FERRO E CUORE.
Monologo di Alberto Bassetti
Nella penombra, Eleonora compie dei cerchi camminando nervosamente. Parla ripetendo frasi tra sé, una sorta di cantilena che non cela rabbia e dolore.
Amo le stanze della mia casa,
Amo ogni stanza della mia casa.
Amo la gente della mia terra,
Amo la terra della mia gente.
Amo la luna la roccia la tempesta,
Amo luce sole monti mare vento …
Amo i miei figli che mai rivedrò,
Amo i miei figli che ormai non ho più!
Si blocca. Parla con fierezza, guardando avanti a sé.
E così, secondo voi, io sarei pazza! Incosciente, insensata, invasata. Conosco il motivo: amo il mio prossimo, al punto da rischiare costantemente la vita, per esso. Perciò tengo qui, in casa mia, gente colpita dalla peste, e rischio d’infettarmi. Quando però cavalco in testa al mio esercito, in guerra, nessuno mi dice pazza! E dunque: se rischio la vita per uccidere gli altri, sono normale… se rischio per salvarli: sono pazza! D’altronde, io sono pazza dalla nascita: ero poco più che una bambina, quando ho disarmato una guardia di mio padre e l’ho minacciato con la sua stessa spada:
“Insegnami ad usarla, o la provo su di te!”.
Perché già allora non accettavo il ruolo che volevano impormi: donna, Sottomessa alla consuetudine, divenire devota e remissiva creatura che affianca l’uomo, o prendere in mano la propria esistenza, stringerla nel pugno come l’elsa di una spada menando fendenti alle traversie che ci sbarrano la strada, spezzando i fili che come ragnatele c’imbrigliano e avviluppano i nostri desideri e la nostra volontà mascherandosi da destino? Pienamente donna, padrona di me stessa, io, capace di dare la vita e con un cenno del capo o un colpo di spada salvarne una, o porle fine. Un potere che ho conquistato lottando come poco conviene ad una donna, secondo alcuni. No Leonora no, non cedere: DRITTA, DRITTA PER LA TUA STRADA, TU DONNA TU UOMO, TU REGINA TU POPOLO, TU CREATRICE TU DISTRUTTRICE!
Va a sedere su un’imponente sedia.
Nel mio sangue scorre una linfa guerriera. Papà, l’esempio tuo e di tutta la nostra famiglia non mi parla che di battaglie. E ogni giorno galoppavo come un maschio con te e con mio fratello in riva al mare, non erano creme e belletti ad impiastrarmi il viso, ma gli schizzi di sabbia e gli spruzzi del mare, che il sole asciugava mentre il sale induriva la mia pelle. Poi la sera, mentre mia sorella ricamava con le altre donne, mi leggevi l’arte della guerra e le gesta degli eroi. Sei stato forte, a non sacrificare il mio cuore alle ragioni della politica; hai atteso che m’innamorassi, di lui, Brancaleone Doria… (quasi un sussurro, ma intensissimo e sofferto) QUEL CODARDO!!! Lui bello, forte, d’antica stirpe, nato nella mia stessa terra amata e sempre contesa: dai genovesi come lui, e dai pisani, gli aragonesi… che questa mano ha tenuto lontani! Allora, Leonora, sempre DRITTA, DRITTA PER LA TUA STRADA. Anche quando tutto sembra cadere, anche quando qualcosa di più forte del più forte degli uomini… quando l’invincibile drago della morte ruba il bene più grande di una madre… Federico, mio bambino, cosa resta dei giorni in cui riempivi il mio ventre? E dei mesi in cui la tua bocca ha serrato il mio seno per berne la vita? E degli anni in cui ti ho visto crescere bello, sano, forte?
Va verso un baule dall’altro lato, estraendone piccoli vestiti e giochi, tra cui un pupazzo con carillon.
Stoffe, cenci, giochi, dai quali tento ancora di carpire un segno, un colore, un ricordo… il profumo del tuo corpo innocente… i tuoi disegni, che bravo eri! Il Drago Blu, il tuo preferito, quello che ti riusciva meglio:
“Da grande riuscirò a sconfiggerlo, mamma. Verrà qui per mangiarci, spargendo fiamme dalla sua bocca, ma io lo ucciderò!”
La tua bocca e le tue sopracciglia cercavano di incutere paura, un’espressione così buffa, ma guai a riderne, dovevo mostrarmi atterrita… e fingere per amore di un figlio è così bello! Eccola, la tua piccola spada di legno, quella con cui giocavo io prima di te; ma tu non hai fatto in tempo a impugnare quella vera! Oh, Leonora, non pensarci: DRITTA PER LA TUA STRADA!
Va verso la poltrona come seguendo un tracciato in terra, in equilibrio precario.
Quale strada, quella che ho aperto con tanta fatica, perché fosse percorsa dalla mia discendenza… quale?!?
Si lascia cadere nella grossa poltrona.
Anno del Signore 1.370: sul trono d’Arborea siede mio fratello Ugone, ma dalla Spagna gli aragonesi usurpatori vogliono riprendersi la nostra isola e assoldano i suoi uomini più fidati e insospettabili… che penetrano nelle sue stanze, di notte, lui era lì con la sua bimba di sette anni, prova a difendersi, ma è disarmato, allora strappa una spada a un assalitore e gliela conficca nel petto, ma poi cede… la nutrice fedele entra nella stanza e trova la bimba ancora viva che esala il suo ultimo respiro attaccata al collo squarciato del padre. L’assalitore ferito lasciato lì chiede aiuto e la vecchia gli sfonda il petto coi piedi, schiacciandolo come verme, giù, giù, più forte: “Crepa vigliacco, hai ucciso il tuo benefattore!” Ma la congiura prosegue, il popolo è chiamato alla sedizione, gli promettono la repubblica, e fanno scempio del corpo di mio fratello attaccato ad un cavallo trascinandolo come sacco di letame finché nulla rimane della sua forma umana… non basta: appendono i suoi resti ad un albero secco, cibo per i corvi!
S’inginocchia, forse per un attimo prega.
Non sapevano, che una donna avrebbe impugnato le armi per difendere un suo diritto! Quando mi giunge la notizia sono a Genova, subito decido di partire e porto i miei figli, gli ultimi Arborea, con me. Mio marito va alla corte d’Aragona a chiedere aiuto… CODARDO!!! Un errore di cui si pentirà! Io invece appena giunta nella mia terra indosso le armi, salto sul mio cavallo e riconquisto l’amore della gente:
“Vi hanno usati, contro i vostri fratelli e il vostro sangue! Vi renderò la forza di essere popolo, non animali vittime nel cortile degli aragonesi: avete appeso un vostro conterraneo per divenire schiavi di una dinastia straniera. Io sono qui con voi per tornare uniti ed insieme seppellire degnamente i nostri fratelli trucidati! Torniamo ad Oristano, togliamola ai ribelli, cingiamola d’assedio fin quando apriranno le porte!”
Così accade, e non infierisco: perdono i colpevoli, punisco i traditori; non schiava del mio orgoglio e della sete di vendetta. Anzi, scrivo alla regina d’Aragona:
“Imploro, eccellentissima regina d’Aragona, l’ausilio del re vostro consorte affinché sia ridata tranquillità al regno d’Arborea. Vi rendo le terre che ho duramente conquistato per riabbracciare mio marito prigioniero vostro da sette anni.”
Il popolo prende a disprezzarmi, pensa che voglia svenderci per amore di mio marito… CODARDO: perché c’era andato?!? Invece io mi appello proprio alla legge aragonese: “Qualunque contratto perde validità quando lede l’umana convenienza e dignità”.
Al Consiglio mi abbracciano, dicendo che ho saputo giocare splendidamente, e riprendo le armi: sono donna ma non esito, riarmo il braccio, colpisco! Battaglia, quest’è il tuo giorno! Faccio scempio dei nemici in campo aperto, pochi sopravvivono e si rintanano nel castello che ormai mi sarà facile penetrare… ma una voce, voce nemica si sparge per il campo: mio figlio Mariano, il solo che mi è rimasto dopo la morte di Federico… Mariano, ma che dite, non è possibile, l’ho lasciato in mani sicure, sta spegnendosi e mi chiama, noooooooooo!!! Eccomi, Mariano piccolo mio, corro alla reggia di Oristano mentre orba di me continua la battaglia, entro nel palazzo e ti cerco col pianto nel cuore… Mariano, dove sei? Dio, grazie a Dio sei qui, ecco, ti vedo: gioia, gioia infinita che neanche una vittoria sul campo può dare, sei vivo! Lode a Dio, all’uomo, alla vita… Mariano ti abbraccio forte forte forte sempre più forte e tu quasi ti spaventi, hai paura perché non capisci perché, non ti ho mai stretto così forte, dici:
“Mamma, mamma, mi fai male!”.
Ora il mio pianto può sgorgare libero, senza paura di mostrarmi debole, anche se qualcuno sorride pensando che una donna coi suoi sentimenti è incapace di governare e guidare la sua gente… le lacrime di una regina o di una contadina hanno lo stesso sapore saltao, la stessa lucentezza… eppure, io mostrerò cosa sa fare una donna, e madre! Chi è che mi ha mentito, che ha voluto distogliermi dalla battaglia con una falsità così meschina, crudele, atroce, vile!?! Dalla gioia di una vita ritrovata balzo nell’ira del sentirmi truffata, tradita, beffata: ma da chi? Qualcuno che sapeva che tutto avrei abbandonato per mio figlio… ora la cosa più importante è tornare, lì, in campo aperto, il mio popolo vuole me, la sua Eleonora che cavalca in armi verso la vittoria! In sella, Leonora: DRITTA, DRITTA PER LA TUA STRADA! Intanto mi chiedo perché non ho accanto lui, mio marito… CODARDO! Ancora alla corte degli spagnoli, prigioniero, ospite, ostaggio? Non lo so più, so che accanto a me ora c’è lui, l’Inglese, un mercenario giovane intrepido capitano alla guida di cinquecento cavalieri e mille fanti. Lo guardo galoppare: è maschio… il mio uomo non lo vedo da troppo tempo, così immagino di passare le mie dita tra quei riccioli bruni che il vento scompiglia… m’incuriosisce la sua strana lingua, quei suoni brevi e duri che dapprima m’infastidiscono, così diversi dai nostri, o dagli spagnoli che ho imparato a comprendere se non ad amare… allora perché ora ardo per la sua voce le sue labbra la sua bocca? Mi turba quel fisico robusto ed agile, ma ho solo la mia terra nel cuore e scaccio ogni distrazione, avanti, raggiungo i miei:
“Grande ardimento da voi pretendo per la vendetta delle nostre offese, per la salvezza dei nostri figli e delle vostre spose! O c’è tra voi chi preferirebbe il duro servaggio aragonese ad una morte onorata? Su, all’attacco, ci attende la vittoria!”
Mi danno ascolto, esplode l’orrenda battaglia, schizza sangue, volano membra, travolto l’invasore che si rintana nel castello come topo atterrito, noi gatti con un balzo dietro di loro! Il loro Governatore, eccolo, lo vedo, lo voglio, qui, sulla punta della mia lancia, lo trafiggo, io donna lui maschio, mi sfugge, la strada che mi conduce a finirlo è lastricata di nemici, lui non cede, la sua anima attaccata al corpo, non molla, scappa di notte mentre cingiamo le mura, e al mattino con più forza portiamo scale, arieti e ogni macchina per abbattere quei bastioni che conosco così bene: io le ho fatte costruire, io adesso le voglio distruggere! Catapulte le inondano di macigni come spuma dell’onda del mare, colpendo gli assediati, pioggia pietrosa come enormi chicchi di grandine, nel terrore gettando quelli che risparmia. Quattro giorni procediamo, finché le porte del castello si aprono… ah, sollievo, lo sciogliersi di un laccio che legava i miei polsi. Più non pensi a quello e quelli che è stato, a chi hai perduto, non pensi a nulla, inebriato brindi al calice della vittoria: istanti di ebbrezza incredibile, un piccolo giudicato sovverte le regole del mondo, sconfiggendo uno dei più forti regni della terra, in lotta cento contro mille, il Diritto contro la Prepotenza. Cos’è che mi passa per la testa, cosa mi dice questo vento di battaglia trasformatosi in ciclone di vittoria? Respiro, inspiro… tutto è profumo. Varco la soglia del castello riconquistato cercando d’imprimere in me ogni singolo istante. Hanno scritto che sono entrata come una leonessa cui avevano sottratto i figli… vero! Per due anni da quel castello ho inferto zampate ai cagliaritani fedeli agli aragonesi; poi, la pace, ma incompleta, perché il mio uomo non c’è… CODARDO!!!
In un altro punto del palcoscenico trova fogli di carta e una penna d’oca che immerge nell’inchiostro.
Ancora carte, lettere, accordi che il Governatore nemico impone. E quando rivedo te, Brancaleone Doria, amato padre dei miei figli, mio unico uomo… non provo emozione. Ti guardo, e nei miei occhi passa fugace un Capitano che cavalca intrepido al mio fianco, dalla strana lingua sconosciuta che avrei voluto invece comprendere, conoscere, assorbire nel mio cervello e nel mio corpo, sul mio corpo, dentro il mio corpo… con voluttà, suggerla e sentirla scorrere su ogni poro delle mie membra sensibilizzate da punitiva astinenza, a risvegliare in me quella parte per troppo tempo addomesticata, sopita, bloccata… ma è solo fantasia, neanche un ricordo, perché non si può ricordare ciò che non è stato… solo un sogno, e nel sogno m’immergo con lui in una vasca calda, e il sangue dei nemici rappreso sulle sue braccia si scioglie mentre lo strofino con morbidi panni e poi affondo le mie dita tra i suoi capelli, cento volte accarezzo la sua nuca accaldata, e annuso ciò che resta dell’odore del campo di battaglia, afrore di morte e di sterco, prima di spazzarlo via con saponi ed unguenti che passo dal mio corpo al suo, legati ed avvinti in un abbraccio che sa di vita e di morte! Morte… la prima volta che lo toccai, fu per chiudergli gli occhi, steso nel campo di guerra in mezzo ai suoi, ai nostri uomini… un corpo trafitto, questo era ormai, esanime, ma cosa sei ora, dove sei? Anima, essenza, fantasma… mi senti quando sussurro il tuo nome con languida voce che mai ho osato usare quand’eri vivo? Io che tante regole ho saputo rompere, mai ho risposto ai tuoi gentili sorrisi, i tuoi inviti… pazza, in questo sì: pazza, fedele a un uomo che ormai disprezzo… CODARDO!!! DRITTA LEONORA DRITTA PER LA TUA STRADA! Madre moglie condottiera, ma sì, hai fatto bene così: se avessi ceduto, se non fossi andata fino in fondo, non ci sarebbe più la tua Nazione, non ci sarebbe questo codice così speciale… speciale perché semplice, naturale, diretto, nato dall’osservazione e dall’ascolto della mia gente.
Raccoglie da terra una pergamena.
‘Carta de logu’, perché nata in questo luogo, vicina al popolo come ogni legge deve essere, applicabile secondo le attitudini, il lavoro, il clima. Osservo, studio, ascolto… quante cose meravigliose si scoprono, e quante orribili. La legge sul matrimonio è nata in una notte. La povera Elisa, mia serva da più di trent’anni, corre da me ansimante, sconvolta, non riesce a parlare, apre la bocca, poi la spalanca, non le esce un filo di voce, e mi afferra la mano in un gesto confidenziale che non aveva mai osato; mi trascina con sé fuori dalle mie stanze e poi giù per lo scalone, nelle stanze della servitù, eccola lì: sua figlia, sul letto, vicina alla morte, pestata a sangue dal marito. Non mi aspetto nessuna risposta che possa giustificare un’azione simile, ma chiedo:
“Perché?”
“Per il gusto di farlo. Quand’è stanco, e ubriaco… ma mai così, mai”.
Non cerco vendetta, ma sento che nel nuovo codice regolerò anche questo: guai a chi oserà commettere un simile gesto nella mia terra… la nostra terra. Mai più nessun appello alla podestà maritale: la legge sarà giusta per uomo e donna, e decido di affrettare l’attuazione della Carta cui da tempo lavoro in accordo con le migliori menti. Quella faccia sfigurata mi dà più forza contro chi dice che non servono nuove leggi, che ci sono quelle degli aragonesi… gente lontana che non ci conosce, popolo straniero, no, fondiamo noi le nostre regole chiare contro abuso e prepotenza, estirpiamo le malsane consuetudini fondate su antichi privilegi! Sono donna, e partorirò qualcosa di nuovo. Nella Carta non tralascio nulla, proseguo l’opera di mio padre:
coltivare la terra, perché non basta tenerla come un unico pascolo;
costruire case stabili, perché non si soffra il freddo;
innalzare granai, ammassando riserve, perché quando si ha fame non si cresce;
fortificare castelli, affinché ognuno si senta protetto al riparo degli aggressori.
E che gli uomini rispettino le donne, dando istruzione ai propri figli, forgiando la propria dignità attraverso leggi civili! Ecco allora nuove chiese, e biblioteche, perché il sapere rende migliori, meno schiavi degli altri ma soprattutto di se stessi e dei propri istinti! Voglio essere sovrana di esseri responsabili, persone, non sudditi! Per questo morirò in mezzo a voi, confusa tra le donne del mio popolo.
Le sue gambe sembrano cedere. Cade sulle ginocchia.
Soffro con voi, non per carità cristiana, ma perché non esiste altro posto, per me. La mia gente sarà l’ultimo giaciglio.
Si getta bocconi in terra, come morente.
Mamma falco aveva fatto il nido sulla finestra della stanza. Un falco che nidifica sotto un tetto, come la rondine?!
“E’ un segno, in quella stanza nascerà un grande uomo”…
e nasco io, femmina. E lo stesso giorno anche il piccolo falco che in seguito chiamo Vento, e cresce con me, sempre insieme… imparo a camminare, lui a volare; l’inseguo, lui torna da me… non ho mai temuto i tuoi artigli, Vento, né il tuo becco. Vorrei ancora vederti volteggiare nel cielo, raggiungere la preda inesorabile verso di essa quanto tenero con me nel farmi dono del tuo bottino. Vento, dove sei? Lo vedi, lassù, il mio bambino? Dimmi se anche Federico è vento, adesso: giocate assieme? E il suo corpo, è tornato bello o ancora lo deturpa il germe che lo ha ucciso, batterio sconosciuto che arriva d’oltremare, la maledetta peste che ci deturpa il fisico prima di rubarcelo. Guarda almeno, dalle nuvole, Vento, che stiano bene mio marito, e Mariano, il figlio che mi rimane! Mi dicono pazza anche per questo, perché ho voluto imbarcarli per Genova, dove la peste non è giunta… perché separarci? Ma, soprattutto, perché resto qui, io, che col piombo nel cuore vi accompagno sul molo?
Si risolleva, in ginocchio.
Brancaleone, mio uomo, stringimi forte, che la vita l’abbiamo vissuta insieme, vicini di giorno nel governo e di notte nell’intreccio delle nostre cosce, oppure lontani nel tempo della tua prigionia quando pensieri d’amore e d’odio si fondevano nella mia testa. E tu, Mariano, che ora so giunto in un lido più sicuro, figlio mio, non piangere! Bastano già le mie, di lacrime, a bagnare i nostri volti. Porta nel tuo cuore una madre che ti ama e non rimpiange nulla: anche per te ho preservato il Giudicato, perché tu possa regnarvi con giustizia e passione.
Di nuovo in piedi, con sforzo. Guarda avanti a sé con fierezza, come all’inizio.
Sì, le persone che più amo, lontane, ed io… eccomi qui, tra la mia gente, non scappo, son pronta! Per questo son pazza, sì, avete ragione, in fondo, vecchi miei saggi amici e consiglieri, la cui voce ho troppo spesso trascurato, voi conoscete la misura d’ogni cosa, sapete valutare come non travalicare i limiti… io invece supero questa porta, lascio il mio castello i miei averi la mia discendenza, così, tra la gente, faccio… farò come ho sempre fatto: anche stavolta, decido io.
Pone le sue braccia a croce sul petto.
Muoio felice, in questo giorno del 1404: lascio un popolo, una coscienza, una legge, con la consapevolezza di essere andata sempre DRITTA, DRITTA, DRITTA PER LA MIA STRADA!
Si lascia cadere in terra, ormai spenta.
FINE.