Euridice

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EURIDICE

Commedia in quattro atti

Di JEAN ANOUILH

PERSONAGGI

ORFEO

EURIDICE

IL PADRE

LA MADRE

IL SIGNOR ENRICO

DULAC

VINCENZO

IL SEGRETARIO

IL CAMERIERE D'ALBERGO

LO CHAUFFEUR DELL'AUTOBUS

IL SEGRE­TARIO DEL COMMISSARIATO

IL CAMERIERE DEL BUFFET

MATTIA

LA RAGAZZA

LA BELLA CASSIERA

Commedia formattata da

ATTO PRIMO

Il buffet di una  stazione di provincia

Ammobiliamento pomposo, usato e sporco. Tavole di marmo, specchi, sedili di velluto rosso, consunti. Dietro la cassa troppo alta, come un Budda sull'altare, la cassiera, popputa e acconciata visto­samente. Vecchi camerieri calvi e dignitosi. Palle di metallo lucide ove dormono strofinacci puzzolenti.

(Prima che il sipario si alzi, si ode un violino. E' Orfeo che suona dolcemente in un angolo, vi­cino al padre assorto nei minuziosi conti della giornata davanti a due bicchieri vuoti. In fondo un solo cliente, un giovane, il cappello sugli occhi, l'impermeabile, l'occhio assente. Musica per un momento, poi U padre smette di far conti. Guarda Orfeo).

Il Padre                            - Ragazzo.

Orfeo                               - (senza smettere di suonare) Papà.

Il Padre                            - Non penserai di far fare la questua al tuo vecchio genitore in un buffet di stazione?

Orfeo                               - Suono per me.

Il Padre                            - (continuando) Un buffet dove non c'è che un solo cliente, il quale finge di non ascol­tare. Il trucco è noto. Fingono di non ascoltare e poi fingono di non vedere il piattino teso. Ma io fingo di non vedere che fingono. (Una pausa durante la quale Orfeo continua a suonare) Ti diverte tanto suonare il violino? Mi domando come puoi amare la musica, essendo musicista. Io quan­do ho ben bene strimpellato per gli imbecilli che giuocano a carte nelle birrerie, non ho che un desiderio...

 Orfeo                              - (senza smettere dì suonare) ...Andare a giuocare a carte in un'altra birreria...

Il Padre                            - (meravigliato) Sì, chi te l'ha detto?

Orfeo                               - Sono vent'anni che me lo immagino.

Il Padre                            - Vent'anni! Esageri. Vent'anni fa avevo ancora talento... Come passa il tempo... Vent'anni fa, ai bei giorni dei concerti sinfonici, chi l'avrebbe detto a tuo padre che sarebbe finito a grattare l'arpa davanti ai caffè, che si sarebbe ri­dotto ad andare in giro col piattino?

Orfeo                               - Mammà, ogni qual volta ti facevi cac­ciare da un impiego...

Il Padre                            - Tua madre non mi ha mai voluto bene. Anche tu, del resto. Non cerchi che d'umi­liarmi. Ma non credere che sarò sempre sotto­messo. Sai che mi hanno offerto un posto di ar­pista al casino di Palavas-les-Flots?

Orfeo                               - Sì, papà.

Il Padre                            - E che ho rifiutato perché il posto di violino non era libero?

Orfeo                               - Sì, papà. O piuttosto no, papà. Hai rifiutato perché sai di suonare malissimo l'arpa e che ti avrebbero mandato via il giorno dopo.

Il Padre                            - (voltandosi addolorato) Non ti ri­spondo nemmeno. (Orfeo ha ripreso il suo violino. Musica) Continui?

Orfeo                               - Sì. Ti secca?

Il Padre                            - Mi confonde. Otto volte sette?

Orfeo                               - Cinquantasei.

Il Padre                            - Sei sicuro?

Orfeo                               - Sì.

Il Padre                            - Strano: speravo che facesse sessantatrè. Otto volte nove fa certamente settanta­due... Sai, che ci restano pochi soldi?

Orfeo                               - Sì.

Il Padre                            - Non trovi altro da dire?

Orfeo                               - Sì, papà.

Il Padre                            - Pensi ai miei capelli bianchi?

Orfeo                               - No, papà.

Il Padre                            - Bene. Ci sono abituato. (Ritorna alla sua addizione dicendo) Otto volte sette...

Orfeo                               - Cinquantasei.

Il Padre                            - (amaro) Cinquantasei... Non c'era bisogno che tu me lo ripetessi. (Chiude il taccuino e se lo mette in tasca) Non s'è mangiato male stasera, per dodici franchi e settantacinque.

Orfeo                               - No, papà.

Il Padre                            - Non dovevi prendere i legumi. Sapendo scegliere, i legumi te li danno come con­torno della pietanza e ti permettono di cambiare il piatto di legumi con una seconda frutta. Nel prezzo fisso è sempre vantaggioso prendere la frutta e il dolce. La cassata napoletana era una squisitezza. In un certo senso s'è mangiato meglio stasera per dodici franchi e settantacinque che ieri a Montpellier per tredici franchi, alla carta. Mi dirai che c'erano veri tovaglioli invece che tova­glioli di carta. Un locale d'apparenza, ma tutto sommato non migliore. E tu hai notato che ci avevano conteggiato il formaggio tre franchi. Se almeno ci avessero portato il vassoio, come nei grandi ristoranti. Una volta fui invitato da Poecardi, sai sul Boulevard des Italiens.

Orfeo                               - Me l'hai raccontato una diecina di volte, papà.

Il Padre                            - (addolorato) Bene, bene, non in­sisto. (Dà iena guardataccm ad Orfeo che riprende a suonare il violino. Dopo un momento alza la testa) Di' un po' ragazzo. E' triste quello che suoni. (Orfeo smette di suonare).

Orfeo                               - Anche quello che penso.

Il Padre                            - A che pensi?

Orfeo                               - A te.

Il Padre                            - A me? Andiamo, cos'altro vuoi dirmi?

Orfeo                               - A te e a me.

Il Padre                            - La situazione, certo, non è brillante, ma si fa quel che si può, ragazzo.

Orfeo                               - Penso che da quando mammà è morta, ti seguo nei caffè col mio violino, la sera ti guardo, alle prese con i tuoi conti, ti ascolto parlare del « prezzo fisso » e poi vado a letto e l'indomani mi alzo.

Il Padre                            - Quando avrai la mia età, saprai cos'è la vita.

Orfeo                               - Penso anche che tu da solo, con l'arpa, non potresti certo vivere.

Il Padre                            - (voltandosi all'improvviso) Vuoi ab­bandonarmi?

Orfeo                               - No. Forse non potrò mai lasciarti. Ho più talento di te, sono giovane e ho la certezza che la vita mi riserba altre cose, ma non potrei vivere se sapessi che stai morendo di fame.

Il Padre                            - (battendogli una mano sulla spalla) E' bene, ragazzo, pensare al proprio padre.

Orfeo                               - E' anche gravoso. Qualche volta penso che cosa potrebbe separarci.

Il Padre                            - Via, via, ci intendiamo perfetta­mente...

Orfeo                               - Un buonissimo posto dove guadagnassi tanto da farti una pensione. Ma è un sogno. Un solo musicante non guadagna mai abbastanza per pagare due camere e quattro pasti al giorno.

Il Padre                            - Io, sai, mi contento di poco. Un pranzo a dodici franchi e settantacinque, come oggi, il caffè, l'ammazza-caffè, un sigaro da tre soldi e sono il più felice degli uomini. (Dopo una pausa, aggiunge) Potrei alla peggio fare a meno dell'ammazza-caffè.

Orfeo                               - (continua a pensare) C'è anche il passaggio a livello dove un treno potrebbe schiacciare uno dei due.

Il Padre                            - Ehi, ehi, chi, ragazzo?

Orfeo                               - Mi è indifferente.

Il Padre                            - Sei buffo! A me no. Non ho voglia di morire, io. Stasera hai dei pensieri tetri, mio caro. E pure quel coniglio era buonissimo. Mi fai ridere, perbacco. Alla tua età, la vita mi sembrava magnifica. (Adocchiando la cassièra) E l'amore? Hai mai pensato all'amore?

Orfeo                               - L'amore... Cosa credi sia l'amore? Le ragazze che posso incontrare con te?

Il Padre                            - Caro mio, chi può sapere dove s'in­contrerà l'amore? (Si avvicina) Dimmi, sembro troppo spennacchiato? E' graziosa la -cassiera. Un po' cicciona. Più per me che per te. Che età le dai, a quella bambina, quaranta, quarantacinque anni?

Orfeo                               - (smette ad un tratto di suonare) Esco un po' sul marciapiede... Il treno arriva fra un'ora. (Quando è uscito, il padre si alza, va a guardare intorno alla cassiera che dà una guardataccia a quel cliente male in arnese, si alza e lascia la cassa. Il padre a un tratto si sente brutto, povero e calvo, si passa la mano sulla calvizie e lentamente ri­torna a prendere gli strumenti, fa per uscire).

Euridice                           - (entra improvvisamente) Scusi, si­gnore. Qualcuno qui suonava il violino?

Il Padre                            - Sì, signorina. Mio figlio.

Euridice                           - Era bello quello che suonava. (Il padre saluta, lusingato, ed esce con i suoi stru­menti. Entra la madre, boa, cappello piumato. Non ha smesso di ringiovanirsi dal 1920).

La Madre                         - Euridice, sei qui?... Fa un caldo... Detesto aspettare nelle stazioni. Questo giro è male organizzato, come sempre. Il segretario do­vrebbe fare in modo che almeno le prime parti non fossero costrette ad aspettare eternamente le coincidenze. Se ti innervosisci tutta la giornata in una sala d'aspetto, cosa potrai dare di te stessa la sera?

Euridice                           - C'è un solo treno, mammà, per le grandi e le piccole parti e ha un'ora di ritardo, per il temporale. Il segretario non può farci niente.

La Madre                         - Tu stai sempre dalla parte degli imbecilli.

Il Cameriere                     - (che si è avvicinato) Cosa posso servire alle signore?

La Madre                         - (meravigliata) Prendiamo qualcosa?

Euridice                           - Già che ti sei seduta trionfalmente in questo caffè, direi di sì.

La Madre                         - Avete un buon pippermint? Allora un pippermint. In Argentina, in Brasile, quando il caldo era soffocante, ricorrevo sempre al pipper­mint immediatamente prima di entrare in scena. Me lo consigliò Sarah. Un pippermint.

Il Cameriere                     - E per la signorina?

Euridice                           - Un caffè.

La Madre                         - Stai dritta. Perché non sei con Mat­tia? L'ho visto vagare come un'anima in pena.

Euridice                           - Non occuparti di lui.

La Madre                         - Hai torto di esasperarlo. Ti adora. Non dovevi diventare la sua amante, te lo dissi a suo tempo, ma ormai quello che è fatto è fatto. Del resto noi cominciamo e finiamo tutte con attori, noi. Alla tua età, ero più bella di te, avrei potuto essere la mantenuta di chiunque e mi perdevo die­tro a tuo padre... Vedi che bel risultato... Stai dritta.

Il Cameriere                     - (ha portato le consumazioni) Un pò di ghiaccio, signora?

La Madre                         - Mai giovanotto, per la voce. Que­sto Fippermint è pestilenziale. Odio la provincia, odio le « tournées... ». Ma oggi non ci si incapriccia più che delle imbecillette senza seno, incapaci di dire tre parole senza impaperarsi... Cosa ti ha fatto quel ragazzo? Non siete saliti sullo stesso scompar­timento a Montelimar? Mia piccola Euridice, una madre è una confidente, soprattutto quando ha la vostra età... voglio dire quando è giovanissima. Al­lora, dimmi, cosa ti ha fatto?...

Euridice                           - Niente mammà.

La Madre                         - Niente mammà. Niente mammà non vuol dire nulla. Una cosa è certa. Ti adora. Forse è per questo che non lo ami. Siamo tutte uguali. E rifarci è impossibile. E' buono il caffè?

Euridice                           - Prendilo tu, non lo voglio.

La Madre                         - Grazie. Mi piace molto zuccherato. Cameriere, un altro pezzetto di zucchero, per la signorina. Non l'ami più?

Euridice                           - Chi?

La Madre                         - Mattia.

Euridice                           - Perdi il tempo, mammà. (Il cameriere parta lo zucchero)

La Madre                         - Grazie. E' pieno di cacature di mosche. Che allegria! Io che ho fatto il giro del mondo nei più grandi alberghi, a questo mi sono ridotta. Pazienza. (Mette lo zucchero nel caffè) Si scioglierà... Del resto, hai ragione. Prima di tutto bisogna seguire il proprio istinto. Io ho sempre se­guito il mio istinto, da quella bestia di teatro che sono. E' vero che tu sei così poco artista. Stai dritta. Ah, ecco Vincenzo. Caro. Mi sembra di cattivo umore. Sii gentile con lui ti prego. Tu sai che è un ragazzo al quale tengo molto.

Vincenzo                         - (entra, capelli d'argento, bello e molle sotto l'apparenza molto energica, il gesto largo, il sorriso amaro, lo sguardo incerto. Baciamano) Mia buona amica. Ti ho cercato dappertutto.

La Madre                         - Ero qui, con Euridice.

Vincenzo                         - Quel segretario è decisamente un uomo impossibile. Sembra che ci sia da aspettare più di un'ora. Ancora una volta dovremo recitare senza cena. E' seccante, mia cara. Si ha un bell'avere la pazienza di un santo, è terribilmente seccante.

Euridice                           - Non è colpa del segretario se ieri sera c'è stato un temporale.

La Madre                         - Vorrei sapere perché prendi sempre le difese di quello stupido.

Vincenzo                         - Un minorato, è un minorato... Non capisco perché Dulac tenga un simile inetto a quel posto. Secondo le ultime notizie, ha perso la valigia delle parrucche. E domani in mattinata si recitano i «Burgravi»... Te l'immagini, senza barba!

Euridice                           - La ritroverà. Certamente è rimasta a Montelimar.

Vincenzo                         - In questo caso la ritroverà, se mai, domani, ma stasera, per « Il disonore di Geno­veffa »?... Dice che non ha importanza, essendo una commedia moderna... Per conto mio ho avvisato Dulac: non recito la parte del dottore senza il pizzo.

Il Cameriere                     - (come si avvicina) Cosa prende il signore?

Vincenzo                         - (altero) Niente, amico. Un bicchiere d'acqua. (Il cameriere si allontana gelido) Il primo e il secondo, passi. Ma tu capisci, cara, che, con tutta la buona volontà del mondo non posso reci­tare la grande scena dei rimproveri del terzo, senza il pizzo. Che figura ci farei? (Euridice se ne va dalla porta)

La Madre                         - Dove vai, cara?

Euridice                           - Esco un poco, mamma. (Esce brusca­mente. Vincenzo l'ha guardata uscire, olimpico. Quando è uscita dice un po' seccato).

Vincenzo                         - Mia buona amica. Sai che non ho l'abitudine di darmi delle arie, ma il contegno di tua figlia verso di me, a dirla schietta, è scandaloso.

La Madre                         - (vezzeggiandolo, tentando di pren­dergli una mano) Gattone mio.

Vincenzo                         - La nostra situazione è forse delicata, lo ammetto. Benché, dopo tutto, tu sei libera, sei divisa da suo padre. Ma si direbbe che ella provi piacere ad avvelenarla.

La Madre                         - E' una sciocchina. Sai che protegge quel ragazzo come protegge, Dio sa perché, tutto quello che su questa terra muove a compassione: i vecchi gatti, i cani randagi, gli ubriachi. Il timore che tu potessi convincere Dulac a mandarlo via, l'ha messa fuori di sé, semplicemente.

Vincenzo                         - Si può essere fuori di sé, ma con tatto.

La Madre                         - E' proprio quello che le manca, sai bene. Ha un buon carattere ma è una selvaggia. Buon giorno, Mattia. (Mattia entra improvvisa­mente. E' mal rasato, scuro in volto, nervoso).

Mattia                              - Dov'è Euridice?

La Madre                         - E' uscita adesso. (Mattia esce) Po­veretto! E' innamorato pazzo. Lei era molto buona con lui fino a questi ultimi giorni. Poi, non so che le ha preso. Si direbbe che cerchi, che aspetti qual­cosa... Che cosa? Non lo so. (Si ode lontano il viso-lino dì Orfeo) Che ha quell'imbecille da grattare continuamente il violino? E' esasperante.

Vincenzo                         - Aspetta il treno.

La Madre                         - Non mi pare un motivo sufficiente. Quello e le mosche... fa un caldo. (Il violino si è avvicinato. Ascoltano) Ti ricordi il grande Casino di Ostenda?

Vincenzo                         - Era l'anno in cui fu lanciato il tango messicano.

La Madre                         - Corti'eri bello!

Vincenzo                         - Avevo ancora le basette a quell'epoca.

La Madre                         - E un modo di fare con le donne... Ti ricordi il primo giorno: « Signora, vorreste con­cedermi questo tango? ».

Vincenzo                         - « Ma, signore, non ballo il tango messicano ».

La Madre                         - «Niente paura, signora, vi conduco io. Non avrete che da abbandonarvi». Come me l'hai detto! ... E poi mi hai preso per la vita e allora tutto mi si è confuso davanti: la faccia del vec­chio imbecille che mi manteneva e che era rimasto furibondo a sedere, la faccia del « barman » che mi faceva la corte un corso, e mi aveva detto che mi avrebbe uccisa - i baffi incerottati degli tzigani, i grandi giaggioli viola e i ranuncoli verdolini che decoravano i muri... Delizioso! era l'epoca delle trine inglesi... avevo un vestito bianco.

Vincenzo                         - Avevo un garofano giallo all'occhiello e uno « spinato » verde e marrone.

La Madre                         - Ballando, mi avevi talmente stretta che il vestito mi si era impresso sulla pelle... Il vec­chio imbecille se ne accorse, mi fece una scenata, gli detti un ceffone e mi ritrovai senza un soldo per la strada. Tu avevi preso una carrozza, se­guimmo la riva del mare fino a sera...

Vincenzo                         - Ah, l'incerto, il commovente primo giorno. Ci si cerca, ci si sente, ci si indovina, non ci si conosce ancora e pure si sa che durerà tutta la vita...

La Madre                         - (a un tratto con un altro tono) Perché ci siamo lasciati quindici giorni dopo?

Vincenzo                         - Non so. Non ricordo più. (Orfeo ha smesso dì suonare. Euridice è di faccia a lui. Si guardano)

Euridice                           - Era lei che suonava poco fa?

Orfeo                               - Si, ero io. ,

Euridice                           - Come suona bene.

Orfeo                               - Le pare?

Euridice                           - Come si chiama quello che suonava?

Orfeo                               - Non so. Invento...

Euridice                           - (suo malgrado) Peccato.

Orfeo                               - (sorride) Perché?

Euridice                           - Non so. Avrei voluto che avesse un nome. (Una ragazza passa sul marciapiede; la chiama)

La Ragazza                      - Euridice?

Euridice                           - (senza smettere di guardare Orfeo) Sì.

La Ragazza                      - Ho incontrato ora Mattia. Ti cerca. (Passa).

Euridice                           - Sì. I suoi occhi sono azzurro chiaro.

Orfeo                               - Sì. Non si capisce di che colore siano i suoi.

Euridice                           - Dicono che dipende da quello che penso.

Orfeo                               - In questo momento sono verde scuro come l'acqua profonda, al margine della banchina.

Euridice                           - Dicono che è il colore di quando sono molto felice.

Orfeo                               - Chi lo dice?

Euridice                           - Gli altri.

La Ragazza                      - (sul marciapiede) Euridice.

Euridice                           - (senza voltarsi) Sì.

 La Ragazza                     - (fra le quinte) Non dimenticare Mattia.

Euridice                           - Sì. Lo crede che lei mi farà molto soffrire?

Orfeo                               - (sorride dolcemente, la stringe fra le braccia) Lo credo.

Euridice                           - Ho paura che sarò infelice e sola quando lei mi lascerà.

Orfeo                               - Non la lascerò mai.

Euridice                           - (sciogliendosi dall'abbraccio) Me lo giura?

Orfeo                               - Sì.

Euridice                           - Sulla mia testa?

Orfeo                               - (sorride) Sì. (Si guardano. Ella dice dolcemente)

Euridice                           - Mi piace molto quando lei sorride.

Orfeo                               - Lei non sorride?

Euridice                           - Mai quando sono felice.

Orfeo                               - Credevo che fosse infelice.

Euridice                           - Non capisce dunque niente; è dunque un vero uomo? Che faccenda: eccoci nei pasticci tutti e due, di fronte l'uno all'altra, con tutto quello che ci dovrà accadere, già predisposto die­tro di noi.

Orfeo                               - Lei crede che ci dovranno accadere molte cose?

Euridice                           - (gravemente) Tutte. Tutte le cose che accadono a un uomo e a una donna sulla terra, una per una...

Orfeo                               - Divertenti, dolci, terribili?

Euridice                           - Anche vergognose e sporche... do­vremo essere molto infelici.

Orfeo                               - (la prende fra le braccia) Che gioia!... (Vincenzo e la madre che sognavano, la testa ap­poggiata l’una all'ultra, cominciano dolcemente)

Vincenzo                         - Oh, l'amore, l'amore. Vedi, bella amica mia, su questa terra ove tutto ci avvilisce, ci delude e ci fa male, è meravigliosa consolazione pensare che ci resta l'amore.

La Madre                         - Gattone mio! Ti ricordi di quella prima sera? Tu recitavi «Ferdicàno» al Grande Casino d'Ostenda. Io recitavo « La vergine folle » al Kursal, ma non entravo che al primo atto. Sono venuta ad aspettarti nel tuo camerino. Sei uscito di scena ancora vibrante delle belle parole d'amo­re che avevi detto e mi hai presa, lì, subito, in costume Luigi quindici... (Gli si getta nelle braccia).

Vincenzo                         - Oh, le nostre notti d'amore, Lu­ciana. L'unione dei corpi e dei cuori. L'istante, l'istante unico in cui non si sa più se è la carne o l'anima che palpita...

La Madre                         -  Sai che sei stato un amante mera­viglioso, cagnone mio?

Vincenzo                         - E tu la più adorabile di tutte le amanti.

Euridice                           - Li faccia tacere, la prego, li faccia tacere.

La Madre                         - Ma che dico, tu non eri un amante. Tu eri l'amante incostante fedele, forte e tenero, folle. Tu eri l'amore. Quanto mi hai fatto soffri­re! (Orfeo si avanza verso la coppia, Euridice si nasconde).

 

 Orfeo                              - Signore, signora, certo loro non potranno capire il mio atto. Sembrerà loro strano. Molto strano anzi. Ecco. Bisogna che escano.

Vincenzo                         - Che usciamo?

Orfeo                               - Sì, signore.

Vincenzo                         - Si chiude?

Orfeo                               - Sì, signore. Si chiude per loro. Lei ha detto benissimo.

Vincenzo                         - Ma insomma, signore.

La Madre                         - Ma non è del locale, lo riconosco: è il suonatore di violino...

Orfeo                               - Bisogna che loro spariscano subito. Se potessi spiegarmi mi spiegherei, ma non posso spiegarmi. Non capirebbero-. In questo momento qui avviene qualcosa di grave.

La Madre                         - E' pazzo.

Vincenzo                         - Ma insomma, signore, è assurdo. Questo caffè è di tutti.

Orfeo                               - Non più ora.

La Madre                         - Ah, è troppo. Vorrei vedere. (Chia­ma) Signora, per favore! Cameriere!

Orfeo                               - (la spinge verso la porta) No, non chia­mino. Escano. Pagherò io le consumazioni.

La Madre                         - Non ho mai visto una cosa simile.

Orfeo                               - No, signora. Non si è mai vista. Io, almeno, non l'avevo mai vista.

La Madre                         - (a Vincenzo) E tu non dici niente?

Vincenzo                         - Vieni via. Non vedi che non è in sé?

La Madre                         - (scompare gridando) Reclamerò presso il capo stazione. (Escono).

Euridice                           - (esce dal suo nascondiglio) Ecco co­me tutto prende il suo posto.

Orfeo                               - Ora che siamo soli come tutto sembra luminoso e semplice. Mi sembra la prima volta che vedo dei lampadari, delle piante verdi, delle palle di metallo, delle seggiole... Incantevole una seggiola. Si direbbe un insetto che spia il rumore dei nostri passi e che stia per fuggire, saltando sulle quattro zampe magre. Attenzione; o non ci muoviamo o facciamo tutta una corsa. (Salta, tra­scinando Euridice) Presa. E come è comoda, una sedia! Ci si può sedere... (Fa sedere Euridice) Quello che non capisco, perché abbiano inventato la seconda.

Euridice                           - (l'attira verso di sé e gli cede un pic­colo spazio) Era per le persone che non si cono­scevano..-.

Orfeo                               - (la prende fra le braccia, gridando) Ma io la conosco. Poco fa suonavo il violino e lei passava sulla banchina della stazione e non la conoscevo... Ora tutto è cambiato, io la conosco. E' straordinario; così a un tratto. Come è bella la cassiera coi suoi capelli rossi e il grosso seno. E il cameriere? Guardi il cameriere. Quella calvizie distinta e quell'aria nobile, molto nobile. Era ve­ramente una straordinaria serata, stasera. E noi dovevamo incontrarci e incontrare anche il più nobile cameriere di Francia. Un cameriere che avrebbe potuto essere prefetto, colonnello, consocio della « Comedie Francaise». Cameriere...

Il Cameriere                     - (si avvicina) Signore.

 Orfeo                              - Lei è simpatico.

Il Cameriere                     - Ma, signore.

Orfeo                               - Sì, sì. Non protesti. Sa, io sono sincero e non ho l'abitudine di far complimenti. E' simpa­tico. Ci ricorderemo eternamente di lei e della cassiera, la signorina ed io. Glielo dirà, vero?

Il Cameriere                     - Sì, signore. (Si allontana).

Orfeo                               - Come è divertente vivere. Non sapevo del sangue che scorre nelle vene, dei muscoli che scattano.

Euridice                           - Peso?

Orfeo                               - Oh no; lei ha giusto il peso che an­dava aggiunto al mio perché restassi sulla terra. Sino a poco fa ero troppo leggero, se andavo, ur­tavo nei mobili e nelle persone. Sto accorgendomi che mi mancava esattamente il complemento del suo peso per far parte di questa atmosfera.

Euridice                           - Caro, lei mi spaventa. Almeno ne fa parte ora? Non volerà via mai più?

Orfeo                               - Mai più.

Euridice                           - Che farei sola, sulla terra, come una stupida, se lei mi lasciasse? Giuri che non mi la­scerà mai.

Orfeo                               - Glielo giuro.

Euridice                           - Glielo giuro, glielo giuro. Spero bene che non abbia l'intenzione di lasciarmi. Ma se vuole che sia veramente felice, mi giuri che non le verrà mai il desiderio di lasciarmi, anche più tardi, anche per un minuto, anche se la più bella ragazza del mondo la guarderà.

Orfeo                               - Giuro anche questo. (Si alza).

Euridice                           - Vede com'è falso? Giura che anche se la più bella ragazza lo guarda, non mi lascerà. Ma per sapere se lo guarda, vorrà dire che anche lei l'avrà guardata. Oh, Dio mio, come sono infe­lice. Ha incominciato appena ad amarmi e già pensa alle altre donne. (Lo afferra per le spalle) Caro, mi giuri che non la vedrà nemmeno, quella stupida.

Orfeo                               - (nasconde la testa sul petto di lei) Sarò cieco.

Euridice                           - Ma anche se lei non la vedrà, la gente è così cattiva che si affretteranno a dir­glielo, per farmi del male. Giuri che non li udrà.

Orfeo                               - (di fronte) Sarò sordo.

Euridice                           - O piuttosto, no: c'è qualcosa di molto più semplice. Mi giuri subito, ma sincera­mente, e non per farmi piacere, che lei non tro­verà più nessuna donna bella, nemmeno quelle che hanno la specialità della bellezza.

Orfeo                               - (di fronte) Lo giuro.

Euridice                           - (diffidente) Nemmeno una che mi assomigliasse?

Orfeo                               - Nemmeno, diffiderei!

Euridice                           - Giura di sua spontanea volontà?

Orfeo                               - Sì.

Euridice                           - Bene. E, inteso, su di me.

Orfeo                               - Su di lei.

Euridice                           - Sa che quando si giura su qualcuno, quello muore se non si mantiene il giura­mento?

Orfeo                               - Sì, lo so.

Euridice                           - (riflette un poco)  Bene. Ma può darsi che lei pensi - la credo capace di tutto, con quella sua faccia d'angiolo - può darsi che pensi: Posso giurare benissimo su di lei. Cosa rischio? Se lei morisse quando fossi sul punto di lasciarla, sarebbe più comodo. Una morta si lascia facil­mente senza scenate, senza lacrime... Oh, vi cono­sco.

Orfeo                               - (le prende la mano e cerca di attirarla a sé) Ingegnoso, ma non ci avevo pensato.

Euridice                           - Davvero? Meglio dirmelo subito.

Orfeo                               - Veramente!

Euridice                           - Me lo giuri.

Orfeo                               - (alza la mano) Ecco.

Euridice                           - Bene. Allora le dirò che volevo sol­tanto metterla alla prova. Non abbiamo fatto un vero giuramento. Per un vero giuramento, non basta fare un cenno con la mano, che può essere interpretato come si vuole. Bisogna stendere il braccio, così, sputare in terra... Non rida. Ora sarà una cosa seria.

Orfeo                               - (gravemente) Ne prendo nota.

Euridice                           - Ora che lei sa il pericolo cui va incontro se mentisce, anche un poco, mi giuri, stendendo la mano e sputando per terra, che tutto quanto mi ha giurato è vero.

Orfeo                               - Sputo, stendo la mano, giuro.

Euridice                           - Berìe. La credo. Del resto è facile ingannarmi, sono così poco diffidente. (Vede Or­feo che s'è fatto un po' indietro e la guarda) Sor­ride. Mi prende in giro?

Orfeo                               - La guardo. Mi accorgo di non avere avuto ancora il tempo di guardarla.

Euridice                           - Sono brutta? Qualche volta, quando ho pianto o riso troppo, mi spunta una macchio­lina rossa sul naso. Glielo dico subito, perché non abbia una brutta sorpresa, dopo.

Orfeo                               - Mi abituerò.

Euridice                           - E poi sono magra. Non tanto quan­to sembro, no; quando mi lavo mi trovo anzi ben fatta, ma non sono una di quelle donne sulle quali ci si appoggia comodamente.

Orfeo                               - Non ci tenevo a stare molto comodo.

Euridice                           - Non posso darle che quello che ho. Non deve farsi illusioni... Sono anche stupida, non so dir niente, non si può contare su di me per la conversazione.

Orfeo                               - (sorride) Parla sempre lei.

Euridice                           - Parlo sempre io ma non so rispon­dere. Del resto parlo sempre per impedire che mi si interroghi. E' il mio modo d'esser muta. Si fa quello che si può. Naturalmente a lei questo non piace. Ecco la mia fortuna. C'è pericolo che non le piaccia niente di me.

Orfeo                               - S'inganna. Mi piace quando lei parla tanto. Fa un lieve rumore che mi riposa.

Euridice                           - Davvero? Sono sicura che a lei piacciono le donne misteriose. Genere Greta Gar­bo. Quelle alte due metri, con grandi occhi, grandi bocche, grandi mani... e che vagano tutto il giorno nei boschi, fumando. Io sono assolutamente l'op­posto. Bisogna che lei si rassegni subito.

Orfeo                               - Fatto.

Euridice                           - Sì, lei lo dice, ma vedo i suoi occhi. (Gli si getta neUe braccia) Oh, caro, caro, è triste non essere come quella che lei ama. Ma cosa vuole che faccia? Che diventi più alta? Mi proverò? Farò ginnastica. Che sembri stravolta?... Spalan­cherò gli occhi, mi truccherò di più. Cercherò di essere cupa, di fumare...

Orfeo                               - Ma no.

Euridice                           - Sì, sì, cercherò di essere misteriosa. Non bisogna credere che sia molto difficile. Basta non pensare a niente. E' alla portata di tutte le donne.

Orfeo                               - (la prende fra le braccia) Che matta!

Euridice                           - Lo sarò, ci conti pure. E anche sag­gia, spendacciona, economa secondo, e docile come una piccola odalisca che si fa voltare e rivoltare nel letto, o tremendamente ingiusta i giorni che lei avrà voglia d'essere un po' triste a causa mia. Ma soltanto quei giorni, stia tranquillo. In com­penso ci saranno i giorni in cui sarò materna. tanto materna da infastidire. I giorni del forun­colo e del mal di denti. Per i giorni vuoti, poi, mi resteranno le borghesi, le maleducate, le pudiche, le ambiziose, le eccitate, le pigre.

Orfeo                               - E crede che potrà recitare tutte quelle parti?

Euridice                           - Per forza, caro, per tenerla legato a me, poiché lei desidererà tutte le donne...

Orfeo                               - Ma quando sarà se stessa? Sono preoc­cupato.

Euridice                           - Negli intervalli. Quando avrò cin­que minuti di tempo, mi arrangerò.

Orfeo                               - Sarà una vita da cani!

Euridice                           - Questo è l'amore.

Orfeo                               - (la stringe a sé, ridendo) La renderò molto infelice.

Euridice                           - (stretta a lui) Oh, sì, mi farò pic­cola, non avrò pretese. Ma la notte dovrà lasciar­mi dormire sulla sua spalla e tenermi per mano tutto il giorno...

Orfeo                               - Mi piaceva dormire sul dorso, a tra­verso il letto. Mi piacevano le lunghe passeggia­te solitarie...

Euridice                           - Possiamo tentare di metterci a tra­verso il letto uno accanto all'altro e nelle passeg­giate camminerò, se vuole, un po' indietro ma non molto, quasi al suo fianco però. Ma le vorrò anche tanto bene, le sarò così fedele... così fedele... Sol­tanto dovrà parlarmi continuamente perché non abbia il tempo di pensare delle sciocchezze...

Orfeo                               - Chi è lei? Mi sembra di conoscerla da molto tempo.

Euridice                           - Perché chiedere chi siamo? Ha così poca importanza sapere chi siamo...

Orfeo                               - Chi è lei?... E' troppo tardi, lo so. E non posso più lasciarla ormai... E' apparsa improv­visamente in questa stazione. Ho smesso di suonare il violino e adesso l'ho qui fra le mie braccia. Chi è lei?

Euridice                           - Anch'io non so chi è lei. Ma non sento il bisogno di domandarglielo. Sto bene. Mi basta.

Orfeo                               - Non so perché ho paura d'avere...

La Ragazza                      - (passa sulla banchina) Come, sei ancora qui? Mattia ti aspetta nella saletta di terza classe. Vacci, se vuoi evitare una lite. (Scompare).

Orfeo                               - Chi è questo Mattia?

Euridice                           - (svelta) Nessuno, caro.

Orfeo                               - E' la terza volta che vengono a dirle che la cerca.

Euridice                           - E' un giovane della Compagnia. Nien­te d'importante. Mi cerca. Sì, mi cerca. Porse ha qualcosa da dirmi.

Orfeo                               - Chi è questo Mattia?

Euridice                           - (grida) Non l'amo, caro, non l'ho mai amato.

Orfeo                               - E' il suo amante?

Euridice                           - Si fa presto a parlare, a classificare ogni cosa sotto la stessa parola. Ma preferisco dire subito la verità spontaneamente. Tutto deve essere limpido tra noi due. Sì, è il mio amante. (Orfeo si scosta un po') Non si scosti. Avrei voluto dirle: sono vergine, l'ho aspettato, è la sua mano che per prima mi toccherà. Avrei voluto tanto dirle questo, che ora, che stupida, mi sembra sia pro­prio così.

Orfeo                               - E' il suo amante da molto tempo?

Euridice                           - Non ricordo. Forse sei mesi. Non l'ho mai amato.

Orfeo                               - Perché allora?

Euridice                           - Perché? Non mi faccia domande. Quando non ci si conosce ancora molto bene e non si sa tutto l'uno dell'altro, le domande sono un'arma tremenda.

Orfeo                               - Perché? Voglio sapere.

Euridice                           - Perché? Lui era infelice, ero stanca, ero sola. Mi amava.

Orfeo                               - E prima?

Euridice                           - Prima, caro?

Orfeo                               - Prima di lui?

Euridice                           - Prima di lui?

Orfeo                               - Non ha avuto altri amanti?

Euridice                           - (con impercettibile esitazione) N... No. Mai.

Orfeo                               - Allora è stato lui a insegnarle l'amore? Risponda. Perché non parla? Mi ha pur detto che voleva la verità fra noi.

Euridice                           - (grida disperatamente) Sì, ma, caro, cerco quello che le darà meno dolore... che sia lui, che lei forse vedrà, o un altro, molto tempo fa, che lei non conoscerà mai.

Orfeo                               - Ma non si tratta di sapere quello che mi darà meno dolore; si tratta di sapere la verità.

Euridice                           - Quando ero molto piccola un uomo, uno straniero, mi ha presa quasi per forza... Qualche settimana, e poi è ripartito.

Orfeo                               - E quello lo amava?

Euridice                           - Avevo paura, e avevo vergogna.

 Orfeo                              - (dopo un silenzio) E non c'è altro?

Euridice                           - No, caro. Come vede, una cosa stu­pida, dolorosa ma molto semplice.

Orfeo                               - (sordamente) Cercherò di non pensare mai a costoro.

Euridice                           - Sì, caro.

Orfeo                               - Cercherò di non immaginare iì loro viso vicino al suo, i loro occhi, le loro mani sopra di lei.

Euridice                           - Sì, caro.

Orfeo                               - Cercherò di non pensare che l'hanno già stretta fra le braccia. (L'ha presa fra le brac­cia sospirando come un operaio che fa uno sforzo) Ecco. Ora tutto ricomincia. Ora la stringo io.

Euridice                           - (dolcemente) Si sta bene nelle sue braccia. Come in una casetta ben chiusa in mezzo al mondo, una casetta dove nessuno può mai più entrare. (Egli si china su lei) In questo caffè?

Orfeo                               - In questo caffè. Vorrei fosse pieno di gente, io che mi sento a disagio quando gli altri mi guardano. Ma sarà egualmente urna bella cerimonia nuziale. Per testimoni avremo la cas­siera, il cameriere più nobile di Francia e un mo­desto signore con l’impermeabile, che finge di non vederci, ma sono sicuro, ci vede. (L'abbraccia. Eu­ridice si scioglie a un tratto dall'abbraccio).

Euridice                           - (il viso improvvisamente teso, ostile) Ora lei deve lasciarmi. Ho ancora qualcosa da fare. No, non mi domandi niente. Esca un momento, la richiamerò. (Accompagna Orfeo, poi va rapida­mente verso la porta spalancata sulla banchina. Si ferma e rimarne un attimo immobile sulla soglia. Sì sente che guarda qualcuno che non. si vede, il quale la guarda a sua volta, in silenzio. A un tratto dice con voce dura) Entra. (Mattia entra lenta­mente senza smettere di guardarla. Si ferma sulla soglia) Mi hai vista? L'ho abbracciato. L'amo. Co­sa vuoi?

Mattia                              - Chi è ?

Euridice                           - Non lo so.

Mattia                              - Sei pazza.

Euridice                           - Sì, sono pazza.

Mattia                              - Da otto giorni mi sfuggi.

Euridice                           - Da otto giorni ti sfuggo, sì, ma non per lui, lo conosco soltanto da un'ora.

Mattia                              - (facendosi indietro) Che cosa hai da dirmi?

Euridice                           - Lo sai, Mattia.

Mattia                              - (grida a Euridice) Lo sai che non pos­so vivere senza di te.

Euridice                           - Sì, Mattia. Lo amo.

Mattia                              - Sai che preferisco crepare subito che continuare a vivere solo, ora che ti ho avuta vicina a me. Non ti chiedo niente, Euridice; soltanto di non lasciarmi solo.

Euridice                           - Lo amo, Mattia.

Mattia                              - Non sai dire niente altro?

Euridice                           - (dolcemente, implacabilmente) Lo amo.

Mattia                              - (uscendo all'improvviso) Sta bene, l'avrai voluto tu. (Via).

Euridice                           - (correndogli dietro) Ascolta! Mattia cerca di capire, ti voglio bene, ma lo amo... (Via. Il Padre entra dalla porta dì fondo. Orfeo entra dall'altra porta. Il fischio lontano del treno, il trillo della suoneria d'avviso che continuerà du­rante tutta la scena).

Il Padre                            - Il treno è in arrivo. Secondo bina­rio... Vieni? (Fa un passio, a un tratto con aria pensosa) Hai pagato? Mi sembra che tu mi avessi Invitato.

Orfeo                               - (dolcemente, senza guardarlo in faccia) Non parto, papà.

Il Padre                            - Perché aspettare sempre l'ultimo momento? n treno arriverà fra due minuti e biso­gna prendere il sottopassaggio. Con l'arpa, abbia­mo appena il tempo.

Orfeo                               - Non prendo il treno.

Il Padre                            - Come, non prendi il treno? Perché non prendi il treno? Se vogliamo essere stasera a Palavas, è l'unico che ci resta.

Orfeo                               - Allora prendilo tu. Io non parto.

Il Padre                            - (posa l'arpa) Che novità son queste? Cosa ti prende?

Orfeo                               - Papà, ti voglio bene. So che hai biso­gno di me, che sarà doloroso, ma un giorno doveva accadere. Ti lascio.

Il Padre                            - (cadendo dalle nuvole) Cosa dici?

Orfeo                               - (grida) Mi hai capito benissimo. Non farmelo ripetere per improvvisare una scena pate­tica. Non trattenere il fiato per impallidire, non fingere di tremare e di strapparti i capelli. Li conosco tutti quei trucchi. Andavano bene quando ero piccolo. Ora non attaccano più. (Ride a bassa voce) Ti lascio, papà.

Il Padre                            - (cambia tattica e improvvisamente si drappeggia in una esagerata dignità) Rifiuto di ascoltarti, ragazzo. Hai perso il buonsenso. Vie­ni. (Scosta la sedia e risale la scena).

Orfeo                               - Anche la dignità è inutile. Ti ripeto che li conosco tutti, i tuoi trucchi.

Il Padre                            - (addolorato) Dimentica pure i miei capelli bianchi, dimentica i miei capelli bianchi. Ci sono abituato. Ti ripeto che mi rifiuto di ascol­tarti. E' chiaro, mi sembra.

Orfeo                               - Devi ascoltarmi perché non hai che due minuti per capire, il treno sta arrivando.

Il Padre                            - (ridacchia nobilmente) Ah, ah!

Orfeo                               - Non ridacchiare nobilmente, ti prego. Ascoltami. Parti solo. E' l'unica probabilità che hai di arrivare in tempo per quel posto di arpista che ti hanno offerto a Palavas-les-Flots.

Il Padre                            - (grida) Ma se l'ho rifiutato, quel po­sto. L'ho rifiutato per te.

Orfeo                               - Dirai di aver riflettuto, che mi abban­doni, che accetti. Forse Tortoni non ha ancora trovato un altro arpista. E' tuo amico. Ti darà la precedenza.

Il Padre                            - (amaro) Ah, sai, gli amici, i figli, tutto quello che si crede sacro. Un bel giorno vi si sbriciola tra le mani. Lo so bene io. L'amicizia di Tortoni... Ah, ah! (Ridacchia nobilmente).

Orfeo                               - Credi che non ti darà il posto?

 Il Padre                           - Sono certo che me lo rifiuterà.

Orfeo                               - Ma se te lo ha offerto!

Il Padre                            - Me l'ha offerto e io ho detto di no. E lui ha preso un'arrabbiatura... Non dimenticarti che è calabrese.

Orfeo                               - Prendi lo stesso il treno, papà. Quando sarai partito telefonerò al Casino di Palavas e ti garantisco che lo convincerò a dimenticare il tuo rifiuto. (Il Padre urla con una voce sorprendente in un corpo stanco. Alza la sedia e la riposa brutal­mente).

Il Padre                            - Mai! Mai!

Orfeo                               - Non urlare. E' un buon diavolo. Sono certo che mi ascolterà.

Il Padre                            - Mai, capisci. Mai tuo padre si abbas­serà...

Orfeo                               - Mi abbasserò io. Dirò che la colpa è mia.

Il Padre                            - No, no. (Un fischio più vicino. Il Padre si avvicina nervosamente alle valige) Il tre­no, il treno, Orfeo, non continuare questa penosa scena che non capisco. (Prende le due valige) Vieni con me, mi spiegherai strada facendo.

Orfeo                               - (gli taglia il passo) Non posso partire, papà. Porse ti raggiungerò più tardi. (Il treno fi­schia) Vado subito a telefonare. (Va verso la cassa) Signorina, si può telefonare di qui?

Il Padre                            - (lascia cadere le valige, gli corre dietro e lo conduce via a forza) Senti, non telefonare a quell'individuo, preferisco dirtelo; il posto di arpista...

Orfeo                               - Sì.

Il Padre                            - Non me lo ha mai offerto.

Orfeo                               - Come?

Il Padre                            - L'ho detto per farmi bello con te. Avevo sentito dire di quel posto, l'ho supplicato di prendermi. Ha rifiutato.

Orfeo                               - (dopo un momento) Ah, bene. (Dice dolcemente) Speravo che tu potessi avere quel po­sto. Peccato. Avrebbe accomodato molte cose. (Un silenzio).

Il Padre                            - (si siede sulla panchina. Dolcemente) Sono vecchio, Orfeo... (Fischio del treno).

Orfeo                               - (febbrilmente) Prendi lo stesso quel treno, papà, vai a Palavas-les-Flots; vi sono molti caffè laggiù, è la stagione buona, guadagnerai da vivere.

Il Padre                            - Solo con l'arpa... Scherzi.

Orfeo                               - Ma è l'arpa che colpisce la gente. Ce ne sono così poche. Tutti i mendicanti suonano il violino. L'arpa, me l'hai detto tante volte tu stesso, ci dava una nobiltà d'artisti.

Il Padre                            - Sì, ma tu suonavi bene il violino e poi piacevi alle donne le quali spingevano gli uomini a mettere un franco nel piattino. Per me, non fa­ranno altrettanto.

Orfeo                               - (cerca di ridere) Ma sì, papà, le donne mature. Sai bene di essere un vecchio Don Giovanni. (Il Padre guarda cassiera che l'ha umiliato poco fa, si liscia la calvizie).

Il Padre                            - Fra noi, un vecchio Don Giovanni per le serve delle bettole e per le serve brutte.

Orfeo                               - Esageri, papà, hai ancora molto suc­cesso.

Il Padre                            - Te lo racconto, ma le cose non ac­cadono sempre come dico io... E poi non te l'ho mai detto, ma non so se te ne sei accorto, io... io suono male l'arpa. (Un lungo silenzio. Orfeo chi­na la testa. Non può fare a meno di sorridere).

Orfeo                               - E' difficile non accorgersene, papà.

Il Padre                            - Lo vedi, lo dici anche tu... (Un si­lenzio. Fischio del treno più vicino).

Orfeo                               - (a un tratto) Papà, non posso fare più niente per te. Prendi il treno, porta con te il de­naro che abbiamo e buona fortuna. Non posso dirti altro.

Il Padre                            - Poco fa dicevi che non avresti potuto lasciarmi.

Orfeo                               - Poco fa, sì. Ora posso. (Sì ode il treno che entra in stazione) Sbrigati, prendi l'arpa.

Il Padre                            - (che ancora resiste) Hai incontrato qualcuno?

Orfeo                               - Sì, papà.

Il Padre                            - La ragazza che è venuta a chiedermi chi suonava il violino?

Orfeo                               - (in ginocchio davanti alle valige) Si, papà. (Leva alcune cose da una valigia e le mette nell'altra).

Il Padre                            - Ho chiacchierato con quella gente. Sai che è attrice in una compagnia di infimo or­dine? Recita nei teatri di varietà. Ti spolperà, quella ragazza.

Orfeo                               - Sì, papà. Fai presto.

Il Padre                            - (in ginocchio anche lui) E dire che ti avevo trovato una splendida ragazza, scultorea, primo premio al Conservatorio di Marsiglia, pro­filo greco. Una pianista. Avremmo fatto un trio. Mi sarei dato al violoncello... Non me l'aspettavo da te, Orfeo.

Orfeo                               - (che raccoglie i fagotti e ne carica il Pa­dre) Neanche io, papà.

Il Padre                            - (fruga anche lui nella valigia e gli strappa di tanto in tanto qualcosa di mano) Ti maledico. Ti costerà caro. i Orfeo     - Sì, papà.

Il Padre                            - Scherza, scherza. Ho un biglietto del­la lotteria. Posso vincere da un giorno all'altro. Ma tu non avrai niente.

Orfeo                               - (ride suo malgrado. Lo prende per le spalle) Papà mio, mio vecchio papà, mio tremendo papà. Ti voglio molto bene, ma non posso fare più niente per te.

L'altoparlante                  - (di fuori) Per Béziers, Mont­pellier, Séte, Palavas-les-Flots, in carrozza.

Orfeo                               - (spinge il Padre verso il treno e gli dà le valige) Presto, altrimenti lo perdi. Hai l'arpa, la valigia grande? Ho duecento franchi, il resto prendilo tu.

Il Padre                            - Non fare il generoso. Il gruzzolo è poco pesante.

L'altoparlante                  - Per Béziers, Montpellier, Séte, Palavas-les-Flots, in carrozza.

 Il Padre                           - (a un trattò) Mi rimborseranno il tuo biglietto?

Orfeo                               - (lo carica dì tutti i fagotti) Non so. Sono felice, papà. L'amo. Ti scriverò. Dovresti es­sere contento che sia felice, ho tanta voglia di vivere.

Il Padre                            - (facendo cadere le valige) Non potrò portare tutto da solo.

Orfeo                               - (le raccoglie) Ti aiuterò, prenderai un facchino.

Il Padre                            - (grida, sulla porta di uscita, come per una ridicola maledizione e lascia cadere una parte dei fagotti) Abbandoni tuo padre per una donna che forse non ti ama.

Orfeo                               - (grida anche lui seguendolo) Sono fe­lice, papà. (Grida di fuori) In carrozza! In carrozza!

Il Padre                            - (prima di uscire) Creperò.

Orfeo                               - Presto, presto, papà. (Fischi, rumore di sportello, sbuffi di vapore. Poi il treno che s'avvia.

Euridice                           - (entra).

Orfeo                               - (toma indietro, si ferma e dice) Ecco, è fatto.

Euridice                           - (scherzosamente) Anch'io: è fatto.

Orfeo                               - (abbassa la testa) Le chiedo scusa. E' un po' ridicolo. Era mio padre.

Euridice                           - (sorride) Non bisogna domandarmi scusa. La signora che poco fa parlava d'amore, gorgheggiando, è mia madre. Non avevo osato dir­glielo. (Sono in faccia l'uno all'altro. Sì sorridono dolcemente).

Orfeo                               - Sono contento che anche lei si sia vergognata. E' come se fossimo fratelli.

Euridice                           - Mi par di vederla, bambino, trasci­narsi dietro di lui col suo violino.

Orfeo                               - Aveva un posto in un'orchestra, ma già mi faceva suonare nei caffè. Un giorno un agente ci ha condotti via. E lui gli diceva che la cosa sarebbe finita male, che era cugino di un ministro. La guardia ridacchiava. Io avevo dieci anni, piangevo... mi vergognavo, pensavo che sarei andato in galera.

Euridice                           - (grida, le lacrime agli occhi) Oh, caro! E io non c'èro! L'avrei preso per mano, sarei venuta con lei, mentre la conducevano via. Le avrei spiegato che la cosa non era grave. A dieci anni sapevo già tutto, io.

Orfeo                               - A quel tempo suonava il trombone. Ha cercato di suonare tutti gli strumenti, il poveretto, senza successo. Alla porta dicevo: «Sono il figlio del trombone » ed entravo nel suo cinema... Erano belli « I misteri di New York ».

Euridice                           - E « La Maschera dai denti bian­chi » ? Quando al quarto episodio già si moriva d'angoscia... Vorrei esserle stata vicino sulle sedie di platea... Durante l'intervallo avrei voluto sbuc­ciare dei mandarini con lei, e chiedermi se il cu­gino di Pearl White fosse davvero un traditore e che ne pensasse il cinese.' Avrei voluto essere stata bambina con lei. Che peccato!

Orfeo                               - Ma ora è passato. Non ci si può fare niente. I mandarini sono stati sbucciati, i cinema ridipinti a nuovo e l'eroina dev'essere una vecchia signora.

Euridice                           - (dolcemente) Non è giusto... (Una suoneria, il fischio di un treno che si avvicina).

L'Altoparlante                 - Per Tolosa, Béziers, Carcas-son. Binario 7. Il treno è in arrivo.

Un altro altoparlante       - (più lontano ripete) Per Tolosa, Béziers, Carcasson. Binario 7. Il treno è in arrivo.

Euridice                           - (dolcemente a Orfeo) Chiuda la porta.

Orfeo                               - (chiude la porta. Silenzio).

Euridice                           - Ecco. Siamo soli al mondo, ora. (Or­feo è ritornato piano verso di lei. Il cameriere tra­versa la scena correndo e dice atta cassiera).

Il Cameriere                     - Una disgrazia. Un giovane si è gettato sotto il treno di Perpignano. (La gente passa correndo sul marciapiede. Orfeo e Euridice sono di fronte e non osano guardarsi. Non parlano. Il giovane con l’impermeabile, che era vasetto si­lenziosamente, rientra. Chiude la porta, li guarda).

Euridice                           - (piano) Non potevo farci nulla. Ti amo e non l'amavo. (Un silenzio. Guardano davanti a sé. Il giovane con l'impermeabile s'è avvicinato a loro).

Il Giovane                       - (con voce incolore, senza smettere di guardarli) S'è gettato sotto la locomotiva. L'urto stesso ha dovuto ucciderlo.

Euridice                           - Che orrore!

Il Giovane                       - No. Ha Scelto un mezzo molto buono. Il veleno è lento e fa soffrire: si vomita, ci si contorce. Immondo. Lo stesso con i barbitu­rici. E' una sciocchezza supporre, come molti, che con essi si muoia dormendo, senza accorgersene. Si muore invece fra i singulti e i cattivi odori. Credano a me... quando si è molto stanchi, quando si è camminato molto con un'idea fissa in testa, la cosa migliore è di lasciarsi scivolare nell'acqua come in un letto... Un attimo di soffocazione, ma con una grande varietà di immagini... E poi ci si addormenta. Finalmente.

Euridice                           - Crede che abbia sofferto per morire?

Il Giovane                       - Non si soffre mai per morire, si­gnorina. La morte non fa mai male. La morte è dolce... La vita, quello che ci resta di vita morendo con certi veleni, certe brutte ferite fa soffrire. Alla morte bisogna affidarsi francamente, come a un'amica. Un'amica dalla mano delicata e forte. (Orfeo e Euridice si sono stretti insieme. Euridice dice, come per spiegare).

Euridice                           - Non abbiamo potuto fare altrimenti. Ci amiamo.

Il Giovane                       - Lo so. Ho sentito. Un bel giovane e una bella ragazza. Pronti a stare al gioco fino all'ultimo, lealmente.

Euridice                           - (mormora) Ma lei, noi non lo co­nosciamo.

Il Giovane                       - (lasciando cadere il braccio destro) E' vero. Sono felicissimo di questo incontro. Par­tiranno insieme? Non c'è più che un treno, sta­sera. Il treno di Marsiglia. Prenderanno quello?

 Orfeo                              - Sì.

Il Giovane                       - (levandosi il cappello) Vado anch'io laggiù. Porse avrò il piacere di rincontrarli. (Saluta ed esce. Euridice e Orfeo sono di fronte, in piedi, piccoli, in mezzo alla grande sala deserta).

Orfeo                               - (dolcemente) Amore mio.

Euridice                           - Caro amor mio...

Orfeo                               - La storia comincia.

Euridice                           - Ho un po' paura. Sei buono? Sei cattivo?... Come ti chiami?

Orfeo                               - Orfeo... e tu?

Euridice                           - Euridice... (Cala il sipario).

ATTO SECONDO

La camera di un albergo di provincia

 (La camera è grande, tetra e sporca. Soffitta troppo alti che si perdono nell'ombra. Doppie ten­de polverose. Un gran letto di ferro, un paravento, poca luce. Orfeo e Euridice sono sdraiati sul letto, vestiti).

Orfeo                               - E pensare che tutto ciò poteva non accadere. Bastava tu passassi a destra e io a si­nistra... nemmeno: bastava il volo di un uccello, il grido di un bambino che ti facessero voltare la testa, un attimo. E a quest'ora io starei grattando il violino nei caffè di Perpignano, con papà.

Euridice                           - E io reciterei questa sera « Le due orfanelle » al teatro municipale di Avignone. Siamo mammà ed io le due orfanelle.

Orfeo                               - Stanotte pensavo a quante combina­zioni ci sono volute perché ci incontrassimo. Pen­savo a quel ragazzetto e a quella ragazzina sco­nosciuta che un bel giorno, anni prima, s'erano messi in cammino verso quella stazione di pro­vincia... Pensare che avremmo potuto non rico­noscerci, sbagliare giorno o stazione.

Euridice                           - O incontrarci troppo piccoli, con i genitori che ci avrebbero trascinati via.

Orfeo                               - Ma fortunatamente non ci siamo sbagliati né di un giorno né di un minuto. Non fummo in ritardo una sola volta, durante il lungo cam­mino. Siamo fortissimi.

Euridice                           - Sì, caro.

Orfeo                               - (potente e bonario) Siamo entrambi molto più forti di tutto.

Euridice                           - (lo guarda con un sorrisetto) Ercole mio. E pure ieri avevi paura, entrando in questa camera.

Orfeo                               - Ieri non eravamo ancora più forti. Non volevo che il nostro amore fosse alla mercè di quell'ultima, futilissima occasione.

Euridice                           - (dolcemente) Ce n'è di cose, nel mondo, che vorremmo non ci fossero e che invece sono là tranquille, immense come il mare.

Orfeo                               - Pensare che, uscendo da questa camera, potevamo essere come due nemici sorridenti, indifferenti e garbati, che parlano d'altro. Odio l'amore.

Euridice                           - Zitto. Non bisogna dirlo.

Orfeo                               - Ora, almeno, ci conosciamo. Conoscia­mo il peso della nostra testa addormentata, il suono del nostro riso. Ora abbiamo ricordi comuni, per difenderci.

Euridice                           - Tutta una sera, tutta una notte, tutto un giorno. Siamo ricchi!

Orfeo                               - Ieri non avevamo niente, non sape­vamo niente e siamo entrati per caso in questa camera, sotto l'occhio di quell'orribile cameriere, il quale subodorava che venissimo a fare l'amore. Eravamo troppo poveri; troppo nudi. Non era giu­sto essere costretti a rischiar tutto in una volta sola, perfino quell'improvvisa tenerezza per te che aveva cominciato a stringermi la gola, perché avevi -una macchiolina rossa sulla spalla.

Euridice                           - E dopo, tutto è diventato così fa­cile...

Orfeo                               - Hai appoggiata la testa su di me e ti sei addormentata. E d'un tratto, io mi sono sen­tito così forte, forte di tutto il peso della tua testa. Mi sembrava fossimo sdraiati nudi su una spiaggia e che la mia tenerezza fosse un mare grosso che a poco a poco ricopriva ì nostri corpi distesi... come se la nostra lotta e la nostra nudità, su questo letto disfatto, fossero state necessarie perché diventassimo veramente fratelli.

Euridice                           - Oh, caro, questo pensavi, e mi la­sciavi dormire.

Orfeo                               - Mi dicevi molte altre cose nel sonno alle quali non potevo rispondere.

Euridice                           - Ho parlato? Parlo sempre, dor­mendo. Spero che tu non abbia ascoltato.

Orfeo                               - (sorride) Sì.

Euridice                           - Traditore. Invece di dormire one­stamente come me, mi spii. Come vuoi che sappia quello che dico mentre dormo?

Orfeo                               - Non ho capito che due parole. Hai mandato un terribile sospiro, la bocca ti si è un po' irrigidita e hai detto: è difficile.

Euridice                           - (ripete) E' difficile.

Orfeo                               - Cos'era dunque così difficile?

Euridice                           - (rimarle un momento senza rispondere, scuote la testa e dice svelta con la sua vocino) Non so, caro... Sognavo. (Bussano. E' il cameriere che entra subito. Ha grossi baffi griffi e l'aria strana).

Il Cameriere                     - Il signore ha suonato?

Orfeo                               - No.

Il Cameriere                     - Credevo che il signore avesse suonato. (Esita un attimo, poi esce dicendo) Scusi, signore.

Euridice                           - (quando è uscito) Saranno veri?

Orfeo                               - Che cosa?

Euridice                           - I baffi.

Orfeo                               - Certamente. Sembrano falsi. Solo i baffi falsi sembrano veri. E' noto.

Euridice                           - Non ha l'aspetto altrettanto nobile del cameriere della stazione.

 Orfeo                              - Quello, della «Comédie Prancaise»? Questo è più misterioso.

Euridice                           - Sì, troppo. Non mi piacciono le per­sone troppo misteriose. Mi fa un po' paura. A te, no?

Orfeo                               - Sì, un po'. Non mi arrischiavo a dirtelo.

Euridice                           - (stringendosi a lui) Stringiamoci forte. Per fortuna siamo in due.

Orfeo                               - Abbiamo già dei personaggi nella no­stra storia. Due camerieri. La bella cassiera col suo vasto seno...

Euridice                           - Peccato che non ci abbia detto nien­te, la bella cassiera.

Orfeo                               - In tutte le storie ci sono personaggi muti. Non ci ha detto nulla ma ci ha guardato tutto il tempo. Se ora ella non fosse muta per l'e­ternità, sentiresti quante cose avrebbe da dire sul nostro conto...

Euridice                           - E l'impiegato della stazione?

Orfeo                               - Il balbuziente?

Euridice                           - Sì, il simpatico, piccolo balbuziente. Com'era esile e gentile, con la grossa catena da orologio e il berretto fiammante.

Orfeo                               - Ti ricordi come ci ha elencato tutte le stazioni nelle quali non dovevamo cambiare treno per farci capire, senza possibili errori, quella ove dovevamo cambiare?

Euridice                           - Caro, piccolo balbuziente. Certamen­te ci ha portato fortuna. Ma quell'altro spaventoso e volgare controllore?

Orfeo                               - Ah, che imbecille!

Euridice                           - Brutto, bestiale e pretenzioso.

Orfeo                               - E' il nostro primo personaggio igno­bile. Il nostro primo traditore. Ve ne saranno al­tri, vedrai. Una storia lieta è piena di traditori.

Euridice                           - Sì, ma quello lo rifiuto. Lo licenzio. Non ne voglio sapere di un simile imbecille nei miei ricordi con te.

Orfeo                               - Troppo tardi, cara. Non abbiamo il di­ritto di mandar via nessuno.

Euridice                           - Allora per tutta la nostra vita quell'omone sudicio e soddisfatto farà parte del nostro primo giorno?

Orfeo                               - Per tutta la nostra vita.

Euridice                           - E la orrenda vecchia vestita di nero cui ho fatto una boccaccia? Quella che maltrattava la sua piccola cameriera magra. Anche lei sarà sempre lì?

Orfeo                               - Sempre. Vicino alla bambinetta che nel treno non smise mai di guardarti, al grosso cane che voleva assolutamente seguirti, a tutti i nostri personaggi simpatici.

Euridice                           - Credi che si possa ricordare un pri­mo giorno soltanto col grosso cane,, la bambina, le gitane che ballavano in piazza sui trampoli e il piccolo balbuziente, per esempio?... Sei sicuro che non si può scartare i cattivi personaggi e conser­vare i buoni?

Orfeo                               - Sarebbe troppo bello.

Euridice                           - Non si può neanche tentare di im­maginarseli un po' meno brutti, almeno per questa prima giornata?

Orfeo                               - Impossibile. Sono passati, ora, nella tua vita, i buoni come i cattivi. Hanno fatto la rive­renza e detto le loro parole... Sono come dentro di te, per sempre.

Euridice                           - Allora, se si sono viste molte cose brutte nella vita, rimangono tutte dentro di noi?

Orfeo                               - Sì!

Euridice                           - Credi che tutte le cattive parole udi­te, le serbiamo in fondo a noi stessi? E tutti i ge­sti che facemmo, credi che la mano se li ricordi ancora?

Orfeo                               - Sì.

Euridice                           - Sei certo che anche le parole dette senza volerlo, e di cui ci siamo dimenticati, siano ancora sulla nostra bocca, quando si parla?

Orfeo                               - (.facendo l'atto di abbracciarla) Ma sì, matta...

Euridice                           - (respingendolo) Aspetta. Non abbrac­ciarmi. Piuttosto spiegami.

Orfeo                               - Ma certamente.

Euridice                           - Professoroni? Insomma quelli che de­vono sapere le cose, ai quali si può credere?

Orfeo                               - Sì.

Euridice                           - Ma allora non si è mai soli se tutte le parole e tutte le orribili risate sono qui. Se tutte le mani che vi hanno toccato vi rimango­no appiccicate alla pelle. Non si può mai diventare un'altra?

Orfeo                               - Cosa dici?

Euridice                           - E quando si dice ho fatto questo gesto, ho detto, ho udito questa parola, ho lasciato qualcuno... (Si ferma) Quando si dicono a un altro, a quello che amiamo, questo le annulla in noi?

Orfeo                               - Sì. E si chiama confessarsi. Dicono che dopo sembra di essere tutti lavati, tutti lucenti.

Euridice                           - Ne sono ben certi?

Orfeo                               - Lo dicono.

Euridice                           - (dopo aver riflettuto un momento) Sì, sì, ma se invece le cose continuano, a vivere più forte, due volte vive per essere state dette? Non mi fido, credo che sia meglio non dire niente. (Orfeo la guarda, si solleva sui ginocchi. Essa lo vede e aggiunge, afferrandosi a lui) O dire tutto, caro, quando la cosa è semplice, come per noi ieri, dire tutto, come ho fatto io. (Il cameriere bussa ed entra).

Il Cameriere                     - Il signore ha suonato?

Orfeo                               - No.

Il Cameriere                     - Chiedo scusa. (.Fa un passo; sul­la soglia, aggiunge) Volevo dire al signore che il campanello non funziona. Se il signore avesse bi­sogno di suonare, sarà meglio che chiami.

Orfeo                               - Va bene. (Sembra che il cameriere se ne vada. Ma cambia idea, traversa la camera, e va a mettere in azione le doppie tende che chiude e apre).

Il Cameriere                     - funzionano.

Orfeo                               - Si vede.

Il Cameriere                     - Abbiamo delle camere dove il campanello funziona e le doppie tende no. (Sta per uscire, aggiunge) Ma se non funzionassero il si­gnore suoni. (Si ferma) Insomma, chiami, perché, come ho già detto al signore, il campanello... (Fa un gesto ed esce).

Orfeo                               - Ecco il nostro primo personaggio strano. Ne avremo altri. Ma questo dev'essere un bravo e ingenuo provenzale.

Euridice                           - No, no. Mi guarda continuamente. Non hai visto come mi guarda?

Orfeo                               - Fantasie.

Euridice                           - Mi piaceva di più l'altro, quello della «Comédie Frangaìse... ». (Il cameriere bussa e rien­tra. Si ha la netta impressione che fosse dietro la porta).

Il Cameriere                     - Chiedo scusa. Ho dimenticato dì dire al signore che la padrona lo prega di scen­dere per completare la sua schedina. Dobbiamo con­segnarla stasera.

Orfeo                               - Devo scendere subito?

Il Cameriere                     - Sì, se questo non disturba il signore.

Orfeo                               - Bene. Vi seguo. Intanto vestiti, scen­deremo a cena. (Il cameriere apre la porta per la­sciar passare Orfeo ed esce dietro di lui. Rientra quasi subito, va verso Euridice che s'è alzata).

Il Cameriere                     - (porgendole una busta) Una lettera per lei. Dovevo consegnarla a lei sola: la padrona non è in ufficio. Ho mentito. Siamo al primo plano. Ha mezzo minuto per leggerla. (Re­sta davanti a lei).

Euridice                           - (ha preso la lettera tremando, l'ha aperta, la legge, la fa a pezzetti senza che nessuna emozione traspaia dal suo viso).

Il Cameriere                     - Mai nel cestino. (Si inginocchia davanti al cestino e comincia a raccogliere i pez­zetti di carta che nasconde nella tasca del grembiu­le) E' molto che si conoscono?

Euridice                           - Un giorno.

Il Cameriere                     - Di solito sono le ore migliori.

Euridice                           - (dolcemente) Di solito, sì.

Il Cameriere                     - Ne ho visti molti passare da questa camera. Distesi sul letto, come loro poco fa. Belli, pochi. O troppo grassi o troppo magri o mo­struosi. Con la saliva alla bocca a furia di « amo­re mio ». A volte, quando cala la sera, come ora, mi sembra di vederli tutti insieme: un formicaio. No, l'amore non è bello.

Euridice                           - (sommessamente) No.

Orfeo                               - (entrando) Siete ancora qui?

Il Cameriere                     - Esco, signore.

Orfeo                               - La padrona non c'è.

Il Cameriere                     - Forse mi sono attardato salendo per avvertire il signore. Non fa niente, signore, c'è tempo fino a stasera. (Li guarda entrambi poi esce).

Orfeo                               - Che faceva qui?

Euridice                           - Nulla. Mi raccontava dì tutte le cop­pie che ha visto in questa camera.

Orfeo                               - Discorsi allegri.

Euridice                           - Dice che qualche volta gli sembra di vederle tutte insieme: un formicaio.

Orfeo                               - E sei stata ad ascoltare simili chiac­chiere?

Euridice                           - Forse non sono chiacchiere. Tu che sai tutto, hai detto che i personaggi che abbiamo co­nosciuto, probabilmente continuano a vivere nel no­stro ricordo. Anche questa camera si ricorda forse di tutti coloro che sono passati di qui. Sono qui, intorno a noi, abbracciati; magri, grassi, mostruosi.

Orfeo                               - Pazza.

Euridice                           - Il letto ne è pieno. I gesti, che or­rore!

Orfeo                               - (cercando di trascinarla) Andiamo a cena. La strada è rosa sotto le prime luci. Andremo a mangiare in una gargotta che odora d'aglio. Vieni.

Euridice                           - (resiste) Tu ridi, ridi sempre, tu. Sei forte.

Orfeo                               - Un ercole, da ieri sera. L'hai detto tu.

Euridice                           - Si, un ercole che non ode niente, non sente niente, è sicuro di sé e va dritto per la sua strada. Ah, potete essere leggeri voi, ora che mi avete resa così pesante... Dite le cose poi non ci pensate più. Scendete a cena dicendo: fa bello, ci sono le luci, qui odora d'aglio.

Orfeo                               - Fra un minuto lo dirai anche tu. Vie­ni, lasciamo questa camera.

Euridice                           - Ma per me non è più bello, non odora più di buono. Come è stato breve.

Orfeo                               - Ma che hai? Tremi.

Euridice                           - Sì tremo.

Orfeo                               - Sei pallida.

Euridice                           - Sì.

Orfeo                               - Che occhi hai? Non ti ho mai visto questi occhi. (L'attira a sé; ella lo lascia fare, vol­tando la testa).

Euridice                           - (si volta gridando) Non guardarmi. Il tuo sguardo mi fruga. E' come se tu fossi pene­trato in me, tutto caldo. Non guardarmi.

Orfeo                               - Da ieri, ti guardo. (L'attira a se).

Euridice                           - Sai che sei forte? Hai l'aria di un ragazzino magro e sei più forte di tutti. Quando suoni, come ieri nella stazione, o quando parli di­vento come un piccolo serpente. Non ho più che da strisciare piano fino a te.

Orfeo                               - (la cinge con le braccia, la riscalda) State bene, piccolo serpente?

Euridice                           - Qualche volta taci e io credo di es­sere libera come una volta. Allora faccio di tutto per allontanarmi un po' da te. Ma ricominci a parlare e io ritorno, felice, in trappola.

Orfeo                               - Sei un piccolo serpente che si chiede troppe cose. I serpenti devono scaldarsi al sole, bere il latte che gli danno e far le fusa, tranquil­lamente.

Euridice                           - I gatti fanno le fusa.

Orfeo                               - (che le carezza i capelli) E' lo stesso. Pai le fusa. Ti tengo.

Euridice                           - (gridando all'improvviso) Caro.

Orfeo                               - Sì.

Euridice                           - Ho paura che sia troppo difficile.

Orfeo                               - Ma che cosa?

Euridice                           - Il primo giorno tutto sembra facile. Il primo giorno non c'è che da inventare. Sei si­curo che non abbiamo già inventato tutto?

Orfeo                               - (prendendole la testa) Sono sicuro che ti amo e che tu mi ami. Sicuro come delle pietre, cerne delle cose di legno e di ferro.

Euridice                           - Sì, ma forse mi hai creduta un'altra. E poi quando mi vedrai in faccia, come sono...

Orfeo                               - Da ieri ti guardo in faccia. Ti ascolto parlare mentre dormi.

Euridice                           - Sì, ma non ti ho detto molto. E se stasera mi riaddormento e dico tutto?

Orfeo                               - Tutto. Tutto che cosa?

Euridice                           - Le vecchie parole che ci sono rima­ste appiccicate, le vecchie storie. E se qualcuno, uno dei personaggi, venisse a dirti...

Orfeo                               - Che vuoi mi vengano a dire di te? Ora, ti conosco meglio di loro.

Euridice                           - Credi? (Euridice alza la testa e guar­da Orfeo che continua, con forza gioiosa).

Orfeo                               - Mio soldatino. E' un giorno intero che ti ho ai miei ordini, ti conosco bene. Dì la verità; non mi sono reso un po' antipatico, da ieri, a fare sempre la parte del capitano? «Presto, ecco il treno. Sali sull'ultimo vagone. Serba i posti, io vado in cerca dei cuscini. Svegliati, siamo a Marsiglia. Si scende. Coraggio, l'albergo è lontano dalla sta­zione ma non abbiamo denari per un tassì...». E il soldatino, stordito,. gli occhi ancora imbambolati dal sonno, afferra le valige, con un sorriso buono. E « uno, due » segue coraggiosamente nella notte il suo capitano... Pensare che avrei potuto condurre con me una signora con cappello piumato e alti tacchi sonanti. Sarei morto di paura, chiedendo una camera. E nello scompartimento, sotto lo sguar­do di tutti quegli uomini che fingevano di dormire, per immaginarti meglio nuda. Chi sa? Porse lei avrebbe sorriso e si sarebbe tirata su la sottana con mossa furtiva in fondo contenta di quello scompartimento che la desiderava, pur facendo finta di dormire... Sarei morto di vergogna. Ma il mio silenzioso piccolo fratello, accanto a me, è di­ventato di legno. Le gambe nascoste, la sottana inspiegabilmente allungata, le mani scomparse... Una piccola mummia senza sguardo che i finti dor­mienti delusi presto dimenticarono, mettendosi a russare l'uno dopo l'altro... Non ti ho detto grazie.

Euridice                           - (dolcemente, a testa bassa) Non bi­sogna.

Orfeo                               - E non ti ho nemmeno ringraziato pel­li tuo coraggio.

Euridice                           - Il mio coraggio?

Orfeo                               - Per i giorni, che non tarderanno a ve­nire, in cui lascerai passare l'ora di cena, fumando con me l'ultima sigaretta, una boccata per uno. Per i vestiti che fingerai di non vedere nelle vetri­ne; per i bottegai che ci rideranno dietro, i pa­droni di albergo ostili, le portinaie... Non ti ho rin­graziato per i letti fatti, le camere spazzate, le sto­viglie rigovernate, le mani arrossate e il guanto rotto, e l'odore di cucina nei capelli. Per tutto quel­lo che mi hai dato, accettando di seguirmi. (Euridice ha la testa abbassata, egli la guarda in silen­zio) Mia sdegnosa, mia selvaggia, mia piccola stra­niera... Stanotte mi sono svegliato chiedendomi se non fossi un uomo grossolano come gli altri, con uno stupido orgoglio, e delle mani troppo pesanti, e se ti meritavo. (Euridice ha alzato la testa e lo guarda fisso nell'ombra che sale).

Euridice                           - (dolcemente, nell'ombra) Pensi ve­ramente tutto questo di me?

Orfeo                               - Sì, amor mio.

Euridice                           - (pensa ancora un po') E' vero. Que­sta è un'Euridice molto affascinante.

Orfeo                               - Sei tu.

Euridice                           - (carezzandogli la testa) Sì. Hai ra­gione, è proprio una donna per te. (Un tempo, poi piano con una buffa vocina) La signorina Euridice, tua moglie...

Orfeo                               - (s'è raddrizzato, molto allegro) ...La saluto... Ora consente di venire a cena? L'incanta­tore di serpenti non può più soffiare nel flauto. Muore di fame.

Euridice                           - (con altra voce) Accendi la luce.

Orfeo                               - Finalmente una parola sensata. Luce dappertutto. Onde di luce. Fuga dei fantasmi. (Or­feo va a girare il commutatore. Una luce cruda inonda e imbruttisce la stanza).

Euridice                           - (a testa china per nascondere l'emo­zione) Caro, non vorrei venire in un ristorante, vedere gente. Se vuoi, scendo a comprare qualcosa e mangeremo qui.

Orfeo                               - Nella camera che è tutto un formicaio?

Euridice                           - Sì, non importa più niente ora.

Orfeo                               - (attirandola a sé) Sarà molto diverten­te. Scenderò con te.

Euridice                           - (rapidamente) No, lasciami scende­re sola. (Egli sì ferma) Mi farà piacere farti la spe­sa, come una persona a modo.

Orfeo                               - (la prende per le spalle) Allora compra tante cose.

Euridice                           - Sì!

Orfeo                               - Bisogna fare un festino.

Euridice                           - Sì, caro.

Orfeo                               - Come se avessimo danaro. Un miracolo che le persone ricche non capiranno mai.

Euridice                           - (sorride, con gli occhi pieni di lacrime).

Orfeo                               - Compra anche dei fiori per mangiare. Molti fiori...

Euridice                           - (balbettando) Non è roba da man­giare.

Orfeo                               - E' vero. Li metteremo sulla tavola. (Guarda intorno a sé) Non c'è una tavola. Compra lo stesso tanti fiori. E poi compra la frutta. Pesche, grosse pesche di vigna, albicocche, susine claudie. Un po' di pane per mostrare il lato serio della cosa e una bottiglia di vino bianco che berremo nel bicchiere per i denti. (La spinge verso la porta) Sbrigati, ho molta fame.

Euridice                           - (va a prendere il cappellino e se lo mette, davanti allo specchio).

Orfeo                               - Ti metti il cappello?

 Euridice                          - Sì. (Si volta all'improvviso e dice, con una strana voce rauca) Addio, caro.

Orfeo                               - (le grida ridendo) Perché dici addio?

Euridice                           - (dalla soglia, in parte voltala, guar­dandolo) Addio! (Ella lo guarda ancora un se­condo, sorridente e pietosa, ed esce all'improvviso. Orfeo resta un momento immobile, sorridendo a Euridice che è uscita. D'un tratto il sorriso scom­pare; le fattezze si irrigidiscono, una vaga angoscia lo afferra, corre alla porta chiamando).

Orfeo                               - Euridice! (Apre la porta e retro­cede, stupefatto. Il giovanotto che lì ha avvicinati alla stazione è sulla porta, sorridente).

Il Giovane                       - E' scesa. (Orfeo fa ancora un passo indietro meravigliato, cerca di riconoscerlo) Non mi riconosce? Ci siamo incontrati ieri al buf­fet della stazione, al momento di quella disgrazia. Si ricorda? Il giovane che si è gettato sotto il treno. Mi sono permesso di entrare per darle la buona sera. Ho molta simpatia per loro. Siamo vicini. L'undici è la mia camera. (Fa un passo avanti, gli porge un pacchetto di sigarette) Fuma? (Orfeo prende macchinalmente una sigaretta) Io non fumo. (Cava una scatola di fiammiferi e accende la si­garetta di Orfeo) Un po' di fuoco?

Orfeo                               - Grazie. (Chiude la porta e chiede mac­chinalmente) A chi ho l'onore?

Il Giovane                       - Conoscenze di viaggio. E' una for­tuna non sapere esattamente chi siamo. Il mio nome non le direbbe niente. Mi chiami signor Enrico. (E' entrato addirittura nella camera. Guarda Orfeo sorridendo. Orfeo lo guarda anche, come affasci­nato) Bella città Marsiglia: formicolio umano, canagliume, sporcizia. Lei conta di fermarsi a lungo?

Orfeo                               - Non so.

Enrico                              - Ieri le ho rivolto un po' sfacciatamente la parola. Ma eravate così commoventi, stretti l'uno all'altro in mezzo a quella grande sala deserta. Un bello sfondo rosso e scuro con la notte cadente e i rumori della stazione lontani. (Lo guarda a lun­go, sorride) Il piccolo Orfeo e la signorina Euridice... Una fortuna che non capita tutti i giorni... Potevo non parlare con loro... Di solito io non parlo con nessuno. A che serve? Ma con lei, non so perché, non ho resistito al desiderio di conoscerla meglio. Lei è musicista?

Orfeo                               - Sì.

Enrico                              - Amo la musica. Amo tutto ciò che è dolce, felice. Amo la felicità. Ma parliamo di lei. Parlare di me non è interessante. Ma prima beva qualcosa, facilita la conversazione. (Si alza e suo­na. Guarda Orfeo e sorride durante la breve atte­sa) Mi fa piacere chiacchierare un po' con lei. (E' entrato il cameriere) Cosa beve? Un alcolico? Un cognac?

Orfeo                               - Un cognac...

Il Cameriere                     - Uno solo?

Enrico                              - Sì. (A Orfeo) Mi scusi, ma io non bevo. (Il cameriere è uscito. Guarda Orfeo, sor­ridendo) Mi rallegro di questo incontro.

Orfeo                               - (con gesto imbarazzato) La ringrazio.

Enrico                              - Si chiederà perché mi interesso mol­to a lei. (Orfeo fa un gesto) Ero in fondo alla sala, ieri, quando le è venuta incontro come chia­mata dalla sua musica. Quei rapidi momenti in cui il destino dispone le sue pedine sono emozio­nanti, non le pare? CE' entrato il cameriere) Ecco il suo cognac. (Il cameriere serve un bicchiere).

Il Cameriere                     - Il cognac, signore. (Se ne va).

Orfeo                               - (bevendo) Grazie.

Enrico                              - (che ha guardato il cameriere uscire). Ha fatto caso con che insolita lentezza il ca­meriere è uscito?

Orfeo                               - No.

Enrico                              - (fa qualche passo verso la porta come per ascoltare) E' tornato ad ascoltare dietro la porta. (Toma indietro) Sono sicuro che è già entrato qui parecchie volte, con vari pretesti. So­no sicuro che ha già tentato di parlarle...

Orfeo                               - Sì, ha tentato.

Enrico                              - Come vede non sono il solo a inte­ressarmi a lei, oggi... scommetto che i negozianti, gli impiegati di stazione, le ragazzine per la strada, da ieri, le sorridono in un modo inconsueto.

Orfeo                               - Si è sempre gentili con gli innamorati.

Enrico                              - Non è soltanto gentilezza. Non le sembra che la guardino un po' troppo fissamente?

Orfeo                               - No, perché?

Enrico                              - (sorride, si allontana) Niente. (Gli pas­sa davanti e si volta bruscamente) Caro mio, vi sono due specie di esseri. Una, numerosa, fe­conda, felice, che mangia salsicce, scodella figlioli, adopera i suoi arnesi, conta i suoi soldi, nelle buone annate come nelle cattive, nonostante le epidemie, le guerre, fino alla morte. Gente fatta per vivere, gente qualunque e che non s'imma­gina morta. E poi vi sono gli altri, i nobili, gli eroi. Quelli che ci immaginiamo benissimo lunghi, distesi, pallidi, una striscia rossa sulla fronte, per un attimo trionfanti, con una scorta d'onore o tra due guardie secondo i casi. Lei non è mai stato tentato da questa visione?

Orfeo                               - Mai e stasera meno che mai.

Enrico                              - Peccato. Non bisogna credere esage­ratamente alla felicità. Soprattutto quando si è di buona stirpe. Non ci riserbiamo che delusioni. (Il cameriere bussa ed entra).

Il Cameriere                     - Signore, c'è una ragazza che chiede della signorina Euridice. Le ho detto che è uscita, ma non mi crede. Insiste per vedere proprio lei. Le ho detto che salga.

La Ragazza                      - (entrando e scansando il camerie­re) Sono già salita. Dov'è Euridice?

Orfeo                               - E' uscita, signorina. E lei chi è?

La Ragazza                      - Una sua amica della Compagnia. Devo parlarle subito.

Orfeo                               - Le dico che è uscita. E poi credo che non abbia niente da dire a lei.

La Ragazza                      - S'inganna. Invece ha molte cose da dirmi. Da quanto tempo è uscita? Ha preso la valigia?

 Orfeo                              - Perché dovrebbe aver preso la valigia? E' scesa a comprare la cena.

La Ragazza                      - Forse è scesa a comprare la cena, ma aveva buone ragioni per prendere la valigia perché avrebbe dovuto raggiungerci alla stazione e prendere con noi il treno delle otto e dodici.

Orfeo                               - (grida) Raggiungere chi?

Il Cameriere                     - (che ha tirato fuori un grosso orologio di metallo) Sono le otto e dieci minuti e trenta secondi.

La Ragazza                      - (come fra se) Deve già essere alla stazione con lui. Grazie. (Se ne va. Orfeo la raggiunge davanti alla porta).

Orfeo                               - Alla stazione con chi?

La Ragazza                      - Mi lasci. Mi fa male. Perderò il treno.

Il Cameriere                     - (che guarda sempre l'orologio) Sono le otto e undici minuti giusti.

Dulac                               - (apparso sulla soglia, al cameriere) E tredici minuti. Il vostro orologio va indietro. Il treno è partito. (A Orfeo) Lasci andare quella ragazza. Posso risponderle io: alla stazione con me.

Orfeo                               - Chi è lei?

Dulac                               - Alfredo Dulao, impresario d'Euri­dice. Dov'è?

Orfeo                               - Cosa vuole da lei?

Dulac                               - (si avanza tranquillamente masticando un vecchio sigaro) E lei?

Orfeo                               - Euridice è la mia amante.

Dulac                               - Da quando?

Orfeo                               - Da ieri.

Dulac                               - Si figuri che è anche la mia. Da un anno.

Orfeo                               - Lei mente.

Dulac                               - (sorride) Perché lei ha dimenticato di dirglielo.

Orfeo                               - Euridice mi ha detto tutto, prima di seguirmi. Da tre mesi era l'amante di quel giovane che ieri si buttò sotto il treno.

Dulac                               - Che stupido! Un giovanotto che inter­pretava i personaggi odiosi. In Compagnia ne ave­vano tutti paura. La ragazza gli dice che lo la­scia e lui va a cacciarsi sotto l'accelerato di Perpignano. Ma non capisco il perché abbia avver­tito soltanto lui. E' filata via senza un grido, come un uccello.

Orfeo                               - Forse era il solo cui doveva render conto.

Dulac                               - No. C'ero io. Prima, come impresario. Sono due sere che la rimpiazzo alla meglio e non è mai una cosa facile. Poi perché ieri l'altro, se non le dispiace, ha passato la notte con me.

Orfeo                               - (lo guarda) Non capisco se lei è più odioso o ridicolo.

Dulac                               - (si avanza un po') Davvero?

Orfeo                               - Nonostante il suo tono, credo che sia soprattutto ridicolo.

Dulac                               - Perché la ragazza ieri sera era in questo letto invece che nel mio? Lei è un bam­bino. A una donna come Euridice bisogna permettere qualche capriccio. E' stata anche dell'imbecille che si è ucciso ieri. Con lei almeno lo capisco. Lei ha dei belli occhi, lei è giovane...

Orfeo                               - (grida) Amo Euridice e Euridice mi ama.

Dulac                               - Glielo ha detto?

Orfeo                               - Sì.

Dulac                               - Una ragazza straordinaria. Fortuna che la conosco.

Orfeo                               - E se la conoscessi meglio di lei?

Dulac                               - Da ieri?

Orfeo                               - Sì, da ieri.

Dulac                               - Senta, io non faccio il furbo. Lei sembra più intelligente dì me e, se si trattasse d'altro, forse le direi: Ah, bene. Ma due cose co­nosco benissimo: il mio mestiere, prima...

Orfeo                               - E poi Euridice?

Dulac                               - No, non ho questa pretesa. Stavo per dire una parola molto più modesta: le donne. Sono impresario da vent'anni. Le donne, ragazzo mio, le vendo all'ingrosso: per alzare le gambe negli spettacoli di provincia o per gracchiare l'aria della « Tosca » nei Casinò. Non fa differenza. E poi mi piacciono. Una buona ragione per pre­tendere di conoscerle. Euridice è forse una ra­gazza strana. Sono stato il primo a dirlo. Ma dal modo - che entrambi abbiano potuto constata­re - come è fatta, lei mi concederà che è una donna...

Orfeo                               - No...

Dulac                               - Come no? Le è parsa un angelo, la sua? Mi guardi. Euridice è stata mia per un anno. Ho forse l'aspetto di un seduttore di angeli?

Orfeo                               - Lei mente. Euridice non può essere stata sua.

Dulac                               - Lei è il suo amante, io anche. Vuole che gliela descriva?

Orfeo                               - No.

Dulac                               - Com'è la sua? Bisogna buttarla giù dal letto, la mattina? Strapparla ai romanzi po­lizieschi, e alle sue sigarette? L'ha mai vista senza una calza rotta come una stracciona? E le calze? Le ha ritrovate, le calze, alzandosi? Sia sincero. Confessi almeno che la camicia era appesa alla cornice dell'armadio, le scarpe nella vasca da bagno, il cappello sulla poltrona e la borsetta in­trovabile. Gliene ho già comprate sette.

Orfeo                               - Non è vero.

Dulac                               - No? Ne è certo? Lei ha conosciuto un'Euridice ordinata? Non credo ai miracoli. Spe­ro comunque che l'abbia già fatto fermare da­vanti alle vetrine. Quanti vestiti le ha domandato di comprarle, da ieri? Quanti cappelli? Fra noi...

Orfeo                               - Euridice mi ha seguito con un solo vestito, una sola valigia.

Dulac                               - Comincio a credere che non si parli della stessa persona, oppure pensava che non fosse per molto.

Orfeo                               - Non è vero.

Dulac                               - Per lei niente è vero; è buffo, lei. Da quanto tempo è uscita, la sua...?

Orfeo                               - Venti minuti.

Dulac                               - Bene. Questo è vero?

Orfeo                               - Sì.

Dulac                               - Ha voluto uscire sola?

Orfeo                               - Sì. Comprare la cena da sola la diver­tiva.

Dulac                               - Anche questo è vero?

Orfeo                               - Sì.

Dulac                               - Ebbene, le avevo fatto consegnare una lettera cinque minuti prima, le dicevo di rag­giungermi alla stazione.

Orfeo                               - Nessuno ha potuto consegnarle quel­la lettera. Da ieri non l'ho lasciata sola un mi­nuto.

Dulac                               - Ne è sicuro? (Guarda il cameriere. Anche Orfeo lo guarda senza motivo).

IlCameriere                     - (turbato) Mi scusino, mi sembra che mi chiamino. (Sparisce):

Orfeo                               - L'ho lasciata solo un istante. Quell'uomo è venuto a dirmi che chiedevano di me in direzione.

Dulac                               - Lo avevo incaricato dì consegnare la lettera a Euridice sola.

Orfeo                               - (s'avanza verso dì luì) Che le diceva in quella lettera?

Dulac                               - Che l'aspettavo al treno delle otto e dodici. Non occorreva aggiungessi altro... poiché il destino bussava alla sua porta, dicendole: «Eu­ridice è finita ». Ero sicuro che avrebbe ubbidito.

Orfeo                               - Ma intanto non è venuta.

Dulac                               - (seccato) Questo è vero. Non è ve­nuta. Ma la mia Euridice è sempre in ritardo. Non mi impensierisco. Lei, alla sua, ha detto di comprare molte cose?

Orfeo                               - Pane e frutta.

Dulac                               - Dice che è uscita da venti minuti. Mi sembrano molti per comprare pane e frutta. La strada è piena di botteghe. Che sia in ritardo anche la sua Euridice? (Alla ragazza) Deve essere alla stazione, che ci cerca. Vai a vedere, tu.

Orfeo                               - Vado anch'io.

Dulac                               - Comincia a temere che abbia voluto raggiungermi? Io resto qui.

Orfeo                               - (sì ferma e grida alla ragazza) Se la vede, le dica...

Dulac                               - Inutile. Se la vede alla stazione, ho ragione io: la sua Euridice fedele e ordinata era un sogno. In questo caso, lei non ha più niente da dirle.

Orfeo                               - (grida alla ragazza) Le dica che l'amo.

Dulac                               - Le caverà una lacrima. E' sensibile. Ecco tutto.

Orfeo                               - (grida ancora) Le dica che non è co­me gli altri credono ma come io so che è.

Dulac                               - Troppo complicato a spiegare in una stazione.! Sbrigati e, voglio essere generoso, ri­conducila qui. Fra un minuto ci dirà lei stessa, chi è. (La ragazza sta per uscire. Urta il came­riere che rientra).

Il Cameriere                     - Signore... Orfeo - Che c'è?

Il Cameriere                     - Un agente con la camionetta della polizia...

Orfeo                               - Che vuole?

Il Cameriere                     - Domanda se qui ci sono pa­renti della signorina, ha avuto un incidente... Si­gnore... sull'autobus di Tolone.

Orfeo                               - (orrida come un passo) E' ferita? E' giù? (Si precipita nel corridoio. Dulac lo segue, Butta via. U sigaro e bestemmia a messa voce. An­che la ragazza scompare).

Dulac                               - (uscendo) Che faceva nell'autobus di Tolone?

Il Cameriere                     - (è rimasto solo di fronte al signor Enrico che non ha fatto un gesto) Non sa­pranno mai che facesse. Non è ferita, è morta. Uscendo da Marsiglia l'autobus s'è scontrato con un carro cisterna. Gli altri viaggiatori sono stati soltanto colpiti da schegge di vetro. Lei, in pieno. L'ho vista. L'hanno distesa sul fondo della ca­mionetta. Una piccolissima ferita alla tempia. Sembra che dorma. (// signor Enrico pare che non senta, con le mani sprofondaste nelle tasche del cappotto, passa vicino a lui).

Enrico                              - Fatemi preparare il conto. Parto sta­sera. (Esce. Cala il sipario).

TERZO ATTO

E' notte. Un barlume viene di sotto la tettoia dove brilla la luce di un segnale. Si ode, lontano, l'incerto suono di un campanello. Il buffet è deserto, le seggiole sono ammonticchiate sulla tavola.

(La scena resta vuota un momento, poi una delle porte esterne si apre. Il signor Enrico entra e fa entrare Orfeo, senza cappello, con l'impermeabile, pallido, stanco).

Orfeo                               - (guarda intorno a sé senza capire) Dove siamo?

Enrico                              - Non ti orizzonti?

Orfeo                               - Non posso più camminare.

Enrico                              - Riposati. (Prende una seggiola su una tavola) Tieni, una seggiola. (Orfeo si siede).

Orfeo                               - Dove siamo? Ho bevuto? Mi gira tutto intorno. Cos'è accaduto, da ieri?

Enrico                              - E' ancora ieri.

Orfeo                               - (si ricorda a un tratto e facendo l'atto dì alzarsi, grida) Lei mi aveva promesso...

Enrico                              - (gli mette una mano sulla, spalla) Si, ti ho promesso. Stai seduto. Riposati.

Orfeo                               - (guarda ancora intorno a sé) Dove siamo?

Enrico                              - Indovina.

Orfeo                               - Voglio sapere dove siamo.

EURIDICE

Enrico                              - Mi hai detto che non avresti avuto paura.

Orfeo                               - Non ho paura. Voglio soltanto sapere se siamo finalmente arrivati.

Enrico                              - Sì. Siamo arrivati.

Orfeo                               - Dove?

Enrico                              - Guarda. Ora riconosci il posto?

Orfeo                               - Il buffet della stazione...

Enrico                              - Sì.

Orfeo                               - (si alza) Lei mi ha promesso...

Enrico                              - Non gridare.

Orfeo                               - Perché è entrato in camera mia poco fa? Ero sdraiato sul letto. Ma stavo quasi bene, avvolto nel mio dolore.

Enrico                              - (sordamente) Non avevo più il corag­gio di sentirti soffrire.

Orfeo                               - Che importa a lei della mia sofferen­za?

Enrico                              - Non so. E' la prima volta. E' nato in me qualcosa di strano; tu piangevi e soffrivi. Ero in procinto di lasciare l'albergo. Ho posato le va-lige e sono entrato per calmarti. E siccome non ci riuscivo, ti ho fatto quella promessa; perché tu tacessi...

Orfeo                               - Ora mi sono calmato. Soffro ma non si sente. Se lei è sensibile, deve bastarle.

Enrico                              - Non mi credi ancora?

Orfeo                               - (si prende la testa fra le mani) Vorrei credere con tutte le mie forze, ma non la credo, no.

Enrico                              - (ridacchia silenziosamente e dà un col­petto affettuoso sulla testa di Orfeo) Testa du­ra, ometto. Piangi, fremi, soffri, ma non vuoi cre­dere. Ieri, per non fuggire subito, come al solito e per entrare in quella camera dove singhiozzavi, dovevo volerti molto bene. Odio il dolore. (Gli dà un altro amichevole colpetto sulla testa) Presto non piangerai più, testolina, e non ti chiederai più se devi credere o non credere.

Orfeo                               - Sta per venire?

Enrico                              - E' già qui.

Orfeo                               - In questa stazione? Ma è morta, l'ho vista che la portavano via.

Enrico                              - Vuoi capire, ometto? Non ti basta che il destino faccia ima grande eccezione per te? Sen­za tremare, hai messo la tua mano nella mia, mi hai seguito senza nemmeno domandarmi chi fos­si, senza rallentare il passo. Ma vuoi capire lo stesso.

Orfeo                               - No. Voglio rivederla e basta.

Enrico                              - Non hai altra curiosità? Io ti conduco alle porte della morte e tu non pensi che alla tua amica, ometto... Hai ragione, la morte non merita che il tuo disprezzo. Essa stende le sue immense reti, falcia a caso, grottesca, spaventosa, enorme. E per chi li ha visti cavarsi d'impaccio, tenere saldamente il calcio di una mitragliatrice o il ti­mone di una nave, trarre partito da tutto e ab­battere con precisione il nemico, gli uomini sono ben altrimenti pericolosi... Povera morte, grande pazza. (Si è seduto vicino a Orfeo, un po' stanco) Ma ti confiderò un segreto, perché ti voglio bene. Essa non ha che una virtù, e nessuno lo sa. E' buona, è troppo buona. Ha paura delle lacrime, dei dolori. Quando può, quando la vita glielo per­mette, va in fretta... Scioglie, slaccia, distende, mentre la vita si ostina, aggrappandosi come una mendicante, anche se ha perduto la partita, an­che se l'uomo non fiata più ed è sfigurato, anche se egli dovrà soffrire ancora. La morte sola è una amica. Con la punta delle dita, essa rende al mo­stro il suo volto, calma il dannato, lo libera...

Orfeo                               - (a un tratto grida) Avrei preferito Euridice sfigurata, sofferente, vecchia.

Enrico                              - (.improvvisamente abbassa la testa) Certo, siete tutti uguali. (Seccato).

Orfeo                               - Mi ha rubato Euridice, l'arnica. Con le dita ha appassito Euridice giovane, leggera, sorridente.

Enrico                              - Te la renderà.

Orfeo                               - Quando?

Enrico                              - Subito. Ma ascolta bene. La tua feli­cità era in ogni modo finita. Quelle ventiquattro ore, quella povera giornata, sono tutto quanto la vita, la tua cara vita, riserbava al piccolo Orfeo e alla piccola Euridice. Oggi forse tu non piange­resti Euridice morta, ma staresti piangendo Euri­dice fuggita.

Orfeo                               - Non è vero. Non era andata all'appun­tamento con quell'uomo.

Enrico                              - No. Ma non era nemmeno tornata nella tua camera. Aveva preso, sola, l'autobus di Tolone, senza denaro, senza valigia. Dove fuggi­va? E chi era veramente quella piccola Euridice che hai creduto di potere amare?

Orfeo                               - Chiunque fosse, io l'amo ancora. Vo­glio rivederla. La prego, signore, me la renda, an­che imperfetta. Voglio provare dolore e vergogna per lei. Voglio ritrovarla e riprenderla. Voglio odiarla e poi cullarla come un bambino. Voglio lot­tare, voglio soffrire, voglio accettare... Voglio vi­vere.

Enrico                              - (seccato) Vivrai.

Orfeo                               - Con le macchie, le ferite, le dispera­zioni e le rinunce. Con la vergogna.

Enrico                              - (lo guarda con disprezzo e insieme con tenerezza) Ometto! (Va verso dì lui e con un altro tono) Addio, te la rendo. E' la, sull'i ban­china, al medesimo posto dove la vedesti ieri per la prima volta. Ad aspettarti eternamente. Ti ri­cordi il patto?

Orfeo                               - (che già guarda la porta) Sì.

Enrico                              - Ripeti. Se tu lo dimenticassi non po­trei fare più niente per te.

Orfeo                               - Non devo guardarla in faccia., Enrico   - Non sarà facile.

Orfeo                               - Se la guardo in faccia una volta sola prima del mattino, la riperdo.

Enrico                              - (si ferma sorridendo) E non ti chiedi più il perché né il come, testa dura?

 Orfeo                              - (che guarda sempre la porta) No.

Enrico                              - (sorride ancora) Bene... Addio. Puoi ricominciare da capo. Non ringraziarmi. A presto. (Esce).

Orfeo                               - (resta un momento senza muoversi poi va alla porta. Da prima non dice niente, poi con voce sorda domanda) Sei lì?

La voce di Euridice         - Sì, caro. Quanto tempo ci hai messo.

Orfeo                               - Mi hanno permesso di venirti a ri­prendere... Soltanto non devo guardarti prima di giorno.

Euridice                           - (entra) Sì, caro. So. Me l'hanno detto. (Orfeo la prende per mano e la trascina senza guardarla. Traversano la scena in silenzio).

Orfeo                               - Vieni. Aspetteremo l'alba qui. Quando arriveranno i camerieri per il. primo treno, allo spuntar del giorno, saremo liberi. Chiederemo dei caffè ben caldo e da mangiare. Tu sarai viva. Non hai avuto troppo freddo?

Euridice                           - Sì, soprattutto un freddo tremendo. Ma mi hanno proibito di parlare. Posso soltanto dire fino al momento che lo chauffeur ha fatto quel sorriso nello specchietto e il camion-cisterna s'è gettato su noi come una bestia impazzita.

Orfeo                               - Lo chauffeur si era voltato per sorri­dere nello specchietto?

Euridice                           - Sì. Sai, quei giovani meridionali, credono che tutte le donne li guardino. Eppure io non avevo voglia di essere guardata.

Orfeo                               - Sorrideva a te?

Euridice                           - Sì. Ti spiegherò dopo, caro. Ha dato una sterzata e tutti insieme hanno urlato. Ho visto il camion-cisterna fare un balzo e il sorriso del giovanotto diventare una smorfia. Ecco tutto. (Pausa. Aggiunge con la sua vocino,) Dopo, non ho il diritto.

Orfeo                               - Stai bene?

Euridice                           - Oh, sì, vicino a te.

Orfeo                               - Mettiti il mio impermeabile sulle spalle. (Lo spiega e glielo mette)

Euridice                           - Ti ricordi il cameriere della a Comedie Francaise » ?

Orfeo                               - Lo rivedremo domattina.

Euridice                           - E la bella cassiera muta? Forse po­tremo finalmente sapere cosa pensa di noi. E' co­modo rivivere. E' come se ci incontrassimo la prima volta. (Domanda, come la prima volta) Sei buono? Sei cattivo? Come ti chiami?

Orfeo                               - (si presta al gioco, sorridendo) Orfeo e tu?

Euridice                           - Euridice... (Poi dolcemente aggiun­ge) Soltanto questa volta, siamo avvisati. (Abbassa la testa e dopo un attimo di silenzio dice) Ti chie­do perdono. Devi avere avuto molta paura...

Orfeo                               - Sì. Dapprima, l'impressione come di qualcosa che ti fissa. E che a un tratto, ti salta addosso come una bestia. Un peso sempre più pesante che si porta sulla schiena. E che poi si muo­ve, ti rode alla nuca, ti strangola. Per fortuna il cameriere è venuto a liberarmi dall'angoscia con dipinto in faccia un dolore preciso. Quando ti ho vista, da basso, distesa su quella camionetta, non ho più avuto paura.

Euridice                           - Mi avevano messa in una camionetta?

Orfeo                               - Nella camionetta della polizia. Ti avevano distesa sulla panca in fondo, con un agente vicino, come una ladruncola arrestata.

Euridice                           - Ero brutta?

Orfeo                               - Avevi solo un po' di sangue sulla tem­pia. Sembravi addormentata.

Euridice                           - Addormentata? Se tu sapessi come correvo. Correvo dritta, davanti a me, come una pazza. (Si ferma un attimo, poi domanda) Hai sof­ferto?

Orfeo                               - Sì.

Euridice                           - Ti chiedo perdono.

Orfeo                               - (sordamente) Non bisogna.

Euridice                           - (dopo un momento di silenzio) Mi hanno portato all'albergo perché avevo ancora una lettera in mano. Te. l'avevo scritta nell'auto­bus in attesa che partisse. Te l'hanno data?

Orfeo                               - No. Devono averla presa al commis­sariato.

Euridice                           - (improvvisamente inquieta, chiede) Credi che la leggeranno?

Orfeo                               - E' possibile.

Euridice                           - E non si potrà impedire che la leg­gano?

Orfeo                               - Troppo tardi.

Euridice                           - Ma quella lettera l'avevo scritta a te; quello che dicevo era per te. Com'è possibile che un altro la legga? Un omaccio, forse con dei sudici pensieri, un omaccio brutto e presuntuoso? Riderà, riderà sicuramente del mio dolore. Oh, im­pediscigli di leggerla, te ne prego. Mi sembra di essere nuda davanti a un altro.

Orfeo                               - Porse non l'hanno aperta.

Euridice                           - Ma non l'avevo ancora chiusa. Stavo per farlo quando il camion ci ha urtati. Ed è per questo indubbiamente che lo chauffeur mi ha guar­data. Tiravo fuori la lingua, si è messo a sorridere, ho sorriso anch'io...

Orfeo                               - Hai sorriso anche tu. Potevi dunque sorridere, tu.

Euridice                           - Ma no, non potevo sorridere, non capisci niente! Ti avevo scritto quella lettera, ti dicevo che t'amavo, che ero addolorata ma che dovevo partire. Ho tirato fuori la lingua per inu­midire la colla della busta. Lui ha detto una spi­ritosaggine come ne dicono quei giovanotti. Tutti sorridevano intorno a me. (Si ferma scoraggiata) Ah, è diverso quando si racconta. E' difficile, vedi, tutto è troppo difficile...

Orfeo                               - Che cosa facevi nell'autobus di Tolone?

Euridice                           - Fuggivo.

Orfeo                               - Avevi ricevuto la lettera di Dulac?

 Euridice                          - Sì. Per ciò partivo.

Orfeo                               - Perché non mi hai mostrato quella lettera, quando sono tornato?

Euridice                           - Non potevo.

Orfeo                               - Che ti diceva in quella lettera?

Euridice                           - Di raggiungerlo al treno delle otto e dodici, altrimenti sarebbe venuto a cercarmi.

Orfeo                               - Per questo sei fuggita?

Euridice                           - Sì, Non valevo che s'incontrasse con te.

Orfeo                               - Non hai pensato che sarebbe venuto e l'avrei visto lo stesso.

Euridice                           - Sì, ma ero vile e non volevo essere presente.

Orfeo                               - Sei stata la sua amante?

Euridice                           - No. Te l'ha detto lui? Sapevo che te l'avrebbe detto e che tu avresti creduto. Mi per­seguita da molto tempo e mi detesta. Sapevo che ti avrebbe parlato di me. E ho avuto paura.

Orfeo                               - Perché non l'hai confessato ieri, quando ti ho chiesto di dirmi tutto, che eri stato anche l'amante di costui?

Euridice                           - Non lo sono stata.

Orfeo                               - Euridice, ora è meglio dire tutto. Sotto tutti gli aspetti, noi siamo due poveri feriti su que­sta panca, due poveri esseri che si parlano senza vedersi.

Euridice                           - Che devo dirti, dunque, perché tu mi creda?

Orfeo                               - Non so. Ed è questo, vedi, che mi spa­venta. Non so come potrò mai crederti... (Una pausa; domanda dolcemente, umilmente) Euri­dice, perché possa essere tranquillo, dopo, quando mi dirai le cose più semplici - se sei uscita, se ha fatto bel tempo, se hai cantato - dimmi ora la verità, anche se è tremenda, anche se dovesse farmi male. Non mi farà più male di quest'aria che mi manca da quando so che mi hai men­tito... Se è troppo difficile a dire, piuttosto non ri­spondere. Ma non mentirmi. Quell'uomo ha detto il vero?

Euridice                           - (dopo un attimo) No. Ha mentito.

Orfeo                               - Non sei mai stata sua?

Euridice                           - No.

Orfeo                               - (scherzosamente, guardando diritto da­vanti a sé) Se in questo momento dici la ve­rità, dovrebbe esser facile saperlo. Il tuo occhio è chiaro come un fiore acquatico, la sera. Se menti o non sei sicura di te, un cerchio di un verde più cupo va restringendosi alla tua pupilla.

Euridice                           - Il giorno sta per sorgere, caro, e potrai guardarmi. (Cerco la mano di lui a tastoni. Un silenzio).

Orfeo                               - (improvvisamente grida) Sì. Pino in fondo ai tuoi occhi, di colpo, come nell'acqua. Prima la testa, in fondo ai tuoi occhi. E che ci resti, che mi ci anneghi.

Euridice                           - Sì, caro.

Orfeo                               - Perché è intollerabile essere due pelli, due involucri impermeabili, ognuno per sé, col proprio ossigeno, col proprio sangue, chiuso, solo nel suo sacco di pelle. Ci si stringe l'uno all'altro per uscire da questa spaventosa solitudine. Piccolo pia­cere, piccolissima illusione. E ci si ritrova presto soli col nostro fegato, la nostra milza, la nostra pancia, che sono gli unici nostri amici.

Euridice                           - Taci.

Orfeo                               - Allora si parla. Anche questo s'è tro­vato. Questa rumore diaria in gola e contro i denti, questo elementare alfabeto morse. Due pri­gionieri che battono contro il muro delle loro celle. Due prigionieri che non si vedranno mai. Si è soli; non trovi che si è troppo soli?

Euridice                           - Stringimi forte.

Orfeo                               - (che la stringe) Sì, un altro calore che non sia il proprio. E' qualcosa. Anche una resistenza, un ostacolo, un tiepido ostacolo sono qualcosa. C'è qualcuno allora, non sono assoluta­mente solo.

Euridice                           - Domani potrai voltarti. Mi abbrac­cerai.

Orfeo                               - Sì, entrerò per un attimo in te. Per un attimo crederò che siamo due fusti nati dalla stessa radice. E poi ci separeremo e torneremo due misteri, due menzogne. Due! (L'accarezza, pensoso) Ecco bisognerebbe che un giorno tu mi aspirassi col tuo respiro, m'inghiottissi. Sarebbe meraviglioso Starei rannicchiato dentro di te, al caldo, mi sen­tirei bene. Soltanto in te troverei un'altra pelle su cui passare ancora le mani, come un cieco.

Euridice                           - (dolcemente) Non parlare più, non pensare più. Lascia che la tua mano passi sul mio corpo. Lasciala essere felice da sola. Tutto ritornerebbe semplice se tu lasciassi che la tua mano soltanto m'amasse. Senza più dire niente.

Orfeo                               - Credi che questa sia la felicità?

Euridice                           - Sì. La tua mano è felice in questo momento. La tua mano non mi chiede che di es­sere qui, docile e calda sotto di essa. Non chie­dermi nìent'altro anche, tu. Ci amiamo, siamo gio­vani, vivremo. Acconsenti ad essere felice.

Orfeo                               - Non posso.

Euridice                           - Se mi ami, acconsenti.

Orfeo                               - Non posso.

Euridice                           - Allora taci, non parlare più.

Orfeo                               - Non posso. Tutte le parole non sono state ancora dette. Bisogna dire tutte le parole, una per una. Bisogna andare sino in fondo, ora, di parola in parola. Ce n'è tante, vedrai.

Euridice                           - Taci, caro, ti prego.

Orfeo                               - Sentì? Ce n'è uno sciame intorno a noi, da ieri: le parole di Dulac, le mie, le tue, le parole dell'altro, tutte le parole che ci hanno condotto qui. E quelle di tutte le persone che ci guardavano come due bestie trascinate alla morte e quelle non pronunziate ancora ma che sono lì, attratte dall'odore delle altre: le più convenzionali, le più volgari e quelle che più si odiano. Le diremo, le diremo certamente. Sì dicono sempre.

 Euridice                          - Caro!

Orfeo                               - Ah, no; non voglio più parole. Basta. Da ieri, siamo impastati di parole. Ora, bisogna che ti guardi.

Euridice                           - (s'è gettata contro dì luì, lo afferra alla vita) Aspetta, aspetta. Occorre uscire dalla notte. Presto sarà giorno. Aspetta. Tutto ritornerà sempli­ce. Ci porteranno il caffè, i crostini imburrati...

Orfeo                               - E' lungo aspettare il mattino. E' troppo lungo aspettare di essere vecchi.

Euridice                           - (lo tiene abbracciato, la testa sul suo petto, supplica) Oh, caro, non voltarti, non guar­darmi... A che scopo? Lasciami vivere... Sei tremen­do, sai, tremendo come gli angeli. Credi che tutti avanzino, forti e chiari, come te, facendo fuggire le ombre da ogni lato della strada... C'è invece chi non ha se non una piccola luce incerta, sbattuta dal vento. E le ombre sì allungano, ci spingono, ci fanno cadere... Oh, non guardarmi, caro, non guar­darmi ancora... Forse non sono quella che volevi fossi. Quella che inventasti nella felicità del primo giorno... Ma tu mi senti, non è vero, stretta a te? Sono qui, calda, dolce, e ti amo. Ti darò tutta la felicità che posso darti. Ma non chiedermi più di quanto possa, accontentati... Non guardarmi. La­sciami vivere... ti prego... Ho tanta voglia di vivere.

Orfeo                               - Vivere, vivere. Come tua madre e il suo amante, forse, con intenerimento, sorrisi, indulgen­ze e poi delle buone mangiate dopo le quali sì fa all'amore e tutto si accomoda. Ah, no. Ti amo "trop­po per vivere. (Si volta, la guarda) Ti ha abbrac­ciata, quell'uomo? Ti ha toccata con le sue mani piene di anelli?

Euridice                           - (ora sono di fronte) Sì.

Orfeo                               - Da quando sei la sua amante?

Euridice                           - (gli risponde con la stessa avidità) Da un anno.

Orfeo                               - E' vero che eri con lui l'altro giorno?

Euridice                           - Sì. La vigilia del nostro incontro è venuto a cercarmi. Mi ha fatto un ricatto. Mi faceva sempre un ricatto.

Dulac                               - (entra all'improvviso) Confessa che quel giorno mi seguisti volentieri, bugiarda.

Euridice                           - Volentieri? Volentieri? Quando mi abbracciavi, sputavo.

Dulac                               - (tranquillamente) Sì, colomba.

Euridice                           - Appena mi lasciavi fuggivo in came­ra mia, mi denudavo, mi lavavo, mi cambiavo.

Dulac                               - Che matta

Euridice                           - Ridi pure. Ti conosco. Ridi verde.

Orfeo                               - Perché dai del tu a quell'uomo?

Euridice                           - (grida) Ma non gli do del tu.

Dulac                               - (sogghigna) Vede? E il resto è di questa fatta. Glielo dico io: lei non si raccapezza.

Euridice                           - Non prendere le tue arie di bra­vaccio, non fare l'uomo forte. (Ad Orfeo) Scusa, caro, ma in teatro si dà del tu. Vincenzo lo tratta col tu, mamma anche, perciò dico che non gli de del tu. Non gli dò del tu perché sono stata la sua amante, gli dò del tu perché tutti glielo danno. (Ella si ferma, scoraggiata) E' difficile, è troppo difficile spiegare tutto.

Orfeo                               - Ma ora bisogna che tu spieghi tutto. Hai detto che ti fece un ricatto quella sera, come tutte le altre sere. Che ricatto?

Euridice                           - Sempre il medesimo.

Dulac                               - Non ci vorrai raccontare che hai cre­duto durante un anno a quel ricatto, bugiarda?

Euridice                           - Vedi, lo confessi da te che me lo hai fatto per un anno.

Dulac                               - Non far la stupida, non lo sei. Ti do­mando se hai creduto tutto un anno a quel ricatto.

Euridice                           - Perché me lo facevi se pensavi che non ci credessi?

Dulac                               - Quella minaccia era diventata una formalità. Te la facevo perché il tuo sudicio or­goglio avesse un motivo di seguirmi senza confes­sare che mi seguivi con piacere. Si può essere più galanti di così con le signore?

Euridice                           - Come? Quando venivi a minacciar­mi, non credevi a quel ricatto? Mi ingannavi ogni rotta? Mi trascinavi teco ogni volta e non era vero, non l'avresti mandato via veramente?

Dulac                               - Ma no, pollastrina.

Orfeo                               - Di che ti minacciava? (Appare U pic­colo segretario, misero, goffo. Prima di parlare si leva il cappelluccio).

Il Segretario                     - La minacciava di scacciarmi, .signore, dal mio posto dì segretario.

Dulac                               - E' un cretino. Perde sempre tutto. Non so che farmene di un simile cretino nella mia compagnia.

Euridice                           - (ad Orfeo) Capisci, caro, quel pove­retto è solo con un fratello di dieci anni. E poi è troppo ingiusto. Tutti gli vogliono male e non pen­sano che a farlo mandar via.

Il Segretario                     - Lei comprende, signore, biso­gna che mi occupi di tutte le valige, di tutti gli scenari. Sono solo, non ce la farò mai.

Dulac                               - E' un abbrutito, le dico che è un ab­brutito.

Euridice                           - Lo abbrutisci tu, gridandogli sempre negli orecchi. Sono sicura che se tu gli parlassi con dolcezza egli capirebbe. Ascoltami, Luigi.

Il Segretario                     - Sì, ti ascolto, Euridice...

Euridice                           - (ad Orfeo) Vedi, anche a luì dò del tu. Tutti si danno del tu. (Al segretario) Ascolta, Luigi, è una cosa molto semplice. Tu arrivi alla stazione di coincidenza. Corri al furgone. Devi ingegnarti a salire in coda per arrivare quando stanno scaricando. Conti le valige per essere si­curo che gli impiegati non ne abbiano dimenticata qualcuna...

Il Segretario                     - Sì, ma gli altri hanno fretta di andare in città. E mi portano via le loro valige.

Euridice                           - Devi dirgli di aspettare. Che ti oc­cupi subito delle valige.

Il Segretario                     - Sì, ma posano le valige vicino a me, mi dicono di stare attento e se ne vanno. E il marciapiede è pieno di gente che passa...

 Euridice                          - Impedisci che se ne vadano, corri­gli dietro.

Il Segretario                     - Ma se corro dietro a loro non vedo più le valige. Non ce la farò mai, non ce la farò mai.

Dulac                               - (esplode) E' uno stupido. Le dico che è uno stupido. Questa volta ho deciso, visto e re­golato. Lo lascio a Chatellerault.

Euridice                           - Ma non gridare sempre, tu. Se gri­di, come vuoi che capisca?

Dulac                               - Non capirà mai. Ti dico che è un mi­norato. A Chatellerault passa alla cassa, pezzo d'asino.

Il Segretario                     - Signor Dulac, se lei mi scaccia non so più dove andare. Le giuro che farò atten­zione.

Dulac                               - Alla cassa! Alla cassa, ho detto!

Euridice                           - (lo raggiunge) L'aiuterò io. Ti pro­metto di fare in modo che non penderà più niente...

Dulac                               - Le conosciamo le premesse. No, no, è un cretino. Lo scaccio. Lo butto giù dal treno. Non voglio: più saperne.

Euridice                           - Ti giuro che farà attenzione, Du­lac, te lo giuro...

Dulac                               - (la guarda) Giuri sempre tu, ma spes­so non mantieni.

Euridice                           - (più basso) Sì...

Dulac                               - (s'avvicina e a mezza voce) Se non lo mando via, sarai gentile?

Euridice                           - (abbassa gli occhi) Sì. (Toma in­dietro e dice) Ecco come avveniva ogni volta. Per­dono caro. Ero vile ma non ti amavo ancora. Non volevo bene a nessuno.

Orfeo                               - Ti vedrò sempre sotto le mani di quell'uomo. Sapeva anche lui che eri vile. Che se fosse venuto a riprenderti, non saresti rimasta con me. Perché sei vile, non è vero? Ti conosce meglio di me, lui.

Euridice                           - Sì, caro.

Orfeo                               - Ma difenditi, almeno. Perché non ti difendi?

Euridice                           - (in faccia a lui) Come vuoi che mi difenda? Mentendoti? E' vero: sono disordinata, sono pigra, sono vile.

Il Segretario                     - Non è vero. Non eri vile quan­do mi difendevi contro loro tutti. Non eri pigra quando ti alzavi alle sei per venire ad aiutarmi di nascosto, in attesa che gli altri scendessero...

Dulac                               - Ti alzavi la mattina per aiutare quell'imbecille a spedire le valige?

Euridice                           - Sì, Dulac.

Il Segretario                     - Lei che non ritrova mai nien­te, che confonde ogni cosa, metteva in ordine le mio bollette, mi evitava gli errori.

Dulac                               - Ne avremo viste di tutte.

Orfeo                               - Ma se questo ragazzo dice il vero, parla. Difenditi meglio.

Euridice                           - (dolcemente) Dice il vero ma anche Dulac dice il vero. E' troppo difficile. (/ personaggi sono entrati durante questo dialogo. Lo chauffeur sì distacca e viene avanti).

Orfeo                               - Ti vedrò sempre sotto le mani di quell'uomo, ti vedrò sempre circondata da tutta questa " gente.

Euridice                           - Allora è meglio che torni a morire.

Lo Chauffeur                  - Ma non capisce che è stanca, questa ragazza? E che alla lunga si vergogna di difendersi? Io sono cacciatore. Bestioline simili ne conosco. Si prendono per stanchezza e disgusto. Si voltano verso i cani e lasciano fare. E' come la storia dell'autobus, nella quale l'ho sentita imbro­gliarsi...

Orfeo                               - Ma lei chi è?

Euridice                           - E' lo chauffeur dell'autobus, caro. Grazie di esser venuto, signore.

Lo Chauffeur                  - Lui si immagina che lei mi ab­bia sorriso. Prima di tutto, ho una faccia che in­vogli le ragazze a sorridermi? Lui immagina che lei sia partita con quel sorriso. E di qui a credere che non lo ami, il passo è breve, nello stato in cui si trova. Ebbene io c'ero. Io l'ho vista.

Il Segretario                     - (prende il braccio di Euridice) Sono contento, ti difende. (Allo chauffeur) Glielo dirà, vero, signore?

Lo Chauffeur                  - Certo che glielo dirò. Sono qui per questo.

Orfeo                               - Che mi vuol dire?

Lo Chauffeur                  - Perché lei mi ha sorriso. Da un po' l'osservavo di sott'occhio... Scriveva con un lapis, in un canto, attendendo la partenza... Scri­veva, scriveva e piangeva al tempo stesso. Quando ha finito di scrivere s'è asciugata gli occhi col fazzolettino appallottolato e ha tirata fuori la lingua per chiudere la busta. Allora io per dire qualcosa, le ho detto: «Spero che almeno se lo meriti quello al quale scrive ».

Euridice                           - E io ho sorriso perché ho pensato a te, caro.

Lo Chauffettr                  - Ecco. Tutto. (Un silenzio. Or­feo ha la testa bassa. La rialza, guarda Euridice).

Orfeo                               - Se mi amavi, perché partire?

Euridice                           - Pensavo che non sarei mai riuscita...

Orfeo                               - A che cosa?

Euridice                           - A farti comprendere. (Sono di fronte, muti).

La Madre                         - (improvvisamente esclama) Non capisco perché tutto sembrasse così triste a questi ragazzi. (A Vincenzo) Anche noi, gattone mio, siamo stati amanti appassionati. Ma non eravamo tristi.

Vincenzo                         - Neanche per sogno. Io del resto l'ho sempre detto: un po' d'amore, un po' di quattri­ni, un po' di successo, e la vita è bella!

La Madre                         - Un po' d'amore? Molto amore. Quella bambina s'Immagina di avere inventato tutto lei col suo violista. Anche noi ci siamo ado­rati. Anche noi abbiamo tentato di ucciderci l'uno per l'altro. Ti ricordi a Biarritz, nel 1915, quando volevo buttarmi dalla Roccia della Vergine?

Vincenzo                         - Fortunatamente che ti ho tratte­nuta per il mantello, amore mio.

La Madre                         - (a quel ricordo manda un piccolo grido) Delizioso. Quell'anno si portavano "pic­coli mantelli guarniti di seta, di stoffa uguale alla giacca. Perché volevo uccidermi, quella volta?

 Vincenzo                        - Perché la principessa Bosco mi ave­va trattenuto in casa sua tutta la notte, a reci­tare versi.

La Madre                         - Ma no! La principessa Bosco fu quando tentai di mandar giù l'aceto.

Vincenzo                         - Ah, che stupidi. Fu il giorno del professore di pattinaggio.

La Madre                         - Ma no. La storia del professore di pattinaggio fu durante la guerra, a Losanna. H giorno della Roccia della Vergine, fosti tu a in­gannarmi, ne sono sicurissima. Del resto i parti­colari esatti non servono a niente. Rimane che anche noi ci siamo amati appassionatamente, da morirne. Ebbene, siamo forse morti?

Euridice                           - (indietreggiando un po') No, mam­mà.

La Madre                         - Se tu avessi ascoltato tua madre, stupidona. Ma non mi ascolti mai.

Euridice                           - (scansandola con la mano) Lascia andare, mammà, ora non c'è più tempo... (A Or­feo) Come vedi, caro, non bisogna compiangerci troppo. Avevi ragione. Saremmo forse diventati come loro... Che orrore!

La Madre                         - Che orrore?

Vincenzo                         - Perché che orrore?

Orfeo                               - Perché non mi hai confessato tutte il primo giorno? Il primo giorno avrei forse potuto capire...

Euridice                           - Supponi perché ero vile? No, non fu perché ero vile...

Orfeo                               - Perché, allora, perché?

Euridice                           - E' troppo difficile, caro, mi imbra­gherei di nuovo. E poi non ho più tempo. Ti chie­do perdono. Non muoverti... (Indietreggia un po­co) Ah, è lei la bella cassiera, è lei che non di­ceva mai niente? Ho sempre pensato che avesse qualcosa da dirci.

La Cassiera                      - (mentre si sente, di lontano, la musica del primo incontro) Come eravate belli, tutti e due, quando vi siete incontrati al suono di questa musica. Eravate belli, innocenti e tremen­di, come l'amore.

Euridice                           - (indietreggia un po') Grazie, signo­ra. Guarda, il cameriere della «Comédie Francaise», il nostro primo personaggio. Addio.

Il Cameriere                     - (con un gesto troppo nobile) Addio, signorina.

Euridice                           - Eravate molto nobile, molto simpa­tico... Addio. Addio. (Continua a indietreggiare, si ferma davanti a un 'giovane vestito di nero) Ma lei chi è, signore? Lei deve avere sbagliato. Non mi ricordo di lei.

Il Giovane                       - Sono il segretario del commissario di polizia, signorina. Lei non mi ha mai visto.

Euridice                           - Non voglio che quell'uomo, sporco e presuntuoso, legga la mia lettera.

Il Giovane                       - Sono anch'io dello stesso parere. E he tolto la lettera dall'incartamento. Me la rileggo tutti i giorni... Ma con me non è la stessa cosa, signorina... (Saluta e discende, cava la let­tera di tasca, va a sedersi sulla panca e incomin­cia a leggere con voce monotona) « Mio caro, sono in questo autobus e tu mi aspetti in camera nostra e io so che non tornerò più e benché pensi che tu non lo sai ancora, sono triste, sono triste per te. Sarebbe stato necessario che io potessi caricarmi, sola, di tutto il dolore. Ma come? S'ha un bel­l'essere pieni di dolore, da mordersi le labbra, perché non esca, in un lamento, dalla bocca, tanto pieni che le lacrime sgorgano da sole... Non si rie­sce mai a prendere tutto il dolore per sé. Ne resta sempre abbastanza per due. (La sua voce diventa più sicura. Volta la pagina e continua) Me ne vado, caro. Già da ieri avevo paura e, mentre dormivo, mi hai intesa: dicevo: " è troppo difficile ". Mi vedevi così bella, caro. Mi vedevi così forte, così pura, una piccola sorella... Non ci sarei mai riu­scita, soprattutto ora che l'altro sta per venire. Un altro di cui non ti ho parlato e che fu anche lui il mio amante. Non credere lo abbia amato, quello. Lo vedrai, non si può amarlo. E nemmeno devi credere che gli ho ceduto perché ho avuto paura di lui, come forse egli ti dirà. Non potrai capire, lo so. Non ti amavo, non mi stimavo ab­bastanza. Non sapevo.', Il pudore delle ragazze oneste mi faceva ridere. E' così brutto quel modo di serbare qualcosa, per orgoglio o per un buon acquirente... Ma da ieri, caro, sono più pudica di loro. Da ieri, arrossisco se mi guardano, tremo se mi sfiorano... Per questo me ne vado, caro,' tutta sola... Non soltanto perché ho paura che egli ti dica come mi ha conosciuta, non soltanto perché ho paura che tu non mi ami più... Non so se capi­rai: me ne vado perché sono tutta rossa dì ver­gogna. Me ne vado, capitano mio, vi lascio, pre­cisamente perché mi avete detto che sono un bra­vo soldato... ». (Durante la lettura di questa lettera, Euridice ha continuato a indietreggiare. Ora è in fondo alla scena).

Orfeo                               - Perdono, Euridice.

Euridice                           - (gentilmente, dal fondo) Non occor­re, caro. Io, ti chiedo perdono. (Agli altri) Mi scu­sino, devo andarmene. (7 personaggi si voltano e la guardano).

Orfeo                               - (grida) Euridice. (I personaggi escono. Orfeo corre come un pazzo verso il fondo. Euri­dice è scomparsa. Anche gli altri personaggi sono scomparsi. Orfeo rimane solo. Non si muove. Spun­ta il giorno. Il fischio lontano di un treno. Il trillo di un campanello. Quando la luce del giorno si è alzata, il cameriere entra, ben vivo. Apre le tende).

Il Cameriere                     - Buon giorno, signore. Stamani non fa caldo. Le servo qualcosa?

Orfeo                               - (cade a sedere) Se crede.

Il Cameriere                     - Va bene, signore. (Entra la cassiera .e va alla cassa, canticchiando una can­zoncina di prima della guerra: «Ti ho semplice­mente incontrata... ». Cala il sipario).

 

ATTO QUARTO

(Orfeo è mezzo disteso sul letto. Il signor Enrico in piedi, appoggiato al muro, vicino a lui. Sprofon­dato nell'unica poltrona, il padre che fuma un enorme sigaro).

Il Padre                            - (ai signor Enrico) E' un «Mervellitas » ?

Enrico                              - Sì.

Il Padre                            - Deve costare molto un sigaro così.

Enrico                              - Sì.

Il Padre                            - E lei non fuma?

Enrico                              - No.

Il Padre                            - Non mi capacito come, non fu­mando, lei abbia sigari tanto costosi. E' forse viaggiatore di commercio? .

Enrico                              - Esatto.

Il Padre                            - Grossi affari, probabilmente.

Enrico                              - Sì.

Il Padre                            - Allora capisco. Occorre adescare il cliente. Al momento buono, si cava di tasca un «Mervellitas? ». Fuma? L'altro: sì, molto volen­tieri. E hop! il giuoco è fatto. Non c'è che da de­durre il prezzo del « Mervellitas » dal prezzo dì vendita, al quale del resto, era già stato aggiunto. Birboni! Mi sarebbe piaciuto essere un uomo d'af­fari. A te no, ragazzo? (Orfeo non risponde, egli lo guarda) Scuotiti, figliolo, scuotiti. (Gli offre un « Mervellitas ») Se non lo fumi tu lo fumo io. Quando sono triste mi ci vuole un buon sigaro. (Né Orfeo né il signor Enrico mostrano di dar peso a Queste parole. Allora egli aggiunge, ancora più timidamente) Ognuno ha i suoi gusti. (E si rimette a fumare con timidezza sogguardando i due uomini silenziosi).

Enrico                              - (dolcemente, dopo un momento) Alzati, Orfeo.

Il Padre                            - Mi sgolo a dirglielo anch'io.

Orfeo                               - No.

Il Padre                            - (si rimette a fumare in un angolo) Ma non ascolta mai suo padre.

Enrico                              - Alzati e riprendi la vita dove l'hai lasciata, Orfeo.

Il Padre                            - Ci aspettano a Perpignano.

Orfeo                               - (si solleva sul letto e grida) Sta' zitto, tu.

Il Padre                            - (facendosi piccino) Dico che ci aspet­tano a Perpignano. Non dico niente di male.

Orfeo                               - Non tornerei mai con te. Piuttosto nudo.

Enrico                              - Perché non torneresti con luì? Io lo trovo simpatico, tuo padre.

Il Padre                            - Glielo dica lei.

Enrico                              - E poi lo conosci. Gran vantaggio, que­sto. Gli puoi dire di tacere, puoi camminare al suo fianco senza parlare, ascoltare le sue storielle dei pranzi a prezzo fisso e non pensare a niente.

Il Padre                            - (occupato intorno al suo sigaro) A proposito di prezzo fisso, ne conosco uno a Perpiguano, un piccolo ristorante, il « Bouillon Jeanne Hachette ». Porse lo conosce anche lei, è molto fre­quentato dai suoi colleghi.

Enrico                              - No.

Il Padre                            - Per quindici franchi e settantacin­que tutto compreso danno: antipasto o gambe­retti, con quattro franchi di supplemento) un piatto di carne con contorno abbondante, legumi, for­maggio, frutta o dolce... (pausa) caffè e ammazza, caffè, cognac o un liquore dolce per le signore. Penso a un pranzo da Jeanne Hachette, con un si­garo come questo... Quasi quasi mi dispiace di averlo fumato ora. Beh. vieni a Perpignano, ragazzo, pago io.

Orfeo                               - No, papà.

Il Padre                            - Hai torto, ragazzo, hai torto.

Enrico                              - E' vero, Orfeo. Hai torto. Dovresti ascoltare tuo padre.

Il Padre                            - (dopo un momento parlando col sigaro in bocca) Anch'io ho amato, ragazzo.

Enrico                              - Senti, anche lui ha amato. Guardalo.

Il Padre                            - Sì, guardami. So bene che è triste. Anch'io ho sofferto. Non parlo di tua madre. Quando è morta, non ci si amava più da parecchio tempo. Ho perduto una donna che adoravo. Una tolosana, tutta fuoco. Una bronchite me la portò via in sette giorni. Singhiozzavo come un bambino, dietro al feretro. Dovettero portarmi in un caffè. Guardami.

Enrico                              - (dolcemente) Guardalo.

Il Padre                            - Quando vado a sedermi per combi­nazione al « Comptoir Toulousain » dove andavamo insieme, ho una stretta al cuore, mentre spiego il tovagliolo. Basta! questa è la vita. Che vuoi? Bi­sogna viverla. (Fuma pensierosamente il sigaro. So­spira, mormora) Il « Comptoir Toulcsain »! Quan­do ci andavo senza di lei, prima della guerra, si mangiava per un franco e settantacinque.

Enrico                              - (chino su Orfeo) Lo senti, Orfeo?

Il Padre                            - (ai quale le parole rf?J signor Enrico accrescono importanza) Ti parrò duro, mio caro, ma sono più incallito di te e quando avrai la mia età, riconoscerai che avevo ragione. Da prima, na­turalmente si soffre. Ma subito dopo, vedrai, si pro­va, nostro malgrado, una nuova dolcezza... E una bella mattina, a me almeno accadde una mattina, ci si alza, ci si annoda la cravatta. C'è il sole, si esce a passeggio e a un tratto ci si accorge che le donne sono tornate ad essere belle. Siamo tutti eguali, mio caro: gran birboni.

Orfeo                               - Taci, papà.

Il Padre                            - Non devi dimenticare che sei un ra­gazzo senza esperienza e che l'uomo il quale ti sta parlando ha vissuto. E molto vissuto. Eravamo in gamba, al conservatorio di Niort. Giovani, buontem­poni ed eleganti. Bastone in mano, pipa in bocca e sempre in cerca d'avventure. A quei tempi non pensavo ancora all'arpa. Studiavo il fagotto e il corno inglese. Tutte le sere facevo sette chilometri a piedi per andare a suonare sotto le finestre dì una donna. Eravamo allegri, esuberanti, eccentrici. E senza paura di niente. Una volta la classe degli strumenti a corda sfidò la classe degli strumenti a fiato: si scommise a chi beveva trenta mezzi litri. Vomitammo l'anima. Giovani e spensierati, era­vamo, e la vita, noi, l'avevamo capita.

Enrico                              - Lo senti, Orfeo?

Il Padre                            - Quando si ha salute, forza ed estro non c'è che da camminare spediti. Non ti capisco, mio caro. Prima di tutto, il buon umore. E il buon umore è questione d'equilibrio. Un solo segreto: la ginnastica quotidiana. Io sto bene perché non ho mai smesso di fare ginnastica. Dieci minuti tutte le mattine. Non di più, ma dieci minuti che contano. (Sì alza e col mozzicone di sigaro in mano, comin­cia dei movimenti di ginnastica svedese) Uno, due, tre, quattro. Uno, due, tre, quattro. Respirare a lungo. Uno, due, tre, quattro, cinque. Uno, due, tre, quattro, cinque. Uno due. Uno due, uno due. Con questo, niente pancia, niente varici. La salute con l'allegria e l'allegria con la salute. Uno, due, tre, quattro. Respirare a lungo. Uno, due, tre, quattro. Ecco il mio segreto. (Si rimette a sedere, soffiando come una foca) E' questione di volontà. Tutto nella vita è questione di volontà. La volontà mi ha per­messo di uscire da situazióni difficili. Volontà di ferro, con garbatezza si intende. Fui sempre sti­mato un uomo estremamente garbato. Guanto di velluto, mano d'acciaio. E avanti, diritto. Non co­noscevo ostacoli. Un'ambizione smisurata. L'oro, la potenza. Ma avevo una forte preparazione tecnica. Primo premio di fagotto al conservatorio di Niort. Secondo premio di corno inglese, secondo « acce-sit » d'armonia. Potevo andar lontano col mio cor­redo di studi. Veda, caro signore, mi piace che la gioventù sia ambiziosa. Ti dispiacerebbe tanto, per­bacco, essere milionario?

Enrico                              - Rispondi a tuo padre, Orfeo...

Il Padre                            - Ah, il denaro, il denaro. E' tutto nella vita, caro mio. Soffri, ma sei giovane. Pensa che puoi diventare ricco. Il lusso, l'eleganza, la ta­vola, le donne. Pensa alle donne, ragazzo, pensa all'amore. Brune, bionde, rosse, tinte. Che varietà, che scelta. E tutto questo a tua disposizione. Sei il sultano, passeggi, alzi un dito: quella. Sei ricco, giovane, bello, lei accorre. Notti folli, urli, morsi, baci pazzi, atmosfera spagnola. Oppure dalle cin­que alle sette sui divani di un « separé », le nudità di una bambina bionda e perversa, dagli occhi sor­ridenti e aspri, illuminate dal riverbero del cami­netto. Non ho bisogno di dirti altro, mio caro. Le sensazioni. Tutte le sensazioni. Una vita di sensa­zioni. Dov'è il tuo dolore? Sfumato. Ma tutta la vita non è solo qui. C'è il rispetto, la vita sociale. Tu sei forte, perché a capo di un'industria. Hai la­sciato la musica. La tua faccia è dura e impene­trabile. I consigli di amministrazione, fra volpi fini, ove sono in giuoco le sorti dell'economia europea. Ma tu li metti tutti nel sacco. E poi lo sciopero, gli operai armati, la violenza. Tu appari solo, davanti alla porta dell'officina, ti sparano contro ma non ti colpiscono. Tu, impassibile. Con voce martellata, parli alla massa. Si aspetta da te delle promesse, che tu scenda a patti. Non ti conoscono. Sei implacabile, frughi quegli uomini con gli occhi, essi ab­bassano la testa, riprendono il lavoro, vinti. Ma­gnifico,.. Allora, consigliato dagli amici migliori, ti dai alla politica. Potente, onorato, decorato, sena­tore. Sempre in piedi sulla breccia. Un grande uomo di Francia. Esequie nazionali, fiori, molti fiori, i tamburi velati a lutto, i discorsi. E io, mo­desto in un angolo - hanno tenuto che assistessi alla cerimonia - vecchio ma bello- (eh, sì, mio caro, sarò imbiancato) un po' smagrito dal dolore. Al presentar delle armi: «Rendiamo un commosso omaggio al dolore di un padre... ». Ah, mio caro, la vita è magnifica. L'uomo che ti parla ha sofferto. Ha provato tutte le amarezze. Spesso ha taciuto, mordendosi le labbra a sangue, per non gridare. I suoi compagni di festa non si sono mai accorti dei suoi tormenti e tuttavia... tradimento, disprezzo, ingiustizia. Ragazzo, non ti stupisci qualche volta del mio corpo incurvato, dei miei capelli precoce­mente bianchi? Se tu sapessi il peso di una vita sulle spalle di un uomo... (Tira invano il mozzi­cone. Lo guarda contrariato, e lo butta via con un sospiro. Il signor Enrico gli si avvicina e gli tende il suo astuccio).

Enrico                              - Un altro sigaro?

Il Padre                            - Grazie, son confuso. Sì, sì, sono con­fuso. Che aroma! Il cerchietto è una meraviglia. Mi hanno detto che le ragazze che li fabbricano stanno completamente nude e li arrotolano (la fiuta) sulle cosce... (Pausa) Che stavo dicendo?

Enrico                              - Il peso di una vita...

Il Padre                            - (che ha perduto lo slancio lirico) Come, il peso di una vita?

Enrico                              - E se tu sapessi il peso di una vita sulle spalle di un uomo...

Il Padre                            - (che ha tagliato con i denti la punta dei sigaro, lo accende) Ah, ecco. Se tu sapessi, ragazzo, il peso di una vita sulle spalle di un nomo! (Pausa. Traccheggia ad accendere il sigaro, poi conclude semplicemente) E' molto pesante, figliuolo, estremamente pesante... (Con emozione, tira una lunga boccata di fumo) Meraviglioso!... (Stringe l'occhio al signor Enrico) Mi sembra di fumare la coscia. (Vuol ridere ma il fumo gli va attraverso. Il signor Enrico si avvicina a Orfeo).

Enrico                              - E tu almeno sei solo perché hai per­duto Euridice. Pensa a quello che ti riserbava la vita, la tua cara vita: di trovarti solo, un giorno, al fianco di Euridice viva.

Orfeo                               - No.

Enrico                              - Sì. Un giorno o l'altro, «fra un anno, fra cinque, fra dieci, se vuoi, senza smettere di amarla, forse, ti saresti accorto di non aver più desiderio di Euridice, che Euridice non aveva più desiderio di te.

Orfeo                               - No.

Enrico                              - Sì. Certamente. Saresti stato il signore che inganna Euridice.

Orfeo                               - (grida) Mai.

Enrico                              - Perché gridi così forte? Per me o per te? Mettiamo, se preferisci, che saresti stato il signore che ha voglia di ingannare Euridice. Che è peggio.

Orfeo                               - Le sarei rimasto sempre fedele.

Enrico                              - Forse per qualche anno. Con timidi sguardi alle altre donne. E un odio lento e impla­cabile, che si sarebbe a poco a poco ingrandito, col pensiero fisso a tutte le ragazze che non avresti potuto seguire, per via di lei.

Orfeo                               - Non è vero.

Enrico                              - Sì. Fino al giorno che una di esse ti sarebbe passata davanti, giovane e altera, senza traccia di dolore né di pensieri. Una donna nuova, Orfeo, di fronte alla tua stanchezza. Allora la morte, il tradimento, la menzogna, ti sarebbero parse cose semplici. E l'ingiustizia avrebbe preso un altro nome, la fedeltà un altro volto.

Orfeo                               - No. Avrei chiuso gli occhi, sarei fug­gito.

Enrico                              - Forse la prima volta. E avresti cam­minato ancora per qualche tempo al fianco di Euri­dice con lo sguardo di un uomo che cerca di sper­dere il suo cane strada facendo. Ma la centesima volta, Orfeo!... del resto Euridice ti avrebbe ab­bandonato per la prima.

Orfeo                               - (questa volta lamentevolmente) No.

Enrico                              - Perché no? Perché ieri ti amava? Un uccellino anche lei, capace di volar via senza ra­gione, a costo di morire.

Orfeo                               - Non avremmo mai potuto smettere di amarci.

Enrico                              - Lei, forse, non avrebbe potuto smet­tere di volerti bene! Poveretta! Non è facile smet­tere di voler bene. La tenerezza, sai, ha la vita dura.

Orfeo                               - No. Sarebbe durato sempre, finché me la sarei ritrovata vecchia e bianca al mio fianco, finché fossi invecchiato vicino a lei.

Enrico                              - La vita, la tua cara vita, non ti avrebbe concesso di arrivare fin là. L'amore di Orfeo e di Euridice non le sarebbe sfuggito.

Orfeo                               - Sì.

Enrico                              - No, ometto, siete tutti gli stessi. Avete sete di eternità ma dopo il primo bacio siete verdi di paura perché sentite oscuramente che non può durare. I giuramenti sono presto finiti. Allora vi fabbricate delle case perché le pietre durano, fate dei figli, come altri una volta li scannavano, per continuare ad essere amati. E tuttavia anche questo si dissolve, si consuma, si spezza, come per coloro che non hanno giurato niente.

Il Padre                            - (che dormicchia) Vi dico che la vita è magnifica. (Si rivolta nella poltrona, la mano che tiene U sigaro cade penzoloni; mormora, beato) Sulla coscia... (Orfeo e il signor Enrico lo guardano in silenzio).

Enrico                              - (si avvicina a Orfeo rapidamente a voce bassa) La vita non t'avrebbe lasciato Euridice, ometto. Ma Euridice ti può essere resa per sempre. L'Euridice della prima volta, pura e giovane, eter­namente uguale a sé stessa...

Orfeo                               - (lo guarda e dopo un momento dice, scuo­tendo la testa) No.

Enrico                              - Perché no, testolina?

Orfeo                               - No, non voglio morire. Odio la morte.

Enrico                              - (.dolcemente) Sei ingiusto. Perché odi la morte? La morte è bella! Essa sola dà all'amore il suo vero clima. Hai sentito tuo padre parlarti della vita poco fa? Grottesco, non è vero? compassionevole. Ebbene, la vita è quella meschinità, quell'assurdo melodramma. Vai a camminarci con la tua piccola Euridice. All'uscita, il suo vestito sarà cosparso di impronte di mani e tu ti sentirai spaventosamente invecchiato. (Il padre si mette a russare rumorosa­mente) Guardalo. E' brutto, fa pena. Ha vissuto. Forse non è stato così sciocco come le sue parole di poc'anzi potrebbero fare supporre, forse è pas­sato anche lui, un attimo, vicino all'amore e alla bellezza. Ma guardalo ora, aggrappato all'esistenza, con la sua povera carcassa sbuffante, afflosciata in quella poltrona. La gente crede che il logorio della vita su un volto sia prodotto dallo spavento della morte. Errore. Lo spavento invece è ritrovare l'in­sipidezza, la mollezza dei visi di quindici anni con­traffatta, ma intatta, sotto quelle barbe, quelle lenti, quelle dignitose sembianze. E' lo spavento della vita. Gli uomini sono questi adolescenti, rugosi, scherni­tori, impotenti, deboli ma sempre più soddisfatti. Guarda bene il tuo giovane padre, Orfeo, e pensa che Euridice ti aspetta.

Orfeo                               - (all'improvviso, dopo un attimo) Dove?

Enrico                              - (andando verso di lui) Vuoi sempre sapere tutto, ometto. Ti voglio bene, mi è dispia­ciuto vederti soffrire. Ma ora tutto finirà. Vedrai come tutto diventerà puro, luminoso, limpido... Un mondo per te, Orfeo...

Orfeo                               - Cosa devo fare?

Enrico                              - Prendi il cappotto. La notte è fresca. Esci dalla città, seguendo la strada dritta davanti a te. Quando le case diraderanno arriverai a un'al­tura, vicino a un folto di ulivi. E' là.

Orfeo                               - Là, che cosa?

Enrico                              - Che hai appuntamento con la tua morte. Alle nove. E' quasi l'ora, non farla aspettare.

Orfeo:                              - Rivedrò Euridice? ,!

Enrico                              - Subito.

Orfeo                               - Va bene. Addio. (Esce).

Enrico                              - Arrivederci, ometto. (Il russare del pa­dre si accentua sino a diventare un rullo continuo di tamburo che non smetterà fino al termine della scena. L'illuminazione si modifica impercettibil­mente. Il signor Enrico è rimasto al suo posto. Im­mobile, le mani in tasca. A un tratto dice, con dol­cezza) Entra.

Euridice                           - (entra e rimane in fondo alla stanza) Accetta?

Enrico                              - Sì, accetta.

Euridice                           - Caro, per piacere, vieni presto.

Enrico                              - Arriva.

Euridice                           - Non sentirà male?

Enrico                              - Hai sentito male, tu?

Il Cameriere                     - (bussa ed entra) Se il signore permette, preparo il letto. (Tira le doppie tende e comincia a preparare il letto. Passa parecchie volte davanti a Euridice senza vederla. Guarda il padre sorridendo) Il signore russa. Sembra che sia segno di buona salute. Mia madre diceva: « Soltanto chi vive sano, russa ». Sentivo il signore parlare, avevo paura di disturbarlo.

Enrico                              - Parlavo da solo.

Il Cameriere                     - Capita anche a me. Ci si dice qualche volta delle cose straordinarie che gli altri non ci direbbero. Come va il giovanotto, signore?

Enrico                              - Bene.

Il Cameriere                     - Deve essere stato un colpo tre­mendo per lui.

Enrico                              - Sì.

Il Cameriere                     - Crede che si consolerà?

Enrico                              - Certamente. Che ora fate?

Il Cameriere                     - Le nove meno cinque, signore. (Prepara il letto in silenzio. Non sì sente che il rus­sare in crescendo del padre).

Enrico                              - (a un tratto, chiama) Cameriere.

Il Cameriere                     - Signore.

Enrico                              - Patemi preparare il conto. Parto sta­sera.

Il Cameriere                     - Il signore mi aveva detto ieri...

Enrico                              - Ho riflettuto. Questa volta parto.

Il Cameriere                     - Bene, signore. Il signore ha sbri­gato i suoi affari a Marsiglia?

Enrico                              - Sì. (Il cameriere sta per uscire) Adesso che ora è?

Il Cameriere                     - Le nove giuste, signore. (Esce, lasciando la porta spalancata).

Enrico                              - (a Euridice che è rimasta immobile) Eccolo.

Euridice                           - (domanda dolcemente) Potrà guar­darmi?

Enrico                              - Sì, senza timore di perderti, ora.

Orfeo                               - (entra, esitando sulla soglia come abba­gliato dalla luce. Ella gli corre incontro, lo ab­braccia).

Euridice                           - Caro, quanto tempo ci hai messo. (Le nove scoccano di lontano. Il padre smette bru­scamente di russare e si sveglia borbottando).

Il Padre                            - Ho dormito. Dov'è Orfeo? (Il signor Enrico non risponde. Il padre guarda intorno; è inquieto) E' uscito? Mi risponda, perbacco. Dov'è Orfeo?

Enrico                              - Orfeo è con Euridice, finalmente.

FINE