Fatevi i fatti vostri

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Fatevi i fatti vostri: battute

Fatevi i fatti vostri

di Vincenzo Rosario PERRELLA ESPOSITO

(detto Ezio)

06/12/2003

Personaggi:   11

Vittorio Pellegrini            

Ernesta Cardarelli            

Gigi Cardarelli 

Iva Ordinaria               

Leda Nanzo                      

Grecia Izzo                                        

Attilio Manca

Caterina Formica             

Carlo Lobutti            

Manuele D’Uso                

Pippo Di Scorta   

Napoli, casa Pellegrini. La morale di questa sroria è la seguente: quando pretendiamo di fare qualcosa per qualcuno (e non sempre avviene per altruismo), non sempre viene contraccambiato con un “grazie” in quanto tale aiuto viene scambiato per invadenza. Ed effettivamente, non sempre si può pretendere di entrare nelle vite altrui come se fosse la nostra, specialmente quando ci offrono dei soldi per aiutare qualcuno. E’ l’erroee che commettono Vittorio Pellegrini e sua moglie Ernesta Cardarelli. I due cercano di aiutare Gigi (fratello di lei) a trovare una compagna, con lo scopo di non averlo più tra le scatole, pagati profumatamente dai genitori dell’uomo che preferisce essere single, piuttosto che avventurarsi in un matrimonio forzato. Se poi ci mettiamo che il soggetto è maleducato, sgarbto, con un carattere difficile da domare, allora il caso è ancora più difficile. Leda, Grecia e Caterina si dimostreranno delle partner (conosciute e frequentate una per volta da Gigi) piuttosto complicate.

Numero posizione SIAE 233047

Per contatti Ezio Perrella 3485514070 ezioperrella@libero.it

            Napoli. Salone di casa Pellegrini. Ai lati della stanza, due porte conducono ad altre stanze: a destra in cucina e allo studio di Vittorio; a sinistra: camera da letto e bagno. Al centro c’è l’ingresso comune e un appendiabiti a fianco. In mezzo c’è il tavolo contornato da quattro sedie. Più a sinistra c’è un divanetto davanti a un tavolino con un telefono sopra.

ATTO PRIMO

1. [Vittorio Pellegrini, Ernesta Cardarelli e poi Iva Ordinaria]

                Vittorio è seduto sul divanetto e sta componendo un numero telefonico. Poi...

Vittorio: Pronto, casa Agnello? No? Casa Capretto? Scusate, ho sbagliato ovile... no, cioè,

                ho sbagliato numero. Buonasera. (Riaggancia, dubbioso) Eppure ‘o nummero è

                chisto. (Rifà il numero) Pronto! Salve, sono di nuovo io. Ma non è casa Agnello?

                Io cerco Alfredo. Ah, si’ tu? E che ddice a ffa’ che nun è casa Agnello? E che fai a

                fare la voce di donna? Per non farti riconoscere? Alfré, so’ io, Vittorio Pellegrini,

                chillo ‘e Corso Lucci. Come, quale dei quattro? Lo so, nel mio palazzo ci stanno

                altri tre Vittorio Pellegrini: uno che tiene l’agenzia matrimoniale, uno che tiene

                l’agenzia di viaggi e uno che tiene la scuola guida. Io sono quello dell’agenzia di

                collocamento privato al lavoro. Mi hai riconosciuto? Finalmente! Siente, me l’he’

                fatto chillu piacere? Come quale? Mi dovevi raccomandare per un lavoro quella

                ragazza, Domiziana Di Notte! Ah, hai provveduto? E che lavoro l’he’ misa a ffa’?

                Eh? Sta faticanno ‘ncoppa ‘a Domiziana? (Si rassicura) Ah, come operaia per la

                Società Autostrade? Bravo! Allora ti ringrazio come sempre. Cià, Alfré, a domani.

                (Riaggancia e si alza) Anche questa è fatta! Sono in arrivo altri soldini!

                Da destra entra sua moglie Ernesta piuttosto seccata.

Ernesta: Vittò, tu staje ccà? Ma inzomma, ‘a vuo’ accuncià chella lavatrice?

Vittorio: Ma pecché, che tene? 

Ernesta:  Non posso lavare i panni perché, quando li tolgo, mi escono tritati o macinati!

Vittorio: Ah, sì? E tu fa’ ‘na cosa: ‘int’’a lavatrice, invece ‘e ce mettere ‘e panne, miettece

                ‘a verdura e ‘a frutta, accussì ‘a use comme frullatore!

Ernesta: Vittò, nun pazzià, che stongo comm’a ‘na pazza!

Vittorio: Erné, ma io non faccio il tenico. Io tengo un’agenzia privata di collocamento al

                lavoro. E sulo Dio ‘o ssape che ce vo’ pe’ truva’ fatica ‘e ggente!

Ernesta: E invece, miettete a accuncià ‘e llavatrice. Se guaragna cchiù assaje!

Vittorio: Erné, nun accumminciamme a ce appiccecà ‘n’ata vota.

Ernesta: E già. Pare sempe ch’amme passato ‘nu guajo!

Vittorio: E pe’ forza: io ‘e cugnomme faccio Pellegrini, tu faje Cardarelli e ce amme  

                cunusciute ‘ncoppa ‘o Loreto Mare...!   

Ernesta: Siente, parle pe’ te! Io stongo fresca e tosta.

Vittorio: Sì, ma mò calmammece. Mò t’’a vengo a accuncià, ‘a lavatrice. Vabbuò?

Ernesta: E già. Scusami, ma io la odio, quella lavatrice. A proposito, ha telefonato frateme

                Giggino. Ce vene a truva’ pecché se sente sulo.

Vittorio: (Seccato) Che? Vene frateto? E allora mò te vuo’ appiccecà ‘n’ata vota cu’ me?

Ernesta: Ma peccé, che tiene ‘a dicere? Chiuttosto, peccé nun ce truove ‘na mugliera?

Vittorio: Io? Erné, nun è mestiere mio. E ppò, dimme ‘na cosa: ma chi s’’o piglia a frateto?

Ernesta: A proposito, dopo che ha telefonato Gigino, ho parlato pure con papà e mammà.

Vittorio: ‘O vero? Hanne telefonato tutt’e dduje ‘nzieme?

Ernesta: No, solo mammà, però c’era papà vicino. Hanno detto che se aiutiamo a Gigino a

                trovare moglie, ci regalano 10.000 Euro al mese. Néh, ma te facessene schifo?

Vittorio: (Gli si illuminano gli occhi) 10.000 Euro al mese? Siente, a chi ora vene Giggino?

Ernesta: Non lo so, fra poco dovrebbe stare qua.

Vittorio: Ah, comme so’ cuntento d’’o vedé! Però ‘essa venì ‘nu poco cchiù spisso!

Ernesta: Sì, ma mò muovete a accuncià ‘a lavatrice. Te l’ho detto, trita e macina i panni. E

                adesso, dentro la lavatrice, ci sono le camicie tue.

Vittorio: (Sconvolto) No. ‘E ccammise mie? Ma pecché nun ‘e llave a mano? Mannaggia

               ‘a capa toja! ‘E ccammise mie!

                Ed esce via a destra frettolosamente.

Ernesta: Marò, ma comm’è fissato, isso e ‘e ccammise soje!

                Dalla comune (al centro) entra Iva Ordinaria, ragioniera: una pignola ed esosa.

Iva:        (E’ in tuta ginnica ma con scarpe… col tacco!) E’ permesso? Si può?

Ernesta: Ah, ciao, Iva. Entra, entra.

Iva:         Grazie. (Avvicinandosi indecisa) Senti, ma non è che disturbo?

Ernesta: No, ma che disturbo? A proposito, noto che oggi ti sei messa in tuta da ginnastica.

Iva:         Stavo andando a fare un po’ di footing.

Ernesta: (Guarda le sue scarpe) E tu vaje a ffa’ ‘o footing cu’ ‘e scarpe cu’ ‘o tacco?

Iva:         E che fa? Mi rendono più sexy! Senti, Ernesta, non ci sta Vittorio?

Ernesta: Devi dirgli qualcosa di importante?

Iva:         Sì, sai com’è, io sono la sua ragioniera, e allora devo dirgli alcune cose.

Ernesta: Ho capito, si tratta di soldi. Mamma mia, Iva, ma tu te piglie sempe sorde?

Iva:         Sì, sempre! Io mi faccio pagare tutto, perfino un’informazione. Pienze, ll’atu

                Juorno, ‘na signora vuleva sape’ ‘o nomme d’’o cane mio. E io, pe’ ce ‘o ddicere,

                m’aggio fatto da’ diece Euro e ce aggio dato pure ‘a fattura!

Ernesta: Mamma mia, comme si’ esaggerata!

Iva:         Perciò, adesso dimmi dove sta Vittorio. Subito, immediatamente…!

Ernesta: E vabbé. Sta litigando con una lavatrice difettosa!

Iva:         E allora accompagnami da lui. Può essere che ci esce una cosa di soldi.

Ernesta: Ma qua’ sorde…?! Viene mommò cu’ me!          

               Ed escono via a destra confabulando.

2. [Pippo Di Scorta e Leda Nanzo]

               Dalla comune (al centro) entra Pippo Di Scorta, socio di Vittorio.

Pippo:    Chi sa si Vittorio ha truvato ‘a raccomandazione pe’ Domiziana Di Notte? Ma chi

               me l’ha fatto fa’ ‘e diventà socio ‘e chillo? Il fatto è che io tengo una malattia

               strana: certe volte divento smemorato. Non vorrei che quello se ne approfitta per

               fregarmi soldi. Famme fa’ ‘na telefonata, va’. (Va al cordless, compone il numero,

               poi…) Casa Agnello?... No? E che casa è? Casa Capretto? Scusatemi. (Riaggancia,

               dubbioso) Ma ‘o nummero ‘e Alfredo nun è chisto? He’ visto? La malattia sta

               facendo il suo effetto. E comm’aggia fa’? Mah! Vabbuò, famme telefonà, ca po’

               aggia parlà cu’ Vittorio. (Prende il telefono ma non ricorda più) Aspié, ma a chi

               aggia telefonà?Ecco, sto’ avvianno a me scurdà‘n’ata vota ‘e ccose. Mannaggia!

               Dalla comune, entra Leda Nanzo (vestita casual). Nota Pippo.            

Leda:     Chiedo scusa.

Pippo:     Chi è?

Leda:      Posso chiedere un’informazione?

Pippo:     (Ah, e mò comme faccio? Devo fare finta di niente!). Ehm... sì, vieni, entra pure.

Leda:      (Avvicinandosi) Mi hanno detto che qua c’è un ingegnere di scuola guida molto in

                gamba. Io devo fare l’esame. E lui mi deve aiutare assolutamente.

Pippo:     Veramente? Qua dentro ci sta un ingegnere?

Leda:      E si nun ‘o ssaje tu? Ma forse tu non abiti qua?

Pippo:     No, mi pare di no!  

Leda:      Insomma, lo conosci oppure no, quest’ingegnere?

Pippo:     Eh, è ‘na parola. E chi s’’o ricorda? No, cioè… io dicevo chi s’’o ricorda, perché

                non lo vedo da un po’ di tempo. Scusa, ma tu non te lo ricordi il suo nome?

Leda:      Vittorio Pellegrini.

Pippo:     Ecco, brava, è lui.

Leda:      E allora devo incontrarlo. Vedi, io ho superato i quiz: ho fatto solo tre errori. Ma il

                mio problema sono le guide: sono proprio un’imbranata. Così ho fatto indagini e

                ho scoperto che lui è il mio esaminatore all’esame di guida. Devo dirgli di fare il

                bravo. A me la patente mi serve. Ed io sono disposta a dargli qualunque cifra!

Pippo:     (Qualunque cifra? Azz, e allora ‘stu Vittorio l’ha da spartere cu’ me!).   

Leda:      A proposito, scusa, ma io con chi sto parlando?

Pippo:     Con me.

Leda:      Sì, ma tu come ti chiami?

Pippo:     Eh, e chi ‘o ssape? Ma scusa, io non te l’ho detto ancora?

Leda:      No.

Pippo:     Ah, e mò è ‘nu guajo. Aspetta un poco! (Estrae la carta di identità dalla tasca e

                legge) Ecco qua: io mi chiamo Giuseppe Di Scorta! (E la posa di nuovo in tasca)

Leda:      Ma che ffaje? Liegge ‘o nomme tuojo ‘ncoppa ‘a carta d’identità?

Pippo:     No, quello è per essere più sicuro! Ehm... e tu, invece, come ti chiami?

Leda:      Mi chiamo Leda Nanzo. E allora, dove sta questo Vittorio Pellegrini?

Pippo:     Eh, beh… (E mò che ce dico, a chesta? Io nun m’’o ricordo propio a ‘stu Vittorio

                Pellegrini!). Ehm... senti, facciamo così: vieni con me, lo so io dove abita.

Leda:      Ah, grazie. Sei molto gentile. Senti, ma tu sei sposato?

Pippo:     E chi ‘o ssape? Po’ essere pure! Speramme ‘e no!

                E così i due escono via di casa.

3. [Vittorio e Iva. Poi Gigino e Carlo Lobutti. Infine Grecia Izzo]

                Da destra tornano Vittorio e Iva.

Vittorio: (Stufo) Iva, Iva, ma tu vaje truvanno sempe sorde, ‘a me?

Iva:         E tu che vvuò, Vitto’? Io sono la tua ragioniera. E allora m’he’ ‘a pava’!

Vittorio: E perché, io non ti pago già? Una volta al mese!

Iva:         (Stufa) Ma so’ duje anne che nun me pave. Damme ‘sti sorde o si no m’arraggio!

Vittorio: (Intimidito) Ma chi te capisce a te? Tu pare tanto timida e tantu scema, ma quanno

                se tratta ‘e sorde, addiviente ‘na leonessa!

Iva:         E se capisce. ‘E sorde me servene pe’ campà.

Vittorio: E vabbé, col prossimo stipendio, ti do anche i soldi arretrati. Va bene?

Iva:         Ah, mò andiamo d’accordo. Allora io scendo. Vado a fare un poco di footing.

Vittorio: E tu già m’he’ footing tu a me!

Iva:         Cià, Vittò, saluteme a chella povera Ernesta. Ma comme te supporta, a te?

                Ed esce via.

Vittorio: Ernesta me supporta a me? Ma si songh’io che supporto a essa! E mò ha da venì

                pure ‘o frato, a ‘n’appoco! ‘E che gghiurnata che m’aspetta!

                E torna via a destra. Dalla comune (al centro) entra Carlo Lobutti, disoccupato.

Carlo:     E mò chi ‘o sente a don Vittorio: aggio perzo ‘n’ata vota ‘o lavoro. Ho fatto pure i

                debiti per pagarlo! ‘O guajo è cca io nun saccio fa’ niente. E fammi scrivere il mio

                curriculum, va’. Tanto, che ce vo’, è poca rrobba! (Dalla tasca della giacca estrae

                carta e penna. Si siede al divanetto e scrive) Nome: Carlo. Cognome: Lobutti.  

                Seguita a scrivere in silenzio. Dalla comune entra Gigino con una valigia Trolley.

Gigino:   Eccomi a casa della mia sorellina Ernesta e del mio cognato preferito, Vittorio.

                (Lascia il Trolley) Ora mi sto qualche giorno con loro e poi torno a casa. Però     

                com’è bello essere single! E chi se sposa?! Io, poi… (Nota Carlo) E chi è chillo?

Carlo:     (Smette di scrivere) Mannaggia, è fernuta ‘a penna! E guarda caso, addò ‘eva

                fernì? Alla voce: precedenti esperienze lavorative! Se vede ch’è destino! (Nota

                Gigino e si alza in piedi) Scusate, tenete un momento una penna, per piacere?

Gigino:   Come no, ve la dò subito. (La prende dal taschino della camicia) Eccola qua.

Carlo:     (La prende) Tante grazie. (Si siede di nuovo, scrive e commenta) Sapete com’è, ho

                perso il lavoro, e così mia mia moglie mi ha lasciato a me e a mio figlio. Allora

                devo parlare subito con don Vittorio per farmi aiutare. (E continua a scrivere)

Gigino:   (He’ capito? ‘A mugliera l’ha lassato e mò Vittorio ce n’ha da truva’ ‘n’ata. E

                allora sta scrivenno ‘ncoppa a chillu foglio comme ‘a va’ truvanno! Ma Vittorio,

                ‘na vota, nun teneva ‘n’aggenzia ‘e lavoro?!).  

Carlo:     Ecco, ho finito. (Chiude il foglio) Ah, grazie della penna! (Se la mette in tasca)

Gigino:   (Eh, s’ha fatto pure ‘a penna mia, chisto!).

Carlo:     (Si alza e gli si avvicina) A proposito, permettete? Io mi chiamo Carlo Lobutti.

Gigino:   E io sono Gigino Cardarelli, il cognato di Vittorio Pellegrini.  

Carlo:     Che cara persona. Già mi ha aiutato altre volte. Questa è la sesta volta che lo fa.

Gigino:   (‘A faccia! Ma chisto lassa e piglia femmene?!).

Carlo:     E intanto mi credete? Tengo il molare giù!

Gigino:   ‘O vero? Ate perzo ‘nu molare? Io invece tengo mal di piede. Mi sa che devo

                farmi curare da un pedofilo!

Carlo:     Sì, ma voi non mi potete capire. Voi appartenete a un altro ciato sociale!

Gigino:   A un altro...?

Carlo:     Ciato sociale!

Gigino:   No, veramente, io tengo ‘o ciato mio!

Carlo:     Biato a vuje che tenite ‘a capa fresca? Mica tenite ‘e guaje mie?

Gigino:   Vabbé, comunque non vi preoccupate. Mio cognato vi aiuterà lui.

Carlo:     E allora devo consegnargli subito questo foglio.

Gigino:   ‘Stu fuglietiello tutto stracciato? Ma no, pigliate ‘nu foglio ‘nu poco cchiù bello.

Carlo:     Avete ragione. Adesso scendo dal tabaccaio qua sotto e lo compro. Intanto, per  

                favore, se incontrate a vostro cognato, parlategli di me. Fatemi pubblicità! OK?

Gigino:   E va bene.

Carlo:     E speramme ca nun s’arraggia e nun me votta fora! Scusate, con permesso!

                E esce via.

Gigino:   Vittorio s’arraggia? E che ce ne ‘mporta a isso che ‘stu tizio s’è lassato cu’ ‘a

                mugliera? Vabbé, ora vado da lui e da Ernesta. (Gridando) Néh, io sto’ ccà!

                  Va a destra lasciando la valigia lì. Dalla comune entra Grecia Izzo (ben vestita).

Grecia:     (Ha un difetto di pronuncia: la “zeppola in bocca”) Ernesta! Ci sei?

                  Ha una fascia da Miss su cui c’è scritto Miss Scoccio. Da destra entra Ernesta.

Ernesta:   Chi è? (La nota) Uhé, ciao Grecia. Come stai?

Grecia:     Non c’è male. Senti ma che cos’è questa valigia qua a terra? Dovete partire?

Ernesta:   No, questa è di mio fratello che è appena arrivato.

Grecia:     A proposito, ma non l’hai vista ancora la mia fascia?

Ernesta:   (Legge) “Miss Scoccio”? E che cos’è?

Grecia:     Un concorso. E io l’ho vinto. Miss Scoccio è la miss che si scoccia di fare tutto!

Ernesta:   Veramente? E come si vince?

Grecia:     Niente, ci sono tre prove: cucina, rifare i letti e lavare la casa. Ed io, queste cose,

                  le ho fatte peggio di tutte le altre concorrenti. 

Ernesta:   Ah, e brava. E che cosa hai vinto?

Grecia:     Niente. Mi faranno lavorare in televisione. Io devo fare la “cavalletta”.

Ernesta:   No, caso mai devi fare la valletta.

Grecia:     Sì, devo fare la valletta, ma siccome vengo da Cava, faccio la cavalletta!

Ernesta:   Sono soddisfazioni!

Grecia:     E tu che sai? Mi vogliono far partecipare a un altro concorso: Miss Deficiente.

Ernesta:   E perché Miss Deficiente?

Grecia:     Perché i giurati hanno detto così: una donna che non sa cucinare, non sa fare i

                  letti e non sa fare i servizi, ma soprattutto, una donna che partecipa a un concorso  

                  chiamato Miss Scoccio... è sulo ‘na deficiente! Mah, chi sa perché?!

Ernesta:   Va bene, ora accompagnami nella stanza da letto, così porto la valigia di Gigino.

                  Poi dopo ce ne andiamo in cucina, ci facciamo un bel caffè e parliamo un poco.

Grecia:     Uh, dobbiamo fare tutte queste cose? No, e io mi scoccio!

Ernesta:   E vabbuò, ce pigliamme sulo ‘o ccafé. (Prende la valigia di Gigino e la tira via a  

                  sinistra) ‘E che pacienza che ce vo’!

                 Escono via.

                                                                                      

4. [Manuele D’Uso, Pippo e Leda. Poi Gigino e Vittorio]

                 Dalla comune (al centro) entra Manuele D’Uso, in abito scuro e ombrello.

Manuele: (Ha un tic nervoso: fa di “no” con la testa) Questa è la famosa agenzia di viaggi

                 Pellegrini. Però com’è strana: non ci sono né pubblicità e né cartine geografiche.

                 Forse devono fare dei lavori. Eh, io sono un tipo fortunato: ho vinto 10.000 Euro.

                 Adesso me li spendo: faccio un bel viaggio in giro per il mondo. (Dalla tasca

                 della giacca estrae una cartina geografica dell’Europa) Allora, vediamo un po’.

                 La apre e si siede sul divanetto. Dalla comune tornano Pippo e Leda.

Pippo:      Eccoci arrivati. Questa è la casa della persona che stai cercando tu!

Leda:       Ma… ma… ma… questa è la casa da dove siamo partiti prima.

Pippo:      Overamente? Cioè, io e te simme già state ccà ddinto?

Leda:       E certamente. Ma non te lo ricordi?

Pippo:      Che m’aggia arricurdà?

Leda:       Tu mi dovevi portare da Vittorio Pellegrini.

Pippo:      Ah, già! Allora ascimme ‘n’ata vota!

Leda:       Ma perché, non sta qua?

Pippo:      Sì, sì, sta qua.

Leda:       Ma se po’ ssape’? Ce sta o nun ce sta?

Pippo:      Ma chi?

Leda:       Vittorio Pellegrini.

Pippo:      E chi è?

Leda:       (Spazientita) Siente, si vuo’ fa’ ‘o spiritoso, è meglio che cagne penziero, pecché

                 io nun so’ ddoce ‘e sale. He’ capito?   

                 Leda gli dà una sberla dietro il collo, poi va via contrariata. Lui fa mente locale.

Pippo:      Ma chi sarrà ‘stu Vittorio Pellegrini? (Nota Manuele) E chi è chillo? Signore,

                 scusi! (Avvicinandosi) Posso esservi utile in qualche cosa?

Manuele: (Posa la cartina in tasca e si alza. Fa il suo tic facendo di no col capo) Sì, grazie.

Pippo:      Scusate, ma posso aiutarvi oppure no?

Manuele: (Fa di nuovo il suo tic) Sì, ho detto di sì.

Pippo:      E si dicite ‘e sì, pecché facite cu’ ‘a capa accussì? (Lo imita) Pe’ ddicere “sì”, ata

                 fa’ cu’ ‘a capa annanzo e areto! Guardate, mò ve faccio vedé io! (Gli mostra)

Manuele: No, ma questo è il mio tic nervoso. A proposito, voi siete Vittorio Pellegrini?

Pippo:      Ah, e chi lo sa, mò? Aspettate un secondo. (Controlla sulla carta d’identità) No,

                 non sono io! Qui dice che io mi chiamo Giuseppe Di Scorta. (E la posa in tasca)

Manuele: E io invece Manuele D’Uso.

Pippo:      (Eh, è asciuto ‘a ‘int’’a scatola ‘e aspirine, chisto!). E come mai state qua?

Manuele: Bah, io ho vinto 10.000 Euro e voglio godermeli. Possibilmente con una donna.

Pippo:      Ah, ho capito, non siete sposato. (Allora chesta ha da essere ‘n’aggenzia

                 matrimoniale!). Bene, e allora accomodiamoci.

Manuele: Grazie.

                 I due si siedono al divanetto.

Pippo:      Allora dite a me. Quali sono i vostri gusti?  

Manuele: Beh, io vorrei tanto viaggiare con la mia donna, se ce l’avessi. Ma purtroppo…!

Pippo:      (Poveru crestiano, mò ce ‘a trov’io a ‘na femmena!). Ma prego, continuate.

Manuele: Dunque, il mio primo sogno si chiama Italia.

Pippo:      Ah, ‘a vulite che se chiamma Italia? Scusate, e si se chiamma ‘e ‘n’ata manera?

Manuele: No, ho detto Italia e basta.

Pippo:      E va bene, mò vediamo di trovarla. E ditemi qualche preferenza su questa Italia.

Manuele: Allora, io avevo pensato: Cadibona e la Maiella!

Pippo:      (Ah, ‘a va truvanno bona e maiala! ‘E che rattuso!).

Manuele: E poi voglio andare oltre l’Italia. Voi che mi consigliate, Berlino o Bonn?

Pippo:      Ma pe’ me, o è bellina o è bona, va buono ‘o stesso!

Manuele: E invece sapete che vi dico? Io preferisco La Paz in Bolivia.

Pippo:      (Ah, he’ capì? Vo’ a chella pazza ‘e Olivia! Ma nun ‘a vo’ cchiù a Italia?!).

Manuele: E questo è il mio programma. Ma ora vi domando: quanto mi costa?

Pippo:      Boh! Mò ce ‘o ddimanno a chillo... comme se chiamma? Ah, Vittorio Pellegrini.

Manuele: Ma perché, voi non lo conoscete a questo signore?

Pippo:      Ehm... sì, sì, certo! Però ora non c’è. Se passate domani, lo trovate sicuramente.

                 E ora scusatemi, ma sulla mia carta d’identità c’era scritto che io abito al Corso  

                 Lucci. (Si alza in piedi) E allora ci devo andare!

Manuele: (Si alza pure lui) Ma scusate, nuje già ce stamme ‘o Corso Lucci.

Pippo:      ‘O vero? E va bene. A proposito, ma voi state a piedi?

Manuele: (Fa il suo solito tic) Sì.

Pippo:      Sì o no?

Manuele: Ho detto di sì!

Pippo:      Ah, già, vuje tenite ‘o tic! Sentite, io c’ho la macchina quaggiù. Venite con me, la

                 guidate voi, così vi dò un passaggio! Anzi, no, lo date voi a me! Vabbuò, jamme. 

                 Escono via (Manuele è stupito). Dalla cucina (a destra) escono Vittorio e Gigino.

Gigino:    He’ capito, Vittò? ‘O tizio ch’è venuto primma, va’ truvanno a ‘na femmena. 

Vittorio:  E ‘a va’ truvanno ‘a me? Ma poi, come si chiama?

Gigino:    ‘O nomme nun m’’o ricordo. Però dance ‘na mana, a chillu puveriello.

Vittorio:  E vabbé. Gli faccio conoscere a tua cugina Grecia. Vedimme si coccheduno s’’a

                 piglia, a chella! Ma adesso torniamo a noi, Giggì! Tanto per cominciare, tu vuoi

                 stare in questa casa? E allora ti devo elencare dieci regole.

Gigino:    Eh, mò me liegge ‘e Diece Comandamente! Vittò, ma famme ‘o piacere!

Vittorio:  Non voglio sapere ragioni. Ascolta! (Prende un foglio dalla tasca della camicia e

                 legge) Dunque, punto primo: comprare la zucca... ah, no, questa è la listadella

                 spesa! (Prende un altro foglietto) Ecco. Allora, punto primo: “Chi rompe, paga

                 i danni”; punto secondo: “Chi sporca, pulisce”; punto terzo: “Vietato rubare”...!     

Gigino:    E no, ci sta un errore, Vittò. Errata scorreggia!

Vittorio: Cretino, se dice “errata corrige”! Embé, e qual è st’errore?

Gigino:   Non si dice “vietato rubare”, ma “vietato prendere le cose altrui senza permesso”!

Vittorio: Siente, nun cagnà discorso. Devi firmare le mie dieci regole.

Gigino:   Vabbé, te le firmo dopo, Vittò.

Vittorio: Molto bene. (Posa il foglietto in tasca) E ora ascoltami. Come ti dicevo prima, io

                e Ernesta avremmo piacere che tu ti trovassi una compagna.

Gigino:   Ma io non tengo fortuna con le donne. Tu me ne hai presentate una marea.

Vittorio: E già. E tu che ne hai fatto di loro? Ad esempio, Anna.  

Gigino:   No, Vittò, nun me piace. Tene ‘e rrecchie a Topo Giginoo!

Vittorio: E allora Anna II?

Gigino:   No, Vittò, io e lei abbiamo gusti troppo diversi. Pensa, io adoro la pasta e patate,

                lei la pasta e fagioli. A me mi piace l’orata, lei ama la spigola. Infatti è spigolosa!

Vittorio: Eh, e menu male che nun le piace ‘a puttanesca!... Senti, e Anna III?

Gigino:   Anna III? Ma se chiammene tutte quante Anna?

Vittorio: E che vvuo’ fa’? Accussì è capitato. Insomma, questa Anna III?

Gigino:   Ma a chella le fete ‘o ciato, tene ‘e ccosce storte, ‘o popò chiatto e ‘o scartiello!

Vittorio: Siente, Giggì, ma inzomma a te nun te piace a nisciuno?

Gigino:   Sì, mi piace una ragazza, però è troppo piccola per me: è la figlia di Brandi.

Vittorio: Ah, ti piace la “Brandina”?!

Gigino:   Eh, ‘o lietto a castello! Vittò, ma tu me vulisse sfottere?

Vittorio: Per carità. Ma tu non ti devi rassegnare. Pure Pippo, il mio socio, non riusciva a

                trovare una donna. E ppo’ ha truvato a chella bella guagliona: Sonia Mazza.

Gigino:   (Sognante) Beato lui! Vittò, nun è che tu cunuscisse a cocch’ata Sonia Mazza?!     

Vittorio: Giggì, nel mondo ci esistono solo donne come Sonia Mazza. Tu ti devi sistemare. Gigino:   Sì, ma…

Vittorio: No, no, tu ti devi sistemare e basta, perché ormai tieni l’età giusta. E poi tu… 

Gigino:   (Stufo) Oh, e basta! Staje parlanno sulo tu! Vittò, stai facendo un monolocale!

Vittorio: (Ironico) Eh, senza ‘o balcone! Ignorante, si dice monologo. Dai, che devi dirmi?

Gigino:   Io voglio dire che… cioè… sto troppo bene come single.

Vittorio: Ma fai silenzio! Adesso ci pensiamo io e Ernesta a trovarti una ragazza.

Gigino:   No, Vittò, ma quando mai?

Vittorio: No, Giggì, pe’ piacere, He’ lassà fa’ a nuje. Hai capito? Vieni con me.

                Ed escono via a destra così, discutendo. Da sinistra tornano Ernesta e Grecia.

Ernesta: Allora hai capito, Grecia? Appena l’acqua bolle, tu devi buttare la pasta.

Grecia:   Aggia ittà ‘a pasta? E allora nun me l’aggia magnà cchiù?

Ernesta: Sì, te l’he’ ‘a magnà!

Grecia:   Scuse, ma si io ‘a jetto, comme m’’a magno?

Ernesta: Ma mica l’he’ ittà overamente? Grecia, ma inzomma, è possibile che tu nun t’He’

                maje ‘mparata a cucenà?

Grecia:   E a me picciò nun me piglia nisciuno! (Si abbatte) E hanne pure raggione!

Ernesta: E mò nun t’appassì comm’a ‘nu ciore! Da domani ti insegno io. Però a casa tua!

Grecia:   E va bene, ti ringrazio, cugina mia.

Ernesta: E mò, si vuo’ fa’ ‘na cosa bona, lievate ‘sta fascia ‘e Miss Scoccio, ch’è proprio

                ‘na scimmità. T’hanne sulo sfuttuta! E visto che ti trovi, cerca di eliminare pure

                questo tuo difetto di pronuncia. Nun puo’ ffa’ niente?

Grecia:   E ch’aggia fa’, Erné? Io tengo ‘a zeppola ‘nmocca ‘a quanno tenevo tre anne! Oh,  

                m’è rimasta ccà... (Si indica la bocca) ...e nun se n’è gghiuta cchiù!

Ernesta: E vabbé, non fa niente. In fondo è simpatico e ti dà un certo tono.

Grecia:   E vabbuò, va’. Mò me ne torno ‘a casa. Cià, Erné, io me ne scengo.

Ernesta: Cià, Grecia.

                E Grecia va via. Dopodiché Ernesta fa una considerazione.

                Me sa che chesta rimane zitella a vita! Ha ragione Vittorio!

                Dalla comune (al centro) torna Iva (sempre in tuta e scarpe col tacco). 

Iva:         Ernesta!

Ernesta: Uhé, Iva, e come mai di nuovo qua? Vittorio non ti ha ancora pagata?

Iva:         No. E si nun se move, ‘o corro appriesso pe’ tutto Napule!

Ernesta: (E me sa ch’accussì va a fernì!).

Iva:         Lo sai, io sono stata dallo psicologo.

Ernesta: E che ti ha detto?

Iva:         Niente, ancora mi deve pagare.

Ernesta: E mica t’ha da pava’ isso?

Iva:         E se capisce: chillo m’ha fatto tutte chelli ddomande!  

Ernesta: Mamma mia, sei terribile. Insomma tu sei venuta qua per questo?

Iva:         No, volevo chiedere a Vittorio a che punto sta quel favore che mi doveva fare. Si

                tratta di quel lavoro che doveva trovare per la mia amica, Domiziana Di Notte.

Ernesta: Ah, sì, sì, ha detto che è tutto sistemato: l’ha messa a lavorare sulla Domiziana!

Iva:         (Spaventata) Uhé, overamente? E comm’è? Ma è asciuto pazzo Vittorio?

Ernesta: No, aspetta, fammi finire di spiegare...

Iva:         No, no, nun ce sta niente ‘a spiegà. Chillo ha miso a faticà a ‘na bona guagliona

                ‘ncoppa ‘a Domiziana. Voglio parlà cu’ Vittorio. Addò sta? Sta lloco?... Vittorio!

Ernesta: Aspetta...

                Iva va a destra seguito da Ernesta che cerca di spiegarsi.

5. [Pippo e Gigino. Poi Vittorio e Iva. Infine Carlo Lobutti]

               Dalla comune (al centro) entra Pippo che pare essersi rinsavito. Ma è dubbioso.  

Pippo:    Ma chi era chillu signore? Pecché steva purtanno ‘a machina mia? Chi ce l’ha dato

                ‘o permesso? Vabbuò, mò penzamme a parlà cu’ Vittorio. Noi due avevamo un

                  appuntamento, però io sto in ritardo. Speriamo che non se n’è andato.

                  Da destra torna Gigino sorpreso.

Gigino:     Ma chi è chella tizia ch’è trasuto ‘int’’a cucina? Pecché sta alluccanno? (Nota

                  Pippo e gli si avvicina) Uhé, Pippo, comme staje?

Pippo:      Eh, nun c’è male. Si lavora, si lavora.

Gigino:     Ma io non ti invidio per il tuo lavoro... bensì per la tua fidanzata: Sonia Mazza!

Pippo:      Bella, vero?! Eh, io le voglio tanto bene. Sulo che cocche vota m’’a scordo!

Gigino:     In che senso? La trascuri?

Pippo:      No, io m’’a scordo propio! E tutto questo per colpa della mia malattia.

Gigino:     Ti capisco. Siente, ma comme he’ fatto a cunoscere a chillu gioiello ‘e Sonia?

Pippo:      No, sciocchezze!

Gigino:     E dai, non fare il molesto!

Pippo:      No, ma io nun aggio molestato a nisciuno!

Gigino:     No, io dico, nel senso che non devi fare l’umile.

Pippo:      E chi s’arricorda?... Comunque, adesso tocca a te trovarti una donna. Fatti aiutare

                  aiutare da Vittorio. Quello è bravo.

Gigino:     Sì, però è ‘nu poco scucciante. E poi qualche volta si atteggia un po’ troppo.

Pippo:      Perché, Vittorio è uno che se la tira?

Gigino:     Sì, è tirolese!

Pippo:      Eh, è sciso ‘a coppa ‘a muntagna! Ma che dici, Giggì?

Gigino:    Me cride? Cierti vvote ‘o menasse ‘a sotto cu’ ‘a machina!

Pippo:      A proposito di macchina: prima, accompagnando un tizio... anzi, è lui che ha

                 accompagnato me con la mia auto! Insomma, la mia macchina tiene un guaio.

Gigino:    Capisco: hai avuto un’avarizia al motore!

Pippo:     Un’avarizia? No, s’è bucata sulo ‘a rota! Mi aiuti ca mbiarla?

Gigino:    Ma certamente. Io e te siamo amici da una vita, anche se a volte te lo scordi.

Pippo:      E scusa. Però io me scordo ca m’’o scordo! E allora fa’ accussì: si m’’o scordo,  

                 arricuordammello tu! Però nun t’’o scurdà! He’ capì? E mò jamme, Giggì!                 

                 E i due escono di casa. Da destra tornano Vittorio e Iva.

Vittorio: He’ capito, Iva? La tua amica non sta sulla Domiziana per fare quello che pensi tu.

                Sta lavorando per la Società Autostrade. Acconcia ‘e strade scassate.

Iva:         Ah, questo doveva fare? E allora mi devi scusare, Vittò. Io sono entrata urlando in

                cucina, e così ho spaventato tua moglie e quell’altro amico tuo che stava con te.

Vittorio: No, quello non è un mio amico. E’ mio cognato. E’ il fratello di mia moglie.

Iva:         Uh, ma quello era Gigino? Che figura, non ci ho fatto nemmeno caso che era lui.

Vittorio: E vabbé, non fa niente, lui non ci tiene. Quello sta qua da noi qualche giorno

                perché gli debbo far conoscere una donna.

Iva:         Vittò, io ‘o ddico sempe: tu staje sempe chino ‘e femmene!

Vittorio: Stattu zitta, ca si te sente muglierema, se penza che tengo ll’amante. Io conosco

                molte donne per il lavoro che faccio, ma poi non ho nessun rapporto con loro.

Iva:         Vabbé, sono punti di vista.

Vittorio: No, so’ ppunte ‘e sutura! Pecché muglierema me ciacca!

Iva:         Ho capito. Insomma, tuo cognato cerca moglie? E devi torvargliela tu?

Vittorio: E lui è imbranato con le donne. E’ rozzo, non tiene maniera, è ignorante e stupido!

Iva:         Pure? E va bene, ti aiuto io: domani, qua a casa tua, ti mando il “principe delle

                buone maniere: un insegnante di “bon ton”. Penserà lui a insegnare come ci si

                comporta a tuo cognato. Il tutto per la modica cifra di 100 Euro!

Vittorio: E pago io. Tanto, devo avere diecimila… ehm, no, cioè, diecimila grazie a te, Iva!

Iva:         Aspetta, Vittò, c’è dell’altro: oltre al maestro di bon ton, faremo parlare a Gigino

                pure con uno psicologo. E se lui non è sano di mente?

Vittorio: Ah, già, non ci avevo pensato. E vabbé, passa di qui più tardi e parli con lui.

Iva:         E poi chi mi paga? Si tratta di 100 Euro!

Vittorio: E che c’entri tu? Aggio capito, va’, me sa ch’aroppo aggia pava’ pure a te. E sia!

Iva:         (Felice) Vittò, io dico sempre: in giro ce stanne cchiù scieme ca buone! Cià, Vittò!

                Ed esce via.

Vittorio: Me sa ca Iva ce ll’aveva propio cu’ me. E ave pure raggione! (Gironzola) Ma vide

                a Giggino che me sta custanno, a me. Mò m’attocca a pava’ ‘o prufessore ‘e bon   

                ton e ‘o psicologo. Embé, ma io ce faccio scuntà pure chesto, a chillo!

                Dalla comune entra Carlo con un cartoncino bristol grande colorato in mano.

Carlo:     E’ permesso?

Vittorio: Oh, signor Carlo carissimo. Entrate, entrate.

Carlo:     (Avvicinandosi) Che si dice, tutto bene?

Vittorio: No... cioè, sì! Insomma, più no che sì! Vabbé, comunque va tutto bene. E a voi?

Carlo:     E che v’aggia dicere? Il fatto è che io mi metto paura di dirvelo.

Vittorio: (Preoccupato) Uh, Marò, e ch’è succieso? Ate acciso a coccheduno?

Carlo:     No, aggio perzo ‘o lavoro!

Vittorio: Uff, io me penzave che caspito era sucieso! Pensate a stare bene. E scusate, che

                cos’è questo cartellone che tenete in mano?        

Carlo:     Niente, siccome adesso mi dovete trovare un altro lavoro, io vi ho portato il mio

                curriculum vitae! Anzi, diciamo il mio curriculum “morte”!

Vittorio: (Mamma mia, ‘e ch’allerìa che mette chisto!). Sentite, me lo fate vedere?

Carlo:     Sì, ora apro e ve lo leggo. (Esegue) Allora, qua sopra ci sta scritto il mio nome, il

                mio cognome e... basta, solo il mio nome e cognome! (E lo chiude)

Vittorio: Ma vuje ata scrivere pure addò state ‘e casa.

Carlo:     E io vivo, con quel che resta della mia famiglia, nella stazione di Piazza Garibaldi.

Vittorio: Allora ata scrivere ‘o nummero ‘e telefono!

Carlo:     Sì, ma io tengo sulo ‘o nummero. ‘O telefono nun ‘o tengo!

Vittorio: Ma nun è possibile. E’ comme si uno tenesse ‘o mutore senza ‘a machina! 

Carlo:     E invece è ‘o vero. E’ il numero di telefono di quando tenevo ancora la mia casa.

Vittorio: E allora ata scrivere chello che ssapite fa’. Voi avete fatto un sacco di lavori.

Carlo:     Sì, ma li ho fatti a nero. E allora pare brutto se li scrivo nel curriculum!

Vittorio: Vabbuò, ja’, venite cu’ me ‘int’’a cucina e v’’o scriv’io ‘nu curriculum vero. E poi

                lo ricopierete su un foglio più serio. Addò v’appresentate cu’ ‘stu coso colorato?              

Carlo:     No, e perché? Quello è più bello, colorato! Io l’aggio pavato 40 centesimi!

Vittorio: Embé, vuje me facìte ittà ‘o sango appriesso a vuje. Comm’aggia fa’? Comme?

                E vanno via a destra.

6. [Gigino e Ernesta. Poi Vittorio e Carlo. Poi Pippo Infine Grecia]

                Dalla comune (al centro) torna Gigino con le mani sporche.

Gigino:   E io ‘o ssapevo che chillo perdeva ‘n’ata vota ‘a memoria! M’ha fatto cagnà ‘a

                rota d’’a machina soja, po’ ha miso in moto e se n’è fujuto ‘e corza! (Si guarda le

                mani) Guarde ccà ‘e mmane mie!

                Da destra torna Ernesta.

Ernesta: Chi sa che sta cumbinanno Giggino?! (Lo nota) Ah, tu staje lloco? (Si avvicina)

Gigino:   Uhé, sorella carissima, lascia che ti abbracci. (Alza le braccia)

Ernesta: Addò vaje cu’ ‘sti mmane sporche?! Stattu fermo. Néh, ma che he’ cumbinato?

Gigino:   E che putevo cumbinà? Ho cambiato una ruota a Pippo.

Ernesta: E comme, tu te miette a cagnà ‘a rota a Pippo?

Gigino:   No, ma nun ce ll’aggio cagnata a isso. Ce ll’aggio cagnata ‘a machina soja!

Ernesta: Siente, chiuttosto, mammà e papà ‘o ssanne che tu staje ccà?

Gigino:   No, sanno che sto a Roma. Così li ho depistati: ho fatto un depistacchio!

Ernesta: Marò, ma comme sì ignorante. Se dice depistaggio. Vabbé, fra poco io e Vittorio

                ti aiuteremo a migliorare. E mò viénete a llava’ ‘e mmane.

Gigino:   Ma che vvulìte fa’?

Ernesta: (Frenetica) Ssssst, stai zitto, fa silenzio, non parlare più, chiudi il becco…!

                Gigino e Ernesta escono a sinistra. Da destra tornano Vittorio e Carlo.

Vittorio: Oddio, per la verità, il vostro curriculum non è molto bello.

Carlo:     E io perciò l’ho scritto sul cartoncino colorato: accussì è cchiù spiritoso!

Vittorio: Sentite, invece di dire battute, ditemi una cosa: avete mai veramente lavorato?

Carlo:     Beh, mi sono sempe arrangiato. Una volta, per esempio, ho aperto un negozio.

Vittorio: Ah, avete fatto il negoziante?

Carlo:     No, ho aperto un negozio: cu’ ‘a fiamma ossidrica e ‘o pede ‘e puorco!

Vittorio: Ah, ma allora facevate lo scassinatore.

Carlo:     Esattamente! E poi, una volta, vendevo pure gli accendini per strada.

Vittorio: Ah, facevate il venditore ambulante?

Carlo:     No, ma io nun vennévo l’ambulanze! V’aggio ditto che vennévo ‘e ‘ccendine!

Vittorio: Eh, e che sto’ dicenno io? Voi vendevate gli accendini.    

Carlo:     Sì, e facevo affari d’oro. Poi però, il 31 dicembre di tre anni fa, è successo il

                fattaccio: ho portato le casse con gli accendini a casa mia. Quella sera, da me, per

                il cenone c’erano i miei tre fratelli con le loro famiglie. E si sono portati: bengala,  

                tricchi tracchi, frullipazzi ed altre botte varie. Così mancavano cinque secondi alla

                mezzanotte... meno quattro, meno tre, meno due, meno uno... zero! E secondo voi,

                comme ll’amme sparate chelli botte? Cu’ ll’accendine mie!

Vittorio: L’avevo intuito!

Carlo:     E così, da quel giorno, io so’ rimasto ‘nmiezo ‘a via. Mi capite? Ed eccomi qua.

Vittorio: Sì, però, signor Carlo, vuje nun putite cagnà ‘nu lavoro ‘o mese! Io voglio sempre

                spendere una parola buona per voi.

Carlo:     Ma invece ‘e spennere ‘na parola bona, pecché nun spennite ‘na cosa‘e sorde?

Vittorio: E no, questo è sbagliato. Vuje, mò, vulisseve ‘a me ‘a solita carta ‘e cinquanta

                Euro! Ma io, questa volta, non ve la do. Io vi trovo un altro lavoro.  

Carlo:     E va bene. A proposito, quanto vi debbo?

Vittorio: E che me vulite da’? Da voi non mi prendo più niente.  

Carlo:     E intanto io non mangio neppure oggi. Ormai sono diventato un tipo famoso.

Vittorio: Nel senso che vi conoscono tutti?

Carlo:     No, famoso, nel senso che me moro ‘e famme! Picciò, si coccheduno me parla ‘e

                magnà, io m’’o magno vivo! E pure a vuje. Ate capito? Stateve buono.

                Ed esce di casa frettolosamente, farneticando. A Vittorio sorge un dubbio.

Vittorio: A proposito ‘e magnà, ma Ernesta quanno cucina? (La chiama) Néh, Ernesta!

                Esce a sinistra. Dalla comune (al centro) entra Pippo a cui è tornata la memoria. 

Pippo:    Ma che fine ha fatto Giggino? M’ha cagnato ‘a rota e ppo’ è sparito! E vabbuò, mò

                famme cercà a Vittorio. Chi sa addò sta? Forse ‘int’’a cucina. (Chiama) Vittorio!

                Ed esce via a destra. Da sinistra tornano Vittorio e Gigino.

Vittorio: He’ capì, Giggì? Ti facciamo conoscere una ragazza strepitosa.

Gigino:   E vabbuò, comme site scucciante tu e Ernesta! Ja’, addò sta chesta?

Vittorio: E ‘nu mumento. Prima devi parlare con uno psicologo.

Gigino:   ‘O psicologo? E ch’aggia fa’ cu’ ‘o psicologo?

Vittorio: E come, quello ti fa qualche domanda per vedere come sei fatto.

Gigino:   E che m’aggia mettere, cu’ ‘o psicologo?

Vittorio: Ma si tratta di una formalità. Poi dopo incontrerai un maestro di buone maniere.

Gigino:   Pure? Ma inzomma, pe’ cunoscere a ‘na femmena, m’ata fa’ passà ‘stu ppoco?!

Vittorio: Giggì, ma nun te prioccupà. Nun te succede niente.

Gigino:   Ho detto di no!

                E dalla cucina torna Pippo.

Pippo:     Ah, Vittò, tu staje ccà? Ma addò te vaje annascunnenno?

Vittorio: Chi, io? Pippo, io te stongo aspettanno ‘a doje ore. Ma che fine he’ fatto?

Pippo:     E chi s’arricorda?

Gigino:   E m’arricord’io. Tu m’he’ fatto cagnà ‘a rota d’’a machina toja e te ne si’ fujuto!

Pippo:    ‘O vero? E quanno?

Gigino:   Vittò, e tu me vuo’ fa’ parlà a me cu’ ‘o psicologo? Fa’ parlà a chisto, che n’ave

                cchiù bisogno ‘e me!

Vittorio: Eh, fra te e isso, me sa che n’avite bisogno tutt’e dduje!

                Da destra torna Ernesta.

Ernesta: Néh, ma che sta succedenno ccà ddinto?

Gigino:   Erné, Vittorio me vo’ fa’ parlà afforza cu’ ‘nu psicologo e cu’ ‘nu maestro.

Ernesta: E se capisce, Giggì, l’he’ fa’ e basta.

Gigino:   Ma pecché, quanno Pippo ha cunusciuto a chella “bonazza” ‘e Sonia Mazza, ha

                parlato cu’ ‘o psicologo e cu’ ‘o maestro?

Vittorio: No, chisto ha parlato direttamente cu’ ‘o Pataterno!

Pippo:     Ma pecché, che tiene ‘a dicere? 

Vittorio: Niente, niente. E gghià, Pippo, dincello pure tu a Giggino.

Pippo:     Néh, ma che me ne ‘mporta a me?!

Vittorio: (Cretino, chillo, aroppo, te pava!).

Pippo:     (Finge gentilezza) Uhé, Giggì, bello ‘e Pippo tuojo, parle cu’ ‘o psicologo!

Gigino:   Mò te ce miette pure tu?

                Dalla comune entra pure Grecia.

Grecia:   Giggì, ja’, che te costa? Parle cu’ ‘o psicologo e cu’ ‘o maestro.

Gigino:   Cer mancava sulo chest’ata cu’ ‘sta zeppola ‘nmocca!

Ernesta: Ja’, he’ visto, Giggì, t’’o sta dicenno pure essa.

Gigino:   No, ma faciteve ‘e fatte vuoste.

                E gira intorno al tavolo seguito dagli atri che cercano di convincerlo.

Altri:      E ja’...

Gigino:   Faciteve ‘e fatte vuoste...

               Girando attorno al tavolo, continuano a ripetere i rispettivi concetti ad libitum.

FINE ATTO PRIMO

ATTO SECONDO

1. [Vittorio e Ernesta. Poi Gigino. Poi Caterina Formica e Pippo]

                 Al centro ci sono Vittorio e Ernesta. Lui richiama lei per qualcosa.

Vittorio: Ma comme, Erné, ‘a machina accattata a ‘nu mese, e tu già he’ fatto ‘n’incidente.

                Mannaggia ‘a capa toja. A proposito, famme sentì ‘na cosa: e chi ave tuorto?

Ernesta:  Io.

Vittorio: E te pareva! Puteva maje essere ch’’ive raggione tu?! Mò aggia pava’ pure ‘e

                danne! Siente, ma famme capì comm’è succieso.

Ernesta: Niente, io me truva’ve a Via Marina. A ‘nu ciertu punto, ‘a luntano, aggio visto ‘o

                simaforo verde. Però, bell’e buono, s’è fatto giallo! Accussì aggio accelerato. Ma

                chillu disgraziato l’ha fatto apposta, è addiventato quase russo: era giallo-rosso!

Vittorio: Eh, ‘o semaforo era romanista!

Ernesta: Vabbuò, comunque io aggio cercato ‘e frenà, però nun ce so’ riuscita, e accussì

                so’gghiuta ‘nfaccia ‘o spurtiello ‘e ‘na machina… guidata da una donna.

Vittorio: Ah, sì? Hai urtato contro la portiera?

Ernesta: Nun ‘o ssaccio si faceva ‘a purtiera! Nun me l’ha ditto che mestiere fa!

Vittorio: Erné, in italiano, lo sportello si chiama “portiera”. Embé, e avete fatto la lettera?

Ernesta: ‘A lettera? E a chi ‘evema scrivere?

Vittorio: (Ironico) Eh, screvìve duje salute ‘o nonno e ‘a nonna!

Ernesta: Vittò, ma te pare a te ch’’int’a tutto chillu casino, era penzà ‘o nonno e ‘a nonna?!

Vittorio: Cretina! Deficiente! Io stò parlanno d’’a lettera all’assicurazione. He’ capì?

Ernesta: Ah, no, nun te prioccupà. Io e quella ragazza abbiamo fatto amicizia e così ci

                siamo messe d’accordo. Fra poco viene qua.

Vittorio: E allora ce parl’io cu’ chesta, o si no tu te faje fa’ fessa! Tu si’ ‘a sora ‘e Giggino!

Ernesta:  E vabbuò, parlece tu. A me che me ne ‘mporta?

Vittorio: Siente, mò, chiuttosto, parlamme ‘e frateto. Menu male che s’è cunvinto a parlà

                cu’ ‘o psicologo. Mò vedimme che capa che tene!

Ernesta: E già. ‘O dottor Meneguzzi a ‘n’appoco vene. E allora vaco a ffa’ ‘o ccafé.

                Ernesta esce via a destra. Vittorio commenta.

Vittorio: Va’, va’. E appripara pure ‘o champagne... per i diecimila Euro!

                Da sinistra entra proprio Gigino che si è appena alzato dal letto (e si è vestito).

Gigino:   Buongiorno, Vittò. Comme staje?

Vittorio: Ah, te si’ scetato? (Guarda l’orologio) Guarde ccà, è miezjuorno!

Gigino:   ‘O vero? Uahm, comme passa ambresso ‘a nuttata!

Vittorio: E allora, come hai dormito stanotte?

Gigino:   Guarde, t’aggia dicere ‘a verità? Buono. Se non fosse stato per una zanzara. E che

                c’è vuluto p’’a ‘cchiappà! Però, alla fine, ce l’ho fatta: l’ho uccisa. L’aggio lassata

                longa longa ‘nfaccia ‘o muro!

Vittorio: E pe’ forza ‘nfaccia ‘o muro l’’iva accidere?!

Gigino:   E ch’’eva fa’, me ll’’eva astipà ‘int’’a sacca d’’o piggiama?!

Vittorio: Non la dovevi ammazzare. Devi sapere che non tutte le zanzare danno quella

                fastidiosa puntura. Hai capito? E’ la zanzara femmina quella che punge.

Gigino:   E io comme faceve a ssape’ ‘o sesso d’’a zanzara? L’era purtà add’’o ginecologo?

Vittorio: (Ironico) No, me l’he’ lassà ‘nfaccia ‘o muro comme ornamento!

Gigino:   E mica ci stanno sulo le zanzare là dentro?! Il letto che tu hai comprato a  

                  Castellammare di Stabia: sta chino ‘e tarme.

Vittorio:   E che vvuo’? Tene ‘e ttarme stabiane! E con ciò?!

Gigino:     Siente, io me vaco a piglià ‘o ccafé, ch’e mò ha da venì ‘o psicologo. Vittò, ma

                  nun se po’ evità ‘stu fatto?

Vittorio:   Cammina, jamme a ce movere, ja’! E vide ‘e te spusà ambresso ambresso!

                  Vanno a destra. Dalla comune (al centro) entra Caterina, di nero vestita. E’ una

                  visionaria. Parla con qualcuno sottobraccio a lei, ma in realtà non c’è nessuno.

Caterina: Oh, grazie di avermi accompagnato, Riccardo. Qua abita la mia amica Ernesta.

                  Se vuoi, te la faccio conoscere. Aspetta, ora la chiamo. (Chiama) Ernesta!

                  Dalla cucina (a destra) torna Ernesta incuriosita.

Ernesta:   Chi è? Uhé, Caterina, ciao, come stai? (Le si avvicina ma Caterina la ferma)

Caterina: Attenta, tu rischi di scamazzare a Riccardo. Nun l’he’ visto? Scusala, Riccardo!

Ernesta:   (Ah, già, chesta dice ‘e vedé ‘o marito ch’è muorto ‘n’anno fa! Ha perzo proprio

                 ‘a capa! E fammélla assecondà!). Ehm... sì, l’ho visto, l’ho visto!

Caterina: E che fai, non lo saluti stringendogli la mano?

Ernesta:   (Esegue) Ehm... ciao, Riccardo! Caterì, hai sentito? Mi ha fatto i complimenti!

Caterina: Erné, ma si chillo nun ha parlato proprio! Riccardo se ne sta jenno. Non lo saluti?

Ernesta:   Ah, ehm... ciao, Riccardo. A dopo!  

Caterina: Ma a chi staje salutanno? Chillo già è asciuto! Ma tu stisse ascenno pazza?!

Ernesta:   (Ah, io?).

Caterina: Erné, he’ visto comme sta bello Riccardo? Pare ch’è muorto aiére. E invece già è

                  passato un anno. E che vvuo’ fa’, amica mia? Chesta é ‘a vita.

Ernesta:   E nun te piglià collera, chillo sta sempe vicino a te. A proposito, devo darti  

                  quelle scarpe nere che non mi piacciono più. Vieni, andiamo nel ripostiglio.

Caterina: Ho capito. E allora aroppo ce ‘e ffaccio vedé a Riccardo! A proposito, vuo’ sape’

                  aiére che m’ha regalato Riccardo...?! 

                  Escono a sinistra, confabulando. Dalla comune entra Veronica Di Maggio.

Veronica: (E’ una scaramantica. Entra facendo le corna) “Aglio, fravaglio, fattura ca nun   

                  quaglia! Corno, bicorno, il male non c’è intorno!”. Ecco qua, adesso posso stare

                  tranquilla, non mi succederà niente! Tra poco devo incontrare il grande Skiféz, il

                  re di tutti i maghi. Solo che ho come l’impressione che ho sbagliato porta…!

                  Si guarda intorno. Dalla comune entra Pippo che entra chiamando Vittorio.

Pippo:       Vittorio... Vittor... (Nota lei) (E chi è chesta?!). Ehm... chiedo scusa, disturbo?

Veronica: No, prego, non disturbate. Con chi ho il piacere di parlare?

Pippo:       Ah, io sono... io sono... (Ha un vuoto di memoria) Ehm… che mi avete chiesto?

Veronica: Il vostro nome.

Pippo:       Ehm... aspettate. (Cerca la carta d’identita in tasca ma non la trova) Oh, no...!

                  Non trovo più la mia carta di identità. L’ho lasciata nell’altro pantalone!

Veronica: Va bene, allora mi presento prima io: piacere, Veronica Di Maggio. Sto cercando

                  un grande mago chiaroveggente. Devo farmi dare un talismano portafortuna.

Pippo:       Ah, ehm... forse sono io! Anzi, no, sono sicuro che sono io!

Veronica: (Emozionata) Ma allora sei tu? Ah, ti ho trovato, per Bacco!

Pippo:       Esatto, io sono il grande mago “Bacco”!

Veronica: No, ma non si chiama Bacco. Per Giuda!

Pippo:       E già, io sono il grande mago “Per Giuda”!

Veronica: No, ma non si chiama così. Io dicevo per dire. Mannaggia a Caino!

Pippo:       Ah, e allora io sono il grande mago “Caino”!

Veronica: No, ma non si chiama Caino...!

Pippo:       Siente, ma inzomma, comme se chiamma ‘stu mago?!

Veronica: E’ il grande mago Skiféz!

Pippo:       E sono io. Io sono proprio una “Skiféz”!

Veronica: E tu saresti un mago? Non ci sembri proprio!

Pippi:        Senti, che ti serve? Un talismano contro la sfortuna? Ma ne hai proprio bisogno?

Veronica: Sì, grande maestro. Io sono un poco sfortunata. La gente dice che io porto jella!                         

                  Pagherò qualunque cifra! E adesso mi devi purificare: mi devi accompagnare

                  sugli scogli a Via Partenope e mi devi buttare a mare per lavarmi dalla sfortuna!

Pippo:       T’aggia menà a mare? Ma sì, accussì te lieve ‘a tuorn... no, cioè, ti purifichi.

Veronica: Grazie, maestro, sei grande! Meno male che ti ho incontrato!

Pippo:       E già. (Mannaggia ‘a morte, ma pecché perdo sempe ‘a memoria?). Jamme, ja’!

                  E così i due escono di casa.

2. [Gigino e Vittorio. Poi Gaetano]

                  Dalla cucina (a destra) riecco Vittorio e Gigino (soddisfatto del caffè bevuto).

Gigino:     Ah, Vittò, me ce vuleva propio ‘stu café! M’ha scetato!

Vittorio:   Te si’ scetato, finalmente? E allora sei pronto ad incontrare lo psicologo?

Gigino:     Se questo mi può aiutare con le donne…! Il fatto è che sono un poco imbranato.

Vittorio:   Giggì, ma che ce vo’? Quando tu incontri una donna, devi farle dei complimenti.

                  Non devi mai fare una critica. Le donne sono permalose. Parla solo bene di loro.

Gigino:     Allora la prima cosa che le chiedo è: “Ciao, come ti chiami? E quanti anni hai?”.

Vittorio:   (Si arrabbia) No!

Gigino:     (Si spaventa) Ch’è stato?

Vittorio:   Non si chiede l’età a una donna.

Gigino:     Ah, no? E allora le chiedo: “Senti, quanti chili pesi?”.

Vittorio:   (Si arrabbia) No, non si chiede il peso ad una donna.

Gigino:     E allora: “Che bei capelli che tieni, ma sono i tuoi?”.

Vittorio:   No, non si dice!

Gigino:     Ma se po’ ssape’ che le pozzo dicere?

Vittorio:   Devi dirle… devi dirle… ma che ne saccio? Mica faccio ‘o psicologo, io?

                  In quel momento, dalla comune (al centro) entra Gaetano (vestito casual).

Gaetano:  Chiedo scusa, si può?

Vittorio:   Oh, ecco il nostro caro psicologo. Vieni avanti, Gaetano.

Gaetano:  (Si avvicina) Finalmente, eccoci qua. Come va, tutto bene?

Vittorio:   Eh, non c’è male. Gigino, lui è lo psicologo Gaetano Meneguzzi.

Gigino:     Piacere, Gigino Cardarelli, il cognato di Vittorio.

Gaetano:  Ah, siete voi che devo sezionare psicologicamente?

Gigino:     (Non ha capito) Che ha ditto, Vittò?

Vittorio:   Nun l’aggio capito manch’io.

Gaetano:  Aggio ditto: a te te l’aggia spremmere ‘a capa comm’a ‘nu limone?

Vittorio:   Ah, sì, a lui.

Gaetano:  Oh, molto piacere. Allora, esponetemi esattamente le problematiche.

Gigino:     (Non ha capito) Ch’aggia esporre?

Gaetano:  Aggio ditto: diciteme che cacchio è succieso!

Vittorio:   Niente, Gaetà, lui avrebbe qualche problemino piccolino piccolino con le donne.              

Gaetano: Ah, e quest’è? Ma lui deve solo convincersi del suo essere capace. Aspettate,   

                 capisco: nun m’ate capito. Aggio ditto che nun ha da fa’ ‘o fesso! Ate capito mò?

Vittorio:  Ah, ecco. Allora accomodiamoci. Giggì, nuje assettammece ‘ncoppa ‘o divanetto.

Gigino:    E vabbuò. (Ma chi me l’ha fatto fa’ ‘e venì ccà, aiére?!).

                 I tre si siedono: Gaetano su una sedia al tavolo e i due sul divanetto.

Gaetano: Dunque, Gigino, adesso faccio qualche domanda giusto per riscaldarci. Dimmi un  

                 po’ ti piacciono di più i fiori, gli animali o il mare?

Gigino:    E che ce azzecca, Vittò?

Vittorio:  E che ne saccio, Giggì? Rispunne e ‘o ssapimme!

Gigino:    Ehm... veramente, mi piace di più il mare, però non so nuotare!

Gaetano: E dimmi un’altra cosa: frequenti di più le sale gioco oppure le parrocchie?

Gigino:    No, io sono un uomo di parrocchia: sono un parrocchiere!

Vittorio:  Ma qualu parrocchiere? Nun accummincià a te ‘nventà ‘e pparole, una cosa!

Gaetano: E adesso, dimmi un’ultima cosa: ma tu, con le donne, ci sei o ci fai?!

Gigino:    Ehm... boh! Scusate, ma che vvo’ dicere, ci sei o ci fai?

Gaetano: Significa: sei te stesso oppure no?

Gigino:    Beh, veramente, io vulesse essere tale e quale a Leonardo Di Capri!

Vittorio:  (Ironico) No, è meglio Leonardo ‘e Ischia! Scé, se chiamma Leonardo Di Caprio.

Gaetano: Comunque, Gigino, con le donne bisogna avere fiducia in sé stessi. Ed è per

                 questo che sono qui. Io devo darti un’iniezione di fiducia.

Gigino:    Un’iniezione di fiducia? Cioè, me vulite fà ‘na serrenga? (Si alza) No, pe’ carità.

Gaetano: (Si alza pure lui) No, ma ch’ate capito?

Vittorio:  (S’alza pure lui) Giggì, nun discutere, è p’’o bene tuojo. Forza, acàlete ‘o cazone!

Gigino:    A chi? Finché ‘o duttore me fa ‘e ddomande, va’ buono. Però ‘a serrenga, no!

                 E gira intorno al tavolo seguito dai due.

Gaetano: Aspetta, vieni qua, fammi spiegare.

Vittorio:  Uhé, Giggì, viene mommò ccà...!

Gigino:    No, no e no!

                 Gigino corre via di casa inseguito dai due che cercano di convincerlo a fermarsi.

3. [Ernesta e Caterina. Poi Leda. Infine Vittorio]

                  Da sinistra tornano Ernesta e Caterina (che ha indossato le scarpe nere).

Ernesta:   E allora, ti piacciono?

Caterina: Sì, assai, solo che mi vanno un poco strette! Chissà se a Riccardo piaceranno? 

                  Ah, eccolo qua, è tornato. E allora, Ricky, ti piacciono queste scarpe?

Ernesta:   Che ha ditto, Caterì?

Caterina: Ha detto che gli piacciono. E allora me le prendo! E ora Riccardo vuole sapere se

                  hai una vestaglia di pizzo nero da prestarmi. Sai com’è, io e lui amiamo il pizzo!

Ernesta:   Siente, ma pecché t’aggia da’ tutte ‘sti ccose?  

Caterina: Perché io e Riccardo dobbiamo passare una serata romantica insieme.

Ernesta:   Caterì, stamme a sentì: secondo me tu hai bisogno di un altro marito.

Caterina: No, nun te fa’ sentì ‘a Riccardo. Chillo è geluso!

Ernesta:   (Spazientita) Siente, Riccà, fatte ‘a fatte tuoje! Lass’’a sta’, a mugliereta.

Caterina: Uh, hai sentito che ha detto?

Ernesta:   No. M’ha pigliato a male parole?

Caterina: No, ha detto: “Va bene”! 

Ernesta:   Oh, menu male.

Caterina: Sì, ma a chi me piglio io? Addò ‘o trovo a ‘n’ato ommo?

Ernesta:   Beh, volendo, io avrei una mezza idea: mio fratello Gigino. Che ne dici?

Caterina: Sì, però primma accumpagneme a me levà ‘sti scarpe. Comme so’ strette.

Ernesta:   E viene dinto. Però poi dopo conosciamo a Gigino.

Caterina: Certo. Riccà, perduòneme. Ma tu m’he’ capì: io, ‘nu marito, ‘o voglio in carne e

                  ossa! Jamme, Erné. A proposito, ora ti racconto come ho conosciuto a Riccardo!

                  Dunque: c’era una volta, in una città incantata...

                  E vanno a sinistra (Ernsesta sbuffando). Dalla comune entra Leda.

Leda:        Ma vedite pe’ me piglià ‘sta patente ch’aggia passà. Io nun ‘o vvoglio fa’ sape’ a

                  nisciuno che m’’a voglio accattà. E specialmente alla portiera del palazzo dove

                  abito io. Me sta sfuttenno pecché essa già se l’ha pigliata e io no. Ma mò ‘a

                  faccio avvedé io! Speramme che ‘stu ‘ngigniere esiste overamente.

                  E si siede sul divanetto. Dalla comune torna Vittorio tutto contrariato.

Vittorio:   Mannaggia a Giggino! Addò se ne fujuto? (Nota Leda) E chi è chesta?  

Leda:        (Lo nota e si alza) Chiedo scusa, per caso conoscete il signor Vittorio Pellegrini?

Vittorio:   (Va da lei) Vittorio Pellegrini? Sono io.

Leda:        Ah, finalmente ti ho trovato. Ti posso chiamare ingegnere?

Vittorio:   A me? Beh, io non mi sono mai laureato veramente! Però chiamami ingegnere,

                  se vuoi. A proposito, ma con chi ho l’onore di parlare?

Leda:        Leda Nanzo.

Vittorio:   Come?

Leda:        Leda Nanzo.

Vittorio:   (Si sposta un po’) Ecco qua!

Leda:        No, ma che fai? Ho detto Leda Nanzo.

Vittorio:   (Si sposta un altro po’) Va bene così?

Leda:        No, ho detto Leda Nanzo.

Vittorio:   (Si spazientisce) Oh, ma addò me n’aggia ì? Fora ‘a porta?

Leda:        A nisciuna parte. Io ho solo detto che mi chiamo Leda Nanzo. Va bene?

Vittorio:   Oh, e parla chiaro! E allora che cosa posso fare per te?

Leda:        Ingegnere, io ti parlerò francamente: a me mi serve a tutti i costi la macchina!

Vittorio:   E che c’entra la macchina? (Intuisce) Aspetta, ma tu sei quella della portiera?

Leda:        Sì, sono io. Per colpa di quella antipatica della portiera, non sto vivendo più.

Vittorio:   Ah, ma io ti stavo aspettando.

Leda:        Veramente? E allora vogliamo metterci d’accordo?

Vittorio:   Beh, veramente, io adesso tengo un attimo da fare.

Leda:        Allora torno dopo. Però ti raccomando, sistemiamo il fatto mio. Va bene?

Vittorio:   Stai tranquilla. Però adesso lasciami da solo. Presto, vai, veloce! E te ne vuo’ ì?!

                  La afferra per il braccio e la accompagna alla comune e lei va via (sorpresa).            

                  E mò famme movere. Aggia ì ‘int’’o studio mio. Mannaggia a Pippo, ma che

                  fine ha fatto? Oh, quann’aggio bisogno ‘e chillo, nun ce sta maje!

                  Ed esce via a destra.

4. [Gaetano e Gigino. Poi Ernesta, Caterina e Pippo. Vittorio e Leda]

                  Dalla comune tornano Gaetano e Gigino.

Gaetano:  Hai capito, ora? Io ti devo dare un’iniezione di fiducia, cioè, ti devo incoraggiare.

Gigino:    Ah, ma allora è un modo di dire? Ho capito, si tratta di un’anfora!

Gaetano: Eh, ‘e ‘nu vaso cinese! Si dice “metafora”. Insomma, praticamente, io ti vedo un

                 po’ demotivato... deluso... come dire...

Gigino:    Un po’ scorreggiato!

Gaetano: Eh, più o meno. Ma tu, quando vedi una donna, devi rompere il ghiaccio.

Gigino:    E ch’aggia fa’, ‘a grattachecca?

Gaetano: Ma quala grattachecca? Senti, se tu vuoi andare bene con una donna, devi entrare

                 nella sua ottica!

Gigino:    M’aggia accattà ‘e llente? Ma io ce veco buono!

Gaetano: Ma no, devi fare ciò che dice lei! E poi dopo portala in macchina. Però ti

                 raccomando, non partire in quarta. E sai perché?

Gigino:    Pecché se stuta ‘o mutore d’’a machina!

Gaetano: Guagliò, ma tu si’ scemo cu’ ‘o core! Non devi partire in quarta, cioè devi essere

                 calmo. Ma quando parli, devi partire diretto. E come si fa a partire diretto?

Gigino:    Aggia ì ‘a stazione ‘e Piazza Garibaldi!

Gaetano: Ah, ma allora si’ proprio negato. Tu non hai bisogno di teoria, ma di pratica.

Gigino:    E allora, ja’, addò stanne ‘e ffemmene? Facitemmelle vedé.

Gaetano: Addò vaje? Sei ancora troppo rozzo. Prima devi incontrare il maestro di bon ton.

Gigino:    ‘O maestro d’’o bon bon?! E chi è?

Gaetano: Ma qualu bon bon? Io ho detto bon ton: buone maniere. Ti insegna tutto lui: il

                 professore Attilio Manca.

Gigino:    Ah, ma allora nun ce sta ‘stu prufessore?

Gaetano: Sì, ci sta, però Manca.

Gigino:    No, ‘nu mumento: si ce sta, comm’è che manca?

Gaetano: Ma nun manca, ce sta.

Gigino:    Ma inzomma, ce sta o manca?

Gaetano: Ce sta, però se chiamma Attilio Manca.

Gigino:    Mò aggio capito. E allora, che vi devo dire? Aspettiamo a questo professore.

Gaetano: Vabbé, allora io me ne scendo perché si è fatto tardi. Devo tornare al mio lavoro.

Gigino:    Ah, e io vi accompagno giù, così mi date altri due consigli.

Gaetano: Ma certo. E t’arraccummanno: nun me fa’ fa’ figure ‘e niente cu’ ‘o maestro!

Gigino:    Nun ve prioccupate. State ‘nmana all’arte!

                 E scendono via confabulando. Da sinistra torna Ernesta piuttosto seccata.

Ernesta:  Mamma mia, nun ‘a supporto cchiù a chella Caterina, a essa e a Riccardo. Ma

                 addò sta? L’aggio lassata a essa sola cu’ ‘na scusa! M’aggia piglià proprio doje

                 gocce ‘e Novalgina!

                 Ed esce via a destra. Dalla comune entra Pippo.

Pippo:      Strano, me pare che già ce so’ stato dint’a ‘sta casa! Ma Vittorio addò sta? Me

                 pare che ce aggia parlà, però nun m’arricordo pecché. ‘Nu mumento, ma io chi

                 so’? Aggio perzo pure ‘a carta d’identità! Menu male che tengo ‘a patente!

                 Controlla per sicurezza. Da sinistra torna Caterina (che viene notata da Pippo).

Caterina: Ma che fine ha fatto Ernesta?

Pippo:      Ciao, salve, buonasera.

Caterina: (Avvicinandosi) Scusa, hai visto Ernesta?

Pippo:      Ma si io nun saccio manco chi so’ io! No… cioè… nel senso che non l’ho vista.

Caterina: Vabbé, non fa niente. Comunque, piacere, io sono Caterina. E tu?

Pippo:      Aspié... (Prende la patente dalla tasca) Giuseppe Di Scorta! E poi dentro c’è un

                  foglietto dove ci sta scritto che tutti mi chiamano Pippo! (Ripone la patente)

Caterina: Piacere, Pippo. Adesso ti presento mio marito Riccardo.

Pippo:      (Si guarda intorno) E addò sta?

Caterina: Ah, già, scusa. Allora facciamo al contrario. Uhé, Riccardo, vieni qua, presentati

                  al signore. Eccolo qua, sta vicino a te!

Pippo:      (Si guarda intorno) Ma io nun ‘o veco!

Caterina: Come, non lo vedi? Ti sta stringendo la mano.

Pippo:      (Si guarda la mano) ‘O vero? Ah, mò capisco! ‘Int’a ‘stu mumento, io e te

                 stamme facenno ‘na bella accuppiata: io so’ smemorato e tu si’ ‘na pazza!

Caterina: Uhé, e comme te permiette? Scustumato! Ma mò te dongo ‘sta borza ‘ncapa!

                 Prende la borsa e comincia a inseguire Pippo attorno al tavolo.

Pippo:      Uhé, uhé, uhé, e statte calma!

                 E escono via di casa. Da destra torna Vittorio.

Vittorio:  Sto chiamando a Pippo sul cellulare, però non risponde. Ma chi schifezza ‘e socio

                 m’aggio scigliuto! Quello deve incontrare due clienti e invece sparisce. Vuo’

                 vedé che ha perzo ‘n’ata vota ‘a memoria? Che guajo ‘e notte!

                 Dalla comune entra Leda e di ferma sulla comune.

Leda:       Chiedo scusa, Vittorio, allora possiamo parlare?

Vittorio:  (Mò ce mancava sulamente chesta! E vabbuò, famm’’a spiccià subito, subito!).  

                 Ehm... vieni, entra. Assiettete e sistimàmme ‘a questione d’’a machina.

                 I due si siedono al tavolo.

                 Allora, in che condizioni sta la portiera?

Leda:       ‘A purtiera? Ma nun ‘a da’ retta, chella sta meglio ‘e me!

Vittorio:  Sì? E allora ci possiamo mettere d’accordo per una cifra piccola, piccola, piccola!

Leda:       Ah, e a me mi fa piacere.

Vittorio:  E si te fa piacere a te, figùrete a me! Del resto, cara Leda, quando uno non

                 conosce il codice della strada, combina solamente guai.

Leda:       No, ma io lo conosco, il codice della strada.

Vittorio:  No, io parlavo di mia moglie. Chella s’ha pigliato ‘na patente accattata proprio!

Leda:       (Ha raccomandato pure ‘a mugliera, chisto! He’ capito?!). E a chi lo dici? Pure a  

                 me mi servirebbe la patente. Tu mi capisci? (Gli fa l’occhiolino)

Vittorio:  (Sorpreso) No, aspiette ‘nu sicondo, ma allora tu nun ‘a tiene ancora, ‘a patente?

Leda:       No, nun ‘a tengo. E si no che ce venéve a ffa’ ccà a parlà cu’ te? Noi ci dobbiamo

                 mettere d’accordo. Adesso mi capisci? (Fa di nuovo l’occhiolino)

Vittorio:  (He’ capito a chesta? Nun tene ‘a patente e vvo’ fa’ l’accordo cu’ me. E mò

                 t’acconcio io!). Senti, però guidare senza patente non è regolare.

Leda:       E lo so, lo so. Ma il mio problema è un altro: io non so fare il parcheggio.

Vittorio:  Ah, sì? (Oh, e allora mò il coltello passa tra le mie mani!). Ehm… e poi, e poi?

Leda:       E poi c’ho dei problemi quando passo ad un incrocio: non tengo la frenata pronta!

Vittorio:  (Approfitta) Pure? Ah, e questo è grave, questo è grave!

Leda:       Hai visto? E infine, mi lascio scappare sempre la frizione da sotto al piede.

Vittorio:  Sì? (E parle ancora, parle! A ‘n’appoco me faccio pava’ io ‘a te!).

Leda:       E allora, si può fare qualcosa? (Quasi, quasi, mi faccio qualche guida con lui!).

Vittorio:  Senti, si può fare tutto quello che vuoi tu. Però mi devi far risparmiare qualcosa.

Leda:       (Non capisce) In che senso? Ca vulisse pava’ tu a me?

Vittorio:  Ma pecché, me vuo’ pava’ tu a me?

Leda:       E si capisce che ti devo pagare io.

Vittorio: (Oh, he’ capito? S’è capovolta ‘a situazione! E mò n’apprufitto. E addò ‘a trovo a

                una cchiù scema ‘e chesta? Essa subisce ‘o danno, e essa vo’ pava’!). E dicevi?

Leda:      Vanno bene 100 Euro?

Vittorio: Ma sì, vanne buono, vanne buono! E per te va bene?

Leda:      Aspit’oh! Per me è un affare! Senti, è la stessa cosa se ti pago 10 Euro al giorno?

Vittorio: (Ah, he’ capì? Vo’ pava’ pure a rate!). Ehm... sì, per me va bene.

Leda:      Bene, allora vengo domani e cominciamo. Ti porto pure i 10 Euro! A proposito, a

                che ora devo venire?

Vittorio: (Si alza pure lui) Quando vuoi tu. Io, quando si tratta di avere soldi, non dormo!

Leda:      Allora ciao, a domani.

Vittorio: Cià, bella, cià.

                Si stringono la mano e Leda va via fregandosi le mani. Vittorio non sta nei panni.

                Ah, he’ capì? Mò che ce ‘o ddico a Ernesta, so’ sicuro che nun me crede!

                Ed esce via a destra.

5. [Gigino e Iva. Poi Ernesta, Attilio Manca, Manuele D’Uso, Vittorio. Poi Pippo, Veronica]

                Dalla comune (al centro) entra Gigino. Sembra abbastanza dubbioso.

Gigino:   Mah, ‘o prufessore m’ha fatto ‘na capa ‘e chiacchiere: m’ha spiegato comme se

                fanne ‘e figli! Ma io nun aggio capito perfettamente niente! Però me pare brutto ‘e

                ce ‘o domandà ‘n’ata vota. E allora mò glielo domando a Vittorio! Ma sì!

                Dalla comune (al centro) entra Iva: è in giacca, gonna… e scarpe da ginnastica!  

Iva:         (Entra chiamando) Vittorio!

Gigino:   Ah, ehm… no, forse Vittorio non ci sta.

Iva:         (Avvicinandosi) Ma tu sei Gigino, il fratello di Ernesta. Io invece sono Iva

                Ordinaria, la ragioniera di Vittorio.

Gigino:   Ma comme, ‘na raggiuniera che se chiamma Iva Ordinaria?

Iva:         E ch’aggia fa’? Io accussi me chiammo. Ch’è colpa mia?

Gigino:   (Le guarda le scarpe) Siente, pe’ curiosità: ma tu te miette ‘o vestito elegante e ‘e

                scarpe ‘e ginnastica ‘a sotto?!

Iva:         Aggia da’ cunto a te? Senti, sai almeno se ci sta Ernesta?

Gigino:   Boh! Néh, ma pecché nun vaje a vedé ‘int’’a cucina?

                E dalla cucina (a destra) entra proprio Ernesta.

Ernesta: Chi mi vuole? (Li nota) Iva? E ce staje pure tu, Giggì? Menu male, accussì m’ate

                fatto sparagnà ‘e ve fa’ cunoscere!

Gigino:   Ma pecché, io avessa avuta cunoscere a chesta?

Iva:         E si nun me vuo’ cunoscere, statte buono!

Gigino:   No, io ho piacere di conoscerti, però prima devo parlare col maestro del bottone!

Ernesta: Di bon ton!

Gigino:   Ah, appunto. E poi, devo domandare ancora a Vittorio come si fanno i figli!

Iva:         Che cosa? Ma pecché, nun ‘o ssaje?

Gigino:   Sì e no! Sulo che nun aggio capito che c’azzecchene ‘e ciure, ‘o cavolo... e le api!

Ernesta: Iva, non gli dar retta, quello sta scherzando. Lui è un tipo scherzoso e comico.

Iva:        Sarrà, ma a me nun m’ha fatto rirere proprio! A proposito, ce sta Vittorio?

Ernesta: Sta ‘int’’a cucina.

Iva:        E allora mò ce vaco a parlà. Con permesso.

                Ed esce via a destra molto disturbata.

Ernesta: Ma inzomma, Giggì, è mai possibile che tu he’ ‘a essere accussì fesso?

Gigino:   Ma pecché, ch’aggio ditto ‘e male?

Ernesta: Speramme ch’’o maestro ‘e bon ton te ‘mpara coccosa.

Gigino:   Ma chi è ‘stu maestro ‘e bon bon?

                Entra il maestro Attilio Manca, ben vestito, un gran signore ma scorbutico.

Attilio:    E’ permesso? Si può?

Ernesta: Ah, buonasera. Eccolo qua. Prego, entrate, entrate.

Attilio:    Grazie. (Le si avvicina) Cara signora Ernesta, incantato. (Fa il baciamano)

Ernesta: (Meravigliata) Oh, com’è galante il professore. Ehm... vi presento mio fratello.

Gigino:   (Porge la mano) Gigino Cardarelli! Oh, e a me nun m’’o facite ‘o baciamano?

Attilio:    E io avessa vasà ‘a mana a te? (Gli schiaffeggia la mano) No, il baciamano si fa

                solo alle donne. Hai capito?

Gigino:   (Dolorante) Sì, sì, ho capito! (‘E chi t’è vvivo!).

Attilio:    Io sono il maestro di bon ton, diplomato alla scuola di Roma, Attilio Manca.

Gigino:   Ma pecché, pe’ se ‘mpara a vasà ‘a mana ‘e ffemmene, ce vo’ ‘o diploma?

Ernesta: (Imbarazzata) Statti zitto! Ehm... professore, non ci fate caso. Prego, proseguite.

Attilio:    E adesso passiamo alla lezione numero uno: l’approccio.

Gigino:   Uhé, e comme ve permettite?

Ernesta: Ma perché, che ha detto di male?

Gigino:   E nun l’he’ ‘ntiso? M’ha chiammato: “A frocio”!

Attilio:    Ma che frocio? Io ho detto approccio, cioè l’avvicinamento alla donna. Ecco, per

                esempio la signora Ernesta. Dunque, Gigino, adesso ti presento Ernesta.

Gigino:   M’’a vulite presentà a me? E io già ‘a saccio! Chella è sòrema!

Attilio:    E invece no, tu non la conosci. Tu devi far finta che non la conosci.

Gigino:   Ah, aggia faì apposta? E vabbuò. Erné, io a te nun te cunosco proprio!

Attilio:    E adesso presentati.

Gigino:   Ehm... ciao, Ernesta, ma tu come ti chiami?

Ernesta: Ernesta!

Attilio:    Ma ti pare il modo? Sei tu che devi presentarti e poi le fai il baciamano. Però ti

                raccomando, le tue labbra non devono toccare la sua pelle. La devi solo sfiorare.

Gigino:   Scusate, ma allora non è più un baciamano, ma è uno “sfioramano”!

Attilio:   (Si spazientisce) E nun dicere scimmità. Muoviti, esegui.

Gigino:   Eh, eh, e vabbuò. (Esegue) Va bene così?

Attilio:    E ‘o nomme tuojo ce ‘o vuo’ dicere?

Gigino:   Vabbuò, ma chella già ‘o sape!

Ernesta: E invece no, amme stabbilito ca io nun saccio ‘o nomme tuojo! He’ capì, Giggì?

Attilio:    (Eh, chesta è peggio d’’o frato!). E allora muoviti, dille il tuo nome.  

Gigino:   E vabbé. Ehi, io sono Gigino Cardarelli. E adesso facciamo un figlio insieme?!

Attilio:    Ma qualu figlio? Tu te staje ancora presentanno!

Gigino:   Vabbé, ma io non ci tengo. Sono un tipo emancipato!

Attilio:    Ah, sì? E allora mò aggio capito comm’aggia fa’! (Si sfila la cinta dai pantaloni) 

Gigino:   (Preoccupato) Uhé, uhé, ma che d’è, me vo’ piglià cu’ ‘a currea?

Ernesta: ‘O vì, he’ visto? E mò statte cchiù attiento.

Attilio:    Ora passiamo appresso: la conquista. Gigino, sai come si conquista una donna?

                Devi dirle delle frasi romantiche. Anzi, falle dei complimenti.

Gigino:   Ah, dei complimenti? Senti, Ernesta, lo sai? Tu sei una ragazza molto felice!

Ernesta: E che d’è, ‘nu complimento, chisto?

Gigino:    Ah, e allora: senti, Ernesta, tu sei una ragazza molto contenta!

Ernesta:  Ma è ‘a stessa cosa.

Gigino:    Sentite, signor Assente...!

Ernesta:  No, Manca.

Gigino:    Vabbuò, è ‘a stessa cosa! Insomma, a me non mi piacciono tutte queste formalità!

Attilio:     E invece l’he’ ‘a fa’ e basta!

Gigino:    (Si oppone) E io nun ‘e vvoglio fa’, vabbuò?

Attilio:     Ah, sì? E allora mò te piglio cu’ ‘a currea!

Gigino:    No, no, stateve qujeto!

Ernesta:  Calmatevi, maestro.

Attilio:     E no, io sono un tipo severo. E picciò ‘o voglio piglià cu’ ‘a currea! Vieni qua!

                 E Gigino gira attorno al tavolo inseguito da Attilio e Ernesta, poi escono a

                 sinistra. Dalla comune entra Manuele che consulta una cartina geografica.

Manuele: Dunque, ho deciso: farò il giro del mondo. (Fa di no con la testa, cioè il suo tic. 

                 Poi si siede sul divanetto) Vediamo un po’: per prima cosa vado sul passo della

                 Marmolada a sciare. Poi vado a Milano, prendo l’aereo e me ne vado a Ginevra in

                 Svizzera. Quindi a Beirut in Libano. E infine in Grecia, il mio sogno, il mio

                 paradiso. E allora vediamo che cosa mi consiglia questo dell’agenzia di viaggi.

                 E continua a consultare la cartina. Da destra entra Vittorio un po’ preoccupato.              

Vittorio:  Marò, nun ‘a supporto cchiù a Iva! E mò comme m’’a levo ‘a tuorno? (Nota

                 Manuele) E chi è chist’ato? Che vvo’ ‘a ccà? (Va da lui) Ehm... signore, mi scusi.

Manuele: (Si alza e chiude la cartina) Ah, buonasera. (E fa il suo tic)

Vittorio:  Che d’è, aggio fatto coccosa ‘e sbagliato?

Manuele: No. Perché?

Vittorio:  E vuje state facenno ‘e “no” cu’ ‘a capa!

Manuele: No, vi sbagliate. Permettete? Manuele D’Uso.

Vittorio:  Vittorio Pellegrini.

Manuele: Oh, finalmente vi incontro.

Vittorio:  Ma perché, mi stavate cercando?

Manuele: Sì, sì. (E fa il suo tic)

Vittorio:  Scusate, ma me stiveve cercanno, oppure no?

Manuele: Sì, sì, vi ho detto di sì. (E fa di no col capo)

Vittorio:  Ma si ate ditto ‘e sì, pecché facite ‘e no cu’ ‘a capa?

Manuele: Non ci fate caso. E’ un mio piccolo difetto.

Vittorio:  E vabbé, insomma mi stavate cercando. E per che cosa?

Manuele: Niente, io ieri ho parlato con un tizio che però non si ricordava il suo nome.

Vittorio:  Ah, il mio socio Pippo Di Scorta?

Manuele: Sì, e lui mi ha detto che mi potevo riferire a voi per risolvere il mio problema.

Vittorio:  (Incuriosito) Il vostro problema? E qual è?

Manuele: Dunque: il mio problema è che io sono solo, e amo molto viaggiare.

Vittorio:  Ah, sì? (Ho capito, questo è un altro che vuole una donna da me! Bene, ma ‘sta

                 vota me faccio pava’!). Ehm... certo, signore, io vi aiuto, però a patto che…

Manuele: (Lo interrompe) Ma certamente. Io devo spendere 10.000 Euro.

Vittorio:  (Sorpreso) ‘A faccia! Così tanto?

Manuele: E che ve ne ‘mporta a vuje? Questi sono soldi che ho vinto a un concorso.

Vittorio:  Ah, e allora va buono. Solo che mò mi dovete far capire i vostri gusti.

Manuele: Guardate, io sono indeciso. Voi che ne dite della Marmolada?

Vittorio:   ‘A marmellata?! Scusate, ma che c’entra questo?

Manuele:  Perché io dopo avevo pensato di passare per Ginevra.

Vittorio:   Ah, ho capito. E allora questa Ginevra vi deve dare la marmellata?

Manuele:  Sì. (E fa il suo tic)

Vittorio:   Sì o no?

Manuele:  Sì, v’aggio ditto ‘e sì! E così, dopo la Marmolada, passando per Ginevra, farò il   

                  passo finale: Beirut!

Vittorio:   Ma pecché, ‘a marmellata fa fa’ ‘e rutte?

Manuele:  Capisco, non vi piace il mio programma. Beh, consigliatemi voi.   

Vittoro:    Sentite, per la verità in questo momento io avrei da fare.

Manuele:  E allora ripasso domani e ascolto i vostri consigli. E pensare che avevo portato

                  pure una cartina. Però forse è un po’ piccola. Voi non ne avete una più grande?

Vittorio:   ‘A cartina? No, sentite, si ve vulite fummà ‘o speniello, jatevenne fora!

Manuele:  Ma qualu speniello, scusate?

Vittorio:   No, sentite, si vulite trasì ccà ddinto, nun ve purtate nisciuna cartina appriesso.

Manuele:  E va bene. (Si alza) Allora ci vediamo domani.

Vittorio:   (Si alza) A domani.

Manuele:  A proposito, volevo dirvi una cosa: qualsiasi cosa mi consigliate, io vorrei che

                  il mio finale si chiamasse Grecia. Avete capito? Ricordatevi: Grecia. Arrivederci.

                  Ed esce via facendo il suo tic.

Vittorio:   He’ capì? A chisto le piace ‘a cuggina ‘e Ernesta, Grecia. E siccome s’è mmiso

                  scuorno ‘e m’’o ddicere, me l’ha ditto fujenno fujenno. E mò ce faccio cunoscere

                  a chella ‘mbranata, accussì ce levamme ‘a tuorno pure a chella! E mò vide!

                  Dalla comune entra Pippo che chiama Vittorio.

Pippo:       Vittorio...! Vittò...!

Vittorio:   Ah, finalmente te si’ fatto vivo. Ma addò si’ stato fin’e mò?  

Pippo:       Scusa, ma tu sei Vittorio?

Vittorio:   Uh, Marò, mò accummience ‘n’ata vota cu’ ‘sti ccrisi ‘e perdita ‘e memoria?

Pippo:       Quali crisi?

Vittorio:   Pippo, Pippo, nuje tenimme che ffa’. Tu sei il mio unico socio.

Pippo:       Ah, sì? A proposito, Vittò, ma nuje ch’attività facimme? Tenimme ‘n’aggenzia

                  matrimoniale, ‘na scola guida o facimme ‘e talismane portafortuna?

Vittorio:   ‘E talismane? Quali talismane?

                  Dalla comune entra Veronica vestita di rosso e con un ferro di cavallo in mano.

Veronica: “Aglio, fravaglio, fattura ca nun quaglia. Sciò, sciò, sfurtuna. Sciò, sciò”...!

Vittorio:    E chi è chesta?

Pippo:       E chi ‘a sape? Va’ cercanno ‘o mago Skiféz, che forse songh’io.

Veronica: Oh, grande mago Skiféz, maestro di vita, eccomi a te!

Vittorio:   Pippo, ma tu staje cumbinanno?

Veronica: Scusa, grande maestro, ma chi è questo individuo che ti chiama Pippo?

Pippo:       Ehm... ora te lo spiego. Io sono il grande mago Skiféz? Chisto, invece, è cchiù

                  Skiféz ‘e me! Lui è il grande Zuzzimm!

Veronica: Ah, sì? Tu sei più potente di lui?

Vittorio:   (Spazientito) Ma inzomma, basta, ‘a vulimme fernì?

Pippo:       (Vittò, assecondala, chesta ha da essere pazza! Però ha ditto che pava buono!).

Vittorio:   (Interessato) Ehm... sì, io sono più potente di lui. Il grande Zuzzimm!

Veronica: (Tira fuori un talismano dalla borsa) E allora voglio sapere una cosa: chi me

                  l’ha preparato questo talismano a forma di folletto, ieri?

Pippo:       Ehm... è stato lui. Non è vero, grande Zuzzimm?

Vittorio:   Sì, l’ho preparato io con i miei poteri magici.

Veronica: (Si arrabbia) Ah, sì? E allora t’aggia dicere che ffa cchiù schifo ‘e te!

Vittorio:   (Sorpreso) Prego?

Veronica: Sì, ‘a quanno ll’aggio avuto, me stanne succedenno sulo disgrazie!

Pippo:      Ma non è possibile, ci deve essere uno sbaglio!

Veronica: E mò v’’o faccio vedé io ‘o sbaglio! (Fa le corna verso i due) Tié, tié, ata passà

                  tanta guaje tutt’e dduje! Sfurtuna a vuje e furtuna a me!                

Vittorio:   (Spaventato) Pippo, ma a chi m’he’ purtato ccà ddinto, ‘a sora ‘e ll’esorcista?

Pippo:       Ma chi m’ha cecato a me?

Veronica: Embé, ata abbuscà ‘a ‘nu tizio tutto ‘ncazzato cu’ ‘na currea ‘nmana!

                  E, da sinistra, non notato, esce Attilio con la cinta in mano e si avvicina ai due

                  da dietro. Vittorio e Pippo, ignari di tutto ciò, prendono in giro Veronica.

Vittorio:   Ma siente a chesta!

Pippo:       E ‘a dò ‘essa ascì fora ‘stu tizio cu’ ‘a currea ‘nmana?

Attilio:     (Fa una risata diabolica e poi dice gridando) Eccomi qua!

Pippo:      (Spaventato) Mamma bella! Vittò, ‘a jastemma ‘e chesta c’ha cugliuto!

Vittorio:   (Spaventato) Marò, e chi è chisto?

Attilio:      Io sono il professor Attilio Manca, maestro di bon ton.

Pippo:       E che d’è ‘stu bon ton?

Veronica: Ignorante: bon ton significa buone maniere.

Attilio:      Scusate, ma voi tre siete educati?

Pippo:       Ehm... io nun m’arricordo!

Veronica: E io, invece... (Fa le corna) ...tié, tié, sfurtuna a te e furtuna a me!

Attilio:      A ssoreta! E voi, signor Vittorio?

Vittorio:   Io? E che c’azzecch’io?

Attilio:      Rispondete, siete educato o no?

Vittorio:   Ehm... sì, io sono educatissimo!

Attilio:      E invece non è vero. Siete un bugiardo. Me l’ha detto vostro cognato.

Vittorio:   Chillu deficiente! (Spaventato) Marò, si salvi chi può!

                  I tre scappano via a destra inseguiti da Attilio.

Attilio:      Uhé, venite qua, vi debbo frustare!  

                  Attilio li insegue brandendo la sua cinta.

FINE ATTO SECONDO

ATTO TERZO

     

1. [Gigino, Ernesta e Attilio]

                 In stanza (in piedi) ci sono Ernesta, Gigino e Attilio.

Attilio:    E come vi stavo dicendo, oltre ad avere tre lauree, due attestati e due medaglie al

                valore di cavaliere del lavoro, sono esperto di fisiognomica, logistica e balistica! 

Gigino:   (Ironico) Tutto qua?

Attilio:    No, c’è ancora altro: io sono pure esperto di toponomastica.

Gigino:   E che d’è?

Ernesta: Ma lo dice pure la parola: toponomastica. Cioè, lui conosce l’onomastico di tutti i

                topi del mondo!

Gigino:   ‘O vero? Ma pecché, ‘e suricie tenene pure ‘e nomme?!

Attilio:    Ma ch’ate capito? Io sono esperto di toponomastica, cioè dei nomi delle strade.

Gigino:   I nomi delle strade? Aggio capito: vuje site ‘na specie ‘e “Tuttocittà”!

Attilio:    Più o meno. Ed ora torniamo a noi. Gigino, io ti insegnerò a trattare con le donne.

Gigino:   E certo. Ernesta e Vittorio me vonno fa’ cunoscere a tre femmene, scopo

                matrimonio! E tra loro, ne sceglierò una: devo fare una cernia!

Attilio:    Eh, e fattella ‘ncoppa ‘a brace cu’ ‘o limone ‘a coppa! Si dice “cernita”!

Gigino:   Sì, ma io ho studiato pure le cose che devo dire a queste ragazze. Me le sono

                imparate a infradito!

Attilio:    Si dice a “menadito”! Bene, adesso faremo la lezione numero due: l’invito a cena.

Gigino:   Ah, sì? Me vulite invità a cena?

Attilio:    No, sei tu che devi invitare a cena una donna. Fingiamo di essere nella sala di un

                ristorante. Per esempio, Ernesta. Invitala a cena.

Gigino:   Va bene. Ehm... uhé, Erné, vuo’ venì a mmagnà?

Ernesta: E ‘o ddice pure? Tengo ‘na cacchia ‘e famme!

                I due si avviano al tavolo ma vengono fermati da Attilio infuriato.

Attilio:    Uhé, ma inzomma, ma che state facenno? Nun se fa accussì.

Gigino:   Ah, no? E comme se fa?

Attilio:    E mò ti faccio vedere io: ehm... signorina, posso avere l’onore di invitarla a cena?

Ernesta: Prufesso’, e si vuje m’’o ddicite accussì, io po’ ce vengo overamente!

Attilio:    Vai, Gigino, ripeti le cose che ho detto io.

Gigino:   Ehm... signorina, posso avere l’onore di invitarla a cena?

Ernesta: Sì.

Gigino:   E allora jamme a magnà, Erné!

                E vanno a sedersi al tavolo sotto lo aguardo attonito di Attilio.

Attilio:    Ma addò state jenno? (Avvicinandosi) Non ci si siede come vi siete seduti voi!

Gigino:   Allora nun amma mettere ‘o popò ‘ncoppa ‘a seggia?!

Attilio:    Ma lei deve sedersi sulla sedia che le porgi tu, Gigino. Aizàteve mommò, subito!

                 I due eseguono senza fiatare.

                Vuoi vedere come si fa? (Le porge la sedia) Prego, Ernesta.

Ernesta: Grazie, professore. (Si siede)

Gigino:   Erné, aìzete ‘n’ata vota. Mò, ‘a seggia, me l’he’ ‘a mantené tu a me!

Attilio:    Ma no, è solo l’uomo che porge la sedia alla donna.

Gigino:   Ah, simme sulo nuje uommene ch’amma fa’ ‘sti scimmità? E vabbé. (Si siede)

Attilio:    E adesso passiamo all’ultima fase: il corteggiamento. Gigino, tu devi chiedere la

                mano della signorina. Hai capito?

Gigino:   Devo chiederle se mi da la sua mano? E essa po’ comme fa senza ‘a mana?!

Ernesta: Infatti!

Attilio:    (Spazientito) Ma che state facenno? Che state facenno?

Gigino:   Chello ch’ate ditto vuje: le stongo addimannanno si me da ‘a mana!

Attilio:    Vabbuò, ja’, aggio capito, mò m’aggia arraggià io.

Gigino:   Oh, no, mò caccia ‘a currea!

Attilio:    No, niente cinta. (Dalla giacca tira fuori un cucchiaio di legno) Ma questa!

Ernesta: (Balza in piedi preoccupata) Uh, Marò, Giggì...

Gigino:   (Balza in piedi preoccupato) S’ha purtato ‘na cucchiarella appriesso!

Attilio:    E adesso, giustizia sia fatta!

                Li rincorre per la stanza e poi escono fuori casa.

2. [Vittorio e Pippo. Poi Carlo]

                Da destra entrano Vittorio e Pippo (che ha un quaderno in mano).

Vittorio: Allora mò he’ capito tutto cose, Pippo?

Pippo:     Stai tranquillo. In questo quaderno tengo scritte tutte le istruzioni: ‘o nomme mio,

                ‘o cugnomme, addò stongo ‘e casa, ‘o nummero ‘e telefono e si songo spusato!

Vittorio: Si sì spusato? E a che te serve?

Pippo:     Nun se po’ maje sape’! Allora ce vedimme cchiù tarde, Vittò.Uh, Vittò, m’aggio

                arricurdato ‘o nomme tuojo!

Vittorio: E pe’ forza: apprimma te ll’aggio fatto ripetere cchiù ‘e ciento vote!

Pippo:     Ah, già! A proposito, Vittò, t’aggia dicere ‘na cosa: devo andare a fare una visita.

                Però la mia macchina è rotta e vorrei prendermi il tram.

Vittorio: Embé, e che vvuò ‘a me?

Pippo:     Nun trovo cchiù ‘o portafogli! Nun me putisse prestà cocch’Euro!

Vittorio: (Scontento, prende il portafogli) Jamme bello! Tié, so’ cinch’Euro.

Pippo:     (Li prende) Ma sì sicuro ch’abbastene?

Vittorio: Ma che te vulisse fà, ‘o giro ‘e Napule? Ja’, muòvete, vatténne!

Pippo:     E vabbuò. Grazie, Vittò, sì ‘n’amico! (Fa per andarsene, poi si ferma e torna  

                 indietro) Vittò, tenisse ‘n’ati cinch’Euro? Me vulesse accattà ‘nu gelato!

Vittorio: (Prende cinque Euro dal portafogli e gliele dà) Tié, abbasta che te ne vaje!

Pippo:     Grazie, Vittò! (Fa per andarsene, poi si ferma e torna indietro) Vittò, tenisse…

Vittorio: Vattenne!

                Pippo esce di casa frettolosamente. Vittorio va al telefono e compone un numero.

                E mò famme chiammà a Alfredo. (Poco dopo) Pronto, casa Agnello? No? E’ casa 

                Porcello? Alfré, ma ‘a vuo’ fernì ‘e fa’ ‘o cretino! E nun fa’ ‘a voce ‘a femmena,

                tanto, ‘o ssaccio ca sì tu!... Come? Veramente siete una donna? Ma che numero è?

                Uh, scusate, io veramente ho sbagliato! Cara signora Porcello, andate pure, sento i

                porcellini... ehm... i vostri bimbi che piangono. Portategli il mangime... no, cioè, i

                biscottini! Buonasera! (Riaggancia) Marò, chillu Pippo m’ha ‘nzallanuto a me! A

                proposito, ma Giggino ha fernuto chella lezione ‘e bon ton? Chillo s’ha da  

                movere, pecché aggio appriparato ‘a lista ‘e femmene che ha da cunoscere!              

                Dalla comune entra Carlo Lobutti, triste e rassegnato.

Carlo:     Scusate, è permesso, si può?

Vittorio: Oh, carsissimo signor Carlo. Venite, entrate.

Carlo:     (Avvicinandosi lentamente) Sentite, ma siamo soli? In casa non c’è nessun altro?

Vittorio: No, sto io da solo. Ma perché?  

Carlo:     No, niente. Devo parlarvi di una cosa privata: ‘on Vittò, mi è successo di nuovo!

Vittorio: (Capisce) Oh, no! Ate perzo ‘n’ata vota ‘o lavoro? Ma comm’aggia fa’ cu’ vuje?!

Carlo:     E che sapete voi? Io non mangio da dieci giorni. Ieri, qua dentro, ho conosciuto a

                una certa Grecia. Mi ha portato a casa sua, dicendomi che sapeva cucinare. Ma

                che? Simme state dijune tutte dduje. E ‘int’a ‘stu mumento, me magnasse pure a

                vuje! Tengo ‘na famme allucinante!

Vittorio: E vabbuò, nun ve prioccupate, mò penzamme a ve truva’ ‘n’atu lavoro. Uhé, però

                questa volta definitivamente, o si no nun aggio cchiù che ve mettere a ffa’!

Carlo:     E vabbé, mi metto nelle vostre mani.

Vittorio: E allora dovete accettare qualsiasi cosa. Del resto, signor Carlo... tutto fa brodo!

Carlo:     (In difficoltà per la fame) Sentite, ma ve pare ‘o mumento ‘e parlà ‘e magnà?

Vittorio: No, io parlavo del lavoro. Voi cominciate con una cosetta per arrangiare, poi,

                come si dice... l’appetito vien mangiando!

Carlo:     (Sofferente) ‘On Vittò, e vi ho pregato!

Vittorio: Uh, scusate! Ora sapete che si fa? Chiedo aiuto a un mio amico, un certo Alfredo.

                Lui deve farsi perdonare, perché mi ha sempre tolto le polpette dal piatto!

Carlo:     (Sofferente) ‘E ppurpette?

Vittorio: Sì, esattamente. Io già nella vita ingoio un sacco di bocconi amari!

Carlo:     (Sofferente) Biato a vuje! Io non ingoio neanche quelli!

Vittorio: Eppure io ho sempre fatto tanti sacrifici. Perfino la mortificazione della carne!

Carlo:     (Sofferente) No, e pecché l’avite mortificata? Vuje m’’o ddiveve a me!

Vittorio: E intanto, ce sta sempe chi mette ‘a carne ‘a coppa e ‘e maccarune ‘a sotto!

Carlo:     (Sofferente) ‘A carne? ‘E maccarune?

Vittorio: Purtroppo, per il lavoro, qua a Napoli siamo alla frutta!

Carlo:     E biato ‘o lavoro, che sta ‘a frutta! Io nun stongo manco ‘o primmo!

Vittorio: E che volete, signor Carlo, ormai non c’è più trippa per gatti!

Carlo:     (Sofferente) Pure?

Vittorio: Purtroppo le agenzie di lavoro interinale mi hanno rotto le uova nel paniere!

Carlo:     (Sofferente) Ancora?!

Vittorio: E così ho fatto la frittata!

Carlo:     (Sofferente) Eh, ‘ncasa ‘a mana!

Vittorio: Sì, ma io non mi arrendo: a me nisciuno m’’o leva ‘o mmagna ‘a ‘int’’o piatto!

Carlo:     (Ha un altro mancamento) Marò, me sento ‘e svenì!

Vittorio: (Lo sostiene) Signor Carlo, come mai? Mi fate preoccupare.

Carlo:      Sentite, vuje m’’ita fa’ ‘o piacere: nun parlate cchiù ‘e magnà! Chiuttosto,

                 faciteme magnà! Pe’ pietà!

Vittorio:  E vabbuò, venite cu’ me. Ve faccio magnà coccosa.

Carlo:      Oh, finalmente s’è deciso! Venite, currìmme ‘int’’a cucina! Voglio magnàààà!

                 Ed escono a destra.

3. [Ernesta, Gigino e Iva. Infine Caterina]

                Dalla comune (al centro) entrano Ernesta e Gigino, quatti quatti.

Ernesta: Giggì, viene, putimme trasì. ‘O maestro nun ce sta.

Gigino:   Speramme ch’è gghiuto sotto a ‘nu tram!

Ernesta:   Si’ sempe esagerato, tu. Al massimo, speriamo ch’è gghiuto sotto a ‘na machina!

                  Dalla comune entra Iva e va dietro i due (salutandoli, li spaventa).

Iva:           Buonasera!

Gigino:     (Spaventato) Mamma ‘e Eustacchio!

Ernesta:   (Spaventata) Marò, Iva, si’ tu?  

Iva:           Ma pecché, ch’aggio fatto? Io aggio ditto sulo buonasera!

Gigino:     E allora fatte primma vedé e ppo’ dice buonasera!

Iva:           Ah, tu sei Gigino, il fratello di Ernesta.

Ernesta:   Sì, è lui. Questa è l’occasione buona per sposarvi!

Gigino:     Oh, aspiette ‘nu mumento. Già me l’aggia spusà?

Ernesta:   Giusto. Allora accomodatevi e parlate un po’. Io torno subito. E ti raccomando,

                  Gigino, ricordati quello che hai imparato oggi. Va bene? A dopo.

Iva:           Vai, vai.

                  Ernesta esce a sinistra fregandosi le mani.  

Gigino:     Vieni, Iva, sediamoci sul divanetto. Aspetta, prima di sederti, te lo devo porgere

                  io. (Ci prova, ma è pesante) E comme pesa ‘stu fetente ‘e coso!

Iva:           Ma dai, lascia stare queste formalità. Sediamoci direttamente.

                  I due si siedono, ma nessuno dei due comincia a parlare. Ci prova Iva.

                  Forse è meglio che parliamo un po’ di noi, va’. Che cosa fai di bello nella vita?

Gigino:     Io faccio il rappresentante di presepi. E tu invece fai la ragioniera di Vittorio?

Iva:           Esattamente. Senti, tagliamo a corto: ti va di rivederci di nuovo?

Gigino:     Come no? Aspetta, mi segno il tuo numero di telefono. (Dalla tasca della giacca

                  prende carta e penna) Bene, dimmi il tuo numero di casa. (E’ pronto a scrivere)

Iva:           Dunque: 081... 777...

Gigino:     (Scrive e ripete ad alta voce) 777...

Iva:           77.77!

Gigino:     77... (Si ferma e la guarda) Ma ‘stu nummero tene sulo sette! Che m’’o faje

                  scrivere a ffa’?! Damme ‘o nummero ‘e cellulare, ch’è cchiù difficile!

Iva:           Hai ragione. Dunque: 333...

Gigino:     (Scrive e ripete ad alta voce) 333...

Iva:           333.33.33!

Gigino:     (Si ferma e strappa il foglio) Siente, ma che m’he’ pigliato p’ottuso?

Iva:           Bene, allora ci sentiamo per vederci sabato sera? (Si alza)

Gigino:     (Si alza) Sì, sì. Mi fa tanto piacere. E adesso vuoi un passaggio fino a casa?

Iva:           Sì, grazie.

Gigino:     Ma ‘a tiene ‘a machina?

Iva:           E tu me vulisse da’ ‘nu passaggio cu’ ‘a machina mia?

Gigino:     E io nun ‘a tengo.

Iva:           Lascia stare, sto a piedi. Allora senti, io vado a salutare Ernesta.  

Gigino:     Sì, vai, vai. E’ stato un piacere parlare con te.

Iva:           Anche per me. E allora, a sabato.

                  Esce via a sinistra. Gigino, rimasto solo, va al centro e fa delle considerazioni.

Gigino:     Beh, nun c’è male chesta. Sulo che me pare troppo perbene. Forse, pe’ me, ce

                  vulesse ‘na tipa ‘nu poco cchiù fora cu’ ‘a capa. Come dire: una pazza!

                  Entra Caterina e si ferma alla comune.

Caterina: E’ permesso? Chiedo scusa, c’è Ernesta?

Gigino:     Ehm… sì, sta dentro.

Caterina: Aspetta, ora m’avvicino a te. Riccardo, tu aspettami qua! (E si avvicina a Gigino)

Gigino:     (Néh, ma cu’ chi sta parlanno chesta?).

Caterina: Scusa, ma tu chi sei?

Gigino:     Io sono Gigino, il fratello di Ernesta.

Caterina: Lo sai, mi ha parlato spesso di te. Io invece sono Caterina. E quello vicino alla

                  porta, è mio marito Riccardo. Però tu fai finta di non vederlo!

Gigino:     (Si volta verso la comune) No, ma io nun ‘o veco overamente!

Caterina: Guarda bene. Non lo vedi che ti saluta con la mano? Salutalo pure tu. Forza!

Gigino:     E vabbuò. Cià, Riccà.

Caterina: Ma a chi stai salutando? Non vedi che Riccardo è uscito? Ma fusse pazzo?

Gigino:     Io?

Caterina: Senti, vogliamo accomodarci sul divanetto? Su, dai, vieni, così parliamo un po’.

                  Caterina se lo tira per il braccio e i due si siedono sul divanetto.

                  E allora, raccontami qualcosa di te.

Gigino:     Beh, veramente…

Caterina: Basta, adesso tocca a me: io sono tanto triste perché sono vedova. Mio marito

                  Riccardo è morto un anno fa. E per rispetto suo, non ho ancora tolto il lutto.

Gigino:     Ah, ma allora quando dicevi che lo vedevi vicino alla porta, mi stavi sfottendo!

Caterina: No, io dicevo veramente. Ed è pure geloso!

Gigino:     Aspié, ma mò ‘essa abbuscà pure ‘a mariteto?

Caterina: No, stai tranquillo. Quello è buono. E tu, invece? Cosa fai di bello nella vita?

Gigino:     Rappresentante di presepi. E tu?

Caterina: Niente, non lavoro! E scusa la domanda indiscreta: ma tu sei fidanzato?

Gigino:     No. Sono stato con una ragazza per tre anni.

Caterina: Eh, pure io e Riccardo siamo stati fidanzati per tre anni. Poi ci siamo sposati.

Gigino:     E tu lo sai? Io e la mia ex fidanzata, andavamo sempre nella villa comunale.

Caterina: Uh, pure io e Riccardo.

Gigino:     (Comincia a spazientirsi) E ci compravamo sempre i taralli a Mergellina.

Caterina: Uh, pure io e Riccardo.

Gigino:     Ma inzomma, tu e Riccardo faciveve tutto cose? Ma nun stiveve maje ‘a casa?

Caterina: No, mai. Anzi, dopo mangiato i taralli, ce ne andavamo sopra gli scogli.

Gigino:     ‘O vero? E a ffa’ che?

Caterina: (Imbarazzata) Non si può dire! Senti, Gigino, lo vuoi il mio numero di telefono?

Gigino:     Sì, sì, mi fa piacere.

Caterina: (Si spaventa) Oddio, Riccardo non vuole! Guardalo, sta dietro di te.

Gigino:     (Si volta impaurito) Uh, Marò, chi ce sta areto a me?

Caterina: No, ma non ti spaventare. Uhé, Riccardo, lascia stare il signore, non ti ingelosire.

Gigino:     (Salta in piedi) Uhé, ma che me vvo’ fa’ chisto? Riccà, fa’ ‘o bravo!

Caterina: (S’alza pure lei) Ti sta mettendo le mani addosso.

Gigino:     Ah, sì, e mò te struppeo! (Agita le mani, come per picchiare qualcuno)  

Caterina: Ma no, aspetta... fermati!

Gigino:     No, no, io songo manesco!

                  Va fuori casa con Caterina, agitando le mani come per picchiare qualcuno.

4. [Carlo e Veronica. Poi Vittorio e Gigino. Infine Iva, Ernesta e Caterina]

                  Da destra torna Carlo con un panino in mano, tutto soddisfatto.

Carlo:        Ah, finalmente don Vittorio ha capito: m’ha fatto ‘nu panino cu’ ‘o ssalame!

                   Mamma mia bella, me pare ‘nu miraggio!

                   Dalla comune entra Veronica: si avvicina a Carlo mentre lui parla col panino.

                   Eh, caro panino, mi dispiace ma ti devo mangiare! In fondo... (Si volta e la nota)

Veronica: (Sorpresa) Lobutti!

Carlo:       (Sorpreso, si alza) Come?

Veronica: Ho detto… Lobutti.

Carlo:       E perché?

Veronica: Come perché? Ho detto Lobutti, Lobutti.

                  E Carlo getta il panino a terra.

                  E che fate, buttate il panino per terra?

Carlo:       E vuje ate ditto: Lobutti.

Veronica: No, io dicevo che voi siete Carlo Lobutti. Una volta abitavate nel mio palazzo.

Carlo:       Ma jate a gghittà ‘o sango! M’ate fatto ittà ‘o panino pe’ senza niente! Ma

                  faciteme ‘o piacere! (Lo va a raccogliere)

Veronica: Aspettate, ma che fate? Adesso vi mangiate quel panino?

Carlo:       Facìteve ‘e fatte vuoste! M’’o vaco a magnà ‘nmiezo ‘a via, ‘a faccia vosta!  

                  E se ne esce di casa divorando a morsi il suo panino.

Veronica: (Interdetta) Non capisco. Ma nun è che porta sfortuna, chisto?

                  Da destra torna anche Vittorio.

Vittorio:   Signor Carlo, dove state?

Veronica: Oh, buonasera, don Vittorio.

Vittorio:   Uh, signorina Veronica. Scusate, avete visto un tizio con un panino in mano?

Veronica: Sì, è uscito proprio adesso a mangiarselo fuori. Ora scusatemi, non c’è Ernesta?

                  Mi aveva detto che dovevo conoscere un certo Gigino.

Vittorio:   Ah, sì, e già. Voi dovete proprio conoscerlo. Solo che mò non lo so dove sta.

                  Dalla comune entra Gigino tutto provato e con un cerotto in fronte.

Gigino:     Ah, mamma ‘e Giotto! Vittò, annascùnneme. Io so’ vivo pe’ miracolo!

Vittorio:   Giggì, ma chi t’ha vattuto? ‘Nu marjuolo?

Gigino:     No, ‘nu fantasma ca se chiamma Riccardo.

Vittorio:   Riccardo? ‘O marito ‘e Caterina? Ma chillo è muorto ‘n’anno fa!

Gigino:     Però, p’essere muorto, vatte meglio ‘e ‘nu vivo!

Veronica: Scusate, ma è successo qualcosa?

Gigino:     Sì, aggio abbuscato ‘a ‘nu fantasm...

Vittorio:   Zitto, che dici? Ehm… Signorina Veronica, è lui Gigino. Ama sempre scherzare.

                  Ha appena subito una rapina. Giggì, t’hanne fatto ‘na rapina cu’ ‘o fierro!

Gigino:     E già, m’hanne fatto ‘na rapina cu’ ‘o fierro ‘a stiro!

Vittorio:   No, ‘o fierro è ‘a pistola! (Fa segno per fargli capire)

Gigino:     Esatto’ ‘o fierro che spara! Mi hanno fatto una rapina con la pistola.

Veronica: Uh, che episodio sfortunato! Aspettate, fatemi toccare il mio ferro da cavallo.

                  (Lo prende dalla borsa e lo tocca) “Aglio fravaglio, fattura ca nun quaglia...”!

Gigino:     Néh, Vittò, ma chi è chesta?

Vittorio:   Ehm... è la signorina Veronica, un’amica che ti doveva far conoscere Ernesta.

Veronica: Molto piacere, Veronica Di Maggio.

Gigino:     Gigino Cardarelli.

Vittorio:   Ma adesso parlate tra di voi, fate amicizia e conoscetevi. Va bene? Io vi lascio

                  soli soli, in intimità. (Va verso sinistra) Allora, con permesso.

Veronica: Prego, prego.

                  E Vittorio esce.

Gigino:     E va bene, allora, a questo punto, sediamoci e parliamo.

                  I due si siedono sul divanetto.

Veronica: Allora, che cosa mi racconti di te? Hai solo Ernesta come sorella?

Gigino:     Sì, tengo a lei come sorella... e a me come fratello!

Veronica: Buona questa! Io invece sono figlia unica. E senti, Ernesta ha detto che tu, nella

                  vita, fai il rappresentante di presepi. Io, invece, lavoro in un supermarket.

Gigino:     ‘O vero? Faje ‘e mmarchette supér?!

Veronica: No, faccio la cassiera. Io sono una persona perbene.

Gigino:     E si vede. Tu sei la persona più perbene che ho mai visto: aroppo a mia mamma,

                  a mia zia, a mia sorella, a mia nonna, ‘a purtiera e ‘a signora abbascio addù me!

Veronica: Grazie, come sei gentile. Ma ora, dimmi una cosa: tu sei scaramantico?

Gigino:     A chi? So’ tutte scieme ‘e ggente scaramantiche! Tu mica si’ scaramantica?

Veronica: Sì, tantissimo.

Gigino:     (Imbarazzato) Ehm… però tu nun si’ scema. Sei scaramantica intelligentemente!

Veronica: Vedi, io credo ciecamente ai maghi che leggono nelle palle di vetro.

Gigino:     Sì? Uh, guarda il caso, un mago ha letto nella palla di vetro che io ti incontravo.

Veronica: Uh, com’è romantica questa cosa. Che brava persona che sei. Invece, la gente,

                  con me, è sempre cattiva. Sai cosa dicono di me? Che porto sfortuna.

Gigino:     Ma tu siente a ‘sti scieme! (Di nascosto fa le corna con entrambe le mani)

Veronica: Embé, chi dice ca io porto sfurtuna, l’ha da ì ‘na cosa ‘e traverso, s’ha da affugà!

                  Da sinistra entrano Vittorio, Iva e Ernesta: si stanno affogando! I due si alzano.

Vittorio:   (Tossendo) Marò, me stongo affuganno. M’aggia piglià ‘nu bicchiere d’acqua!

                  E corre via a destra in cucina, mentre le altre due riescono a calmare la tosse.

Gigino:     (Spaventato) Uh, Giesù, ma tu l’he’ cugliute a tutt’e tre!

Veronica: Ah, Ernesta e Iva… (Si avvicina) Ma allora vuje penzate ca io porto sfurtuna?

Ernesta:   (Imbarazzata) Ehm... no, ma che dici? Io mi stavo affogando per cause naturali!

Iva:           E allora, si nun ‘o ppenza essa, ‘o ppenz’io: tu puorte jella! E mò dimme ‘na

                  cosa: che ce faje ‘nzieme a Giggino? Ernesta me l’ha presentato a me. Vabbuò?

                  Dalla comune entra Caterina che si sta affogando pure lei. Si avvicina alle tre.

Caterina:  Ma che d’è ‘sta tosse bell’e buono? Me stongo affuganno!

Veronica: Ah, pure tu pienze ca io porto sfurtuna? E allora tié, te sta buono!

Caterina: (Calma la tosse) E voi due che ci fate insieme a Gigino? L’ho visto prima io. Veronica: Uhé, ma statte zitta, pecché a chillo l’aggio cunusciuto primm’io.

Iva:           No, io.

Ernesta:   Ehm... aspettate, aspettate, non litigate. Non è il caso.

Iva:           Ah, sì? E allora jamme addù isso e vedimme a chi vo’ ‘e tutt’e tre.

                  Le quattro si avvicinano a Gigino.

Ernesta:   Ehm... Gigino, adesso che hai conosciuto a tutte e tre, chi ti piace di loro?

Iva:           Gigino, pensaci bene. Non ti ricordi che cosa c’è stato fra di noi?

Gigino:     Ma che c’è stato? Nuje amme sulamente parlato!

Caterina: (Minacciosa) Gigino, dici che vuoi solo a me, se no ti mando a Riccardo.

Gigino:     (Timoroso) Ma pecché, sta ancora ccà?

Caterina: Sì, sta vicino alla porta!

Gigino:     Ah, sì? Ah, sì? E allora, Veronica, guarde ‘nu sicondo vicino ‘a porta. Embé,

                  puorte sfurtuna ‘nu poco a Riccardo!

Veronica: Siente, nun ‘o veco, però, addò sta, sta, ha da passà ‘nu guajo!

Caterina: (Spaventata) Uh, Marò, è svenuto Riccardo!

Gigino:     Alé, vendetta è fatta!

Iva:           Uhé, comunque levàtavillo ‘a capa, a Giggino, perché l’ho conosciuto prima io.

Veronica: Ma che? Io songo ‘na povera sfurtunata e me l’aggia spusà io...

Caterina:  Ma che? Io aggia rimpiazzà a Riccardo!

Iva:           E allora vi aspetto fuori: mò abbuscate…!

Caterina:  No, io v’aggia accidere…!

Veronica: Ah, sì, e mò ve faccio avvedé io...!

                  Le tre si tirano e si trascinano a sinistra per picchiarsi. Ed escono.

Ernesta:   Uh, mamma mia, Giggì, chelle se vonno vattere. Jammele a fermà.

Gigino:     No, e pecché, Erné? E’ ‘a primma vota che tre femmene se vattene pe’ me!

Ernesta:   Ma che staje dicenno? Ma tu fusse scemo? Ja’, muovete, damme ‘na mana.

                 Ed escono via a sinistra celermente.

5. [Vittorio, Manuele e Grecia. Poi Leda]

                 Da destra torna Vittorio con un bicchiere d’acqua in mano. Ha smesso di tossire.

Vittorio:  Mamma mia, io stevo ittanno proprio ‘o sango! MI stavo affogando veramente.

                 Dalla comune entra Manuele (col suo solito ombrello in mano).

Manuele: Chiedo scusa, si può?

Vittorio:  Ah, siete voi? (Uh, io aggia truva’ ancora ‘a femmena a chisto. Ma io nun tengo

                 ‘o tiempo!). Prego, prego, entrate.

Manuele: (Avvicinandosi) Grazie.

Vittorio:  E che mi dite di bello? Tutto bene?

Manuele: (Fa il suo solito tic, cioè fa di no con la testa) Sì, sì, tutto bene.

Vittorio:  Va tutto cose buono, oppure no?

Manuele: (Fa il suo tic) Va tutto bene.

Vittorio:  Vabbuò, lassamme sta’. E allora accomodiamoci.

                 I due si accomodano al tavolo.

                 Bene, signor Manuele, fatemi sentire che cosa avete pensato di fare.

Manuele: Ieri abbiamo detto che si cominciava dalla bella Italia. Voi che ne dite? Venezia?

Vittorio:  (In difficoltà) Guardate, nun ‘o ssaccio si vene ‘sta Ezia! Nun ‘a cunosco!

Manuele: E allora va bene Roma? Oppure Firenze. Oppure andiamo in provincia...

Vittorio:  Aspettate...

Manuele: Abbiategrasso...

Vittorio:  (Spazientito) Eh, e voi abbiate pazienza! Faciteme parlà ‘nu mumento. Ma voi

                 non mi avevate detto che vi interessava una certa Grecia?

Manuele: Sì, è vero. Ma io non mi posso accontentare solo della Grecia.

Vittorio:  (E quanta femmene vo’, chisto?!). Beh, sentite, io intanto ve la faccio conoscere.

Manuele: Perfetto. A proposito, parlando fra di noi: ma secondo voi, Grecia... Atene?

Vittorio:  (Imbarazzato) Beh, io non la conosco intimamente! Però penso che “’a tene”!

Manuele: Vabbé, ma tanto, io guardo oltre. Per esempio, che mi dite di Sumatra?

Vittorio:  Come?

Manuele: Sumatra, Sumatra...

Vittorio:  (Va’ truvanno ‘a mamma ‘e Grecia?). (Imbarazzato) Beh, non so cosa dirvi.

Manuele: Ho capito, non vi convince. E allora accontentiamoci della Grecia.

Vittorio:  Ecco, bravo. Guardate, lei tiene solo un piccolo difetto, però è quasi perfetta!

Manuele: (Fa il tic) Va benissimo.

Vittorio:  (Lo osserva, poi resta dubbioso) Bene, signor Manuele, facciamo così: io vado

                 un momento a telefonare in cucina e così vi faccio conoscere a questa Grecia.

Manuele: Fate con comodo. Prego, prego.

                 Vittorio si alza esce a destra. Dopodiché Manuele fa considerazioni.

                 Sarà andato a telefonare a qualche Tour Operator per organizzarmi il viaggio in

                 Grecia. Ah, saranno dieci giorni di Paradiso!

                 Prende una cartina geografica e la consulta. Dalla comune entra Grecia.

Grecia:     Ernesta! (Nota Manuele) E chi è chisto cu’ ‘sta cartina geografica ‘nmana?

Manuele: (Leggendo la cartina) Oh, Grecia, Grecia, finalmente fra poco ti conosco!

Grecia:     Ma sta parlanno ‘e me? E comme me sape? Mò ce ‘o ddimanno. Ehm... signore!

Manuele: (Chiude la cartina) Dite a me?

Grecia:     Posso accomodarmi vicino a voi?

Manuele: (Fa il tic) Ma certo.

Grecia:     No, non posso sedermi?

Manuele: Ma vi ho detto di sì.

Grecia:     Ah, no, mi era parso che voi avevate detto di no. E vabbé. (Si siede al tavolo)

Manuele: Posso esservi utile in qualche cosa?  

Grecia:     Certo. Poco fa ho sentito, non volendo, che stavate nominando una certa Grecia.

Manuele: Oh, non me lo dite proprio. E’ il mio sogno. La mia ambizione. E pensate, che

                  c’è un signore di nome Vittorio Pellegrini che me la deve far conoscere.

Grecia:     Ah, sì? (Strano, a me nun m’ha ditto ancora niente!).

Manuele: Stavo giusto chiedendo qualcosa di questa Grecia al signor Vittorio. Voi che  

                  dite? Atene oppure no.

Grecia:    (Sorpresa) (Ma che vvo’ sape’ chisto?!).

Manuele: E poi volevo sapere qualcosa di Sumatra.

Grecia:    (Vo’ sape’ coccosa ‘e mammà?!). (Si alza, offesa) Néh, piezzo ‘e scustumato! Ma

                 comme te permiette?

Manuele: (Si alza) Non capisco.

Grecia:    E assiettete ‘n’ata vota, o si no t’assetto io cu’ ‘nu paccarone!

Manuele: A me? E perché?

Grecia:    Tu si’ ‘nu piezzo ‘e rattuso! Mò ce ‘o ddico a Vittorio e te faccio piglià a cavice!

Manuele: No, ma aspettate...

Grecia:    Fuori!

                 Manuele esce seguito da Grecia che lo caccia di casa. Da destra torna Vittorio.

Vittorio: Signor Manuele, Grecia tiene il cellu... (Vede che non c’è più) ...lare spento! E che

                d’è, se n’è gghiuto? Forse s’è sfastriato. Mannaggia a chella scema ‘e Grecia. He’

                visto? Si se faceva truva’ ‘ncoppa ‘o cellulare, io ce faceve cunoscere a ‘nu

                signore tanto perbene e educato! Ma che me ne ‘mporta a me? Peggio pi’ essa!

                Dalla comune entra Leda.

Leda:      Vittorio! (E gli si avvicina)

Vitotrio: Ah, Leda, buongiorno.

Leda:      Come d’accordo, oggi ti ho portato i soldi. Ora vogliamo andare in macchina?

Vittorio: (Non capisce) E che dobbiamo andare a fare in macchina?

Leda:      Ma come, io ti pago per questo: noi, in macchina, dobbiamo fare una certa cosa.

Vittorio: Nenné, ma tu che t’he’ misa ‘ncapa?! Io so’ spusato!

Leda:        Ma no, io mi riferisco alle guide, le guide. Quelle che io devo fare con te vicino.

Vittorio:   E io avessa sta’ ‘int’a ‘na machina cu’ te ch’’a staje purtanno?

Leda:        E vabbé, non fa niente, basta che mi dai la promozione.

Vittorio:   (Sorpreso) ‘A promozione? Ma di che stai parlando? Ma tu nun sì chella ‘e

                  ll’incidente ‘e mia moglie?

Leda:        Per carità! E tu non sei l’ingegnere della motorizzazione, il dottor Pellegrini?

Vittorio:   No, chillo sta ‘e casa areto ‘o palazzo! E’ ‘n’ata perzona proprio.

Leda:        Ma allora ho sbagliato casa? Oh, no! Meno male che non ti ho pagato.

Vittorio:   Ma se vuoi pagare lo stesso, non fa niente!

Leda:        Ma vattenne! ‘Stu ‘mbruglione. E io po’ ce devo ‘e sorde a isso. ‘A faccia toja!

                  Ed esce via delusa.

Vittorio:   Aggio fernuto ‘e avé ‘e sorde p’accuncià ‘a machina ‘e Ernesta! E ‘a chi ‘o vvo’?

                  Esce via a destra, come se fosse nulla.

Scena Ultima. [Caterina, Iva, Veronica e Ernesta. Poi Gigino e Vittorio]

                  Da sinistra tornano Caterina, Iva, Veronica ed Ernesta che le richiama.

Ernesta:   Ma inzomma, vuje me parite tre pazze! Io capisco che v’ata sistimà, però ce vo’

                  pure ‘nu poco ‘e dignità!

Iva:           Sì, però l’aggio cunusciuto primm’io.

Veronica: E che significa? Io l’aggio cunusciuto buono e subito le so’ piaciuta!

Caterina: No, no, io le so’ piaciuta cchiù assaje. Chillo ha fatto amicizia pure cu’ Riccardo!

Ernesta:   Va bene, adesso ce lo dice lui a chi preferisce di voi tre. Giggì, viene, trase!

                  Da sinistra torna Gigino, molto seccato.

Gigino:     Erné, ma che vvuo’ ancora ‘a me?

Ernesta:   E allora, ce vuo’ fa’ sapé chi te piace ‘e tutt’e tre?

Gigino:     E che ne saccio? Decidete voi tre. Convincetemi a sceglierne una sola.

Iva:           Giggì, non ti scordar di me! Tu sei come una bolletta: non puoi restare senza Iva!

Caterina: Giggì, ha detto Riccardo che ci possiamo sposare, così non ti picchia più!

Veronica: Giggì, attento a non scegliere a una di loro due, se no è un cattivo segno per te!

Ernesta:   E allora, Gigino, a chi scegli?

Gigino:     A nisciuna! Né a Caterina, pecché s’è fissata essa e Riccardo e me sta facenno

                  ‘na capa tanta! E neppure a Veronica, peccé porta sfurtuna e io me sto’ rattanno

                  in continuazione! E Iva, invece, è troppo tassativa!             

Le tre:      (Protestano) Ma com’è? Ma che dici?

Ernesta:   Va bene, va bene, basta così. Lasciatelo stare, a mio fratello. Non è il caso.

Le tre:      (Protestano) Ma com’è? Ma che dici?

Gigino:     (Si arrabbia) Uhé, mò basta! Jatevenne. Si è coccosa, vi faremo sapere! Vabbuò?

Iva:           E allora basta, Gigino, mò me ne vaco. E nun ne voglio sape’ cchiù niente ‘e te!

Caterina: E pur’io.

Veronica: E pur’io. Però statte attiento ca te po’ succedere coccosa!

Gigino:     (Le fa le corna) Ma va’ jette ‘o sango!

Ernesta:   Va bene, ragazze, vi accompagno alla porta. Chisto nun sta buono cu’ ‘a capa!

                  Così le tre, che protestano, escono con Ernesta. Gigino si siede sul divanetto.

Gigino:     Ma che vonno ‘a me? Io nun me voglio spusà. Non mi sento portato per il

                  matrimonio. Io sono un’anima libertina! Ma chi m’’o ffa fa’? Chi m’’o ffa fa’?

                  Dalla comune torna Ernesta e si avvicina a Gigino. Lei sembra rassegnata.

Ernesta: Mò si’ cuntento? T’è fatto passà ‘o sfizio. E m’He’ fatto fa’ ‘sta bella figura!

Gigino:   (Si alza) Erné, siente, lasseme sto’. Io sto’ buono accussì! Lassateme sta’. E

                dincello pure a Vittorio.

                E da destra torna Vittorio, chiamando Ernesta.

Vittorio: (Chiama gridando) Erné...!

Ernesta: Eh, ch’allucche a ffa’?

Vittorio: Siente, te vulevo dicere ‘o fatto ‘e l’incidente: ho avuto un equivoco con una tipa,

                e… (Nota Gigino) Uhé, Giggì, tu staje ccà? Hai incontrato le tre spasimanti?

Gigino:   Sì, Vittò, l’aggio ‘ncuntrate.

Vittorio: E che ce he’ ditto? Quanno te spuse? Dimane? Doppo dimane? E io sono invitato?

Ernesta: Vittò, è inutile che t’entusiasme tanto. A chisto nun l’è piaciuta nisciuno ‘e tutt’e

                tre. Dincello, Giggì. Dincello ca te vuo’ sta’ tu sulo! E ce ‘o vvuo’ dicere?

Gigino:   E che c’’o ddico a ffa’?! Già ce l’he’ ditto tu.

Vittorio: Aspettate ‘nu mumento, tutt’e dduje. Ma che d’è ‘sta storia? Che state dicenno?

Ernesta: Chello che he’ ‘ntiso, Vittò.

Vittorio: E no, Giggì. No! (Gli gironzola davanti) Chesto nun m’’o ppuo’ ffa’! He’ capito?

Gigino:   Vittò, e statte qujeto! Me staje facenno avutà ‘e ppalle ‘e ll’uocchie e ‘e ppalle

                d’’e rrecchie!

Vittorio: Ma pecché, ‘e rrecchie tenene ‘e ppalle?

Gigino:   E mmie sì!

Vittorio: Ma io aggio perzo tiempo appriesso a te! E se ho fatto tutto questo, è stato perché i

                tuoi genitori hanno promesso diecimila Euro al mese a me e a Ernesta.

Gigino:   (Sorpreso) ‘O vero?

Ernesta: E bravo ‘o deficiente! Che ce l’he’ ditto a ffa’?

Vittorio: Uhé, a te, stattu zitta. He’ capì?

Ernesta: Vittò, si nun ‘a fernisce, aìzo ‘ncuollo e me ne vaco. E nun me vide maje cchiù.

Vittorio: E a chi aspiette?

Gigino:   Va bene, va bene, calmi, calmi. Sentite, io ho una controproposta da farvi. Che

                cosa vi avevano promesso papà e mammà?

Ernesta: 10.000 Euro al mese.

Gigino:   Molto bene, e allora io ve ne offro il doppio, però tutti in una botta!

Vittorio: E pecché?

Gigino:   I primi 10.000 Euro ve li dò se mi promettete che fate pace e non litigate più.

Ernesta: E gli altri 10.000?

Gigino:   Gli altri 10.000 Euro v’’e ddongo... si ve facite ‘e fatte vuoste!

FINE DELLA COMMEDIA