Fabula de Cefalo

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Fabula de Cefalo

Fabula de Cefalo

Di Niccolò da Correggio

ARGUMENTO

Salute, o populo. Un pietoso aspetto ve apporto cum anuncio di dolore, mostrando prima como a gran dispecto se tien, se despregiar si sente, Amore, e presto presto ne vedriti effecto di l' Aurora e di Cefal suo amatore: ché cum molta belleza a Amor non piace che onestà servi longamente pace. Bello era questo Cefal oltra modo e da l'Aurora desïato asai; da lei richiesto, al marital suo nodo falir non volse in consentirli mai. La dea per questo gli scoperse il frodo dicendo: Se fai prova, lo vedrai che fede abia a te Procris, che tanto ami se, travestito, cum tuo' don la chiami! Cefal l'atenterà, ciascun stia atento, e Procri in sdegno si fugirà via; pacificata poi, chiamando il vento, uccise lei, sua cara compagnia. E di quanto dolor, quanto tormento, ogni dì sia cagio la zelosia ché sentendo la dona aura chiamare stimò l'Aurora quello adimandare. Cefal un dardo avea, da lei donato, che da lui tracto mai in fal non coglie (cusì fu già da Dïana affatato): or sentendo custui mover le foglie, che fosse qualche fiera ebe stimato: tirò quel dardo e percosse la moglie, e ferila d'un colpo tanto forte che in poco d'ora la conduse a morte. Pianse Cefal el caso acerbo e duro, lei pianse ancor, chiedendo a lui in quella ora cum piatose parole e cum scongiuro, che dapo' lei non pigliasse l'Aurora. E vedrasse el fin lugubre e obscuro, e como morta ogni ninfa l'onora. Visse zilosa e di lei fama vola, e gielosia fu l'ultima parola. Vedreti poi quel che una greca istoria narra dapoi questa infelice morte e come, a dimostrar la excelsa gloria, Dïana ven cum la sacrata corte e contra el facto acerbo otien victoria mutando in riso la plorata sorte. Fece vendeta e poi socorse al fine, ché tarde non fur mai grazie divine. Non vi do questa già per comedìa, ché in tuto non se observa il modo loro, né voglio la credati tragedìa, se ben de ninfe ge vedreti il coro:  fabula o istoria, quale ella se sia, io vi la dono, e non per precio d'oro; di quel che segue lo argumento è questo; silenzio tutti, e intenderiti il resto.

ATTO PRIMO

Qui comenza l'AURORA parlando a CEFALO, exortandolo e pregandolo ch'el voglia condescendere a le sue voglie e desideri, e che facendolo lo colocarà nel numero di' dei:

AURORA.

Cefalo, io sum quella celeste Aurora

che dal vechio Titon tanto è bramata,

e sum colei che cum breve dimora

rimeno il giorno e l'aira ho illuminata.

La tua vaga beleza che mi acora,

ch'io sia discesa qui cagion è stata:

se consentir vorai ai desir mei,

te porrò in ciel tra gl'imortali dei.

Non me schifar, ché le mie bianche chiome

inamoròn già il Sol che 'l mondo vede,

e per me porta ancor gravose some,

e per seguirmi mai non ferma il piede,

tanto li piace la mia vista e el nome

che ritrovar più bella mai non crede.

Or vedi quanto Amor alzar ti vole

dandoti me che tengo a schifo il Sole!

CEFALO risponde:

CEFALO.

O sancta dea che da l'excelso trono

discesa sei per un vil amatore,

a la tua deïtà chegio perdono,

ché in mio arbitrio non è di darti il core:

per marital conubio agiunto sono

a Procri ninfa, e saria grande errore

violar per altra le sacrate lege

dunque, madonna, il tuo disio corregie.

Cum questo pacto da Diana l'ebi

e Lucina e Imeneo sacròn le tede;

dapoi in tanto amor di quella crebi

che cosa grata più di me non vede;

di lei dolermi ma' più non potrebi,

s'io l'inganase e a me rompese fede;

quella è la mia speranza e ogni mio bene

e quella sola in vita or mi mantiene.

AURORA.

Dunque, paccio garzon, tu sei sì ardito

che a' desir nostri contrastar te credi?

Ma io te acerto che a pegior partito

ti trovarai, e voglio che tu il vedi:

lassa tuo' panni e non parer marito,

ma in forma di mercante te provedi,

temptala con tuo' doni, e vedra' alora

se teco in un voler casta dimora.

Amar si vòl come Elletron discreta

quando che al stral de amor se aperse il core;

a quel che s'ama, mai cosa si vieta,

quantunque la ge fusse a disonore.

Ben al principio ogni foco s'aquieta,

ma quando ha supportato il suo furore,

ad asmorzarlo mai non vi è rimedio:

così fa Amor dove ha posto l'assedio.

CEFALO a l'AURORA:

CEFALO.

Più non parlar, ché tardar non intendo

ch'io faza quanto recordato m'hai;

di mazor servitù, dea, mi ti rendo,

se per tuo servo pur m'acepterai.

Procris sposai: se me fesse alcun mendo

farebe mal, ché di buon cuor l'amai.

Rimanti in pace, ch'io voglio far prova

se fidele al suo sposo se ritrova.

Partito CEFALO, AURORA parla a sé stessa:

AURORA.

Quanti sun quilli a chi Fortuna aversa

contrasta sempre, e amante è mai felice;

tanto è la sorte a li omini perversa,

che alcun contento al mondo non se dice.

Qual dona è uccisa e qual da' dei conversa,

e qual è in pena, e ‘l morir non gli lice;

Cefal or provarà, se Amor no ‘l ceca,

a che vil fine un amante se areca.

Fin tra noi dei è questa cosa certa:

son mille errori se se implicamo in terra!

Non fu Vener cum Marte ricoperta

da Vulcan nele rete, unde la guerra

naque col Sol che fe' l'opera aperta

a tuto el ciel ? Se adunque om mortai erra,

lo aiuta il Fato, como credon molti,

non lo sforza però, secundo i stulti.

Piacer non mi è, però de odiar convieme

ciò che a lui piace, tanto Amor mi ponse;

quel dì che in libertà vinta a lui deme,

me a mezo il pecto, e lui nei pani gionse,

e da quel giorno in qua poi nel cor stieme:

cum tanta forza Amor mi gli congiunse!

Or ecco Cefal che ne vien mutato:

quietar mi voglio in qualche umbroso lato.

CEFALO gionto a PROCRI stravestito:

CEFALO.

Chiama madonna già, discreta ancilla,

ch'io ho bixogno di parlarli alquanto.

La FANTE de PROCRI risponde:

FANTE.

El me conviene andar fora a la vila

per gran facenda: io non potrei star tanto!

CEFALO risponde a la FANTE:

CEFALO.

S'el te conceda Idio vita tranquila,

grato servizio e di le serve il vanto,

se bon merto al sentir te si' ancor dato,

falo, ch'io scio non servirai l'ingrato.

PROCRI essendo a la finestra sente parlar la FANTE, dice in tal modo a lei:

PROCRI.

Chi è quel che inanci a quella nostra porta

teco ragiona e fa parole tante?

La FANTE risponde a la MADONNA:

FANTE.

Gli è un, madonna, che più merce porta

e mostra esser famoso mercadante.

PROCRI replicando a la SERVA dice:

PROCRI.

Oh come ha electo ben fidata scorta!

Or sù, fa' ch'el mi expecti lì davante.

Tu via camina, e studia il tornar presto!

Ma via, che già t'hai smenticato il cesto!

CEFALO vedendo PROCRI a lui venire essendo in abito mercadentesco li comenza a dire:

CEFALO.

Salve, madona. Vostra fama audita,

como fano i par nostri a vui ne veni

e per tra gli altri aver roba fiorita,

occulta al vulgo e a le piace la teni.

Ma la virtù che in vui sento infinita,

senza parlar cognoscerami a cenni;

se cose grate vi seran, qual sono,

senza dinar ve l'oferisco in dono.

Questo è quel pomo che sforzò Atalanta,

per sua richeza, uscir fuor del sentiero,

quando de coridor fra turba tanta

Ipomene trovosi esser primero;

questa è la tella ch'ogni istoria avanta,

ove ogni studio pose e ogni pensiero

Minerva, alor che Aragne seco perse,

quando per sdegno in ragno la converse.

Questo è un liquor che con mirabil prove

la bellezza a ogni donna radoppiava,

questo usò già per suo dilecto Giove

quando cum qualche amante dimorava;

questo altro a darlo a ber, l'amor rimove,

e questo cum più forza poi lo agrava;

l'olio che usò Tiresia questo è desso,

che fa cangiar de l'uno in altro sesso.

Ma io ho ancora un bel sacrato anello

che a riguardarvi ogni cosa se vede,

questo avia Iuno, quando in uno ucello

Iove ne andò per rapir Ganimede,

e mirandovi drento vide quello;

questo altro ha forza a far servar la fede,

e se una dona avesse rio marito,

non curi d'altro e porti questo in dito.

Qui CEFALO manda via el famiglio, e lui segue parlando:

CEFALO.

Ma che bisogna dir tante parole?

Questo è vil dono, a quel ch'io spero ancora!

Cognoscer, Procris, la stagion si vòle,

chè in mille anni non vien quel che in una ora.

Chi perde il tempo, indarno poi se dòle,

e in sua beleza un fior poco dimora;

se tu consenti a me or che se' in fiore,

tuo' fieno i doni, e me tuo servitore.

Qui PROCRIS vòl fuzire. CEFALO cusì segue parlando:

PROCRIS.

E non fugire! Deh, non sì altiera in vista!

Odime alquanto e ascolta i pregi mei,

chè fama mai per crudeltà s'aquista.

Belissima sei pur, cruda non déi!

Non sciai che Amor non vòl che se resista

a' colpi soi? Così vinto mi dèi

subito ch'io te vidi. Eh, non fugire,

forza non ti farò! Deh, stami a udire!

Iove non sum, non sum Febo o Mercurio,

ch'io mi sapia far cigno o farmi un toro!

Sum un tuo servo, e cum felice augurio

t'anunzio oltra quei don cento once d'oro.

Qui fuor la terra è un mio picol tugurio

dove alcun non va mai: piglia el tesoro,

che dopo quello io mi ti dono e lego.

Segui cum util tuo questo mio prego!

Cosa secreta mai non si riprende,

el tempo che si perde mai non torna.

Qui non serai veduta: or che se attende?

Quel se ha a dolere che al suo ben sogiorna.

Secreto è il loco: el sol pur non vi splende!

Bella sei tu, sol manca che si' adorna

di veste come io intendo, oltra il tesoro.

Deh, non mi tenir più! Vedi ch'io moro!

Qui ritorna il famiglio; CEFALO vedendolo va a lui. PROCRIS da sì medema dice li sequenti versi:

PROCRIS.

O combatuto cor mio, che farai?

Da un lato Amore e i belissimi doni

stimulan forte. E chi ne vide mai

di simil ? Cefal, vo' che mi perdoni,

ché se io gli accepto non mi inganarai

e contra me non fia mai ch'io ragioni.

Ma il dover pure al mio desir contrasta;

poi Amor me dice: Ogni secreta è casta.

CEFALO tornato a PROCRIS, ela comenza, seguendo:

CEFALO.

Qual che tu sii, che cum sì larga mano

cum la persona tua l'oro prometti,

perché te mostri, ne lo aspeto, umano,

voria por fine a toi amorosi effecti...

Ma condurmi a tal opra è un caso strano,

benché Amor m'abia già tra soi sogieti

e tuta già per te mi sento presa,

ma far contra el mio Cefal pur mi pesa.

Qui CEFALO se scopre e volela tocare e PROCRI como sdegnata fugge e va dicendo li sequenti versi:

PROCRIS.

Non serà vero, ingrato e desliale,

che mai più teco viva in tal sospecto!

L'amore e la mia fede che mi vale,

poi che ogi facto m'hai tanto dispecto?

El sdegno e l'onestà mi prestin l'ale

ch'io mi levi dananti al tuo conspecto.

Non mi seguir, che tu ne perdi i passi,

né creder che impunito il ciel ti lassi!

CEFALO mal contento di averla inzuriata li dice:

CEFALO.

Cara consorte mia, perché ti parti?

Non fugir, torna quivi a la tua stanza!

Per dubio non l'ho facto, o per provarti,

non crederei di te tanta falanza!

Non corer sì veloce, almanco guarti

di qualche sterpo o spino! E questo è usanza

fra gli amanti, alcun scherzo. E son ben certo

che tu me cognoscesti ancor coperto.

PROCRIS entra fugiendo nel bosco e CEFALO adolorato va fuore dicendo da sì instesso:

CEFALO.

Che bisognava a me paccio cercare

nel giunco il nodo, o ne la arena il grano?

Trovato ho quel ch'io non volea trovare:

ohimè, come fui mai cotanto insano?

Che volea io di questo prova fare?

Or fatto è: non mi de' parer strano,

chè agiunto premio a cusì gran piacere

si faria Iuno dal suo ciel cadere!

Finito lo primo acto, la AURORA acompagnata da un coro di Muse che cantando l'acompagnoreno a l'asciender in ciel:

AURORA.

O mie ninfe, iubilate,

biastemate or meco Amorel

Mie bellezze disprezate

volse tòr quel traditore,

ma ben siamo vendicate

cum suo danno e disonore.

Vendicato è il mio dolore,

biastemate or meco Amorel

El crudel me accese el petto

sol per far di me vendetta,

poi impiombò quel giovenetto

che al mio amor sì fe' disdetta.

Ma ben vist'ho con effetto

che chi offende, offesa expetta:

tra lor posto è grande errore,

biastemate or meco Amore!

Fuggìa mo' la mia richiesta:

segua Cefal Procri mo'!

Pur se accorgi se l'è onesta,

che la fugge quanto pò!

Fate meco, ninfe, festa,

voi cantate, io ballarò.

Festegian con tutto il core,

biastemate or meco Amore!

ATTO II

Incomenza il secundo acto: qui PROCRIS esce del bosco ove era intrata e va al fonte de DIANA che stava cum uno coro de ninfe e lamentandosi a lei dice li infrascriti versi:

PROCRIS.

Dïana, ohimè, che un vergognoso caso

oggi m'è occorso contra le tue legge!

Cefal mutato se avìa, persüaso

trarmi per premio de l'onesta grege;

pur l'onor mio nel suo loco è rimaso,

ma tanta offesa mal per me si rege.

Cognobil presto, e in sdegno son fugita;

tu ch'ami l'onestà, porgimi aïta!

Tutto m'ha facto per l'antiquo amore

che ala sua Aurora questo iniquo porta.

Adopra contra lui, dea, il tuo furore,

che ma' più intendo abandonar tua scorta.

Come Calisto mai non feci errore,

né d'acto tristo in me mai ti se' acorta:

lassame andar per le tue limpide aque,

ché tal vita al mio gusto sempre piaque!

DIANA rispondendo a PROCRIS dice:

DIANA.

Procri mia cara, quella antiqua fede

che già servasti per le selve meco,

che al bisogno te lassi non concede,

né Cefal meritò di averti sieco.

Gran mancamento è di chi presto crede!

Ventene meco in questo umbroso speco,

che di virginee veste io vo' vestirte,

che sempre possi de mie ninfe dirte.

E perché tu non stii tra l'altre occiosa,

Florida, dammi quel fatato dardo:

l'ochio o il disio non bramarà mai cosa

che, tratolo, al ferir se trovi tardo:

questa virtù non vo' te sia nascosa;

e ancor ti dono un can tanto gagliardo,

che ‘ lion d'ardire e di presteza el tigre

avanza, e le altre fiere a lui fien pigre.

Fato questo, entrano nel bosco per vestir PROCRIS da ninfa e CEFALO vien fuora del bosco e dice come segue:

CEFALO.

O sfortunato amor, o iniqua sorte!

O amante tropo al tuo danno veloce!

Perché non vien a me pregata morte,

a cui quanto più vivo, il viver noce?

Seguo la dona mia per vie più torte,

né di lei sento, fuor de la mia voce,

la qual dì e nocte al suo chiamar non tace.

Deh, rendi a Cefal tuo, Procri, ormai pace!

Tu te ne vai fra le fiere sicura,

e temi chi più te ama ca se istesso!

Solevi aver fra le ninfe paura,

e non temi or che te sun gli orsi apresso.

Pigliasti ardir, per mia magior sagura!

Né di vederti alquanto mi è conceso.

Scrivoti in sasi e chiamo: Ecco risponde

e aiuta el pianger mio l'aura e le fronde.

Qui PROCRIS vien fuora col dardo e col cane vestita da ninfa e CEFALO la vede e segue cusì parlando:

CEFALO.

Lassa li sdegni ormai, lassa il dolore!

Fallai, il confesso, deh perdona ormai!

Rafrena, ninfa bella, il tuo furore,

ché senza te non credo viver mai.

Che temi ? Non salvasti il nostro onore

quando scortesemente io te tentai?

Deh, non fugire, o Procri, alquanto aspeta,

odime, e fa cum le tue man vendeta.

Dove te offeson le silvestre fiere

che di darli la morte te dilecti?

Se pur tue voglie sun sì crude e altiere,

perché quel dardo al mio pecto non meti?

S'io non sum digno averti per mugliere,

né véndica ancor sei de' tuo' dispecti,

aceptami nel numer di' tuo' servi,

fa' di me stracio, e lassa andar i cervi.

PROCRIS vedendo che CEFALO la segue se gli volta e dice:

PROCRIS.

Cefal non mi seguir, anci sta' largo!

Moglie non ti sum io, ma dona strana.

Non me impedir per queste selve il vargo,

ch'io sum votata ninfa de Diana.

Non mi seguir, che se fosti ben Argo,

l'affaticarti serìa cosa vana.

Vane a tua posta e qui non far dimora

e de più onesta dona te inamora.

CEFALO replicando segue cusì:

CEFALO.

Amar non vo' mai più donna che viva,

né de seguirti mai straco vedromi.

Febo la sua crudel Dafne seguiva,

né in minor laccio Amor per te ligomi;

Garamante ancor lei Iove fugiva

e uno animal la tene; io perderomi

d'animo per seguire una mia amica?

Or come caciarei gente nimica?

Fugimi pur, se sciai; che infin ch'io viva

cum ogni studio intendo di seguirti.

Ove i piè toca, ove il bel corpo ariva,

abrazarò in sua vice e lauri e mirti,

e voglio la mia morte alfin se scriva

per fama al mundo de' famosi spirti;

sopra ogni querza e tenerel virgulto

Cefal e Procri ancor si vedrà sculpto.

Non invidiava alcun celeste nume,

satiri, fauni, e non omo mortale,

solo el cazar me avìa posto in costume;

non stimava potermi avenir male.

O dee de' boschi, e voi, ninfe del fiume,

fermati quella! O tu, Amor, dami l'ale!

Paratevigli inanti, o vui pastori,

se Amor ve adempia i desiati ardori!

Qui si leva un PASTOR veglio e ritinendo PROCRIS sì gli dice:

FAUNO.

Deh, non fugir, donzella,

cului che per te mòre

e senza te del suo viver non cura!

Poi che sei tanto bella,

pietà del suo furore,

ché longo isdegno in zentil cor non dura.

Deh non strazar tuo' panni!

Eh, non tanta paura,

che qui non giucarà forza né inganni.

Poi che non ti comovi

e da lui i passi torzi,

el convien ch'io ti sforzi:

ferma qui el passo e fa' che non ti movi!

CEFALO visto da longi el pastore che ritenea PROCRIS e domandavagli la cagione della sua fuga, cominzia a cridare e pregar quelo la vogli placare e dice:

CEFALO.

Pietà, pastor, de l'infelice amante!

E tu pietà, mia ninfa, a tal tormento!

Se tu vedisti, per seguirti, quante

sono le pene, e udisti el mio lamento!

Sun lacerato dal capo a le piante

fra quisti sterpi, e più non mi risento.

Se la mia morte brami e n'hai pur ioco,

fermati, e me vedrai finir qui in poco.

Ma se tu pensi ben la immobil fede

e del tuo amante i delicati vezzi,

non potrai far ch'io non abia mercede

e quel cor de diamante non si spezi.

Lassai di Aurora le superne sede

e tu più di tal fede un sdigno aprezi,

se ricompensi cum lo amaro il mèle.

Scio non serai contra di me crudiele!

PROCRIS sdegnata per la iniuria ricevuta, dice sicome in l'infrascriti versi se contene:

PROCRIS.

Or sù, non più, po' che sforzata sono.

Testimonio mi sia Iove dil tutto:

mai questa offesa darò in arbandono

fin che ‘l mio onor non è al suo ver riduto!

CEFALO.

Anci, da ora io ti chiedo perdono,

e perso tu l'onor, sarei distruto:

ma chi sa meglio di me com'andò il facto,

che non te puoti indur per alcun pacto?

L'ira del ciel se mi rivolga adosso

sì che spectacul sia de ciascaun male,

se mai mi dolsi, né doler mi posso,

di te, che dea del ciel tanto non vale!

PROCRIS placata per il sconzuro fato da CEFALO dice come segue:

PROCRIS.

Anci non sii tu mai di grazia mosso,

e se posibil è Fato in mortale,

non più: poi che cum ver tu m'hai per casta,

di quel che è dicto in fin questa ora basta.

Finito che ebe PROCRIS, quel pastore che ritiene PROCRIS, alegro che i diti amanti siano pacificati, chiama con questa stanza alcuni pastori e invitali a festigiare:

PROCRIS.

El non è manco a nui disconvenevole,

o pastur da zampogna e tu da cetera,

a non far qui qualche acto solacevole

quanto erano a color de l'età vetera;

però co' un canto o cum un sòn piacevole

cantiam d';amor in fin che ‘l caldo pretera.

Lor parlerano, e noi qui soto a un'acera

laudiamo Amor che sì gli amanti lacera.

Qui CEFALO e PROCRIS intrati nel bosco sonando e cantando insieme, e'; vien alcuni pastori fuora del bosco sonando e cantando la infrascrita egloga:

CORIDONE.

Su, Tirsi, leva e chiama Alfesibeo,

Damone et io direm verso menalio

como Sarpago a l'ombra e Pasifeo.

Senza altro aiuto del fonte Castalio,

la musa ancor fronduta sonaremo

che ce diè Pan in sul monte Accidalio;

over sonati vui, nui canteremo

quando nel fiume a l'ombra de quei fagi

Galatea vene a fugir Polifemo.

TIRSI.

Cantiam la ninfa mia, che par non agi

più di me cura, e vàsine sì altera

che ‘l sol, vedendo lei, declina i ragi.

CORIDONE.

Deh, dine quando sopra la rivera

vnuda giungesti quella mia nimica

vinsuperbirsi a vagheggiar sua spera!

DAMONE.

O Coridon, perché vo' tu ch'io dica

di quel che al fine a lacrimar ti mena?

Cantiam d'amor, qui la stagione è aprica!

D'amanti questa silva è tuta piena:

chi gode, tace, e in fin dal cel s'asconde;

sola cantando piange Filomena.

ALFESIBEO.

Tesiamosi qui adumque de ‘ste fronde

una umile caseta, e ognun si prenda

una ninfa per forza in mezzo l'onde.

DAMONE.

Deh, non freneticar! Fa' che ‘l s'intenda

che sol cantiamo qui per quei duo amanti

pacificati, e ‘ Amor grazie si renda!

Grazie rendiamo adunque tutti quanti

e sia laudato il signor nostro Amore

cum dolci soni e cum gli usati canti.

TIRSI.

Come vo' tu ch'io canti, o bon pastore,

l'altrui felicità, se ‘l mio tormento

a pianger mi conduce a tute l'ore?

DAMONE.

Dil tempo come va, resta contento;

non ti ricordar più, Tirsi, di quella:

chi troppo abraza spesso strenze il vento.

ALFESIBEO.

In questa erbeta verde e tenerela

mi ricordo aver già in brazo Elisea,

gli ati ricordo, il volto e la favella.

CORIDONE.

Et io ricordo ancora Galatea

fugirmi inanti a questo sito florido

e rider quanto più mi distrugea.

TIRSI.

O che insolenzia alora era in te, Corrido,

seguir colei che ardea per un garzone

sul primo pello, e tu già pastor orrido!

CORIDONE.

Andiamo, ché partir si vòl Damone,

e le pasciute gregie al fiume mandisse:

dicto han li amanti sua longa ragione,

or lacte e fiori in tanta festa spandisse.

ATTO III

Qui segue il terzio acto nel quale PROCRI e CEFALO pacificati insieme escono del bosco avendo Lepala cane cum seco, e PROCRI gli dona queste cose, dicendo così a CEFALO.

PROCRI.

Quanti affanni e passion, quanti rancori

vien tra li amanti e paion cose strane!

Pur sun rifermamento de li amori,

cum mille oltragi e parole vilane;

ma quando se conoscon di so' errori,

se vergognan de molte cose vane,

como io, che avendo giù l'ira deposa,

più me tormenta che niun'altra cosa.

L'excelsa fama tua, car mio consorte,

che excede a'nostri dì ciascun vivente,

vòl che, essendo più d'altri ardito e forte,

te faza digno de un mio car presente;

ché quando un vale e po' ha felice sorte,

la forza con l'ardir dupiar si sente;

e quella cosa de che io te ragiono

diede Dïana a me per grazia in dono.

E questo è un dardo ch'è fatato in modo

che, tracto da ciascun, mai in fal non gionge;

che tu il posedi per mio amor, ne godo,

e sapi che più d'altri il ferro ponge:

per prova il dico, e volentiera il lodo,

ché già l'ho trato e da presso e da lunge

né mai fiera campò da le mie mane,

e Lepala ti dò, ch'è re di' cane.

Di questo teme ogni animal gagliardo,

temon di lu' i lioni e le pantiere,

ogni veloce tigre parà tardo

e timide a fugir tutte le fiere;

spinge orsi, lupi, lince e leopardo

e porci e tori, impaurite schiere.

Lassalo a quel che vòi, che a dirlo ardisco,

che uccider già l'ho visto un basilisco.

Acceptal per mio amor, che mai non nacque

omo di te più fortunato al mondo:

mentre servi' Diana in le fredde aque,

cum questo ucisi i pessi in mar al fondo,

e sol per te quand'io l'ebi, me piaque

e disi: Cefal fia un Ercul secundo!

Serbalo bene, e quando l'oprerai

Diana invoca, e me ricorderai.

CEFALO aceptando li doni gli referise grazie e dice:

CEFALO.

Cara consorte, i tuo' celesti doni

accepto cum quel cor che sol Dio vede,

e perché lo error mio tu mi perdoni,

l'alegreza al risponder non concede.

Quel che di toi presenti mi ragioni

credo: il donarli te cum tanta fede

farebe ogni vil cosa esser gagliarda!

Ma andiam a casa ormai, ché l'ora è tarda.

Vien, mi ristora di'mei longi affanni,

vien, ch'io ti posa a mio modo abrazare!

Vien, ti rivesti de li usati panni,

vien, che di averti ancora el non mi pare.

Vien, che una ora mi par un secul di anni

ch'io possa il dardo e questo can provare!

Vien, ch'el mi par che debi esser rapita,

vien, Procri, cara a me più ca la vita!

PROCRI caminando per il bosco vide un cingiale e dice a CEFALO che lasi il cane:

PROCRI.

Eccoti il tempo ormai che pòi far prova

lassa, Cefal, il can, ritieni il dardo!

CEFALO.:

Ecco il cingialel Ah, Lepala, và ‘l trova!

Piglialo, traditor! Va là, gagliardo!

PROCRIS vedendo il cane entrar nel bosco dice a CEFALO che ‘l seguise che altramente il perderia:

PROCRIS.

Ohimè, l'intra nel bosco! El non mi giova,

tu no ‘l potrai vedere! Abi riguardo,

come tu il segui almen, che qualche male

non t'intravenga! El par che l'abia l'ale!

PROCRIS parlando da sì medema dice:

PROCRIS.

Che cosa non può Amor, che non fa Amore!

Chi può sligarsi da suo' arte e inzegni?

Pur dianci io mi fugìa tuta in furore,

e in un momento sum placati i sdegni.

Adesso gli anni mi parebon ore

a starmi seco, e dòlmi ch'el non vegni!

Egli é pur vero, et io sum testimonio,

che amor non é che aguaglia el matrimonio.

Pur non ritorna! El dovea seguitare:

in abito so' ancor de venatrice;

qualche disgrazia gli potria incontrare,

che al mondo io non serìa ma' più felice.

Quanto più s'aman queste cose care

più affanno se n' ha ancor che non se dice.

‘Sta poca absenzia sua più mi tormenta

quanto più la presenzia mi contenta.

Io n'andrò pur fra questo mezo in casa

e vedrò como ben vadi le cose.

La sioca fante è sola qui rimasa:

circassa è lei, che son tutte viziose;

tuta la casa, essendogl'io, travasa,

non gli essendo, de' aver più cose ascose.

Cefal non viene: egli arà facto preda.

Che torni salvo Iove gli conceda!

Entrata PROCRIS in casa viene CEFALO for del bosco stanco per seguitare il cane e dise fra lui:

CEFALO.

Io non ritrovo el can, né trovo l'orma;

sangue non vegio e non vedo pedate;

non vegio Procris e alcun non mi informa

dove queste due fiere siano andate.

Meglio serà che quivi alquanto dorma,

ché le pupille mie non son serate

da l'ora in qua ch'io seguitai mia moglie;

star voglio al fresco di ‘ste umbrose foglie.

Aura suave, al mio bisogno spira!

Soccori a lo affanato caciatore!

Cacciai due fiere, e l'una il bosco azira,

ch'io non la trovo, e quell'altra il mio core

seco portava, tutta acesa d'ira:

pur la mossi a pietà del mio dolore.

Soccori l'affanato in tante pene:

medico a le fadiche, aura mia, viene!

Qui CEFALO tace e uno FAUNO che abitava quilli boschi 1'odì che parlava e cognosilo; va a PROCRIS che aspetava CEFALO e sì li dise:

FAUNO.

Ligiadra ninfa che ti stai pensosa,

forsi il tuo amante cum disio l'aspecti:

gran ragion hai, si sei di lui gielosa,

ch'io l'ho lassato solo, e par che aspecti

e chiama zerta dona o sia amorosa;

dir non scio il nome, ma ad udirlo steti,

e tanto mi acostai dove dimora

che udir mi parve nominar l'Aurora.

Adio, ti lasso. El gli starebbe bene

che tu el pagasti d'un simil partito;

a colui che ‘l fa, far se gli conviene:

un cimer gli seria ben investito!

Tu ti consumi qui misera in pene,

e un'altra donna gode il tuo marito:

ma se al consiglio mio tu crederai,

d'un novo amante ti provederai.

Risponde PROCRIS al FAUNO:

PROCRIS.

Sacrato fauno e de le selve idio,

dove hai tu visto tanto mio dolore?

Udisti cum sua boca Cefal mio

chiamar colei che gli ha robato il core?

Sia maledicto il dì che in ato pio

io mi raconcigliai col traditore!

Il FAUNO replica e dice:

FAUNO.

Udìlo e vidi, e simil nome certo

mi parve risonar per quel deserto.

Duolemi, o cara Procri. Io me ne vo,

comandame, se io posso altro per te.

Se tu ‘l vorai veder, te il mostrarò,

ma farai bene a non servarli fé.

Se mi ami, per tuo amor io morirò,

né un servo como me lassar si de'

scio che sei savia, io non vo' parlar più:

se vòi altro da me, io sto là su.

PROCRIS pàrtisse per andar verso il bosco e dice da sua porta:

PROCRIS.

Andar ne voglio a quel umbroso loco

ove contra di me tanto si adopra,

e se io li giongo a quel nefando gioco,

al ciel convien che simil acto io scopra!

Poi intorno al bosco accenderò gran foco

per arder quigli, e poromegli sopra,

e tuti insieme, a confusion di Venere,

voglio siàn sparti al vento arida cenere.

Ecco ch'el se ne ven dal suo amor vinto,

e finger si vorà dal cacciar stracco!

Or gliel vo' dir, se ven dal laberinto

e dai liti de' Colchi tanto fiacco!

Milli bei sogni el me averà dipinto,

e de parole false ha colmo un sacco.

Ma s'io non me ne vendico, ch'io possa

esser sepulta viva in una fossa!

In questo mezo che lei dicea cusì da per lei, guardando per il bosco vide CEFALO che era stato a cercare il cane. CEFALO parla a PROCRIS e dice:

CEFALO.

Cercato ho, cara sposa, e silve e piano

da la ripa del fiume in fin sul monte,

la spiagia tuta in ciascaduna mano,

sì che sudato m'è più volte il fronte;

non v'è rimasto satiro o silvano,

pastori in campi o ninfa in alcun fonte

ch'io non abia del cane adimandato:

non gli è chi lo abia visto in alcun lato.

Come tu sciai, a quella fiera il missi

e drento al bosco se ne intròro insieme;

non pòti tenir li ochi tanto fixi

ch'io penetrasse quelle parte extreme

del folto loco. Ohimé più volte dissi,

come cului che del futuro teme:

se io il perdo, la mia Procri n'arà sdegno!

e dissi il ver, ché ben ne vedo il segno.

Altro non posso se non gli umer stringere,

ché stato è forsi de li dei sum'opra.

CEFALO entra in casa e PROCRI che era a la finestra gli risponde e dice:

PROCRIS.

Parti ch'el sapia, questo ingrato, finzere?

e come a persuadermi ben si adopral

Ma il falso non saprà tanto depinzere,

ch'io cum la industria mia non lo discopra:

torni pur quando vòl a lo adulterio,

che io li interomperò el suo desiderio!

Qui finise el terzo acto. El FAUNO che vedendo da longi averse messo fra CEFALO e PROCRI, chiama alcun che a consolazion di questo vogliano sonare e saltare e cusì uscisseno del bosco cum varii acti e salti dicendo li infrascripti versi:

FAUNO.

Satiri alpestri, o voi mista natura,

lassati alquanto i tenebrosi boschi:

pietoso Amor ha de nui preso cura!

Lassa tu, Silvio, gli antri obscuri e foschi,

lassa le capre, e vien con la zampogna,

che altro ch'elegia vo' che tu cognoschi.

Tu Leuco, vieni, il tuo aiuto bisogna:

pietoso Amor oggi mi s'è dimostro:

sonar sempre ali armenti è a nui vergogna!

Sillo, famoso in el saturo chiostro,

vien con la corna che l'altrier per forza

tresti del fronte a quel oribil mostro!

O di sambuchi o di canne o di scorza

fistulle, tibie, trombe, alpestre muse,

venite, fauni, ognun si snoda e torza.

Di salti, balli e suon non fati scuse:

venite a festigiar, ché Amor il vòle

poi ch'al mio pecto el suo stral d'oro infuse.

Procri, la ninfa bella, ora si duole

del superbo amator che la dispreza

e d'altra ninfa inamorar si vòle.

Ardo, como ognun sa, dila beleza

di questa già gran tempo, e mai fui zerto

de l'amor suo, ma so or che mi apreza.

Fàtine risonar questo deserto,

che ‘l cor, ch'è volto, già si fermi in lei

a vendicar di quel ch'io ho scoperto!

Se ala mia grota io posso aver costei,

di lacte e giande, pomi e di tartuffoli

vo' far conviti a tuti i semidei!

Non vo' che resti cetre, cimbe o ciuffoli,

per queste silve, che non sòni meco,

e balerano infin le capre e ‘ bufoli.

Canterem Procri e Procri udirem Ecco

rispondere e far dupio sempre il nome,

Procri risonerà dentro ogni speco.

Al sventilar de le sue bionde chiome

attento stando... I satir sun fugiti,

e me han lassato solo, e non so come!

Serian per qualche vista impäuriti?

ATTO IV

Qui comenza el quarto acto come la FANTESCA de PROCRI esce de casa e va per cercar el FAUNO che acusò CEFALO, e da sì instessa parlando in questa forma dice:

FANTESCA.

Quanta disgrazia al mondo ogi è la mia!

quante lacrime ognor convien ch'io spandi!

Star mi convien tuto ‘l giorno per via,

né sa la mia patrona ove mi mandi.

In tanta rabia vive e zelosia,

che ad ubedir a tuti i sui comandi,

in cercar del marito le sue orme

Argo se stracaria, che mai non dorme.

Ora mi manda un fauno a dimandare,

e dove sia non so, né sua dimora.

El patron mio ne va fuor a cazare,

e lei di zelosia tuta s'acora;

stimo che dré la gli vorà andare...

Eccola che gli va! Vada in malora!

Tornarò a casa, e poi, se mi dimanda,

Non lo trovai dirò in alcuna banda.

Quante sono le done a chi i mariti

rompon la fede, e pur nulla si sente!

Custui non fala, e a mille bei partiti

dato ha ripulsa, unde forsi si pente.

Io per me già gli ho facti mille inviti,

e tra le done io sum pur parescente!

Questa il rampogna e morde a tute l'ore

e per fugirla è fato cazatore.

Continua il parlare:

FANTESCA.

Che farebbe costei, se ritrovato

l'avesse, qual cum Io, Iuno el suo Iove,

o una sol volta vistolo mutato

in piogia d'oro o in qualche forme nove?

o ch'elo avese il tempo duplicato

come lui per Alcmena, e simil prove,

o qual per Iole quel, contra Dianira,

poi che per leve amor tanto suspira?

Pacce le done sum che si dan pena

di quel che non ge pono provedere!

E quelle cose che a doler le mena,

potendo ancor, non le dorian sapere.

A Progne che nocea, se Filomena

in tela il fal non gli facea vedere?

Dica chi voglia, io reputo felice

chi crede a l'ochio e non quel che se dice!

La Fante torna a casa e CEFALO torna fuora del bosco. Quando PROCRI il seguiva, stando PROCRI da la lunga sente CEFALO che dicea li ultimi versi:

CEFALO.

Questa vita inquïeta de' mortali

ogni dì più desia quel che più noce.

Chi seguita per selve gli animali,

chi caccia cum le rete i pesci in foce,

chi segue chi è cagion de più so' mali:

a' soi danni ciascuno e più veloce.

Questi du' exercicii, caza e amore,

cum piacer brevi dà longi dolori.

Intrando CEFALO in uno altro boscheto, PROCRI sì se asconde fra certe frasche ad audir quelo che CEFALO dicea e così dice:

CEFALO.

Provai già como amor tormenta un pecto,

ora li affanni de le selve provo;

tròvomi qui dal caldo inmenso astrecto,

e un rivo fresco o un venticel non trovo.

Aura invocata mia, vien, ch'io t'aspecto

steso tra' fiori, vien ch'io non mi movo!

Solazo ale fatiche e ale mie pene,

de gli affanni ristoro, Aura mia vene!

PROCRI che udiva CEFALO, credendo che lui chiamase la AURORA se leva per vederla e CEFALO la crede che sia una fiera; levato in pié cusì dice:

CEFALO.

Sii qual fiera tu vòi, che in queste fronde

forsi pascendo o riposando stai,

questo dardo ti mando, e non so donde,

ma la virtù di questo provarai;

fiera ni ucel al suo ferir s'asconde.

Dïana, questo colpo aiutarai!

Promisi a Procri in ogni mio ferire

di chiamar te e lei nel cor tenire.

CEFALO trato il dardo vagli drieto nel bosco credendo aver ferito una fiera: trovata PROCRI ferita, lei vistolo cade e crida dicendo:

PROCRIS.

Ahimè, crudel amante, ahimè consorte!

Ahimè, vita mortal, como ti lasso!

O infelici amatori, a che ria sorte

conduti siamo, a che infelice passo!

Ahimè, che di tua man m'hai dato morte,

crudo amante e marito! oh cuor di sasso!

O stelle, o cieli, o Fato crudo et empio,

perché vòi farme de li amanti exempio?

CEFALO visto PROCRI ferita e caduta a terra, core là e pigliala in bracio e dice:

CEFALO.

Sconsolato amatore! eh, non più, vita!

Ritorna, o crudo iacul, al mio pecto!

O cara sposa mia, questa ferita

da me l'avesti, e mio stato è il difecto.

Ma prima che da me faci partita,

vedi come nel core il fero meto,

e non potendo la mia pena dirti,

palese la farò col mio seguirti!

Questo misero fine aràn dui amanti

per far pietoso al mondo ogni vivente:

non serà ver che solo io resta in pianti,

spetacul tristo al mio secul presente;

non vo' patir che tu mi vadi inanti

a richiamarte a l'anime dolente,

e come io fui cagion de la tua morte,

venir vo' teco a quella infernal corte.

Como CEFALO volendo sferare, PROCRI gli dice:

CEFALO.

Non mi sferare! eh non, per Dio, mercede!

Lassa che alquanto tenga questa vita!

Tanto al mio corpo viver se concede

che questo dardo stia in questa ferita.

Se una grazia mi fai, ti do la fede

che contenta da te farò partita:

se la farai e observerai quel dici,

tra' morti amanti io serò de' felici.

Cagione é stato il feminil errore

di questa morte, e non tu, Cefal mio!

Cagione é stato il tropo ardente amore,

e sola intendo de passar quel rio.

Se al nodo marital far vòi onore,

prego per altra non mi dii in oblio:

se mi promitti non pigliar l'Aurora,

tira può ‘l fero del mio pecto fuora.

CEFALO vedendo PROCRI render l'alma cusì dice:

CEFALO.

Questo ultimo tuo fiato, ohimè, che spandi,

con quei lumi splendenti che tu chiudi,

perché in boca al tuo Cefal non lo mandi?

Poi che la nostra compagnia refudi,

ch'io non pigli l'Aurora me adimandi;

ma prima che la vita al fin concludi

l'anime nostre ne andarano inseme,

e la mia di tardar tropo se teme.

CEFALO vedendo morta PROCRI alzati li ochi vide CALIOPE cum tute le muse e incomenzò a dire così sopra el morto corpo:

CEFALO.

Ohimè, l'ultimo fiato

lassato hai, ninfa bella,

e lo extremo tuo dì cum gli ochi hai chiuso.

Ohimè, che m'hai lassato,

e più la tuo favella

non sento, cum dolor, como io sum uso.

Veniti, o sacri cori,

veniti a pianger meco:

questa che è morta ancor convien se onori.

Calliope, e vui, sorelle

che già l'amasti tanto,

spiegati un mesto canto,

che a pietà di costei mova le stelle.

CALLIOPE.

Membre lizadre, che regesti in terra

la vita di costei che morte ha spenta,

dove se vive in sempiterna guerra,

ogni anima continuo si tormenta

quando la spoia sua non si risera

sotto qualche sepulcro: ond'è contenta

ogni ninfa di darvi sepultura,

poi che fornito ha in voi suo fin natura.

Eurania, Euterpe, Tersicore e Clio,

Melpomene mia, Erato, e tu Talia,

Diana vòl che con officio pio

Procris di nostra man sepulta sia,

e d'alta pira vòl ornarla: unde io

a tagliar questa selva serò pria,

ché quella a cui sacrata esser si crede,

che si spenda in tal acto ne concede.

CEFALO.CEFALO voltato a le ninfe in tal modo gli dice:

CEFALO.

O sacre ninfe, che per freschi fonti

inscie del nostro mal cantando gite,

se acerbo caso otenebrò mai fronti,

uno excessivo danno alquanto udite.

Non aspectati che il mio mal raconti,

ma queste fresche rose impalidite

ch'io vi discopro, a contemplar restate,

ché cagion le mie man de ciò sun state.

FILIS ninfa se gli acosta vedendola morta e voltasi ale altre ninfe e dice:

FILIS.

Ohimè sorelle, ohimè, coreti presto,

la delicata Procri morta iace!

O Galatea, sucuri al caso mesto,

che l'alma è già da lei spirata in pace.

E voi, sorelle, provedeti al resto.

Cefal sospira, e al ciel guardando, tace.

Tu el nardo piglia, e quivi el foco accendi;

l'ellera pigliarò, tu el mirto prendi.

GALATEA parla a CEFALO:

GALATEA.

Misero amante, non più pena omai!

Ove non è rimedio, il pianto è vano.

Se ‘l corpo non più tuo ci laserai,

sepeliremol noi con acto umano:

costei, che già vivendo tanto amai,

merita exequio aver de la mia mano.

Ninfe siam nui, e io son Galatea

sacrata in fonti, e questa é Deiopea.

CEFALO. risponde ale ninfe:

Lassati a me fornir lo officio extremo,

Procri non meritò men digno onore!

Non son Ciclopo e non son Polifemo,

non ti tolsi Aci o ti sturbai il tuo amore!

De viver dopo questa sol io temo,

e seguirla determino in poche ore.

Se piatose mai fuste a alcune pene,

in brazo mi lassati ogni mio bene!

Questa fu la mia vita, e viva e morta,

questa al mondo mi fe' viver felice,

questa mi fia morendo optima scorta,

questa mi fo più ch'al suo Orfeo Euridice;

questa sequendo, al fiume mi transporta,

ché ‘l legno di Caron tocar non lice,

questa é colei per cui vivea contento,

questa morì per zelosia dil vento!

Morte, del mondo hai pur spento il bel sole!

Morte, hai di ogni virtù pur trïumfata!

Morte, se alcun mortal di te si dòle,

Morte, io sum quello che t'ha più desprezata.

Morte, se agli umil perdonar si suole,

Morte, son quel che ancora io t'ho pregata.

Morte, se acquistar vòi eterno onore,

morte non manchi al misero amatore.

Qui GALATEA e FILIS leva CEFALO e copreno PROCRI morta e lui andando a casa, voltandosi a guardar PROCRI, dice:

CEFALO.

Ohimè, dove ti lasso, o sposa mia!

L'ultimo vale pur mi convien dirti.

Ohimè, chi mi te tole? o scortesia!

Como esser può ch'io non deba seguirti?

Come aver pòi più fida compagnia

a' campi Elisii o tra li umbrosi spirti?

O ninfe, a tuormi il mio disio sì crude,

come de pietà siti or tanto ignude?

DEIOPEA dice sopra PROCRI questi versi:

DEIOPEA.

Anima sciolta dal mortal tuo velo

non aspettando il tuo fin naturale,

como qui al mondo lassi el più bel velo,

che lacrime ne sparga ogni mortale?

Poi che là su sei coronata in cielo,

odi benignamente il nostro vale:

presto te seguirem, como a Dio piace;

riposa, ninfa, eternalmente in pace!

CALIOPE ninfa:

CALIOPE.

Pietoso fin de doi miseri amanti

veduto aveti, exempio a ogni amatore:

morta e sepulta è Procri, e tristo in pianti

Cefal non puol morir, tanto è il dolore.

La dona non convien che qui se avanti,

ché amor non parve il suo, ma fu furore:

così a voi done una doctrina sia

che riposo non sta cum gelosia.

Questa stanza se cantò in l'aere, da la columba, sopra el morto corpo:

COLOMBA.

Qui senza spirto exanimato iace

el corpo, e l'alma è già da lui disciolta;

riposar possi in la quïeta pace

ove si gode e ‘l pianto non si ascolta.

Tu, Galatea, cum quella ardente face

la pirra accendi, e sia Procri sepulta,

e poi in quel orna el ciner sia servato,

che ‘l passo in Stigie non gi sia vetato.

Capitolo che dise GALATEA cum la face in mano per acender la pira dove morta PROCRI iacea:

GALATEA.

Pianzete, silve, alpestri fiumi e rive,

pianziti, dei de' boschi e dei di' monti:

questa ch'è morta qui, su nel ciel vive.

Nereide, Driade, e voi, ninfe de' fonti,

piangeti tuti, o sacri semidei,

de verdi querce denudati i fronti!

Veniti a pianger qui morta costei

che viva accese tra voi mille cori,

tanta vaga onestà se vide in lei.

Lassati ‘ vostri armenti, o voi, pastori,

veniti al mesto e obtenebrato canto:

le lacrime seran sacri liquori.

Se in cel puol penetrar il nostro pianto,

non puo' far che piatosa non ti mostri,

o tu che lustri il ciel col viso sancto:

le lacrime vedendo a li ochi nostri,

se altro puoi desïar che ‘l summo bene,

ti duol di aver lassati i nostri chiostri.

Ma poi che in ciel alcun dolor non viene,

nui, tue sorelle, qui continuo in terra

per tua memoria viveremo in pene.

Questa spoia mortal che si soterra

visiteremo in tua eterna memoria;

e tu che in pace sei, tolta di guerra,

di noi racordarati in la tua gloria.

ATTO V

Qui comenza el quinto acto, como DIANA vien cum le sue ninfe e dice l'infrascripti versi:

DIANA.

Silenzio! O ninfe, il funeral officio

fornito è ormai con suo debito onore;

defonta è Procris, non per alcun vizio,

ma sol per tropo smisurato amore

A me se expecta ormai novo exercizio;

troppo gran pena è morte a un poco errore:

senza me ritornò Procri a sue tede,

onde morta n'è lei como se vede.

E perché lei non meritò tal pena,

consentir non intendo a tanto male;

Cefal sua vita dolorosa mena,

chiama la morte, e ‘l suo chiamar non vale.

Scopri tu quella pirra, o Filomena,

e vedrai cose sopra naturale:

che Procri al mio chiamar vo' si risenti,

ché in ciel comando, e in terra, a li elimenti.

Qui DIANA toca PROCRI col dardo e dice:

DIANA.

Levati, Procri! Surge, o ninfa bella!

L'alma che tu lassasti, ecco, in te spiro.

Diana sum, non sum pura donzella,

e sum disesa dal superno giro;

leva da li ochi il vel, guarda e favella;

vivi; che più con teco io non mi adiro.

Tu Cefal chiama, o Galatea e tu, Fille:

cantise in festa qui, siate tranquille.

GALATEA va per CEFALO con FILLE; e PROCRI, a DIANA ingionochiata, parlando dice:

PROCRI.

Pietà, o dii superni! o tu, mercede,

commiserata al tanto mio dolore,

excelsa dea, in cui mai persi fede!

Celebraroti sempre in sumo onore,

poi che mi hai tolta da l'inferne sede:

ma' più da te vo' dilungar il core.

Vivendo, asai credea di tua posanza,

ma molto il creder mio l'effetto avanza.

Tu sempre sii di tanta opra laudata

che rengraziar te ne dorìa Natura,

che ogi per l'opra tua vien ristaurata

di me, che era già posta in parte obscura.

Ma poi che l'alma al corpo hai religata,

fa' ch'io ti serva e di me prendi cura;

se ben del matrimonio el lacio è forte

sciolselo a un tracto col mio viver morte.

DIANA a PROCRI.

DIANA.

Anci non sia mai ver, Procris diletta,

che richiamata indarno t'abia in vita:

tra nui non si fa mai opra imperfecta,

ogni cosa convien sia stabilita.

Vedi là Cefal che ne vien in freta

che poco men non t'ha morto seguita!

Acceptal volentier, ché a me ancor piace,

e siati insieme lungamente in pace.

Come GALATEA vien parlando a CEFALO e levili uno manto bruno e cusì dice:

GALATEA.

Lassa, Cefal, ormai li obscuri panni:

vedi là Procris tua levata in piede.

So che non credi ormai più che te inganni,

l'ochio tuo fa che al mio parlar dai fede!

CEFALO risponde:

CEFALO.

Andiamo presto, che ‘l mi par mile anni

ch'io la tochi, che l'ochio ancor no ‘l crede.

GALATEA dice:

GALATEA.

Vane a Diana prima, e lei ringrazia,

che di ben farti mai se vide sazia!

CEFALO in zenochion a DIANA dice :

CEFALO.

Perdona, o sancta dea, che ‘l troppo amore

cum l'alegreza mia dir non mi lassa

quel ch'io vorebbe e ch'io sum debitore;

ma il gran servigio che di lungo passa

ogni mio ringraziar, mi stringe il core,

e la mia servitù infima e bassa

a tanta maiestade offrir non osso,

e magior don di me dar non ti posso.

DIANA fa levar CEFALO e presentagli PROCRI:

DIANA.

Leva su, Cefalo: i mistier celesti

e l'oprar nostro al mondo non se intende.

Ecco qui Procris tua che già ucidesti,

per divina pietà la si ti rende.

So che non sai perché tu la perdesti,

che spesso no ‘l sapendo un dio se offende,

ma dil vostro falir portasti pene,

or che vivati lieti se conviene.

Rendoti adunque la tua cara sposa

e te ritorno nel tuo primo stato,

e perché Iuno non vi fuse odiosa,

sia qui di novo il suo Imeneo chiamato.

Tu, Procris, non serai mai più gielosa,

né Cefal fia mai d'altra inamorato.

Vivete insieme cum felice prole!

Vui, ninfe, adunque festigiar si vòle.

Qui vano insieme a casa acompagnati da le ninfe e muse intorno cantando la ultima cantilena che cusì comenza:

CORO.

Cantate, o ninfe belle,

spargiti vaghi fiori;

e voi, sacre sorelle,

ché Diana convien che qui se onori.

De le superne stelle

e dal cor degli dei,

richiamata è costei

che extinte avìa le coniugal facele.

Cantate, o ninfe belle.

Ralegratevi amanti,

e voi, cari consorti:

suscitata è da morte

la bella Procri, e volti in riso i pianti.

Ognun qui se conforti

e suoni, e balli e giochi,

ognun Dïana invochi

in selve, in fonti, in ciel, in fra le stelle.

Cantate, o ninfe belle.

Imeneo sia qui chiamato

a religare il nodo

che morte avìa sligato,

e siali Amor con legiptimo modo.

Il ciel ne sia laudato,

e in casa focco accendisse,

debite grazie rendisse

a chi ce ha resa Procris, o mie sorelle.

Cantate, o ninfe belle.

Dicta questa cantilena vene fuora CALLIOPE e dice la sequente stanza:

CALLIOPE.

Veduto averi, o miei cari auditori,

del spectaculo nostro quasi el fine;

là drento raconciglisi li amori,

dando ristori a le sue discipline.

Questa vita mortal è como i fiori

che stan coperti soto acute spine.

S'el v'è piazuta questa nostra festa,

fàttine signo, et altro a far non resta.

FINE