Figaro II

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FIGARO II°

Commedia in tre atti

Di VINCENZO TIERI

PERSONAGGI

ARMANDO INTRA

EMILIO FALASCA

PAOLO VEISNER

IL PRIMO ATTORE

IL DIRETTORE

UN VIGILE DEL FUOCO

ROMOLO

UGO

UN SERVO DI SCENA

ELENA VEISNER

ANNA

LA PRIMA ATTRICE

LA SIGNORA RAME

CLARA SUTRI

RINA

UNA CAMERIERA D’ALBERGO

COMMESSE

CASSIERE

FATTORINI

Tempi moderni

Commedia formattata da

 ATTO PRIMO

La scena rappresenta un angolo del palcoscenico di un teatro di provincia, durante la prima rappresentazione della commedia La donna inquieta di Emilio Falasco. Dal limite sinistro della ribalta al centro del palcoscenico corre il rovescio di una parete di tela con una porta; e sullo stesso limite sinistro della ribalta è un lembo del sipario sorretto da un servo di scena, come se la ribalta del pal­coscenico immaginario sul quale si sta rappresentando La donna inquieta fosse sulla linea della normale parete sinistra, che ora, naturalmente, non si vede.

La parete di tela rovesciata, di cui s'è già detto, pro­segue, ad angolo, dal centro del palcoscenico verso il fondo e forma un corridoio con la normale parete di destra: un corridoio perpendicolare rispetto alla ribalta vera. Un altro corridoio, parallelo alla linea della ribalta vera, si parte dal centro della parete normale di destra, verso l'interno. S'immagina che il primo corridoio porti ai camerini degli attori; il secondo, all'uscita dal palco­scenico.

Tutta la prima parte della parete rovesciata, dalla ri­balta al centro del palcoscenico, sarà unita alla seconda parte per mezzo di cardini come il battente di un uscio è unito al suo stipite; in modo che alla fine del primo quadro il cambiamento di scena sia facilmente possibile facendo girare la parete da sinistra verso destra.

(Quando si alza il sipario, la rappresentazione della commedia La donna inquieta è in pieno svolgimento al di là della parete di sinistra. L'autore della commedia, Emilio Falasco, passeggia nervosamente vicino alla porta della scena, fumando e seguendo con trepidazione le bat­tute degli attori che di tanto in tanto si odono chiare attraverso la porla socchiusa).

Prima Attrice                   - (dall'interno, recitando) Dopo tutto, quella ragazza mi pare veramente innamorata di te. Forse io ho il torto di averle rubato la felicità. Sono una ladra.

Primo Attore                   - (dall'interno, recitando) Ti chiedo

Prima Attrice                   - (c. s.) Ora non è che la lotta mi spaventi. Ma preferisco la lotta con l'uomo che amo; la lotta dell'amore, non quella della rapina e della rivalità. Fra me e l'uomo che amo posso appena tollerare il terzo personaggio classico, mio marito, perché conosco il suo sistema. E' un sistema cinico, ma che mi va bene. Gli arriva una lettera anonima; egli la lascia sul mio scrittoio perché io la veda; io la straccio; egli il giorno dopo mi chiede se sia stata io a distruggerla. In casa mia s'inco­mincia sempre cosi(Rumori del pubblico dall'interno).

Primo Attore                   - (c. s.) Non ti vergogni di farmi in­tendere che t'è accaduto molte volte?

Prima Attrice                   - (c. s.) E perché dovrei vergognar­mene io, se non se ne vergogna mio marito? Io gli ri­spondo: «Si, sono stata io a stracciarla». Ed egli mi dice: «Bisogna evitare che queste voci si diffondano». Io replico: « Chiedi un'altra residenza ». Egli fa: « Questa è la migliore per la mia carriera». Io propongo: «Al­lora dimmi quel che debbo fare». E lui: «Parti per qualche mese ». A questo punto io parto. (Risate ironiche del pubblico, dall'interno).

Primo Attore                   - (c. s.) E se io non potessi seguirti?

Prima Attrice                   - (c. s.) Nessuno mi ha mai seguita. Io sono di quelle donne che si lasciano partire volentieri. Mi si fa trovare un fascio di fiori nella cabina del treno. Mio marito non lo vede, perché non sale sul treno. Io lo tengo in conto di corona mortuaria. (Mentre, al di là della parete, la recita prosegue, al di qua, dove l'autore passeggia fumando, entra un vigile del fuoco).

Il Vigile del fuoco           - (si avvicina a Emilio) Sentite, signore; qua non si può fumare.

Emilio                              - (nervosamente) E lasciatemi fumare. Sono l'autore della commedia che si sta rappresentando.

Il Vigile del fuoco           - Il regolamento non fa eccezione per l'autore. Qua non è possibile fumare.

Emilio                              - Per piacere: questa sigaretta sola. Dopo non fumo più.

Il Vigile del fuoco           - E se con questa sigaretta va a fuoco il teatro? Andate fuori, nei corridoi.

Emilio                              - Non posso andare nei corridoi.

Il Vigile del fuoco           - E perché? (Si ode dall'interno un urlo tremendo del pubblico che continua a disappro­vare il lavoro).

Emilio                              - Avete sentito perché? Il pubblico mi è ostile. Se qualcuno m'incontra... (Sorride, amaro).

Il Vigile del fuoco           - Tanto, signore mio, se non v'incontrano adesso, verranno qua sopra alla fine dell'atto...

Emilio                              - Il pubblico non capisce niente.

Il Vigile del fuoco           - Sì, sta bene, non capisce niente; ma qua sopra verrà.

Emilio                              - (nervoso, esasperato) E venga! Credete che io abbia paura?

Il Vigile del fuoco           - Ho paura io, signore, che vada in fiamme il teatro.

Emilio                              - (alludendo al pubblico) Sarebbe meglio che tutti questi imbecilli fossero arsi vivi! (Nuovo urlo del pubblico dall'interno. La prima attrice entra dalla porta della scena, irritatissima).

Prima Attrice                   - Nemmeno per me hanno rispetto! (A Emilio) Io capisco che se la prendano con voi; ma io, the c'entro io? Io sono l'interprete, non sono mica l'autrice.

Il Vigile del fuoco           - (alla prima attrice) Ma non potevate rappresentare un'altra cosa?

Emilio                              - Che cosa? Che cosa? «I .due sergenti»? « Il casino di campagna » ? E' gente senza gusto, senza cultura!

Prima Attrice                   - (a Emilio) Io vi dico sinceramente, caro Falasca, che è stato un grosso errore del capoco­mico rappresentare la vostra commedia. E' la prima volta, in vita mia, che il pubblico mi manca di rispetto cosi.

Emilio                              - Che prima volta, signora? Non esageriamo. Una sera, per voi, per voi sola, stava per succedere il finimondo. Credete che non me ne ricordi?

Prima Attrice                   - Bene! E dal momento ch'è così, io non continuo la rappresentazione!

Il Vigile del fuoco           - Signora, non c'è bisogno che vi incomodiate voi. (Nuovo urlo del pubblico. Il vigile del fuoco, alludendo al pubblico, continua) Ecco. Fra poco ci pensa il pubblico.

Emilio                              - (al vigile del fuoco) Ma smettetela, voi! Fate il vostro mestiere, non fate della critica!

Il Vigile del fuoco           - Ebbene, se debbo fare il mio mestiere, vi ripeto che qua non si può fumare! (Guarda Emilio come aspettando una risposta; ma Emilio, esaspe­rato, si limita a buttare per terra la sigaretta e a pestarla con una scarpa. Il vigile del fuoco, rivolto alla prima attrice, continua) Mi ricordo della battuta di una com­media di Sacha Guitry. Una maschera dice a uno spet­tatore: «Qua non si può fumare! »; e lo spettatore, dopo aver tirato rapidamente delle boccate di fumo: «Si può fumare benissimo ». (Guarda la prima attrice ed Emilio; poi) Non vi fa ridere? Strano. A me, quando la dice Ruggeri, mi fa crepare dalle risa.

Primo Attore                   - (affacciandosi a una delle porte della scena e recitando) Clara! Clara! (La prima attrice non si muove).

Emilio                              - (alla prima attrice) Avanti, «ignora, tocca a voi.

Prima Attrice                   - Ma neanche per sogno! Io non esco più. Sono stanca di essere coperta di contumelie.

Primo Attore                   - (mezzo dentro e mezzo fuori della scena, gesticolando) Clara, amore mio, sto chiamando te...

Emilio                              - (alla prima attrice) Signora, uscite, sé no faccio uno scandalo.

Voci del pubblico            - (ironiche, seguile da risate) Clara! Clara! Amore mio!

Emilio                              - (stringendo i pugni, con violenza) Signora, uscite, se non volete che commetta qualche pazzia!

Primo Attore                   - (entrando e chiudendo la porta dietro di sè) Be', non pretenderete che io stia in iscena a prendermi da solo gli urli del pubblico. (Il pubblico, dall'interno, continua a urlare, a ridere, a sghignazzare).

Emilio                              - (al servo di scena che regge il sipario) Chiu­dete! Giù il sipario!

Il Servo di scena              - Ma io non ho avuto i segnali!

Emilio                              - Chiudete, vi dico! (Gli si avvicina, minac­cioso).

Il Servo di scena              - (al primo attore e alla prima attrice) Insomma, che debbo fare?

Primo Attore                   - Domandate al direttore. Che cosa volete che vi dica?

Il Direttore                      - (dal primo corridoio di destra) Ma ch'è successo?

Emilio                              - E' successo che mi stanno massacrando! Fate chiudere il sipario. Io non sono lo zimbello di nessuno. Voglio che sia interrotta la rappresentazione.

Il Direttore                      - Un momento, un momento. (Apre la porta della scena; si affaccia nell'interno, è investito da un urlo ancora più tempestoso del pubblico).

Voci del pubblico            - (dall'interno) E chi siete voi? Vogliamo Clara, amore mio! (Il direttore esce, chiudendo la porta dietro di sé. Si ode la sua voce rivolta al pub­blico).

Il Direttore                      - (dall'interno, parlando al pubblico) Io vi prego, signori, di dirmi se debbo continuare lo spet­tacolo oppure no.

Voci del pubblico            - Ma chi siete voi? L'autore? Man­dateci almeno l'autore.

Il Direttore                      - Io mi permetto di credere, signori, che l'autore abbia il diritto di essere giudicato soltanto a fine d'atto.

Voci del pubblico            - E' vero, è giusto. Silenzio! - Ma che silenzio d'Egitto! - Alla porta!

Il Direttore                      - Mi dispiace; ma in queste condizioni io non posso che far calare il sipario. (Continua il ru­moreggiare del pubblico. Il direttore rientra e ordina al servo di scena) Giù, giù! (Poi a Emilio) Come vedete, non c'è altro da fare. Con questo pandemonio gli attori non potrebbero neanche recitare. Forse ci siamo sbagliati! (Mentre il servo di scena chiude il sipario e la gazzarra del pubblico si ode più attenuata, ecco che si smorza improvvisamente la luce. Ne segue una confusione in­fernale).

Voci nel buio                   - Chi ha smorzato? - Luce, Luce! -Un momento, c'è un guasto. Prendete delle candele! -Ci mancava anche questa, per completare la serata. Ma è spenta anche la sala? - No, la sala no. - Elettricista! Dov'è l'elettricista? - Eccomi, sono qua. Un minuto. E' roba da niente. (Vocio, mormorio, confusione, trambusto. Quando si riaccende la luce, la scena è cambiata. Siamo in una camera d'albergo. Emilio entra dalla destra, ab­battuto, sfinito, spettinato. Si lascia cadere sul letto).

La Cameriera                   - (dall’interno, picchiando all'uscio) Permesso?

Emilio                              - (stancamente) Chi è?

La Cameriera                   - La cameriera, signore.

Emilio                              - Che cosa volete?

La Cameriera                   - Ho dimenticato di lasciarvi la botti» glia dell'acqua.

Emilio                              - Avanti.

La Cameriera                   - (entra con una bottiglia d'acqua) Scusate, signore. Nella fretta, stasera, avevo dimenticato... (Va a mettere la bottiglia sul comodino) Vi sentite male?

Emilio                              - No, grazie.

La Cameriera                   - Senza complimenti, se avete bisogno di qualche cosa...

Emilio                              - Ma no. Sono un po' stanco.

La Cameriera                   - Partite domani? O vi fermate ancora?

Emilio                              - Non so. Vedrò.

La Cameriera                   - (guardando il letto) Uh, signore! Scu­sate. Mi sono dimenticata anche di prepararvi il letto.

Emilio                              - (seccato, alzandosi) Fate pure.

La Cameriera                   - (preparando il letto) Sapete, la fretta... Era il mio turno di riposo, avevo la libera uscita. Sono stata a teatro. Che divertimento, signore mio! Mica per la commedia! Ma nella sala... quello ch'è successo nella sala, signore mio ! Pensate che alla metà del primo atto si è dovuta sospendere la rappresentazione. Voi non c'eravate?

Emilio                              - No.

La Cameriera                   - Avete perduto una bella occasione. A me piacciono le serate così. E a voi?

Emilio                              - Non sempre.

La Cameriera                   - Il titolo della commedia non era brutto: «La donna inquieta». E' proprio vero che noialtre donne siamo tutte inquiete. Non si sa mai quello che vogliamo. Ma, diciamo la verità, l'autore esagerava.

Emilio                              - Ne siete sicura?

La Cameriera                   - Per fortuna, l'autore non si è pre­sentato; se no, gli tiravano addosso le sedie. (Ride) Io ho conosciuto un autore, in un altro albergo, dove stavo prima. Quando si davano le sue commedie, lui si metteva a letto, con la febbre. Aveva una paura matta. Dal teatro gli telefonavano: «E' finito il primo atto; tante chia­mate». Allora lui si alzava. Poi gli telefonavano ancora: «E' finito il secondo atto; tante chiamate ». Lui si vestiva. Durante il terzo atto, non riusciva a stare fermo. Scen­deva nella sala, risaliva in camera, riusciva nei corridoi, si metteva a parlare da solo come un pazzo, in attesa della terza telefonata. Ma la terza telefonata, general­mente, non veniva. Allora lui faceva in fretta le valige e partiva col primo treno. L'ho visto partire sempre così. Ma è poi tanto difficile fare una commedia che si lasci applaudire tutta?

Emilio                              - (nervosissimo) Fatela voi.

La Cameriera                   - Ah, io ho fatto solo le complementari; ma, se sapessi scrivere bene, ne farei di commedie. Col mestiere che faccio, capirete, la conosco bene la vita.

Emilio                              - Credete che basti conoscere la vita per scrivere commedie?

La Cameriera                   - No, certo. Bisogna anche saperle scrivere. Ma quell'autore di cui vi ho parlato diceva che non basta neanche questo. Mi hanno detto che un autore, prima di farle rappresentare, leggeva le sue commedie alla propria cameriera.

Emilio                              - E a me, del giudizio della mia cameriera, non me ne importa niente.

La Cameriera                   - A voi? Ma perché? Voi scrivete commedie?

Emilio                              - (evasivo) Dicevo per dire. (Suona il telefono che è sul comodino. Emilio non sente).

La Cameriera                   - Il telefono, signore. Volete che ri­sponda io?

 Emilio                             - (alzando le spalle) Fate come volete. (Poi. ricordando) Ah, dev'essere la mia fidanzata. Ditele che sono qui.

La Cameriera                   - (al telefono) Pronto? Chi? (Poi, a Emilio) Siete il signor Falasca?

Emilio                              - (mortificato) Sì.

La Cameriera                   - (guardandolo meravigliata) L'autore della commedia che s'è data stasera?

Emilio                              - (nervoso) Ecco, brava!

La Cameriera                   - (a Emilio, come per chiedere scusa di quello che ha detto prima) Oh, ma... Scusate. Non sapevo...

Emilio                              - (c. s.) Insomma, si può sapere chi è?

La Cameriera                   - (confusa, al telefono) Che cosa volete dal signor Falasca? (Poi a Emilio) Dice che giù, in por­tineria, c'è il signor Armando Intra, vostro zio.

Emilio                              - (pensando al nome, che sembra riuscirgli nuovo) Come? Possibile? (Va al telefono, leva il microfono alla cameriera) Pronto? Chi è che mi vuole? Ho capito. Fatelo salire. (Depone il microfono sull'apparecchio; è soprapensiero).

La Cameriera                   - Io vi chiedo nuovamente scusa, si­gnore... Ma sapete com'è. Quando cade una commedia è come quando uno scivola. Si ride, senza pensare al male che il caduto s'è fatto.

Emilio                              - (brusco) Ma io non mi sono fatto male. Potete ridere quanto vi piace.

La Cameriera                   - (mortificatissima) Avete bisogno di niente, signore?

Emilio                              - (c. s.) Di niente. (Bussano alla porta).

La Cameriera                   - (andando alla porta) Buona notte, signore. (Apre la porta, lascia passare Armando Intra, esce, richiude).

Armando                         - Buona sera, Emilio.

Emilio                              - (guardandolo, come per ricordarselo) Buona sera.

Armando                         - Già, tu non mi riconosci. Ti ho lasciato ch'eri un bambino. Ma sono proprio io, zio Armando, quello del ritratto a olio ch'è nel salotto della tua casa. O non c'è più? Mi dispiacerebbe; io sono una gloria di famiglia.

Emilio                              - (sempre perplesso, invitandole a sedere) Ti prego... zio.

Armando                         - (siede) Mi chiami zio senza convinzione. Eppure sono un Intra, fratello di tua madre. Te ne hanno parlato male? Ecco! te ne hanno parlato male. Come di una gloria che fa disonore alla famiglia. Anche tu, del resto, sei una gloria che fa disonore alla lamiglia.

Emilio                              - (mettendosi in posizione di difesa) Che vuoi dire?

Armando                         - Non ti mettere in posizione di difesa. Sono qua non per accusarti, e tanto meno per aggredirti. Ma nella nostra famiglia non spira buon vento per le glorie letterarie. Bisognerebbe che da una famiglia di commer­cianti non nascessero mai capiscarichi: voglio dire sca­richi di tendenze affaristiche e carichi, invece, di let­teratura. Quando nascono, è un guaio. (Poi, come fra se) Chi sa, poi, perché nascono in case di commercianti. Nella loro nascita c'è sempre un vago sentore di adulterio. (Poi, rivolgendosi di nuovo a Emilio) E' un guaio, perché l'abi­lità commerciale, per conservarsi intatta e perfezionarsi, ha bisogno di essere tramandata di padre in figlio, come le grandi virtù e le malattie inguaribili. Io non dò torto a mio padre che dopo il mio terzo insuccesso letterario mi cacciò di casa. Mi disse: «Questa è la tua parte di patrimonio, fanne quello che vuoi », Tu forse vuoi sapere quello che ne ho fatto. Te lo dirò dopo. Ma intanto par­liamo di te. (Una pausa) Ho visto che scrivi commedie. Ero in teatro, stasera. Ero tra i dissidenti.

Emilio                              - (scrollando le spalle, con disprezzo) Natu­ralmente.

Armando                         - Ero tra i dissidenti, perché condividevo le tue idee.

Emilio                              - (ironico) Ah, bene!

Armando                         - Appunto perché le condividevo, ero ob­bligato a disapprovarti. Non si debbono mai approvare i maleducati. Tu sci un autore maleducato. Pretendi sce­neggiare la tua cattiva educazione. Diresti in un salotto, in faccia alla gente, quello che facevi dire ai tuoi perso­naggi sulla scena? Il teatro è come un salotto. Bisogna evitare che la gente arrossisca per se e per i suoi vicini.

Emilio                              - Per me il teatro non è affatto un salotto.

Armando -                       - E che cos'è?

Emilio                              - Ti piaccia o non ti piaccia, per me è un tempio.

Armando                         - Un tempio col pulpito? I personaggi truc­cati da predicatori? (Sogghigna) Ah, ah! (Una pausa) Ma il tuo difetto non è soltanto questo, di considerare il teatro a questo modo.

Emilio                              - (impaziente) Senti, zio, non mi pare il mo­mento di...

Armando                         - Eh, no, no. Mi pare proprio il momento. Stasera mi trovavo qui per caso, io vivo molto lontano di qui, a Roma, e ho visto annunziata la tua commedia. «Voglio andarci». La tua buona stella. Conoscevo le altre tue commedie per sentito dire, perché nelle grandi città non sono mai arrivate. Le tue commedie muoiono per la strada. Ma quella di stasera ha superato ogni mia immaginazione. Mi sono riveduto in te, mi sono ricono­sciuto in te.

Emilio                              - Non mi pare!

Armando                         - Se ti sto dicendo che condivido le tue idee! Ma in teatro bisogna esporre le idee del pubblico, non le proprie. Magari ciascuno del pubblico, preso a quat­tr'occhi o nel segreto della sua coscienza, ha le mede­sime idee tue; ma in teatro, in mezzo agli altri, nella folla degli altri, le dimentica o le ripudia o le vuol na­scondere. C'è una mentalità da teatro così come una volta c'era un vestito da teatro, una specie di uniforme. La regola! Ogni creatura umana, anche la più sregolata, appena si trovi in società, vuol vivere e farsi veder vivere entro i limiti della regola. Del resto, se non fosse così, non ci sarebbe società possibile, non sarebbe facile la convivenza.

Emilio                              - Ti avverto che la tua filosofia mi lascia in­differente. Figurati che mi lascia indifferente perfino il pensiero che da stasera non so come pagare il conto del­l'albergo.

Armando                         - Ti hanno tagliato i viveri?

Emilio                              - Sì.

Armando                         - Per costringerti ad abbandonare il teatro?

Emilio                              - Esattamente.

Armando                         - Hanno fatto bene.

Emilio                              - Ma io non abbandonerò il teatro.

Armando                         - Per rifare la testa alle donne.

Emilio                              - Che cosa?

Armando                         - Ah, tu ancora non ti sei capito bene? Scrivi, predichi, ti metti contro corrente, e non ti sci accorto di quello che vuoi. (Ironico) La felice incoscienza del genio... (Poi, con altro tono) Eppure ogni tua com­media è un atto d'accusa alle donne. Le vorresti trasfor­mare, ricreare, secondo un tuo schema psicologico e morale, che, debbo dirlo sinceramente, renderebbe la vita molto noiosa. La tal donna è infedele? Tu ne vorresti fare un esemplare di fedeltà... canina, un mostro di fedeltà. La tal donna è capricciosa, vanitosa, bugiarda? E tu vorresti farne lo specchio di tutte le virtù. Non c'è cosa peggiore che voler rifare la testa a chi non vuol saperne. Alle donne si può rifare appena la pettinatura. E bada bene che in un commediografo metafisico come te, c'è forse la vocazione del parrucchiere.

Emilio                              - (dopo aver sogghignato) Ti sbagli, ti sbagli!

Armando                         - Del resto anch'io ero come te. Anche la mia letteratura teatrale, quando ne facevo, preferiva oc­cuparsi della donna e del suo carattere. Era una letteratura un po' sentenziosa, moraleggiante, didascalica. E appunto per questo le mie commedie cadevano, una dopo l'altra, tanto che se avessi insistito sarei diventato il più grande commediografo vivente, perché il prestigio intellettuale dei commediografi viventi è quasi sempre in proporzione diretta col numero delle loro cadute. (Si avvicina a Emilio, gli batte una mano su una spalla) Su, su; su con la vita, ragazzo. Non ti porre problemi insolubili. Quant'è il conto del tuo albergo?

Emilio                              - (scrollando le spalle come per rifiutare) Oh!

Armando                         - Pensa che Dio è misericordioso e che io, indegnamente, sono forse mandato da Dio. Del resto, come mi hai detto poco fa? «Sono indifferente perfino al pensiero che stasera non so come pagare il conto del­l'albergo ». Perché l'hai detto a me, che ti sono quasi sconosciuto?

Emilio                              - (quasi sdegnalo) Oh, non credere che...

Armando                         - E che ho da credere, nipote mio, se non quello che è? I letterati sono un po' sognatori in ma­teria... amministrativa. Parlano della loro bolletta sempre con la vana illusione di trovare, tra i loro confidenti, lo spontaneo sovventore. E' la psicologia del povero. Ma tu, una volta tanto, non ti sei illuso. Io sono qua per pagare il conto del tuo albergo.

Emilio                              - Questo, non lo permetterei a nessuno.

Armando                         - Ma io non sono «nessuno». (Con sorri­dente orgoglio) Sono uno. Ti sembra molto orgogliosa la mia affermazione? Mi conoscerai. D'altra parte, senza di me, come faresti? Sentiamo.

Emilio                              - Sono fatti miei.

Armando                         - Eh, perbacco. Anche tu sei orgoglioso. Mi somigli anche in questo. Ma sarei curioso di sapere come faresti. (Una pausa; guarda Emilio, che ora sembra mor­tificato) Meglio pagare che ricorrere a espedienti peri­colosi. Avrai tempo e modo di restituirmi tutto quello che io farò per te. Perché io... voglio fare per te,., molto più che tu non creda. Mi sembrerà di rifarlo a me stesso... di allora, di quando avevo l'età tua, e le tue ambizioni, e le tue illusioni. E' un vero peccato che ci conosciamo soltanto ora. Ma forse non è tardi. (Sono un po' commossi tutt'e due. Evitano di guardarsi, voltandosi uno da una parte, l'altro da un'altra, fermando volutamente lo sguardo su oggetti della camera, sulle pareti. Poi Emilio si fa forza, si volge ad Armando).

Emilio                              - E che cosa fai a Roma?

Armando                         - Ah, già! Mi ero dimenticato di dirtelo, (Una pausa) E' curioso che non so se io provi pudore a dirtelo o se abbia voglia di trattenermi dal dirtelo per gustare la tua curiosità e aumentare la tua sorpresa. (Ride come fra se) Civetterie dell'autointrospezione. (Ride ancora come deplorandosi) Letteratura. (Guarda Emilio) Non me ne sono mai vergognato con nessuno, anzi!; e adesso con te... (Poi, decidendosi) Be', insomma! Faccio il parrucchiere per signora.

Emilio                              - Che cosa?

Armando                         - Il parrucchiere per signora. E ci voleva proprio la tua meraviglia, per darmi coraggio, per farmi ricordale dell'orgoglio con cui esercito ormai da molti anni il mio mestiere. Sono Armando, il celebre Armando.

Emilio                              - Oh!

Armando                         - Non l'hai mai sentito nominare?

Emilio                              - Sì, molto; ma non immaginavo che...

Armando                         - Mio caro! Noi passiamo alla storia col solo nome di battesimo come i grandi artisti, gli evangelisti, gli imperatori... Dante, Raffaello, Marco, Napoleone-Armando. Devi riconoscere che c'è dello stile. Le donne, poi, sono felici di chiamarci per nome, e a noi piace questo piccolo segno d'intimità. Ho sempre pensato che i mestieri, anche i più vili, abbiano finalmente bisogno di cultura, di buon gusto, di raffinatezza. Vorrei chiamare gl'intellettuali ai mestieri e gli altri alle professioni in­tellettuali. A un certo momento anche le professioni e i mestieri hanno bisogno di forze nuove, di sangue nuovo, come le razze, per non decadere.

Emilio                              - E... ti trovi bene?

Armando                         - Benissimo. Questa è l'epoca in cui alle cure del corpo le donne dedicano quasi tutto il loro patrimonio e quasi tutta la loro vita. Pensa che nell'Ot­tocento i nove decimi delle case non avevano sale da bagno e nel Settecento le parrucche coprivano chiome più incolte delle foreste vergini. (Con lieve tono di elo­quenza) E pensa invece che oggi, ogni mattina, alcune belle donne, avvolgendosi roride e ignude nei loro ac­cappatoi, si dicono: «All'ora tale ho un appuntamento con Armando ». Con me. Si tratta di appuntamenti pla­tonici, perché non sono nemmeno io a toccare con le mie mani le loro chiome. Io do solo consigli o pareri sulla tinta da preferire, sull'acqua da usare, sull'accon­ciatura da adattare alla tale ricorrenza. Ma le sale dei teatri, in certe sere, appaiono viventi opere d'arte per sola virtù mia. Che cosa vuoi che contino la virtù del sarto e quella del calzolaio? Restano celate dietro il parapetto dei palchi, annegano nella promiscuità delle poltrone. Quella che splende è la sola virtù mia, negl'in­finiti toni biondi e bruni delle chiome femminili. Le donne si fidano del mio gusto, accettano le mie leggi; e tutto questo le fa un poco mie complici come in un'av­ventura segreta, come in un delizioso peccato...

Emilio                              - (guardandolo, sempre con stupore) «Ar­mando »! Eri tu, sei tu. E dici che hai scritto commedie, che avevi tendenze artistiche...

Armando                         - Pensavo, per le donne, a un'igiene dello spirito. Mi sono accorto che avevo appena le doti per dedicarmi all'igiene del loro corpo.

Emilio                              - E così... vita animale, anzi vegetale...

Armando                         - Credi? E' stato già detto che la vita o si vive o si scrive. Mi ricordo che fra i personaggi sognati dalla mia fantasia balenava sempre il volto galante e ironico di un parrucchiere per signora. Ho fatto di me stesso nella vita, quel personaggio che non sono mai riu­scito a fare nell'arte.

Emilio                              - E ti piaci? Piaci a te stesso?

Armando                         - Molto.

Emilio                              - Ti diverti?

Armando                         - Io sì. Vieni a trovarmi.

Emilio                              - Sarà difficile.

Armando                         - Parti con me. Se il mio mestiere ti fa ar­rossire, non dire ad alcuno che sono tuo zio.

Emilio                              - Non è per questo. Ma ora bisogna che regoli in qualche modo la mia vita. Sono fidanzato. Debbo spo­sarmi.

Armando                         - Ah, devi sposarti?

Emilio                              - Me lo domandi in un modo... Credi che faccia male?

Armando                         - (reticente) Non so... (Poi con altro tono) Hai disistima delle donne, ma ne prendi una. (Ironico) Del resto le donne non sono tutte eguali. Le nostre madri, infatti, le nostre sorelle, le nostre mogli... (Poi con altro tono) Veramente lo scettico perfetto dice: « Che bisogno c'è di prendere moglie, dal momento che ci sono le mogli altrui? ». (Con amarezza) Ma, insomma, bisogna provare anche questa.

Emilio                              - (pensieroso) In altri termini, è un errore...

Armando                         - (guardando nel vuoto) Già pensavo per te a un'amante di classe, a una complice della buona società. Serve anche questo, per salire.

Emilio                              - (sogghignando) Ne avevi pronta una?

Armando                         - (senza curarsi del tono di lui) E perché no? Non è più giovanissima, amministra il suo amore con discrezione, è blasonata, ricca; si chiama Elena come la moglie di Menelao, ha un cognome esotico, che fa sempre il suo effetto...

Emilio                              - (ironico) Bene! Bisognerebbe sentire il parere della mia fidanzata... (Bussano alla porta. Emilio, accennando alla porta) Ecco: dev'essere lei. Avanti, (bi apre la porta, entra Anna).

Anna                                - (a Emilio, prima di vedere Armando) Ma io ti cercavo in palcoscenico... (Vede Armando, si ferma).

Emilio                              - (presentando) Mio zio. La mia fidanzata.

Anna                                - (dà la mano ad Armando) Piacere. Uno zio del quale ignoravo l'esistenza.

Emilio                              - Già, è vero. Ma, sai, non avevamo notizie di lui da tanti anni... (Una pausa, piena d'imbarazzi) E così, m'hai cercato in palcoscenico... Io, invece, son venuto subito via. Che facevo? Sono stato tradito da tutti, anche dagli attori...

Anna                                - (amareggiata) Be', insomma... « Cosa fatta capo ha ». (Si volge ad Armando) C'eravate anche voi?

Armando                         - Non posso negarlo.

Anna                                - E... Non vi pare che il pubblico sia stato ec­cessivamente severo?

Armando                         - (dopo una breve riflessione, allungando il monosillabo) No...

Emilio                              - (ad Anna) Oh, lui era fra i dissidenti, sai. Ingrossa le fila dei miei familiari...

Armando                         - (ad Anna) Fra i quali spero sarete anche voi.

Anna                                - (cercando le parole) Io... no. Mi piace, che mi faccia del Teatro. Ma...

Emilio                              - (amaro) Tutti contro uno! Anna   - Sarebbe meglio dire: uno contro tutti. Emilio           - Non mi dispiace affatto. Anna       - Ma insomma, dove le hai conosciute, tu, tutte quelle donne che metti in iscena? In casa tua no, certa­mente. Tanto meno in casa mia.

Emilio                              - Ecco, brava! Mettiti pure tu, adesso, a farmi la morale.

Anna                                - Non si tratta di morale. Si tratta di equilibrio, di buon senso. Nella vita ci sono donne cattive, come ce ne sono di buone. E' esagerato generalizzare i difetti di una sola parte dell'umanità. (Poi ad Armando) Non pare anche a voi?

Armando                         - (come prima, dopo una breve riflessione) Non mi pare...

Emilio                              - Oh, non ti fare illusioni. Lui non crede af­fatto all'onestà delle donne. Non ci crede; ma vuole che non lo si dica!

Armando                         - Che non lo si dica in pubblico.

Emilio                              - La teoria del teatro-salotto!

Armando                         - Della buona educazione.

Anna                                - (guardando Armando) Ah, dunque, voi...? (Vuol dire: a Non credete all'onestà delle donne»).

Armando                         - Parlate tutt'e due come due ragazzi. Del resto, lo siete, beati voi. Ma ora non si tratta né di pro­cessi morali ne di processi estetici alle tue commedie. Tu le fai così, Dio le perdoni. Non pretenderai che ciascuno degli spettatori abbia l'indulgenza di Dio. Sol­tanto, per chi ti ostini a scrivere, dal momento che il pubblico ti respinge?

Emilio                              - Per me.

Armando                         - Bene. E lèggiti tu le tue commedie. Perché le fai rappresentare?

Emilio                              - Sarebbe come dire a un credente : « Perché credi? ».

Armando                         - Ah, ecco. Tu sei un «credente ». Un mis­sionario. Ma il conto dell'albergo si paga con denaro sonante; e il denaro bisogna guadagnarselo.

Emilio                              - Il mio spirito si ribella a codesta mentalità mercantile!

Armando                         - Il tuo spirito! Il tuo spirito emancipato, disincarnato dal vile corpo, che pure ha bisogno di nu­trirsi. E fra poco i corpi saranno due invece di uno; perché tu vuoi ammogliarti.

Emilio                              - (amarissimo) Se anche in questo la mia fi­danzata è del tuo parere...

Armando                         - (dopo aver guardato Anna) Non risponde.

Emilio                              - (c. s.) Vuol dire che non mi ama.

Anna                                - (ribellandosi) E come puoi dirlo? Ti seguo da anni, dietro i tuoi sogni e le tue chimere. Corri sempre appresso alla tua «fama », alla tua« gloria ». Mi trascuri, finanche, per la tua gloria; e io sono costretta a soppor­tarla come una rivale!

Emilio                              - Nessuno ti obbliga a sopportarla.

Anna                                - Ah, grazie! E me lo dici... (Le trema il mento come se volesse piangere)... Me lo dici... adesso ch'è tardi?

 (Ella ha vergogna e paura, ora, delle parole che ha pro­nunziate. Emilio abbassa lo sguardo).

Armando                         - (che ha capito, dopo averli guardati tutt'e due) Ah! E' anche tardi? (Una pausa. Guarda l'orologio) Vedo ch'è tardi anche per me. Vi saluto. (Cava dalla tasca dei pantaloni mille lire, le chiude nel pugno, si avvicina a Emilio, gli dà la mano per dargli anche le mille lire senza che Anna se ne accorga) Quando riparti?

Emilio                              - (sentendo nella mano il biglietto di banca e volendolo respingere) No!

Armando                         - (stringendosi nelle spalle e rimettendo nella propria tasca il biglietto di banca) Come vuoi. (Fa lentamente qualche passo verso la porta; si ferma) Io abito all'Albergo del Parco, a pochi passi da qui. Domani mattina parto per Roma. Il mio indirizzo di Roma è celebre. Se qui, o a Roma, hai bisogno, anzi avrete bisogno, di me, non fate complimenti.

Anna                                - (mortificata) Mi dispiace di essere andata al di là della discrezione con le mie parole...

Armando                         - Oh! Non ci siete andata soltanto con le parole. (Anna scoppia in un pianto rumoroso. Armando la guarda con pietà; poi, a bassa voce) Vi chiedo scusa, (Poi, dopo una breve pausa, riscaldandosi un poco) Ma siete due bei tipi, sapete! Lui combatte per la pu­rezza delle donne, e non rispetta neanche la sua fidan­zata! Voi... (Nuovo scoppio di pianto di Anna. Armando si ferma a guardarla, poi le si avvicina, le accarezza i capelli) Andiamo, su, non facciamo ragazzate. (Diventa galante, come ricordandosi del suo mestiere al contatto della chioma femminile) I vostri capelli hanno un bel colore. Meriterebbero una pettinatura meno comune, più... metafisica. Capisco che questa è la pettinatura che va più, oggi. Ma le donne hanno il gusto della standardizzazione; parola e cosa deplorevoli. Che lavanda usate? (Annusa lievemente) Ve ne consiglierò una io, ottima. E niente «permanente», mai. A un'altra direi il contrario; a voi no. Ci sono gli elementi naturali per l'ondulazione. Prima acqua e sapone, e poi acqua pura, col solo concorso del pettine. Il pettine, magari, quello sì, è difficile da trovare adatto e da usar bene. Ce ne sono, adesso, alcuni di avorio, di una forma somigliante piuttosto ai pettini maschili, con la dentatura tutta fitta... (Lentamente Anna ha alzato il capo, lo guarda, ride).

Anna                                - Sembrate un parrucchiere, invece di un...

Armando                         - Di un... che cosa?

Anna                                - Non so... Non so che professione facciate.

Armando                         - (evitando la risposta) E qual è il vostro parrucchiere?

Anna                                - In provincia... capirete... Se vivessi a Roma, come voi... A Roma c'è Armando.

Armando                         - Lo conoscete?

Anna                                - Di fama. Una mia amica di Roma, l'unica mia amica di Roma che ha fatto un gran matrimonio, me ne parla e me ne scrive come di un uomo singolarissimo. Il suo negozio è una specie di ritrovo mondano. Per avere un appuntamento da lui, bisogna qualche volta aspettare dieci, quindici giorni, come si fa con i grandi medici... Ma costa un occhio...

Armando                         - Vale quanto costa. (Anche Emilio, che ha seguito con curiosa attenzione l'ultima parte del collo­quio, ride. Armando se ne accorge li guarda tutt'e due) Be', vedo ch'è passata. Armando è sempre un buon protettore della pace familiare. Sarebbe il caso di fargli una visita. Che ne dici, Emilio?

Emilio                              - Un'altra volta.

Armando                         - Bada che la fortuna passa una volta sola. Bisogna essere pronti ad afferrarla per la cima dei ca­pelli. Lei non segue la moda, li porta ancora lunghi. Ma credo che anche lei vada qualche volta da Armando per farseli pettinare. Perché non tentare d'incontrarla almeno nel suo negozio? (Emilio e Anna ridono. Ar­mando rifà ironicamente il loro riso; poi con un sospiro) Eh! Se la gioventù sapesse! Se la vecchiaia potesse! Mah! Bando alle malinconie! Partiamo stanotte, insieme, tutt'e tre? (Gli altri non rispondono) Affare fatto. (Va al tele­fono, alza il microfono) Per piacere, preparate il conto del signor Falasca. Parte stanotte. Come? Ah, già, sì, naturalmente: anche il conto della signorina. (Depone il microfono, guarda Anna) Non è bene abitare nello stesso albergo del fidanzato, quando si è soli con lui. E' una piccola formalità; ma... certe cose si fanno ma non si dicono. Fare quello che non si può dire è il supremo gaudio dell'uomo. Ma la società gl'impedisce quello che gli piace. (Guarda nel vuoto, parla fra se) S'incomincia da bambini. Il bambino vuol poppare; non è l'ora, perché il medico ha detto che non è l'ora. Il giovinetto non ha voglia di studiare; nossignore, deve studiare. Il giova­notto vuol far l'amore; nossignore, l'amore non si fa. La signora tradisce il marito; nossignora, il marito non si tradisce...

Emilio                              - Zio! Ma che fai?

Armando                         - (come risvegliandosi) Come?

Emilio                              - Stai parlando da solo.

Armando                         - Ecco: quest'altro vorrebbe impedirmi anche di parlare da solo! (Si avvia verso la porta, di­cendo) Su, su, preparatevi, che il treno parte fra un'ora...

Fine del primo tempo

ATTO SECONDO

La scena rappresenta un grande negozio di parrucchiere per signora. La parete di fondo è costituita da una vasta vetrata, con porta centrale; e di là dalla vetrata è il reparto profumeria, che sarà animato, durante Tatto, dal movimento del pubblico, delle commesse, delle cassiere, dei fattorini. Al di qua della vetrata è la parruccheria propriamente detta, la quale ha, a destra e a sinistra, due file di cabine riservate al lavoro, e, nel centro, un salotto di ricevimento e di attesa. In un angolo del salotto, verso la ribalta, è un tavolo piccolo ma elegantissimo, per il direttore del negozio, e sopra il tavolo una tastiera di campanelli elettrici, un registro, un taccuino, due telefoni automatici. Tutto è molto fine, molto lucente, molto ordinato.

L'entrata per il pubblico è, o si suppone, nella parte di destra della profumeria; e bisogna attraversare la pro­fumeria per entrare, attraverso la porta della vetrata, nella

 parruccheria. Ma un'entrata particolare è, anche sulla de-stra, al luogo dell'ultima cabina di destra, che può anche non aver tenda o battente come le altre; e si suppone che tutte le cabine di destra abbiano un'uscita comune, riser­vata, nel cortile del palazzo al cui pianterreno il negozio ha sede.

Quando si alza la tela, la vita del negozio è in grande attività, soprattutto nella profumeria, al di là della vetrata. Al di qua, nel salotto, c'è più calma; e si ode, di tanto in tanto, tenuissimo, il frusciare degli spruzzatori, delle docce, degli asciugatoi elettrici, il ticchettio delle forbici e dei ferri per ondulare.

Signora Rame                  - (vecchia molto dipinta e restaurata, porta il cappello alle mani e si pavoneggia sotto la nuova e bizzarra acconciatura dei capelli; esce dalla prima cabina di destra, seguita da Romolo, primo lavorante del negozio; come riprendendo fiato) Ah! Queste cabine sono così lontane e profonde che mi sembra di ritornare dalle viscere della terra...

Romolo                            - (guardando nell'interno della cabina) Già, è vero. Ma ci sono signore che sotto i ferri del parruc­chiere si lagnano come in una sala operatoria. Meglio che nessuno oda i loro piccoli gridi.

Signora Rame                  - Voi avete la mano leggera come quella di un chirurgo sapiente...

Romolo                            - Faccio del mio meglio.

Signora Rame                  - Allora siamo intesi: ripasso domani a quest'ora.

Romolo                            - Sì, signora. Basta una rinfrescatina dopo le prime ventiquattro ore. (Le guarda la pettinatura) State molto bene.

Signora Rame                  - Grazie. (Guarda Romolo con comica civetteria) Sono molto contenta di voi. Dirò ad Armando che mi faccia servire sempre da voi.

Romolo                            - Onorarissimo, signora.

Signora Rame                  - L'onore è mio.

Romolo                            - Per carità!

Signora Rame                  - Vostro, in ogni modo, è il merito.

Romolo                            - Oh, è facile lavorar bene con dei capelli come i vostri.

Signora Rame                  - Sì, questo è vero. Il povero mio marito mi diceva sempre che ho i capelli di seta. Ma nessun parrucchiere mi ha lasciata soddisfatta come voi. (Cava dalla borsetta una moneta) Ecco: tenete.

Romolo                            - (prende la moneta) Grazie, signora. Molto gentile.

Signora Rame                  - Venite a casa, qualche volta... (Poi, per attenuare) Avere a casa un lavorante come voi...

Romolo                            - Verrò... se il signor Armando permette.

Signora Rame                  - Venite... quando non siete di servizio.

Romolo                            - (come rassegnato) Va bene, signora. Non mancherò.

Signora Rame                  - Ci conto. Vi aspetto. (Entra Armando, dalla destra).

Armando                         - (alla signora Rame) Siete rimasta contenta, signora?

Signora Rame                  - Dal vostro negozio si esce ragazze!

Armando                         - (distratto) Ve lo ha detto vostra figlia?

Signora Rame                  - Romolo è il migliore dei vostri la­voranti. Il più simpatico.

Armando                         - (ironico) Sì. Tanto simpatico. Farebbe fortuna al cinematografo. Del resto, tutti i miei lavoranti sono bravi e... simpatici. Non li avete ancora provati tutti, signora?

Signora Rame                  - Ah, io preferisco Romolo.

Armando                         - (a Romolo) Rallegramenti!

Signora Rame                  - Arrivederci, Romolo. A domani.

Romolo                            - (inchinandosi) A domani, signora.

Armando                         - (inchinandosi anche lui) A domani. (La signora Rame esce per il fondo, e prima di lasciare il negozio passa alla cassa della profumeria per pagare. Quando ella si è allontanata, Armando, rivolto a Romolo, continua) Pare un tacchino.

Romolo                            - Però paga bene, signor Armando,

Armando                         - (malizioso) Eh, lo credo!

Romolo                            - Dico: paga bene il servizio.

Armando                         - E va, va. Falle comprare qualche cosa. C'è quella nuova colonia che non è piaciuta. Addosso a lei, nessuno crederà che sia colpa della colonia.

Romolo                            - Vado. (Romolo esce per il fondo; e si vede poco dopo che egli induce garbatamente la signora Rame a comprare la colonia. Nel frattempo suona il telefono e Armando va a rispondere).

Armando                         - (al telefono) Pronto?... Armando... Buon giorno, signora contessa. (Prende nota degli ordini sul taccuino) Domani alle undici... Senz'altro, signora con­tessa... Mi dispiace, signora contessa; ma Enrico è in licenza. Vi manderò Ugo... Ah, Ugo no? Allora Romolo, signora contessa... (Prendendo nuovamente nota) Una bottiglia di lavanda, la solita cipria, il solito sapone. Benissimo... Non ancora. La signora principessa mi farà l'onore di passare fra poco. E' preoccupata per la caduta dei titoli della « Slama »... Sì, signora contessa, hanno perduto quindici punti... Ah, si, donna Adele c'è stata: era bellissima: portava un nuovo modello di «Medusa» in marrone e giallo paglierino: incantevole. Bei modelli, quelli di « Medusa »!... No, era sola. Credo ci sia qualche piccola incrinatura... (Ride) « Tout passe, tout lasse... ». I miei ossequi, signora contessa. (Depone il microfono, stacca dal taccuino il foglietto con l'ordinazione, suona un campanello. Viene subito dal fondo Rina, prima com­messa della profumeria).

Rina                                 - Comandate, signor Armando.

Armando                         - (le porge il foglietto) Subito, questa roba alla contessa Farra. (Rina esce per il fondo, suona nuo­vamente il telefono, Armando va a rispondere al telefono) Pronto?... Armando... Ho capito, eccellenza. Avete altri comandi?... Riverisco, eccellenza. (Depone il ricevitore, preme il bottone di un altro campanello).

Ugo                                 - (secondo lavorante, da una delle cabine di sinistra, entrando) Dite, signor Armando.

Armando                         - Va subito a casa dell'eccellenza Stern.

Ugo                                 - Ma se le ho fatto la testa un'ora fa!

Armando                         - Avrà litigato col marito.

Ugo                                 - Ma perché? Il marito le strappa i capelli?

Armando                         - E non è meglio? Meglio per noi, dico, non per lei. D'altra parte, questi diplomatici ingollano fiele tutto il santo giorno a causa delle loro alte funzioni, e su che cosa potrebbero rifarsi se non sulla chioma delle loro mogli?

Ugo                                 - Vado, signor Armando. (Esce per la stessa cabina di sinistra).

Romolo                            - (ritornando dal fondo) Ne ha preso una bottiglia di due litri.

Armando                         - Benissimo. Ella riscuote ogni mese una pensioncina del marito. E' entrata qua, l'ha... dilapidata; e buona notte. Così, grazie a Dio, non la vedremo per un mese. Noi abbiamo bisogno di donne giovani, belle e ricche. (E' entrato, intanto dal fondo, Emilio, che ha udito le ultime parole).

Emilio                              - (ad Armando) Non sogni che clienti ricche. (Romolo esce per la destra).

Armando                         - (rispondendo a Emilio) Sono quelle che mi servono. Io tra le mie clienti creo confronti, accendo rivalità, provoco desideri, diffondo notizie. Delle mie clienti io conosco vita, morte e miracoli. (Guarda verso il fondo, vede entrare la baronessa Elena Veisner) Eccone un'altra. Siedi là, come ieri, fa finta di leggere il giornale.

Emilio                              - (sedendo a una poltrona laterale e accingendosi a leggere un giornale) Ogni giorno così. In questa pol­trona io arricchirò notevolmente la mia cultura. (Entra, dal fondo, Elena. Armando s'inchina).

Armando                         - Buon giorno, signora baronessa.

Elena                               - (gli porge, con fretta, un fogliettino su cui sono scritte alcune ordinazioni) Ecco, Armando. Queste sono le ordinazioni della settimana. Vi raccomando il lapis per le labbra.

Armando                         - Conosco i gusti del signor barone. Non gli piace quel sapore di vainiglia ch'è in certi lapis mo­derni. Mi preme che il signor barone provi sulla vostra bocca soltanto sensazioni piacevoli.

Elena                               - (sorridendo, sottovoce, come per un'intesa) E io... mi fermo qui per un'ora.

Armando                         - Ho capito tutto.

Elena                               - (lo guarda) Ecco. Bravo. Mi raccomando.

Armando                         - Sono infallibile, signora baronessa.

Elena                               - (accennando all'uscita di destra) Esco da questa parte?

Armando                         - Naturalmente. Sembra un'uscita di servizio; ma è un ingresso padronale... (Si inchina) Riverisco, signora baronessa. In bocca al lupo! (Elena esce in fretta per la destra. Armando si rivolge a Emilio) Ti piace?

Emilio                              - Non l'ho guardata.

Armando                         - Male. Vuol dire che leggevi sul serio. Ma nei giornali non c'è nulla di più interessante che nella vita. Il volto di una donna bella insegna più cose che un articolo sul surrealismo. (Suona un campanello) Io non ti ho detto di leggere; ti ho detto: « Fa finta di leggere ». (Rientra dal fondo Rina. Armando le dà il fogliettino di Elena) Prepara questa roba per la baronessa Veisner. Il lapis, color ciclamino.

Rina                                 - (prendendo il foglietto) Di quale marca?

Armando                         - (con intenzione) La solita. « Costante ». Non va via facilmente; non lascia sbavature. (Rina esce per il fondo. Armando continua) La marca « Costante » va bene per le donne infedeli, dal momento che esse hanno la costanza dell'infedeltà. La baronessa Veisner, che tu non hai guardata ma che sarà bene tu guardi, è costantissima nel mancar di rispetto a suo marito. In compenso, protegge i suoi amici, li aiuta, li lancia negli affari, li fa vincere in borsa. Te ne parlai la prima volta che c'incontrammo. Non ti ricordi?

Emilio                              - (lo guarda) Ah, è lei! Per questo, vuoi che io venga qui?

Armando                         - E' orribile, lo so. Ma io non ho la tempra dell'apostolo, non ho il tempo di sovvertire l'ordine, o meglio, il disordine costituito. TI raccomando la castità delle commedie, non quella dei costumi. Bisogna accet­tare la vita com'è e dipingerla come si vorrebbe che fosse. L'arte è evasione dalla realtà.

Rina                                 - (dal fondo) Quanto debbo segnare il lapis della baronessa? Cinquanta lire?

Armando                         - No. Ottanta. (Gesto di Rina come per dire: « Così caro? »).

Rina                                 - Ottanta?

Armando                         - Allora, novanta. E niente commenti.

Rina                                 - (ricomponendosi) Bene, signor Armando. (Esce).

Armando                         - (continuando a parlare a Emilio) Del resto, il mio programma nei tuoi riguardi è semplice; e se lo accetti, bene, se no peggio per te. Io intendo lanciarti nel gran mondo, farti guadagnare molto denaro. (Si ferma, guarda nel vuoto) Così come c'era un parrucchiere per signora, fra i personaggi sognati dalla mia fantasia gio­vanile c'era anche un giovane, simile a te, assetato di fama: la sola cosa per la quale si lavora, si combatte e qualche volta perfino si scrive. Immaginavo questo gio­vane nella classica soffitta, arso dall'impazienza d'arrivare. Arrivare dove? Qual è, dunque, questo punto d'arrivo? La fama. La gloria. E che cos'è la gloria se non uno dei tanti mezzi per toccare il benessere materiale, la ric­chezza? Ecco, s'apre la porta della soffitta, entra un tale con tutti i segni della ricchezza e della potenza, batte una mano su la spalla del giovane: «Sei degno di una vita migliore, il tuo spirito s'inaridisce e s'avvelena fra tanta scarsezza di beni materiali, è ingiusto che il tuo benessere coincida con il tuo tramonto o stia soltanto al di là della tua vita; eccoti l'oro che cerchi, sappi godere ». Forse è l'ultima mia illusione; ma nella incoerenza del sogno, ho sperato talvolta di essere io stesso quel tale, di portare io stesso il sacchetto d'oro.

Emilio                              - (sorridendo, triste) Ma tu non me lo porti, questo sacchetto d'oro. Vuoi che io mi pieghi a racco­glierlo nel fango della strada.

Armando                         - Meglio piegarsi a raccoglierlo, farsi un po' di male. So bene che talvolta nell'artista e nel letterato sonnecchia l'anima del mantenuto. Ma farsi mantenere si addice piuttosto alle donne che ai poeti.

Emilio                              - In altri termini, per uscire dai sogni e dalle metafore, per mettere un po' d'ordine nelle nostre idee e nei nostri rapporti, tu mi mostri la vita com'è, le donne come sono, vale a dire tali e quali io le ho descritte nelle mie commedie sfortunate, e vuoi che me ne serva non più per descriverle come sono ma per batter moneta; perché questo, in ultima analisi, sarebbe il mio punto d'arrivo. Una volta arrivato, io mi metterei a descrivere la vita e le donne non più come sono, ma come vorrei che fossero. O addirittura smetterei di scrivere e mi metterei a fare, per esempio, il parrucchiere per signora.

Armando                         - Non è una professione facile, te l'assicuro. Richiede tatto, prudenza, esperienza della vita: qualità da vecchie dame, da donne gaudenti in pensione. (Suona il telefono. Armando va rapidamente a rispondere) Pronto?... Armando... Oh, buon giorno, signor barone... (Un po' imbarazzato) Sì... cioè... mi pare... rientro in questo momento e non so... Ecco: guardo subito, signor barone... (Pone la mano sul microfono; poi, in fretta, a Emilio, indicandogli il telefono) Per piacere, qua. (Emilio si avvicina, Armando continua) Tieni la mano su questo microfono.

Emilio                              - (ponendo la mano sul microfono che gli porge Armando) Ma che c'è?

Armando                         - Un momento. (Forma un numero all'altro telefono, parla sottovoce) Pronto? Sono Armando. Siete voi, baronessa? Vostro marito chiede di voi... No, è al telefono... Va bene. Ma presto; il signor barone crede che siate qui a farvi i capelli già da due ore... Ho capito; aspettate... (Riprende dalle mani di Emilio il microfono dell'altro telefono, parla) Pronto?... Sì, signor barone; la signora baronessa è qui... Già; ma voi sapete che la si­gnora baronessa è esigentissima. Si sta facendo la per­manente. Che cosa debbo dirle, signor barone?... Benis­simo, signor barone. ("Depone il microfono, togliendo la comunicazione; torna e parlare all'altro telefono) Pronto? Il signor barone sarà qui fra poco. Bisogna che vi affret­tiate a venire... Sì, sì, dall'entrata del cortile. Avverto Romolo. (Depone l'altro microfono, chiama) Romolo!

Romolo                            - (dalla destra) Dite.

Armando                         - (con uno sguardo d'intesa) Fra poco, dalla parte del cortile, verrà la baronessa. Appena arriva, av­vertimi.

Romolo                            - Penso io. (Esce per la destra).

Armando                         - (a Emilio) Dunque, dicevamo?

Emilio                              - (ironico, con intenzione) Vedo che tu non dici; fai...

Armando                         - (senza darsene per inteso) Dicevo che la mia è una professione difficile. Ma non c'è solo la mia. Ce ne sono altre, egualmente redditizie e, nel giudizio della società, più elevate. Quella dell'uomo d'affari, per esempio: ti vorrei lanciare negli affari.

Emilio                              - (con intenzione) Affari... del genere che fai tu?

Armando                         - (sempre senza darsene per inteso) Affari è un termine generico, elastico, si capisce. Dumas figlio diceva che gli affari sono il denaro degli altri. Non ti basta? (Guarda con la coda dell'occhio verso la profu­meria, vede entrare il barone Paolo Veisner, dice fra se) Ecco già il barone. (Chiama verso destra, senza smuo­versi) Romolo!

Romolo                            - (dalla sua cabina di destra) Prego.

Armando                         - E' arrivata la baronessa?

Romolo                            - Non ancora, signor Armando.

Armando                         - Va, aspettala nel cortile. (Romolo esce. Armando si volge verso il fondo, per dove entra il ba­rone Paolo Veisner, s'inchina, saluta) Buon giorno, signor barone.

Paolo                               - Buon giorno. Dov'è mia moglie?

Armando                         - (senza tradire il suo imbarazzo) L'avverto subito, signor barone. C'è qua, intanto, il marchese Emilio Falasca, che mi domandava di voi, desidera conoscervi...

Paolo                               - (stendendo la mano a Emilio) Barone Veisner. Piacere.

Emilio                              - (imbarazzatissimo) Il piacere è mio...

Armando                         - (intervenendo subito) Il signor marchese Falasca è il maggior esponente di una fabbrica di mat­tonelle di legno per pavimenti; e siccome nelle famiglie l'uso delle lucidatrici elettriche si diffonde moltissimo il marchese desidererebbe entrare in rapporti con voi, che avete la più grande fabbrica di lucidatrici.

Paolo                               - (interessandosi) Ah, bene. La fabbrica con cui tratto adesso non mi va. Venite a trovarmi, marchese. Credo che potremo fare buoni affari insieme. (Intanto Romolo è riapparso sulla porta della sua cabina e fa segno ad Armando che la baronessa è arrivata. Paolo, a sua volta, si volge ora ad Armando) Be', e mia moglie dov'è?

Armando                         - Ecco, signor barone, l'avverto subito. (Si avvicina alla cabina di Romolo, schiude Fuscio, parla verso l'interno) Signora baronessa, qui c'è il signor barone.

Paolo                               - (avvicinandosi anche lui e guardando nella ca­bina) Nini, ma quando ti sbrighi?

Armando                         - (tentando d'impedire a Paolo di guardare nell'interno) Ah, Ah! signor barone! La signora baronessa non vuole essere veduta, se prima non è pronta. Ci tiene a mostrarsi a voi come si deve.

Paolo                               - (allungando il collo) Nini! Ma tu sei ancora spettinata.

Armando                         - (inventando) Spettinata? Signor barone, quella è una nuova acconciatura!

Paolo                               - E che acconciatura è? E' qui da due ore, e pare che si sia alzata adesso dal letto.

Armando                         - Appunto, signor barone. E' l'acconciatura detta « del risveglio ». Dà al volto femminile un'aria un po' trasognata, stanca.

Elena                               - (entra aggiustandosi alla meglio il cappellino sulla chioma spettinata) Scusa, Paolo. Non sapevo che tu saresti venuto a prendermi.

Paolo                               - (guardandola) E che hai sul viso?

Elena                               - (imbarazzata) Niente.

Armando                         - (intervenendo, soccorrevole) Ah, forse il signor barone parla di questo piccolo segno scuro.

Paolo                               - E' un livido.

Armando                         - Sì; ma roba da niente. Forse il ferro dell'ondulatore...

Elena                               - Ah, già, il ferro.

Armando                         - (a Elena, con intenzione) Signora baronessa la prudenza non è mai troppa. Quei ferri sono pericolosi.

Elena                               - Passerà. (Poi a Paolo) Andiamo direttamente a casa?

Paolo                               - No, cara. Ti chiedo scusa. Ero venuto appunto per dirti che ho una riunione del Consiglio d'Ammini­strazione. Se vuoi, posso soltanto accompagnarti a casa con la macchina.

Elena                               - Eh, ma allora non serve. Va pure. Io, adesso, ho da farmi le mani; ho da fare delle altre spese...

Paolo                               - Be', ciao! Verrò a prenderti più tardi. (A Emilio) Caro marchese, dunque vi aspetto. Vedrete che ci metteremo d'accordo.

Emilio                              - Grazie.

Paolo                               - (ricordandosi di non aver fatto le presentazioni) Il marchese Emilio Falasca; mia moglie.

Emilio                              - (inchinandosi) Piacere.

Elena                               - (con un sorriso, guardandolo) Il piacere è mio.

Paolo                               - (con fretta) A più tardi. (Bacia rapidamente la mano alla moglie, si avvia verso il fondo).

Armando                         - (seguendo Paolo fino alla vetrata)Rive­risco, signor barone. (Lo segue con lo sguardo, lo vede uscire, s'inchina prima che egli sia uscito).

Elena                               - (contemporaneamente a Emilio) Siete uno dei pochi amici di mio marito che io non conosca.

Emilio                              - (imbarazzato) Io e vostro marito ci siamo conosciuti adesso.

 Armando                        - (che nel frattempo s'è avvicinato) Cono­scenza d'affari; faranno degli affari insieme. Ma il marchesino non è soltanto un uomo d'affari, è anche un let­terato, un commediografo. La sua ultima commedia «La donna inquieta »...

Elena                               - L'ho sentita.

Armando                         - Ahi!

Elena                               - Perché « ahi »?

Armando                         - No, dicevo: ahi, mi sono dimenticato di dare alcune disposizioni per conto della signora princi­pessa di San Venanzio. Con permesso. (Esce per il fondo).

Emilio                              - (dopo aver dato uno sguardo impaziente ad Ar­mando, si rivolge a Elena un po' ironico) E... dove avete visto la mia commedia?

Elena                               - Ma... a Roma, no?

Emilio                              - La mia commedia non si è mai data a Roma.

Elena                               - Allora... forse... a Milano?

Emilio                              - Nemmeno a Milano, baronessa.

Elena                               - (seccata) Pazienza!

Emilio                              - Tuttavia, non crediate che io non apprezzi la cortesia con cui volete illudermi sulla celebrità delle mie commedie.

Elena                               - (fredda) Mi attribuite una cortesia eccessiva. In realtà, si vedono tante commedie: è facile sbagliare.

Emilio                              - Adesso volete punirmi di non aver risposto con una bugia cortese alla vostra cortese bugia.

Elena                               - Oh, perbacco! Prima volevo illudervi, adesso voglio punirvi. Ritenete, dunque, di essere tanto inte­ressante per me?

Emilio                              - (toccato, imbarazzato) Chiedo scusa.

Elena                               - (lo guarda, ride) Già, siete tanto giovane... (Sospira) Buon giorno. (Chiama) Romolo!

Romolo                            - (dalla sua cabina di destra) Agli ordini, signora baronessa.

Elena                               - Oggi è destino che mi pettini veramente. Pettinatemi. (Esce per la destra, entrando nella cabina di Romolo).

Romolo                            - (chiudendo la porta della cabina dall'interno) Prego. (Emilio è rimasto in piedi, tra deluso e imbam­bolato, a seguire con lo sguardo Elena e poi a guardare la porta chiusa della cabina. Così lo trova Armando, che rientra dal fondo).

Armando                         - Be'? Niente di fatto?

Emilio                              - (distratto) Che cosa?

Armando                         - T'ha detto di no?

Emilio                              - (coti muso) Ma io... non le ho chiesto niente.

Armando                         - (lo guarda bene, poi) T'ha detto di no!

Emilio                              - (un po' irritato) Ma poi, come ti viene in mente di presentarmi come marchese, come uomo d'af­fari?

Armando                         - S'incomincia così, mio caro. Ma di questo parleremo. Intanto mi preme dì sapere ch'è successo fra te e... (accenna alla destra, per indicare la baronessa).

Emilio                              - (irritatissimo) E che doveva succedere?

Armando                         - Non t'arrabbiare. Io non mi arrabbio mai. Lei incomincia così... ma poi... Le donne, come dire? liberali... non sono mica facili a capitolare. Soprattutto con i giovani. L'amore, i giovani se lo debbono guada­gnare. E' verso i quarant'anni che l'amore viene a noi. Prima, siamo noi che dobbiamo cercarlo, inseguirlo, rag­giungerlo, conquistarlo. Tu, per esempio, hai messo le mani su quella povera Anna - bello scherzo! - promettendole perfino di sposarla. E che ci vuole a con­quistare una donna con la promessa del matrimonio? Il difficile è conquistarla senza prometterle niente! Ora, purtroppo, Anna è un ostacolo sulla tua strada. Se non la sposi, certo passi per crudele; ma se la sposi, sei fritto.

Emilio                              - (indignato) Tu... parli tu, giudichi tu, fai tu...

Armando                         - (senza darsene per inteso) L'ami ancora? (Una pausa) Non l'ami. Forse non l'hai amata mai. Im­pazienze epidermiche. Del resto, penseremo anche a lei. L'essenziale è che tu ora sia libero. Hai bisogno di tutta la tua libertà.

Emilio                              - (ostile) Per fare che cosa?

Armando                         - L'uomo d'affari. E, a tempo perso, se vuoi, anche il poeta.

Emilio                              - (ironico) Ah, grazie!

Armando                         - I miei discorsi t'indignano, la mia vita ti scandalizza; ma tu qua vieni. E' una settimana che ci vieni. Ti servi dal mio sarto, dal mio camiciaio, dal mio calzolaio; abiti in un albergo che pago io, vivi del mio denaro... Io sono il tentatore, il corruttore; ma alla ten­tazione non sfuggi, la mia opera di corruzione turba e sconvolge ogni tua resistenza. E in fondo che cosa voglio io da te? Voglio salvarti. Ti ho improvvisato uomo d'af­fari, esponente di una fabbrica di pavimenti di legno. E' una fabbrica che mi appartiene, lavorerai per conto mio. Ti ho nominato marchese, come se io fossi un sovrano. Non importa, lascia fare, lo sarai. Le nobiltà del sangue erano quasi tutte, alle origini, nobiltà del censo. Se avessi avuto un figlio, avrei fatto tutto questo per mio figlio. Ma non l'ho. Lo faccio per te che sei della mia razza.

Emilio                              - E sei sicuro che se avessi avuto un figlio, tu l'avresti fatto per tuo figlio? Vale a dire avresti rapito tuo figlio ai suoi sogni, ne avresti fatto un cinico uomo d'affari, un conquistatore di donne tra facili e difficili, un mancatore di promessa matrimoniale...

Armando                         - (lo guarda) La tua domanda vuol mettermi in imbarazzo?

Emilio                              - No. Vuole una risposta. Rispondi.

Armando                         - (dopo averlo guardato ancora) In me, al­meno, gl'ideali erano intatti; vivevano senza compro­messi. In te, invece, si flettono, si piegano, là all'antici­pazione del rito nuziale, qua all'accettazione di denaro non sudato...

Emilio                              - (offeso) Vedo che non sei generoso, sei spietato !

Armando                         - Ma no! Metto a prova la tua adattabilità, saggio il tuo orgoglio.

Emilio                              - In altri termini, pentito del bene materiale che m'hai fatto, m'inviti a ritirarmi...

Armando                         - Ma no, ma no! Ti aiuto a capirti. Voglio farti intendere che sei sulla buona strada. Ci sei natu­ralmente. Per me... invece... fu una lacerazione improv­visa, uno strappo. Sono andato in frantumi come un vetro che si rompe.

Emilio                              - (lo guarda, ora, anche lui con curiosità) Un dramma.

Armando                         - Ecco.

Emilio                              - Un dramma d'amore. (Una pausa) Una donna.

Armando                         - Mia moglie. (Una pausa) Ero ancora gio­vane, quasi quanto te. L'avevo sposata per amore. L'amavo. Credevo all'amore. Al mio e al suo.,.

 Emilio                             - Ho capito. (Una pausa lunga. Suona il te­lefono).

Armando                         - (riprendendosi subito, ritornando come prima) Pronto? Armando... No, signora. Niente profumi esteri. Dall'estero, ormai, non arrivano che cattivi odori. Prego. (Depone il ricevitore. Nel frattempo, dal fondo, è entrata la signorina Clara Sutri).

Clara                                - (rapida) Sono in ritardo?

Armando                         - (come pensando ad altro) Siamo tutti in ritardo, signorina.

Clara                                - Allora posso farmi la permanente?

Armando                         - Mi dispiace. Siamo tutti impegnati.

Clara                                - Ma non avevate appuntamento con me?

Armando                         - (con intenzione) Dove?

Clara                                - (senza capire) Oh, lallà! E come faccio ora? Posso presentarmi così al mio fidanzato? Bisogna che con lui i miei capelli siano sempre in ordine. Non fa che dirmi : « Dammi i tuoi capelli » !

Armando                         - Perché? E' calvo?

Clara                                - (alza le spalle con disappunto, esce rapida per il fondo).

Armando                         - (a Emilio) Non ti meravigliare. Ha un vecchio conto di mille lire nel mio negozio. (Lo guarda) Ma già, tu eri distratto. Sei diventato silenzioso. Non ci pensare. La vita è breve. (Una pausa) Un giorno io lo scrissi il mio dramma: il dramma di un uomo innamo­rato che vede sparire la propria donna così, improvvi­samente, senza ragione. Non ci ha creduto nessuno. Nes­suno crede, a teatro, che una donna possa sparire così, improvvisamente, senza ragione. Le donne sono infedeli per natura ma decise a credersi infedeli per caso o per necessità. Non vale la pena di convicerle del contrario. Meglio accettarle come sono, e trattarle come sono. Hai visto, poco fa, il barone Veisner? Egli conosce bene sua moglie, sa tutto. Ma agisce come se non sapesse. Vol­garmente, si dice: è un filosofo. La letteratura dell'Otto­cento è tutta una filosofia di quello che i francesi chia­mano «cocuage ».

Emilio                              - E tu... agiresti come lui, se fossi nei suoi panni?

Armando                         - Non mi ci metto.

Emilio                              - E se fossi già, nei suoi panni?

Armando                         - Mia moglie me lo ha evitato, facendomi perdere le sue tracce.

Emilio                              - Non hai saputo più nulla di lei? Non l'hai cercata?

Armando                         - A che serviva? Una moglie che non rientra in casa propria ha certo varcato la soglia di un'altra casa. Ero troppo preparato spiritualmente a questo, per ripen­sarci. Non ci ho pensato mai più.

Emilio                              - Ti sei dato per vinto, insomma. E il tuo at­teggiamento, nella vita, sarebbe l'atteggiamento del vinto. Un fenomeno di reazione. Una donna ti ha mentito o ti ha tradito, e tu agisci di fronte alle donne come se somigliassero tutte a lei secondo la tua teoria. Fai di più: non le combatti, le aiuti.

Armando                         - Perché? Tu le combatti? Le combatti con le parole delle tue commedie?

Emilio                              - Le combatto come posso.

Armando                         - E intanto ne sposi una.

Emilio                              - Eh! Ma lei...

Armando                         - Aha, già! E' un'eccezione. La solita ecce­zione che ci riguarda.

Emilio                              - Che vuoi dire?

Armando                         - Niente. A teatro tu generalizzi. Nella vita invece... Trovo più coerente quel tale che, giudicando le donne tutte eguali, dovette rispondere a una domanda terribile: «Anche tua madre?». E lui, beato lui, poté rispondere di sì, perché era un trovatello. Era nato, forse, da un'anticipazione nuziale, E sia detto senza allusione alla tua Anna.

Emilio                              - Tu ce l'hai con Anna, perché... (Vuol dire: « Perché mi si è data »).

Armando                         - Non io ce l'ho con lei. Tu. Non le hai certo insegnato la rettitudine.

Emilio                              - Riparerò.'

Armando                         - Se non è tardi...

Emilio                              - Ma, insomma, si può sapere che cosa vuoi dire? (Ha uh attimo di esitazione, va al telefono, forma un numero, aspetta, depone dopo un poco il microfono, deluso).

Armando                         - (ironico) Non risponde? Non c'è? (Una pausa) Doveva esserci, e non c'è.

Emilio                              - (con rapida decisione) Ho il numero dell'unica amica ch'ella abbia a Roma. (Formando il nu­mero, lo ricorda ad alta voce) 8-7-54-3... (E aspetta che gli si risponda).

Armando                         - 87.543. Ma questo numero è quello., par­ticolare della baronessa Veisner.

Emilio                              - (mentre attende la risposta) Ma no! E' della famiglia Carra.

Armando                         - (pensieroso, incredulo) Sarà...

Emilio                              - (al telefono) Pronto?... Pronto... Sono Falasca. Per piacere, c'è la signorina Anna?,.. E... non c'è stata?... Grazie. (Deluso, depone nuovamente il micro­fono; poi, ad Armando, con la voce della delusione e del dubbio) Come... t'è venuto in mente... che quel numero sia...?

Armando                         - (falso) Avrò sbagliato.

Emilio                              - Ma... è un numero privato... oppure...? (Una pausa; poi esasperato) Sta bene!

Armando                         - (ipocrita) Non t'arrabbiare. Forse è uscita a fare una passeggiata, delle spese... (Una pausa) Non può essere.

Emilio                              - (a bassa voce, con rancore) No, non può essere. Forse s'è stancata e ha ragione. 0 forse hai ra­gione tu.

Armando                         - (ipocrita.) Vedi come sei impulsivo? Quando scrivi e quando vivi. Se ogni uomo dovesse du­bitare della sua donna perché non la trova per un mo­mento in casa...

Emilio                              - Smettila d'irritarmi. La tua ipocrisia, con me, non attacca. Preferisco che tu sia convinto di aver -fatto bene ad aprirmi gli occhi. So quel che mi dico. Volevi che fossimo d'accordo? Lo siamo. Accetto in pieno la tua teoria, le tue proposte. Se la vita è così, sia come vuol essere!

Armando                         - (sempre ipocrita) Le solite esagerazioni giovanili... Dopo tutto, l'hai visto: la baronessa ti ha detto di no...

Emilio                              - Lascia fare. Mi dirà di sì. Del resto, lei o un'altra...

Armando                         - (insinuante) Oh... quanto a questo... meglio lei che un'altra, per ora. Se tu veramente fossi deciso a lanciarti nel gran mondo, nel mondo degli affari...

Emilio                              - Sono decisissimo.

Armando                         - (ipocrita) Preferisco che tu ci pensi...

Emilio                              - Ma non ci penso neanche per sogno. Non voglio pensarci più. Alla guerra come alla guerra! Tu volevi che la vita si ripetesse? Ecco che si ripete per­fettamente. Accada per me quello che è accaduto per te. (Entra dalla destra Elena, che è tutta linda, lucente, ben pettinata).

Armando                         - (complimentoso) Signora baronessa! Siete più bella del solito. Bellissima.

Elena                               - (sorridendo, scherzosa) Posso andare al cine­matografo?

Armando                         - Io non ci vado mai. Ho, fra le mie clienti, troppe dive dello schermo. Ma non al cinematografo voi potreste andare, sebbene in un teatro di posa. Sarebbe tempo che le parti da signora fossero affidate alle signore vere.

Elena                               - Dicono che la vita del cinema sia moralmente dissoluta.

Armando                         - Non lo so. Io non mi sono assunta la cura delle anime delle mie clienti ma quella dei corpi; e nem­meno di tutte le parti del corpo.

Elena                               - Avete scelto la più importante: la testa.

Armando                         - Non sempre è la più importante.

Elena                               - E la più esposta ai conflitti fra la donna e i capricci della natura. E' anche la più esposta al moralismo dei pedanti.

Armando                         - Già! I pedanti dicono: La natura ti ha dato una testa, e tu te ne fai un'altra. Questi pedanti si radono, portano occhiali, usano cornetti acustici...

Emilio                              - (invertendo) D'altra parte, non credo che due labbra esangui siano preferibili a due labbra dipinte o che la chioma incolta di una selvaggia valga la vostra, appena uscita dalle onnipresenti mani di Armando...

Armando                         - Troppo buono, signor marchese. Il signor marchese oggi è con me generosissimo. (Guarda Emilio, con intenzione, parlando a Elena) Oggi ha comprato, ha voluto che gli cedessi, la mia macchina nuova, quella che è nel cortile...

Elena                               - Ah, è vostra quella bello macchina?

Armando                         - Non più mia. Del marchese. Sono felice di avere indovinato il suo gusto. Me l'ha pagata più del suo valore. (Poi ad Emilio) La proverete subito, spero.

Emilio                              - (che ha capito ma non sa guidare l'automobile) Ma... veramente... quando una macchina è nuova.»

Armando                         - (che ha capito anche lui) Non ci sono che le donne, audaci! Ci scommetto che la signora baronessa…..

Emilio                              - Ah! Se la baronessa volesse farmi questo onore...

Elena                               - (a Emilio) E perché no? Oggi è una buona giornata per me e ho deciso di farvi qualche sorpresa. A meno che, marchese, voi non abbiate, paura che io vi uccida.

Emilio                              - Non chiederei di meglio che di morire per vostra mano.

Elena                               - Se è così... Ecco, vi precedo. (Si avvia per l'uscita riservata di destra).

Armando                         - (sottovoce, a Emilio) Bisogna imparare a guidare l'automobile. E' più facile che governare la testa delle donne.

Emilio                              - Imparerò anche questo. (Esce, seguendo Elena).

Armando                         - (dalla soglia) In bocca al lupo! .

Romolo                            - (dalla porta della sua cabina) Signor Ar­mando, avete visto come ho pettinato bene la baronessa? Ho imparato alla perfezione il vostro mestiere.

Armando                         - (distratto) Quale? (Romolo si ritira sor­ridendo. Nel frattempo, dal fondo, arriva Anna).

Anna                                - Buon giorno.

Armando                         - Buon giorno, Anna.

Anna                                - (guardando intorno) Credevo di trovare Emilio.

Armando                         - Non s'è visto.

Anna                                - Mi ha detto che sarebbe venuto qui. (Una breve pausa) Me lo ha detto per telefono, perché io non lo vedo da tre giorni. Da tre giorni io sono febbricitante, e lui non si degna di farsi vedere. Una breve telefonata: «Vado dallo zio », e basta. Vedo, finalmente, che da voi non viene nemmeno quando me lo dice... Non valeva, dunque, la pena che io mi alzassi, con la febbre... (Un'altra pausa; lo guarda) Voi non avete niente da dirmi? Ci avete separati, per ragioni di « convenienza ». Io ho la mia bella camera, la mia pensione... (Amara) Mi pare che basti.

Armando                         - Mi dispiace che siate febbricitante. Avete fatto male a uscire. E' la prima volta che uscite dopo tre giorni?

Anna                                - Sì. E perché me lo domandate?

Armando                         - Così. Vi siete fatta visitare dal medico?

Anna                                - No.

Armando                         - E perché?

Anna                                - Non mi è parso necessario. Del resto, non è parso necessario neanche a lui...

Armando                         - Al medico?

Anna                                - No. A Emilio, al mio affettuosissimo « fidan­zato ».

Armando                         - (con un lieve imbarazzo) Voi... permet­tete che ve lo ripeta... avete peccato di... eccessiva ar­rendevolezza.

Anna                                - (amara) Ah, già! Forse per vizio, forse per calcolo... (Riscaldandosi) Ma, insomma, voi che sapete tutto, voi che giudicate tutti, non avete mai amato?

Armando                         - (alzando le spalle) Non so. (Poi, dopo una breve pausa) Forse una volta; per errore.

Anna                                - (con calore crescente) Avete amato, sia pure per errore, e vi siete dimenticato dell'ansia, della febbre, del bisogno d'abbandono, che è l'amore quando è forte! Io ero sola, non avevo nessuno, mi ero innamorata, sono ancora innamorata, fino alla pazzia; e secondo voi, «per non peccare d'arrendevolezza », avrei dovuto strapparmi il cuore* mettermelo sotto i piedi...

Armando                         - Non vi riscaldate. Vi fa male.

Anna                                - Credete che mi faccia meno male la vostra fredda aria di giudice? E' facile, dal di fuori, pronun­ziare sentenze, giudicare l'amore altrui con la presuntuosa saggezza di chi non è a parte in causa. Ma io so... (si com­muove)... che avrei dato e darei ancora oggi tutta la mia vita per lui, anche vedendolo sempre inseguire la sua arte, la sua fama, la sua gloria, dimentico di me, separalo da me, che pure qualche volta sono stata la sua gioia. Lui rincorre la sua « gloria » come se fosse una ladra da acciuffare; e una ladra è. Per lei mi prende, mi lascia, mi riprende, un po' come se la portassi io sotto la pelle, un po' come se fossi io a fargliela sfuggire di mano...

Armando                         - (un po' turbato) Ma forse... egli non sa... forse non crede che una donna possa amare come voi dite di amarlo. La vita è piena di tante infedeltà, di tante bassezze...

Anna                                - E che diritto ha lui di giudicare la vita così? Io a lui non ho chiesto che amore. Anche nelle condi­zioni in cui mi trovo, non gli ho chiesto che amore. E di me gli ho dato tutto.

Armando                         - L'amore è una ricchezza che bisogna pos­sedere, per darne.

Anna                                - Volete dire che non mi ama?

Armando                         - Non lo so. Ma, a giudicare dalle teorie pessimistiche che professa sulle donne...

Anna                                - E già! Le teorie! Le donne sono fatue, leg­gere, incostanti... Ma qualche volta sono gli uomini a farle così; e qualche altra volta gli uomini le giudicano così per giustificare il loro egoismo, il loro cinismo, la loro vigliaccheria. Voi, siete stato mai tradito da una donna?

Armando                         - (dopo una breve pausa) Sì.

Anna                                - (lo guarda) E come?

Armando                         - La fuga.

Anna                                - Lei è fuggita? Con un altro?

Armando                         - Non so. E' fuggita, non è più tornata a casa.

Anna                                - E voi l'avete ricercata?

Armando                         - No.

Anna                                - Non avete saputo più nulla di lei? Neanche se è viva, se è morta.

Armando                         - No.

Anna                                - Avevate ragione di dubitare ch'ella vi tradisse?

Armando                         - (ha Varia di ripensarci; poi, a bassa voce, come turbato) Non so.

Anna                                - E forse non ci avete mai pensato. (Lo guarda a lungo, poi) Vi voglio raccontare un fatto. Io non so che cosa sia successo della donna che voi dite; né so ora perché mi viene in mente questo fatto; ma ve lo voglio raccontare. Una donna, il mese scorgo, si era allontanata di casa e non vi era più tornata. Il marito l'aveva de­nunziata per abbandono del tetto coniugale e per pro­babile adulterio. Questo marito è un avvocato. Pochi giorni fa egli è capitato alla « morgne » e vi ha trovato il corpo della moglie fra i cadaveri non identificati. Era stata investita da un autotreno e non aveva addosso nessun documento personale. (Gesto di Armando; ella continua rapida) Vi sembra puerile lo so; o, nella mi­gliore delle ipotesi, romanzesco. Ma gli uomini « infal­libili», gli sceltici, i cinici non sono meno infallibili o romanzeschi nel giudicare. Essi giudicano spesso dalle sole apparenze. La vita è piena di bassezze; ma è anche piena di avventure. Bisogna giudicarla solo quando si hanno tutti gli elementi di giudizio.

Armando                         - (con un sorriso amaro) Mia moglie non fu investita da nessun autotreno. (Si ferma, sembra avere un dubbio, scrolla le spalle) Mi pare che l'autotreno a quel tempo non esistesse neppure... (Si muove un po' nervosamente) Ma perché, ora, parliamo di queste cose?

Anna                                - Ve lo dico io. Perché Emilio ha deciso di sbarazzarsi di me, e probabilmente voi siete incaricato di farmi la gentile comunicazione...

Armando                         - (nervoso, distratto) Ma, no, ma no!

Anna                                - A telefono non solo m'ha parlato freddamente per tre giorni; ma mi ha fatto certi discorsi strani, oscuri... Qui non s'è fatto trovare...

Armando                         - (masticando le parole, ma fermo all'immagine dell'autotreno) Be', non sarà andato sotto un auto­treno...

Anna                                - Può darsi che ci vada io...

Armando                         - (come risvegliandosi) Ma che dite! (Le si avvicina, la guarda, diventa paterno) Andate a casa. Fra poco Emilio verrà a trovarvi. Oppure tornate qui voi; lo troverete.

Anna                                - (colpita dal tono della voce di lui) Debbo credere al tono della vostra voce?

Armando                         - (ancora paterno, accarezzandola) Andate, andate. (Senza dire altro, lentamente, con gli occhi pieni di lagrime, Anna si volta, si avvia verso l'uscita del fondo. Armando la segue con lo sguardo, aspetta che ella sia uscita, sospira, fa Fatto di riprendersi, cerca con lo sguardo qualche cosa e non sa che cosa, sembra ricor-darsi di dover telefonare. Va al telefono, si pente, suona un campanello).

Romolo                            - (entrando) Prego.

Armando                         - (distratto) Quell'autotreno di colonia...

Romolo                            - (meravigliato) Quale autotreno?

Armando                         - (irritato, come se non fosse stato egli stesso « pronunciare la parola) Che cosa?

Romolo                            - Non so. Avete detto così: «Quell'autotreno di colonia »...

Armando                         - (irritatissimo) Io? Ma no. Quella partita di colonia. E' possibile che qua dentro, oggi, non si debba parlare che di autotreni? Va a prendere quella partita di colonia che è arrivata oggi. Avanti!

Romolo                            - (disorientato, umile, esce per il fondo) Vado, vado...

Armando                         - (fra sé, a se stesso) Be'? Armando! Ti arrabbi anche tu? (Sorride alzando le spalle) Che stupido !

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

La stessa scena del secondo alto. È  imminente l'ora della chiusura del negozio. Tutti i lavoranti, le commesse ecc. sono nella profumeria, al di là della vetrata, a mettere in ordine la sala e le vetrine, a fare i conti.

 (Quando si alza la tela, Romolo e Ugo entrano dal fondo levandosi i camici da lavoro, e si avviano ciascuno verso la propria cabina per indossare la giacca).

Romolo                            - Speriamo che il signor Armando non si faccia attendere troppo.

Ugo                                 - 'E' la prima volta che si allontana dal negozio a quest'ora.

Romolo                            - Da quando c'è suo nipote, ha cambiato umore.

Ugo                                 - E' vero. Non è più del suo umore solito. Certo, fa cose che prima non faceva. Si muove di più, si agita di più. Direi ch'è più allegro; ma è anche più distratto.

Romolo                            - (contando le mance che ha nella tasca del camice) Oggi è stata una giornata magra. Cinquantasei lire.

Ugo                                 - (contando, a sua volta, le sue) Trentaquattro. Tu hai più successo di me, presso le clienti.

Romolo                            - Le tratto bene. «Come siete bella, signora! Come state bene! Che bei capelli avete! ». Il signor Armando ha ragione : « Solo la vanità lusingata può vin­cere l'avarizia delle donne ». (Entrano dalla destra Elena ed Emilio di ritorno dalla loro gita in automobile. Romolo saluta) Buona sera, signora baronessa.

Ugo                                 - Buona sera.

Elena                               - Non s'è visto mio marito?

Romolo                            - No, signora baronessa.

Elena                               - M'aspetterà a casa. E Armando dov'è?

Romolo                            - E' uscito, signora baronessa. Avete ordini?

Elena                               - No, grazie. (Romolo e Ugo escono per il fondo e si fermano nella profumeria. Elena si rivolge a Emilio) Siete contento della gita?

Emilio                              - Contentissimo. Vi ringrazio. Ringrazio voi e ringrazio Dio che mi ha fatto tornare qua incolume.

Elena                               - Avete avuto paura?

Emilio                              - No. Ma voi portate la macchina come un corridore deciso a vincere il primo premio. Siete un Nuvolari in gonnella. Per fortuna, la pista era libera. Ma voi, appunto, avete bisogno di piste, non di strade. Non so come ve la caviate per via Nazionale e per il Corso, nelle cosiddette ore di punta.

Elena                               - Me la cavo benissimo. Sempre.

Emilio                              - In tutto?

Elena                               - In tutto.

Emilio                              - Non avete mai avuto un incidente?

Elena                               - Sì, parecchi. Ma li ho superati.

Emilio                              - Anche fuori della macchina... andando a piedi... nella vita?

Elena                               - La vostra insistenza è inutile. Ho già capito che le vostre domande vogliono essere allusive, maliziose, insidiose. Ma me la 6ono cavata benissimo anche nella vita... con perfetta soddisfazione mia e delle persone che mi circondano.

Emilio                              - (con intenzione) Mi rallegro con voi e con loro. (Poi, con un sorriso che vuole attenuare l’audacia della domanda) Ma... quali sarebbero « loro », oltre vostro marito?

Elena                               - (lo guarda) Siete tanto giovine... che posso perdonare anche la vostra impertinenza. La vostra im­pertinenza, più che giovanile, è addirittura infantile. Non ho ancora capito perché gli uomini osino tanto con me. C'è, in me, qualche cosa che provoca l'impertinenza altrui. Che cos'è? Il mio volto? Il mio corpo? Il mio modo di vestire? O forse la facilità cameratesca con cui mi av­vicino agli uomini e mi lascio avvicinare da loro?

Emilio                              - (un po' imbarazzato) Voi guidate le vostre parole con la stessa velocità con cui guidate le macchine. Ma non vi nascondo che mi interessa il vostro sospetto di essere una provocatrice. In reo'là, ci sono donne che provocano l'audacia e l'indiscrezione, voi dite l'im­pertinenza, degli uomini: donne che accendono intorno a sé, irresistibilmente, curiosità, desideri. Soltanto ci sono provocatrici volontarie e provocatrici involontarie. In voi, certo, la volontà non c'entra.

Elena                               - Tuttavia, voi mi trattate come se c'entrasse E? così? Vi credete aggredito e mi aggredite. Non è la prima volta che mi capita, e non vi nascondo che il gioco mi diverte. Se fossi una donna ipocrita, direi che la corte degli uomini non mi piace. Poiché sono una donna sincera, dico che mi piace moltissimo. Ma vi av­verto che non è facile farmela; e se voi volete provare...

Emilio                              - Proverò.

Elena                               - Avanti!

Emilio                              - Debbo incominciare subito?

Elena                               - Sì.

Emilio                              - Decisamente la velocità è la vostra musa. Ma forse la corte a una bella donna non si fa per commis­sione, e tanto meno per intimazione. Debbo dirvi che mi piacete?

Elena                               - Sì. Ditemelo.

Emilio                              - Ecco: ve lo dico: mi piacete.

Elena                               - E poi?

Emilio                              - Mi piacete enormemente.

Elena                               - Sono proibite le ripetizioni.

Emilio                              - Avete deciso di mettermi in imbarazzo?

Elena                               - Sì.

Emilio                              - Ah, ah! (La guarda) E' proprio vero, dunque, che i giovani debbono guadagnarsi l'amore attraverso fatiche inenarrabili...

Elena                               - Questo ve l'ha detto Armando.

Emilio                              - Come lo sapete?

Elena                               - Conosco la teoria di Armando. Egli è mi parrucchiere psicologico, sociologo, e anche un po' me­tafisico. Si direbbe che prima di fare il parrucchiere abbia fatto, non so, lo scrittore, il moralista, anzi l'im-moralista alla maniera di certi poeti decadenti dell'ul­tima Francia. Naturalmente non ha alcuna stima delle donne, crede che l'unica felicità al mondo sia quella fatta con l'oro tempestato di brillanti, costruisce la vita delle sue clienti con le trovate della sua fantasia romanzesca; è subdolo, insinuante, leggermente paraninfo... Ci scom­metto che a quest'ora egli ci crede, crede me e voi, caduti dalla vostra macchina su un letto... di rose, mentre il barone Veisner è intento a cavare quattrini dal tumulto della borsa o dai tubi lucidi delle sue macchine spolve-ratrici, senz'avvertire il minimo prurito frontale. Anche di queste fantasie di Armando io mi diverto, come di tante altre cose. Ma oggi io sono in vena di confidenze, e voglio farvene una che sul principio vi sbalordirà. (Entra Armando dal fondo).

Armando                         - (distratto, come se pensasse ad altro) Buona sera.

Elena                               - Buona sera, Armando. Vi ho riportato il marchese Falasca incolume.

Armando                         - (sorride, distratto cercando qualche cosa sul tavolo) Ah, grazie.

Elena                               - Avete l'aria di non volermi dar retta.

Armando                         - (riprendendosi) Io? Chiedo scusa.

Elena                               - Vero è che ritrovarmi a quest'ora nel vostro negozio vi autorizza a pensare male di me.

Armando                         - Non mi permetterei, signora baronessa.

Elena                               - Dicevo, appunto, al marchese Falasca che conosco la vostra teoria sulle donne.

Armando                         - E' una teoria costruita sulla pratica; sulla pratica che ho delle donne. Ma voi...

Elena                               - (ironica) Sono un'eccezione.

 Armando                        - (dopo aver fatto il gesto di chi sta per «provare, cambia, guardandola) No... (Ed esce per il fondo, rapidamente).

Elena                               - (ride) Che maleducato!

Emilio                              - (imbarazzato, dopo un breve silenzio) Stavate per farmi una confidenza... sbalorditiva.

Elena                               - Ah, già!

Emilio                              - Vi siete pentita?

Elena                               - Non ho l'abitudine del pentimento. Forse perché non sono una... peccatrice. Non si direbbe, è vero? Già! Una signora che chiama il parrucchiere a proteggere le sue scappatelle... Chi potrebbe negare che le appa­renze siano contro di me? La verità è che i miei peccati sono diversi da quelli che immagina Armando.

Emilio                              - Cioè?

Elena                               - (dopo averlo guardato) Io sono una donna molto complicata, complicatissima. Eccovi la confidenza sbalorditiva, dunque. Non sarà la sola. Dovete prepararvi a una serie di sbalordimenti. Userò il mio metodo veloce. Incomincio dalla prima. Tutte le volte che Armando crede di proteggere i miei presunti adulteri, i miei neri tradimenti della fede coniugale, io mi reco a visitare un mio bambino, un mio figlio segreto. E' inutile che mi facciate quella faccia. E' così. E' un bambino che ho avuto prima delle nozze, da un uomo che non aveva troppo sviluppato il sentimento della paternità. Mio ma­rito mi accettò com'ero, respingendo solo il bambino che non gli apparteneva. Ma ora il bambino s'è fatto grande, mi chiama già mamma, mi scompiglia con le sue ma­nine le chiome quando vado a trovarlo; e siccome mio marito mi vuol bene, ha deciso proprio oggi di prenderlo in casa perché ha saputo che egli non è in un ospizio di trovatelli come credeva, ma in una casa mia, dove non potevo fare a meno di andarlo a trovare segretamente...

Emilio                              - (sbalordito) Ma... signora mia... voi mi state dicendo delle cose...

Elena                               - Ve le sto dicendo, perché voi siete Emilio Falasca, il fidanzato di Anna...

Emilio                              - Come Io sapete?

Elena                               - ...e io sono appunto l'unica amica che Anna abbia a Roma. Sbalordimento numero due. Quel numero di telefono, che qualche volta vi è servito a cercarla, è il numero della mia casa segreta, dove vive il mio bam­bino. Corrisponde al nome di Carra, ch'è il mio nome di signorina. So che Anna ha tenuto il segreto finora per non compromettermi; ma il caso ha voluto che io v'in­contrassi... in queste particolari circostanze... proprio oggi che il segreto non è più necessario... e ho voluto trattarvi da amico.

Emilio                              - (con un sorriso falso e imbarazzato) Grazie!

Elena                               - Ho voluto trattarvi da amico, anche per un'al­tra ragione. (Rientra Armando, dal fondo Elena continuo) Sbalordimento numero tre. So che Armando è vostro zio. (Sorpresa di Armando che la guarda con curiosità).

Emilio                              - (sconcertato) Olà! Ma voi sapete tutto...

Elena                               - Si viene dal parrucchiere anche per questo. E si informa il parrucchiere di tutto quello che si vuol far sapere.

Armando                         - (con tono allusivo) Io sono un parrucchiere discreto, signora.

Elena                               - Discreto anche nel giudicarmi, Armando?

Armando                         - Io mi sono assunta la cura di quello che è sopra la vostra testa, non di quello ch'è dentro. Del resto, voi mi chiamate per nome non per lusingarmi o per avvicinarmi a voi ma per tenermi a rispettosa di­stanza...

Elena                               - Per me le distanze sono abolite. Io so chi siete, Armando.

Armando                         - Vi ripeto che sono un parrucchiere.

Elena                               - Un parrucchiere, forse contro vocazione o per reazione».

Armando t                       - Ciascuno di noi è sempre quello che doveva essere.

Emilio                              - (intervenendo, a Elena) Non ho ancora capito che gioco è il vostro. Tutto, improvvisamente, mi sa di gioco, di premeditazione, di tranello.

Elena                               - (divertendosi) Di commedia, forse. A furia di scriverne, vedete commedie dovunque. Sono le ma­lattie professionali. Anche il cinico, a furia di professare il cinismo, ha come una benda davanti agli occhi, o, mettiamo, soltanto un paraocchi che gl'impedisce di ve­dere quello che non abbia davanti a sé. Ma non voglio apparire meno furba di quello che sono. Ci sono più incontri casuali nella vita che nelle commedie... 11 caso ha aiutato me, e io ho aiutato il caso. Pensavo che un giorno o l'altro qualche notizia della mia « infedeltà » giungesse all'orecchio dì mio marito. Così mi sarei fatta sorprendere nelle braccia di mio figlio e... «Vedi chi è il mio amante? Tu l'hai fatto uscire dalla porta, ed egli rientra in casa per la finestra; la finestra del mio amore di madre ». Ma la notizia non gli è venuta da questo negozio. Gli è venuta da una lettera anonima: «Se vo­lete sorprendere vostra moglie, andate nella casa tale, all'ora tale... ». L'effetto è stato lo stesso, lo stesso che io mi ripromettevo. Stasera mio marito verrà con me a prendere... il mio piccolo amante, dal quale mi sono recata un'altra sola volta in segreto, oggi, per liquiderò la governante, altri conti di natura amministrativa... Sono una donna complicatissima, ma ordinata. (Entra Romolo).

Romolo                            - Signora baronessa, c'è di fuori il signor barone. Vi aspetta.

Elena                               - Eccomi. Vado. (Romolo esce. Elena continua) Queste cose ve le avrebbe dette Anna, più tardi. Ho preferito dirvele io. Dal momento che dovete entrare in rapporti d'affari con mio marito, è bene che lo stimiate meglio. Me e lui. (Poi a Emilio) Vero è che vi rimane ancora un diritto; quello di credere che io abbia mentito. Ma ecco: 6iete invitato a venire a salutare il mio bam­bino domani, in casa mia, assieme con Anna; alla quale dovreste evitare, dopo il mio esempio, che anche per lei si possa ripetere, poniamo, la storia delfiglio segreto... Vi consiglio di sposarla, signor Falasca. Il matrimonio è un buon correttivo, per gli scettici e per i cinici. Abitua a guardare la donna con più fiducia... (Ride; esce ridendo. Armando ed Emilio la seguono con lo sguardo, poi sì guardano tra di loro, poi abbassano gli occhi per evitare di guardarsi, poi si riguardano. Dal fondo entra Romolo).

Romolo                            - Possiamo andare, signor Armando? Chiudete voi?

Armando                         - (pensieroso) Sì.

Romolo                            - Buona notte. (Romolo esce. Poco dopo si vede tutto il personale del negozio uscire per la destra, al di là della vetrata).

Armando                         - (dopo una pausa) Forse hai ragione tu, Emilio. Quella signora ha l'aria di prendersi gioco di noi.

Emilio                              - Non lei sola; anche Anna.

Armando                         - E' stata da me, Anna, poco fa. M'ha detto ch'è malata. Tu non mi avevi detto niente.

Emilio                              - Ebbene?

Armando                         - M'ha detto che, quando tu le hai telefonato, lei era uscita di casa, febbricitante, perché non ti vedeva da tre giorni...

Emilio                              - Sarà.

Armando                         - Tu non l'ami?

Emilio                              - (ironico, amaro) Aspetto che venga a riabi­litarsi anche lei, come la baronessa; come l’«onesta» baronessa, che ha prima un amante, poi un marito, poi costringe il marito ad accettare un figlio non suo... (Sar­castico) Il caso! Le circostanze! Gl'incontri fortuiti!

Armando                         - (ripetendo quasi macchinalmente il sogghigno di lui) L'autotreno!

Emilio                              - Che cosa?

Armando                         - (come colto in fallo) Niente. (Ma il ri­cordo di quello che gli ha raccontato Anna lo riassale; e invano egli tenta liberarsene con l'ironia) Figurati che Anna mi ha raccontato una storiella... (Si ferma, si pente, è turbato; va al telefono come per telefonare, se ne astiene; poi seguendo il suo pensiero segreto) Del resto, noi, qualche volta, con la smania di giudicare le azioni delle donne, ci dimentichiamo delle azioni nostre, delle nostre crudeltà, delle nostre distrazioni...

Emilio                              - Non capisco, zio.

Armando                         - (assorto) Il pensiero ha delle ondulazioni come le chiome: ondulazioni naturali...

Emilio                              - (che non ha capito) Cioè?

Armando                         - Seguivo, ora, il pensiero della baronessa. Se Anna avesse da te un figlio, e tu l'abbandonassi; e lei fosse costretta, per vivere, a legarsi con un altro…

Emilio                              - E che c'entra? (Una pausa) Si direbbe che tu ti sia ricreduto, che il tuo giudizio sulla vita... non sia più quello di prima: il mio stesso, insomma.

Armando                         - La vita è spesso laida. Ma certo chi la vuole meno laida, invece di predicare sul teatro, o magari nel suo negozio, farebbe bene a renderla migliore, nel suo piccolo, con le proprie azioni...

Emilio                              - Lo dici per me o per te?

Armando                         - (colpito) Per me? (Poi, con altro tono) Per nessuno, e per tutt'e due. Ma forse tu non ami più Anna, ti fa comodo di non aver più fiducia in lei, vuoi infamarla per coerenza con i tuoi principi... Se ella mo­risse in una disgrazia tu saresti pronto a dire ch'è scap­pata con un altro o s'è uccisa...

Emilio                              - (comprendendo sempre meno) E perché, poi, dovrebbe morire in una disgrazia?

Armando                         - (con un sorriso squallido, quasi da ebete) Già! Perché? (Poi, riassalito dal ricordo) Anna m'ha rac­contato un fatto curioso: di un certo avvocato al quale era scappata di casa la moglie, e lui l'aveva denunciata per adulterio, é poi invece quella povera donna era andata a finire sotto un autotreno...

Emilio                              - Conosco questo fatto. E' vero. E perché, poi, lo ha raccontato a te? Ah, già! Perché tu... (Scrolla le spalle) Be'! Ma che c'entra? (Poi, ripensandoci) Tua moglie non era mica uscita di casa senza documenti per­sonali...  

 Armando                        - (serio, pensieroso) Non ne aveva affatto. Mi pare che non ne avesse. Allora non esisteva la carta d'identità.

Emilio                              - (prima rimane silenzioso, come colpito dalla rivelazione del particolare; poi, come buttando via ogni dubbio) Ma quell'avvocato, figurati!, dopo la scom­parsa della moglie, non aveva letto i giornali non so per quanti giorni... Se no, gli sarebbe capitato sotto gli occhi il fatto della sconosciuta investita dall'autotreno e forse avrebbe avuto qualche dubbio, avrebbe fatto delle ri­cerche... Tu, invece... (Lo guarda, vede ch'è pensieroso, ripete le due ultime parole) Tu, invece... Non ti ricordi bene? (Una pausa; scrolla nuovamente le spalle) Ma no! Il mondo è pieno di queste cose. Ne conosciamo tutti. Ne siamo pieni fino alla gola. La mia prima amante era la fidanzata di un mio amico; la dattilografa dell'ufficio di mio padre se la intendeva con un uomo ammogliato; il primo vicino di casa che io conobbi aveva una moglie che ne faceva di tutti i colori. Ciascuno di noi, attraverso le sue conoscenze, lungo la sua esperienza, ha da rac­contarne. Perché un giorno io mi sarei deciso a inco­minciare la mia inutile crociata, se la vita non mi si fosse mostrata sotto aspetti tanto repugnanti? Vero è che stavo per commettere la sciocchezza di sposare Anna; ma, in fondo, anche per Anna una voce maligna mi diceva: «La facilità con cui ella si è data a te prima delle nozze depone veramente bene della sua rettitu­dine»? Forse quella voce maligna era la tua, zio: una voce che io e te portiamo dentro, che c'impedisce ormai di credere. Meglio non credere.

Armando                         - (a bassa voce, come continuando il discorso di Emilio) Che poi sarebbe un modo di credere anche quello: di credere il contrario.

Emilio                              - Come? (Armando non risponde; egli guarda intorno, va verso la vetrata, guarda nell’interno della pro­fumeria deserta; è turbato, fa l'atto di voler parlare d'altro) E' curioso l'effetto che fa questo negozio così deserto! Diventa improvvisamente malinconico. Prima tanta vita, e ora... (Una pausa) Ma che hai, zio? Non rispondi, non parli 

Armando                         - (lo guarda) Non ridere, sai, di quello che sto per dirti. (Lo guarda ancora) E' puerile, quello che volevo fare.

Emilio                              - Che cosa volevi fare?

Armando                         - (come parlando a se stesso) Volevo, ma non l'ho fatto, sai, volevo cercare la collezione dei giornali di quel tempo...

Emilio                              - Non capisco.

Armando                         - (seguendo il proprio pensiero, che ormai lo tormenta) Una notte, dopo tanti anni, ho fatto un sogno strano. Mia moglie camminava nel buio sopra un ponte dal parapetto basso. Sotto, scorreva un fiume in­grossato dalle piogge. Io dicevo a mia moglie: «Attenta! puoi cadere.» Lei mi rispondeva: «Che m'importa? Mi hai trattata così male... ». Mi ricordo, ora, che l'ul­tima volta che U9CÌ di casa, io veramente l'avevo trattata -male; per una sciocchezza. S'era fatto un vestito troppo scollato, io volevo che non lo portasse, lei m'aveva detto ridendo: «Qualcuno, invece, vuole che io lo porti...». E io, ferito nell'orgoglio: «Bene! va da lui». (Una pausa) Dipende, qualche volta, dall'idea che si ha dell'onestà femminile. Anche tu, con le tue idee, hai dato valore al fatto insignificante che Anna non era in casa. Forse i preconcetti portano a uno squilibrio eccessivo delle facoltà di giudizio... Noi, forse, c'illudiamo di essere saggi, e invece... (Lo guarda, poi con eccitazione) Be', e perché non parli tu, adesso? Avanti, dimmi delle ragioni contrarie! Toglimi da questo dubbio che mi dà più sof­ferenza d'una certezza! Non pensare che si tratti di me. Se tu dovessi dissipare in un altro il dubbio che ora è nato in me, quali ragioni troveresti?

Emilio                              - (turbatissimo) Bisognerebbe che, prima di tutto, io conoscessi i fatti.

Armando                         - Sono su per giù quelli dell'avvocato, di quel tale a cui scappò di casa la moglie.

Emilio                              - Bada che quell'avvocato aveva ragione di dubitare della fedeltà di sua moglie.

Armando                         - E anch'io.

Emilio                              - M'hai detto di no, mi pare.

Armando                         - Avevo una ragione generica, teorica. Non credevo alla sincerità delle donne, come te. Mi pareva di conoscere, indirettamente o direttamente, solo donne infedeli. Mi dissi subito, dopo il primo stupore e il primo dolore : « Perché mia moglie dovrebbe essere di­versa dalle altre » ?

Emilio                              - Ma non ti chiudesti in casa come quell'av­vocato, senza leggere i giornali, senza fare ricerche...?

Armando                         - Feci di peggio: non presentai nessuna denunzia, accettai il fatto compiuto, ih modo che nessuno mai, al posto mio, poté fare ricerche. (Guarda nel vuoto, come se si guardasse dentro) Per viltà, sai. Avevo paura del ridicolo. Si ha un bell'essere cinici, ma il ridicolo spaventa. Ne avevo paura perfino davanti agli occhi miei. Evitavo di pensarci, come per ribrezzo. Sai come accade quando vogliamo evitare un pensiero che ci dà fastidio? Gli opponiamo, e gli sovrapponiamo subito altri pen­sieri, una ridda di pensieri, ricacciandolo indietro, ucci­dendolo sul nascere, sconvolgendo il cervello fino alla pazzia. (Si sofferma all'immagine destata in lui da questa parola) Ecco, fino alla pazzia. Forse ho ragionato e agito come un pazzo. Forse sono un pazzo. E anche tu. (Guarda nel vuoto veramente come un pazzo; e tutti i muscoli del viso gli tremano).

Emilio                              - (correndogli vicino come per soccorrerlo) Ma che hai, zio? Che fai? Ti senti male? (Entra dal fondo Anna, vede il gruppo dei due, si ferma un istante, poi si avvicina).

Anna                                - Che c'è? Si sente male? Zio, che hai?

Armando                         - (sorridendo a stento, dopo uno sforzo) Niente, Anna, niente. (Sospira; passa il pollice e l'indice sui due angoli interni degli occhi per tergere due la­crime) Ecco. E' passata. (Sorride ancora, guardando Anna) Malinconie dell'età. S'invecchia.

Anna                                - (con tenerezza filiale) Nel tuo negozio non s'invecchia; si ringiovanisce. Ti ricordi, quando non sapevo che tu facessi questo mestiere? Oh! Ma scu­sate... vi sto dando del «tu»... Gli è che vengo da casa Carra, dalla casa segreta di Elena Veisner. Ero andata a cercarla, quando ella è giunta insieme con il marito. E' lei che m'ha detto...

Emilio                              - (senza voltarsi, nervoso) Non c'interessa af­fatto di sapere quello che t'ha detto….

Armando                         - (guardando Anna con tenerezza paterna) E che t'ha detto?

Anna                                - (amara) Lui non vuol saperlo...

Armando                         - (si alza, si avvicina a Emilio) Non vuol saperlo, perché lo sa.

Emilio                              - Perché non m'interessa. Perché non credo alla vita rosea.

Armando                         - (ad Anna) A propo­sito di roseo. Ho letto che in qualche paese vogliono lanciare il colore ro­seo per i capelli; per i capelli delle donne, naturalmente. E' un'idea. Che te ne pare?

Emilio                              - Ecco, bene! Rosea den­tro e rosea fuori, la testa delle donne.

Armando                         - (a Emilio) E quella degli uomini?

Emilio                              - Già! Perché tu, adesso, sei passato dall'incredulità assoluta all'assoluta credulità...

Armando                         - (dopo averlo guardato) Caro, si esagera un po' sempre, da tutti; perché in tutti c'è una pro­fonda aspirazione alla purezza. An­che in noi. Vorrei dire soprattutto in noi che non abbiamo creduto a niente per la paura di dover credere a tutto. Ecco: è bastato un dubbio perché il fondo migliore di me ri­tornasse a galla sullo stagno della mia incredulità. Forse è tardi perché io creda; e forse la mia anima si è curvata inutilmente sul mistero che avvolse la fine di colei che pure mi amò. Ma tu sei giovane, figlio, hai ancora presso di te la donna che ti ama. Cerca di aver fede in lei, pri­ma che l'amore si vendichi di non essere stato creduto.

Anna                                - (commossa, riavvicinandosi ad Armando) Ti ringrazio, zio.

Armando                         - Oh! Non sei tu che devi ringraziare me. Sono io che debbo ringraziarti di avermi ricon­dotto almeno sulla via di mezzo. Vorrei poter ricominciare a vivere così.

FINE