato” (Lodovici). Metafora dalla caccia. Il verbo “to flesh”, termine del linguaggio venatorio, non ha equivalente in italiano (“accarnato” è suggestivo conio personale del toscano Lodovici): esso esprime l’azione di dare in pasto ai segugi della muta la carne (“flesh”) della preda catturata, per incitarli alla battuta. Il sapore del sangue rende l’animale più avido di predare.

(73) “… as send precepts to the Leviathan / To come ashore”: “Leviathan” è il nome dato nella Bibbia (“Giobbe”, XL) ad un immaginario mostro marino divoratore di uomini. Figurativamente si chiamò così ogni vascello di grandi dimensioni, costretto perciò a rimanere all’ancora al largo, perché impossibilitato ad accostarsi alla riva. Il termine è poi passato ad indicare qualcosa di “colossale”, “mostruoso”: Tomaso Hobbes chiama così lo Stato.

(74) Sull’esempio della maggior parte dei traduttori, sia italiani che stranieri, si è ritenuto di riprodurre il testo francese dell’intera scena, nell’impossibilità di renderlo, con un minimo di fedeltà, nella nostra lingua, con le amenità, i giochi di parole, le lepidezze e i doppi sensi di cui è punteggiato, alcuni di smaccata lubricità, che al tempo di Shakespeare potevano divertire, ma per noi sono di dubbio gusto, quando non goffamente melensi.

Si è ritenuto, comunque, per la comodità del lettore che non conosce il francese, di dare, a lato, la traduzione letterale, battuta per battuta, non senza avvertire che il francese di Shakespeare - che egli mette in bocca a Caterina - è chiaramente rozzo e spesso sgrammaticato, a volte morfologicamente scorretto; come doveva essere, verosimilmente, quello dello stesso poeta, come ne è altro esempio il francese di un altro suo personaggio, il dottor Cajus delle “Gaie mogli di Windsor”.

(75) Alice ha pronunciato le due parole “foute” e “cant”: “foute” in francese è voce del verbo “foutre”, termine del gergo lascivo, come l’italiano “fottere” (l’atto del coito); “cant”, termine derivato dall’inglese, è l’affettazione ipocrita ed esagerata di pudore da chi è di natura impudico.

(76) “O Dio vivente!”: da questa battuta in poi le frasi in francese sono tradotte in nota, anziché nel testo.

(77) “Morte della mia vita!”

(78) “Dio delle battaglie!”

(79) “… their barley broth”: cioè la birra, per contrapposto al vino.

(80) “… and teach lavoltas high and swift curantos”: la lavolta e la corrente erano due balli di ritmo vivace, assai in voga nella corti del sec. XVI.

(81) Si pronunci, per la metrica “Mont-juà”: è la francesizzazione dell’inglese Montjoy.

(82) “… if I find a hole in his coat”, frase idiomatica per “… if I find a groung for blame”, “… se trovo un motivo per biasimare”.

(83) “Now we speak upon our cue”: è espressione del linguaggio teatrale, “cue” è l’entrata a parlare dell’attore dopo l’ultima parola dell’altro interlocutore. (Cfr. anche in “Re Lear” I, 3, 128, “My cue is…”).

(84) Le palle da tennis s’imbottivano di crine di cavallo, per farle rimbalzare.

(85) “Il cavallo volante… il Pegaso dalle narici di fuoco”: ma la seconda frase è scorretta, dovrebbe essere “aux narines de feu”. Altri testi (Hugo) hanno più correttamente: “… qui a les narines de feu”; ma del cattivo francese di Shakespeare s’è già detto.

Pegaso è il cavallo alato della mitologia greca, al quale - dice Ovidio - “fu terra il cielo e furon piedi l’ali”. Sulla sua groppa Perseo volò in Mauritania e poi in Etiopia per liberare Andromeda dal mostro marino al quale la fanciulla era stata esposta in sacrificio, e sposarla.

(86) “… is more musical than the pipe of Hermes”: in verità, lo strumento di Ermes (il Mercurio dei Romani) non era la piva, o zampogna, o zufolo (“pipe”), ma la lira; nella iconografia del dio non c’è traccia di quello strumento. Lo zufolo di canne è lo strumento dei satiri.

(87) “And the heat of the ginger”: lo zenzero è una spezia dal gusto assai spiritoso.

(88) “… the man hath no wit that cannot…”, letteralm.: “… non ha spirito l’uomo che…”. “Scarso d’anima” è tolto di peso dalla traduzione del Lodovici (cit.).

(89) Perifrasi per indicare lo spazio dall’alba al tramonto. L’allodola è detta anche “l’uccello dell’alba” (cfr. “Romeo e Giulietta”, III, 5, 2); le pecore sono ricondotte all’ovile al calar del sole.

(90) “… like a kern of Ireland”: “kern” era chiamato il soldato di fanteria dell’esercito irlandese (cfr. in “Macbeth”, I, 2, 13: “… of kernes and gallowglasses”); questi soldati non erano pratici del cavalcare, perché sempre appiedati, e provvisti di armamento e vestito leggeri, mentre i cavalieri vestivano ampie braghe, adatte a meglio permettere i movimenti in sella. È chiaro il sottinteso lubrico della metafora.

(91) “… my mistress wears his own hair”. Letteralm.: “… ha addosso il suo proprio capello” (“his”, maschile, perché riferito idealmente a “cavallo”). Allusione al vezzo delle dame inglesi dell’epoca di darsi un “crine” posticcio, con l’uso della parrucca.

(92) Il porco è un animale dalla cotenna senza peli.

(93) “Il cane è tornato al suo (solito) vomitare, e la scrofa a lavarsi nel suo pantano”.

(94) Nel testo c’è un gioco di parole tra “faces”, “facce”, (“And my way shall be paved with Egnlish faces”, dice qui il Delfino), e il successivo “faced out” della risposta del Connestabile (“… for fear you should be faced out of my way”) dove “faced out” sta per “cancellato” (il cammino già fatto, e quindi costretto a retrocedere).

(95) “…’tis a hooded valour”: “è un valore incappucciato”; l’espressione è tolta dal gergo della falconeria: l’animale veniva portato dal falconiere sul suolo della battuta con la testa coperta da un cappuccio, tolto il quale, l’animale cominciava a batter l’ali e scomparire nell’aria in cerca della preda.

(96) Sarà lui, invece, il ventiquattrenne duca Carlo d’Orléans, nipote di Carlo VI, ad esser fatto prigioniero dagli Inglesi nella battaglia di Azincourt. Sarà tenuto in cattività a Windsor per 25 anni, durante i quali scriverà finissime liriche francesi. Tutta la scena, del resto, dall’annuncio del messo che gli Inglesi sono da presso, rivela, nello stesso linguaggio volutamente gradasso dei personaggi, il presentimento della sconfitta.

(97) “… do the low-priced English play at dice”: “… si giocano ai dadi i sottovalutati Inglesi”. “To play at dice” è espressione idiomatica che, in senso transitivo, vale “to throw away by dicing”, “gettar via, far fuori giocando ai dadi”.

(98) In mancanza di qualsiasi didascalia, è da intendere qui che Enrico si metta sulle spalle il mantello di Erpingham. Ma il gesto di Enrico non avrà poi nessun seguito nello svolgimento della scena, e rimane incomprensibile.

(99) I fanti erano armati di picche. Ma qui Pistola, al suo solito, gigioneggia.

(100) Il giorno di San Davide (1° marzo) i Gallesi festeggiavano la ricorrenza della loro vittoria sui Sassoni nel 540 d.C., portando sul cappello un porro, come segno del servizio militare prestato. Sul valore simbolico di questo porro dirà più sotto lo stesso Fluellen (scena 8a, vv. 101 e segg.).

(101) Il soldato Bates è sicuro che il re sarà fatto prigioniero.

(102) “… if you could tell how to reckon”: “… se sapeste dire come contare”, cioè come calcolare la sproporzione numerica tra noi e loro.

(103) “… the French may lay twenty French crowns to one… for they bear them on their shoulders”: “quibble” sul doppio significato di “crown”, che vale “corona” (moneta) e “testa”, “zucca”; analogo bisticcio tra il doppio senso di “corona di re” e “guscio d’uovo” in “Re Lear”, I, 4, 154: “Give me an egg and I’ll give thee two crowns”; ed anche in “Misura per misura”, I, 2, 50: “A French crown more…”

(104) “… but there is no English treason to cut French crowns”: altro “quibble” su “cut”, “tosare”, ma anche “tagliare”, “intagliare” e quindi, riferito a monete, “coniare”.

(105) Il sole.

(106) “… sleeps in Elysium”: l’Eliso, la mitica regione dell’Ade dove le anime di coloro che son vissuti in rettitudine sono destinate a soggiornare in una serena primavera.

(107) Iperione è il nome del Titano padre del sole e della luna; ma è divenuto poi uno degli appellativi di Elios, il sole, come qui.

(108) Il padre, Enrico IV, aveva usurpato il trono al cugino Riccardo II, imprigionato e fatto uccidere da lui. La scena dell’uccisione di Riccardo II nel castello di Pomfret è rappresentata da Shakespeare nel dramma storico “Riccardo II”.

(109) “In sella!” (letteralm.: “ Montate a cavallo!”).

(110) “Le acque e la terra!”

(111) “Niente altro?… L’aria e il fuoco!”: ma anche Orléans/ Shakespeare ha un francese scorretto: “puis” per dire “più”, “altro”, non lo dice nessun Francese.

(112) Che cosa abbia voluto far dire qui Shakespeare al Delfino di Francia e a suo cugino il Duca di Orléans non è chiaro. Il Delfino ha nominato “le acque e la terra”, Orléans ha aggiunto “l’aria e il fuoco”: sono i quattro elementi della materia secondo la cosmogonia antica. Forse il Delfino vuol dire che il cielo le comprende figurativamente tutte e quattro?

(113) “There is not work enough for all our hands”, letteralm.: “Non c’è lavoro abbastanza per tutte le nostre mani”.

(114) Il testo ha “executors” che vedo diversamente inteso: “esecutori testamentari” (Baldini), “eredi” (Lodovici), “esecutori” (Pisanti); ma qui il vocabolo ha il senso specifico di “executioners”, “carnefici”, “giustizieri”, come più sopra, I, 2, 203: “Delivering o’er to executors pale”.

(115) Si legga, per la metrica, “Wèst-mor-land”: il verso è un settenario; la parola è trisdrucciola.

(116) “… for the best hope I have”, letteralm.: “… nemmeno in cambio di ciò che più spero”. Ho rivoltato la frase, intendendo “ciò che più spero” la salvezza eterna (la “pace di Dio” della precedente invocazione).

(117) È il 25 ottobre, festa dei santi Crispino e Crispiniano, i due fratelli che, fuggiti da Roma nella Gallia nel 287 d.C., vi subirono il martirio.

(118) È la favola della pelle dell’orso di Esopo: all’orso Shakespeare ha sostituito il leone, “per preservare - nota J. H. Walter - il simbolo della regalità”: Enrico parla da re.

(119) “… our hearts are in the trim”: “to be in the trim” è espressione del linguaggio marinaresco, che vale “essere nella condizione migliore per affrontare il mare”.

(120) Senso: “Se perdiamo, saremo tutti morti, e avremo indosso gli abiti leggeri della morte per volare nell’aldilà; se vinciamo, ci provvederemo di abiti nuovi, togliendoli ai corpi dei soldati francesi che avremo ucciso e lasciato sul campo”. Ma il passo è incerto e variamente inteso.

(121) Francese maccheronico; letteralm.: “Penso che siate il gentiluomo di buona qualità.” Sulla parola “qualité” del soldato francese Pistola, facendogli il verso, ricama una frase sibillina: “Quality calmie custure me!”, assolutamente senza senso.

(122) “ O Signore Iddio!”

(123) “Oh, prendete misericordia! Abbiate pietà di me!”

(124) Pistola crede che “muà”, pronuncia francese di “moi”, “me”, voglia dire “moneta”, e che il soldato francese gliene offra una sola per il suo riscatto.

(125) “È impossibile sfuggire alla forza del tuo braccio?”

(126) Il testo è tutt’altro. Pistola ha preso il “bras” del francese per “brass”, “ottone”, e nella sua goffa pretesa di capire il francese, ha inteso che quello gli voglia offrire per riscatto monete di ottone (o di rame), comunque di infimo valore. Infatti gli chiede: “Offer’st me brass?”. Come abbia fatto però a capire “brass” dal “brà” del soldato francese - perché questa è la pronuncia francese di “bras” - è un altro segno della ignoranza del francese di Shakespeare: l’attore era verosimilmente obbligato a pronunciare, erroneamente, “brass”. Per dare un senso in italiano al melenso bisticcio questo traduttore ha giocato sulla parola “force” del francese che suona come “forse”. Non c’era di meglio, per dare un minimo di scorrevolezza al dialogo.

(127) “Sayst thou me so? Is that a ton of moys”: ancora una volta Pistola prende il “moi” del francese per una moneta che si chiama “muà”, e il “pardonnez” per “per ton”.

(128) “Che dice, signore?”

(129) “M’incarica di dirvi che diciate le vostre orazioni perché questo soldato è ben disposto a tagliarvi subito la gola”. Il francese del paggio non è migliore di quello del soldato, sgrammaticato anch’esso, come doveva essere quello di Shakespeare; ma il pubblico inglese era in grado di capirlo, come afferma con molta sicurezza S. Wells nella “General Introduction” alla sua edizione dell’Oxford Shakespeare (cit.).

(130) “Oh, vi supplico, per l’amore di Dio, perdonatemi! Sono un gentiluomo di buona casata: salvatemi la vita e vi darò duecento scudi.”

(131) “Signorino, che dice?”

(132) Sebbene sia contro il suo giuramento di perdonare alcun prigioniero, nondimeno per gli scudi che gli avete promesso, è d’accordo nel darvi la libertà e la franchigia”.

(133) “In ginocchio, vi rendo mille ringraziamenti; e mi reputo felice d’esser caduto nelle mani d’un cavaliere, io penso, il più coraggioso, il più valoroso e il più distinto signore d’Inghilterra”.

(134) “Seguite il grande capitano”.

(135) Bardolfo e Nym, come Falstaff, spariscono dalla scena per il racconto di una terza persona. Questi due personaggi dell’antica compagnia di scapestrati cui era associato il giovane principe di Galles, sono anche loro, come Falstaff, vittime della metamorfosi di Enrico, dal momento che è divenuto re. Falstaff è morto di crepacuore per vedersi da lui rinnegato e messo da parte; Bardolfo e Nym pagano, col capestro, il fio delle loro furfanterie, in molte delle quali hanno avuto consorte lo stesso Enrico. Si sente che dietro la loro fine c’è l’ombra di questi, ma Enrico è ora il grande re vincitore di Azincourt, e un intervento di lui, di persona, per Shakespeare, non sarebbe stato regale. Questa battuta del Paggio, però, non sembra sia di mano di Shakespeare, molti testi la omettono.

(136) “Oh, diavolo!”

(137) “Oh, Signore, tutto è perduto! Ah, la giornata è perduta!”

(138) “Morte della mia vita!”

(139) “O malvagia fortuna!”

(140) “All my mother came into my eyes”: “tutto quello che avevo di mia madre”, “tutto quello che di femminile avevo ereditato da mia madre”: le donne sono proverbialmente più facili alle lacrime.

(141) Monmouth è nel Galles; Fluellen è gallese.

(142) Fluellen in realtà dice “Alexander the Pig”, per dire “Big”; ma “Big” pronunciato alla gallese è “Pig”, e “Pig” è “porco”: risata del pubblico.

(143) “… and nobles bearing banners”: “… e nobili che hanno diritto ad una propria insegna”.

(144) Sono le prime parole di due inni sacri: “Non nobis, Domine, non nobis sed nomini tuo da gloriam”, “Non a noi, Signore, non a noi ma al tuo nome dà gloria”, sono i primi versetti del cantico “In exitu Israel de Aegipto”; “Te Deum, laudamus, Te, Domine, confitemur”, “Te, Signore, lodiamo, Te, Signore, riconosciamo” è il salmo di ringraziamento al Dio degli eserciti per le vittorie riportate in guerra.

(145) Allusione alla spedizione del 1599 contro i ribelli irlandesi, guidati da un certo Ugo, figlio del barone di Ducannon, che Elisabetta aveva fatto conte di Tyrone. Il “generale” mandato dalla regina (qui detta stranamente “imperatrice”) Elisabetta a domarla, è il conte di Essex, Robert Devreux, che, peraltro, fallirà l’impresa. È questo l’unico accenno di Shakespeare, in tutto il suo teatro, ad una vicenda politica del suo tempo; che ha permesso, tra l’altro, alla critica, di datare la stesura del dramma. Shakespeare ha assistito verosimilmente alla clamorosa partenza da Londra per l’Irlanda del giovane Essex, favorito della quarantunenne regina Elisabetta, nel marzo 1599: “Circondato dal fiore della nobiltà inglese, una moltitudine numerosa s’accalcava sui suoi passi gridando: “Dio benedica vossignoria! Dio la conservi!”. (L. Galibert & C. Pellé, Storia d’Inghilterra, cit., II, 197).

(146) L’imperatore è Sigismondo d’Austria, che venne appunto a Londra nel 1416 come intermediario della Francia per trattare la pace.

(147) “Ha! Art thou bedlam?”: “Bedlam” era chiamato colloquialmente l’ospedale di Santa Maria di Betlemme a Londra, adibito a ricovero dei malati di mente. Il termine finì per significare esso stesso “pazzo”, “mentecatto” (cfr. in “Re Lear” il personaggio di Tom of Bedlam in cui si traveste Edgardo).

(148) “… base Troian”: “Troian” è termine colloquiale per “persona vile”, “tipo poco raccomandabile”.

(149) Pistola gigioneggia: vuol dire “hai desiderio di farti sbudellare da me?”. Le Parche, nella mitologia greca, erano le tre divinità che tessevano la tela della vita degli uomini; a un certo punto tagliavano il filo, ed era la morte.

(150) Probabilmente Pistola evoca, sbagliando, il re Cadwallon, l’ultimo re pastore dell’antica Britannia vinto in guerra da Osvaldo re di Northumbria nel 633 d. C.

(151) Gli eventi rappresentati in questa scena ebbero luogo, per la verità storica, cinque anni dopo la battaglia di Azincourt, nel 1420.

(152) Il basilisco è il mostro della mitologia greca che uccideva chiunque guardasse.

(153) Testo: “I cannot speak your England”: “Io non so parlare il vostro Inghilterra”.

(154) “An angel is like you, Kate, and you are like an angel”: gioco di parole intraducibile. Alla domanda di Enrico: “Do you like me, Kate?”, “Vi piaccio, Kate?”, Caterina non capisce “like me”, ma Enrico glielo spiega come se “like” non fosse il verbo “piacersi di qualcosa” ma la preposizione “come”.

(155) “Che dice, che assomiglio a un angelo?”

(156) “Sì, certo, vostra grazia, così dice”.

(157) “Buon Dio! Le lingue degli uomini son piene d’inganni!”

(158) “The princess is the better Englishwoman”: passo diversamente inteso. Letteralmente è: “La principessa è la migliore donna inglese”; ma è frase che non si lega con quel che viene dopo. C’è chi legge (Lodovici): “Allora la principessa è la più autentica inglese” come se fosse assiomatico che tutte le donne inglesi, in misura maggiore o minore, sono convinte che gli uomini “hanno l’inganno sulla lingua”. Altri intende: “La principessa (tra le due) è quella che parla meglio l’inglese”; Alice l’ha parlato male, ma non peggio della principessa. Altri legge ancora come se Enrico volesse dire ad Alice, che la principessa è migliore di lei, Alice, in senso assoluto: il che non è regale per la povera Alice. Questo traduttore intende, “the better Engliswoman” come primo termine di paragone di un sottinteso “as if she were not” che si lega a quello che Enrico dice dopo: e cioè che gli sta meglio che Caterina sia inglese e non s’aspetti da lui smancerie amorose, delle quali non è capace.

(159) “… I wear out my suit”: “quibble” sul termine “suit” che vale “corteggiamento” e “vestito”: “mi toglierei di dosso il mio abito di corteggiatore”.

(160) “Con licenza di vostro onore”.

(161) “At leap-frog”: “leap-frog” è il giuoco dei ragazzi in cui uno s’appoggia colle mani sulla schiena di un altro che sta curvato, e lo salta a gambe larghe.

(162) L’armatura era così pesante che il cavaliere che la indossava, per montare in sella, aveva bisogno dell’aiuto del palafreniere; e chi ci riusciva senza questo aiuto era bravo.

(163) “”… let thine eye be thy cook”: cioè: “fa che il tuo occhio, simile ad un buon cuoco che aggiunga quel che manca ad una brutta pietanza per renderla più digeribile, mi presti lui quei sapori e quelle attrattive che la natura non mi ha dato.”

(164) “What! A speaker is but a prater; a rhyme is but a ballad.”: letteralm.: “Che! Un (buon) parlatore non è che un chiacchierone; una rima non è che una ballata”. Le ballate erano molto popolari, ma gli intellettuali le sdegnavano, come roba da cantastorie.

(165) “Il nemico della Francia?”

(166) “Io, quando per il possesso della Francia, e voi avete il possesso di me…”

(167) San Dionigi è il patrono della Francia.

(168) “… dunque vostra è la Francia e voi siete mia”.

(169) “Con licenza di vostro onore, il vostro francese è migliore del mio inglese”.

(170) Il fiordaliso era lo stemma stampato sulle armature degli antichi re di Francia.

(171) “… la più bella Caterina del mondo, la mia cara e divina dea?”: ma tutto terribilmente maccheronico.

(172) Caterina fa qui un maledetto sgangherato miscuglio di francese ed inglese: “fausse” in luogo del corretto maschile “faux” sta per “falso” nel senso di “cattivo”; “la plus sage demoiselle” è “la più saggia damigella”; “dat is in France”, è scorretto inglese per “that is in France”.

(173) “… if he be not fellow with the best king, thou shall find the best king of good fellows”: passo di senso ambiguo. Forse una allusione di Enrico alla sua scapigliata e malfamata giovinezza; in tal caso il “best king” dovrebbe intendersi riferito a suo padre Enrico IV, e “good fellows” a Falstaff e compagni. Ma perché in questa sede e per farsene un merito con la donna che vuol conquistare? Forse Shakespeare gli ha voluto far dire solamente: “Se non sono il migliore dei re Plantageneti, sarò per te il migliore compagno”.

(174) “Di mio padre il re”.

(175) “Lasciatemi, monsignore, lasciatemi, lasciatemi, per carità! Non voglio che abbassiate la vostra grandezza fino a baciare la mano d’una indegna serva di vostra signoria! Scusatemi, ve ne supplico, mio possente signore!”

(176) “Non è costume della Francia che le dame e le damigelle siano baciate prima del matrimonio”.

(177) “Meglio di me”.

(178) “Precisamente”.

(179) Tracciare un cerchio intorno a una persona era un comune rituale di magia; ma qui, come nel seguito, è evidente l’allusione sessuale.

(180) Il fanciullo nudo e bendato è la tipica iconografia di Cupido, il dio dell’amore.

(181) Cioè al calar dell’estate: San Bartolomeo è il 24 agosto.

(182) “Il nostro carissimo figlio Enrico, re d’Inghilterra, erede di Francia”: nella formula latina “carissimo” è sostituito da “illustrissimo”.

(183) Allusione alle tre parti dell’“Enrico VI”, precedentemente composte da Skakespeare e rappresentate dalla sua compagnia di attori.