Francesca da Rimini

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Francesca da Rimini

Francesca da Rimini

Tragedia a vapore

stravesata

da Pulcinella Cetrulo, da D. Asdrubale Barilotti,

da Monsù Patrecutenella e da Schiattamorton

Bizzarria Comica scritta dal Signor

Antonio Petito

PERSONAGGI

Un Inglese

Un Signore

Un Suggeritore

D. Asdrubale,  artista comico

D.Cutenella

D. Schiattamorton

Pulcìnella, butta fuori del teatro

PERSONAGGI DELLA TRAGEDIA

Francesca

Guido

Paolo

Lanci otto

Un Paggio

MUSICI

Un primo violino

Francesca - Vestita con una lunga camicia da notte, una cuffia idem in testa, e un lenzuolo appeso dietro le spalle come manto.

Guido  - Calzato di corto con abito alla spagnola di sopra, e manto alla romana. Sciaccò da militare. Parruc­ca nera e barba bianca.

Lanciotto - Scemisa alla romana. Un grosso brando, collana formata di una funicella con un riverbero di lame appeso. Mostaccio bianco, e mosca nera.

Paolo - Bacile da barbiere in testa da servire per elmo. Grossa spadaccia, e lancia, un soprabito alla militare di sopra con corazza alla romana. Una grossa cartiera a tracolla, parrucca nera e baffi rossi.

Paggio - Da cocchiere d’affitto.

ATTO UNICO

SCENA I

L’azione principia col sipario calato. Si sente suonar la sin­fonia, da dentro le scene gran chiasso di voci confuse, ru­more di roba caduta, si sente un colpo di pistola. La musica cessa di suonare.

Pri. Vi.                  (al suggeritore). Che cosa è questo chias­so?

Suggeritore         (cacciando la testa fuori del cupolino) Non so ma io credo che qualche rissa ha do­vuto succedere. Fatemi nu piacere, te­niteme ‘o cappello’ e ‘o copione, pec­ché si veco che incalza l’affare, me ne fujo pe dinto alla platea.

Vòci                     (da dentro le quinte) Assassino, birbante! Altra voce Portatelo alla questura!

Sug.                       Lasciatemene fuggire, qua l’affare incal­za.

Pri. Vi.                  Aspettate nu mumento, non avete pau­ra.

Un Inglese           (dalla platea) Cosa queste chiassamente?

Pri. Vi.                  Credo che sarà qualche appicceche.

Inglese                  Che cosa è quest’appiceche?2

Voce da dentro   Mannate a chiammà3 la vammana, nu chirurgo, qualche d’uno!

Fui.                       Signori miei, nu poco de silenzio ca sta ‘o pubblico in teatro.

Un Signore          (da un palco) Eh! là, si può sapere che cosa è successo? Mi pare di stare in mez­zo alla strada! (seguita il chiasso dalle sce­ne, poi sorte Pulcin ella fuori il sipario)

Fui.                       Pubblico rispettabile, per una disgrazia imprevista o prevista e non immaginata come meglio vi pare, questa sera non puo aver luogo la tragedia di Francesca da Ri­mini. Quei signori che non sono contenti avranno la compiacenza di jirsene. Se mai volessero essere restituito il denaro, resta a loro facoltà di potersi mettere l’anima in pace, mentre Don’ Rafele o bollettinaro se n’è fujuto. . .la stessa cosa dico alle signore e ai signuri dei palchi, che per questa sera avranno la compiacenza de jirse a cuccà n’ora primma.

Un Sig.                  Voi dite un sacco di bestialità. Chi vi ha dato l’ardire di uscire qui fuori?

                   Un Ing.                  Io sono venuto per sentire Francesca.

Fui                          Ma io non ve pozzo fa sentì manco Mene- chella.

                 Un Ing.                    Chi è questa Menechella?

                 Fui.                          E’ la surella cugina de Francesca.

                 Un Ing.                    Ebbene vediamo sorella.

                 Fui.                          La quistione è ca manco nce sta!

                 Un Sig.                    Ma si può sapere qual’è la ragione…

                 Sug.                         Io me metto paura, adesso me ne vado.

Fui.                         Aspetta, mall’arma de mammeta! Si avimmo da abbuscà avimmo d’abbuscà nz ieme.

Fri. Vi.                    Io me ne vado o resto?

Fui.                          Aspetta. che nce sta pure ‘o tujo.

Petito ha regolarmente “o” anziché “‘o”, “a” anziché a “e” anziché “‘e”; ho preferito modificare secondo la grafia più comunemente accettata.

2 L’inglese non raddoppia la “c”.

Correggo “chiamma”. Preferisco l’infinito con la lettera accentata piuttosto che seguita dall’apostrofo, qui e ovunque. “Chiamrnà” non è un’abbreviazione di “chiammare”, è propria­mente l’infinito napoletano.

                    L’originale ha “D.”, che ho regolarmente sciolto.

Un Ing.                  Insomma, posso sapere quale essere ragione?

Un Sig.                  Parlate, altrimenti vengo sulle scene eprendo a cravasciate a tutti.

Sug.                       lo me ne voglio ire.

PuL                        (dandogli un calcio) Aspetta, maneggia chi t’allattato. (indi al pubblico) Signori miei, dovete sapere che questa sera
quelli che doveano rappresentare la Tragedia era na compagnia de provin­cia che truvannese de passaggio pe chesta bella metropoli ha cercato in piace­re a ‘o mpressario de fà na serata de be­-
neficio e siccome le mancava la prirnma donna trovandosi di residenza in Napo­li la signora Donna iulietta Pappabe­ne che doveva spusà ‘o maresciallo seienne sempre questa se prestava gra­tuitamente come avete potuto vedè d” o manifesto, s’è data la combinazione che ncoppe5 a li scene per ordine del diret­tore ‘o rnarchesino non ha potuto saglì, ‘a Signora s’è pigliato collera, ‘o mar­chesino s’è corrivato e pe dispietto s’è juto a mettere dinto a nu palco de terza fila addò nce stevene certe ballarine an­che conoscitrice del rnarchesino. Nfra­ditanto steveme facenne l’opera la pri­ma donna da dinto a no pertuso d”o telone che per lo più ‘e pertuse sono i segretarii dei gabinetti amorosi ha avvi­stato ‘o rnarchesino dinto ‘o palco de le ballarine... Signori miei, avisseve avut”a stà ncoppa a li scene pe vedè che e succieso: a la primma donna le so ve­nute quattro convulsioni una dinto a n’autra, ‘o primo amoroso la ristorava nel camerino che per lo più questi sono dritti ‘e spuzzuliature devolute ai primi amorosi; ‘o portacesta de la prima don­na pe s’abbuscà no rialo è juto a avvisà a lu marchesino dinto ‘o palco ca la signora fa ammore cu lo primo amoroso... E’ sciso o marchesino a dinto ‘o palco ha dato na vuttata a Don Gio­vanne, è trasuto dinto, ha truvato a chillo dinto ‘o cammerino e ha ditto Ah! ingrata traditrice spetrice così tratti un infelice che per te s’è ridotto n’alice sen­za camice - poi aiutannese nfaccia a ‘o primmo amoroso, ha ditto signore di quest’affronto ne voglio un’offesa doma­ni ai Ponti Rossi all’alba duello sino al­l’ultimo sanguinamento senza patrino pecché i patri nostri non sappiamo quanti sono? ‘O primmo amoroso che faceva Paolo ha vutata ‘a sciabola da parte d”o cuozzo e ha sciaccato ‘o Marchesino - ‘o Marchesino ha cacciato ‘o rivolte e ha menata na pistulettata che l’ha duoveta nfaccia a lu cappiello d”o patre nobile e nce l’ha sfunnato, la ca­ratterista pe la paura è juta pe fuji e èsciuliata jenne c”o promontorio nterra e non so quale parte sia lesionata. La mugliera d”o custode de triato ch’era gravida de nove mise sentenne ‘a botta steva dinto ‘o cammerino d”o lumina­rio era grossa prena era uscita ‘e6 conti ed è figliate e non se sape si o masculo o è femmena e se sta aspettanno la vam­mana per una tale verifica. ‘O capo comico vedenno stu mbruoglio s’ha ar­runzato li vestiti, s’ha arrunzato l’introi­to e se ne è fujuto cu l’atro riesto de la compagnia, ‘o Marchesino, e l’amoroso so stati arrestati, la prima donna se l’ha portata ‘o chirurgo a la casa, tutto ‘o riesto de gente che stevene ncoppa e scene se ne so fujute e so7 rummaso io sub e ….

“Ncoppe”, “nzierne”, ecc., senza un’apostrofo iniziale, per una ragione analoga a quanto detta alla nota 3.

                                                       Ci vuole l’apostrofo iniziale, perché “‘e” in napoletano è l’ah­breviazione di “de”,

 che talvolta si trova, anche nel presente testo.

Sug.                      Ed io pure.

Pul,                      A te non te pozzo contà, pecche si neu­trale.

Un Sig.                 Ebbene chiamate l’impresario per vede­re come si può rimediare.

Pul.                      E non nc’è; se n’è andato dopo ‘o primm’atto sopra ‘o cassno.

Un Ing.                Io pure lasciato casinò8 per vedere Fran­cesca, fate calare anche lui perché mai partire di qua senza vedere Francesca.

Pul.                      Si sarria a vuje me farria purtà ‘o lettino da lii casino.

Un Sig.                 Alle corte. Qui il pubblico freme e biso­gna contentano.

Pri. Vi.                 Volete che vi soniamo la sinfonia della Semiramide? la tarantella di Masaniel­lo?

Sig’.                     Che sinfonia e sinfonia!

Ing.                       No, Mast’Aniello no.

Pul                       Volete sentire Masto Giovanne?

Sug.                      Volete che vi leggo l’argomento de la Francesca?

Ing                        No! Voglio vedere Francesca e tutta suafamiglia.

Pul.                       Volete vedere la famiglia?..

Sig.                       Alle corte. Mandate alla casa dei vostri compagni e fateci sentire qualche cosa.

Ing.                       No qualche cosa, ma voglio...

Pul                    .  Sentire Francesca, va bene. Là me pare che nce ha da sta Don Asdrubbale Barilotti a terza fila, pecché l’aggio visto che
s’ ha affittato nu palco pe purtarce na mo­dista che abita al vicolo delle Campane.

D. Asd                  (da nu palco di 3a Fila) O nè, comme te vene ncape de dì li fatte mieje?

Pul                       Agge pacienzia, ma in questo naufragio che se po salvà che se salva.

Sig                        Precisamente.. .Signore, la prego di ca­lare onde contentare il pubblico in qualche maniera.

D. Asd.                 Ma signore, che posso fare? Io per la tra­gedia non sono buono...

Pul                       Non le date udienza, questo prima face­va ‘o maestro de declamazione.. da che po s’è mise a ricità non l’ha potuto fa chiù pecché ‘e sculare vedennele fa l’opera ‘a sera primma de quanrio isso la mattina deve lezione invece de de­clamà se mettevene a ridere e perciò fujeno custretti i direttori degli istituti a licenziano.

D. Asd.                 Né, grannissema bestia, non la vuò fernì.

Sig                        Basta, la prego calare e riparare alla me­glio possibile.

Ing                        Teje ponete riparo ma poi è buono per fare Francesca?

Pui                       Mettitelo alla prova

D. Asd.                 Te miette tu alla prova.

Sig                        La prego di calare.

D.Asd               .Eccomi qua. Ma signori, io mi pretesto ca chello che ve faccio faccio (via).

Pul.                      Embè, facimmo la tragedia nuje duje?

Sig.                       Mandate a chiamare qualche d’uno al­tro.

Pul.                      Aspé, primmo violì, famme nu piacere, va a in afè de rimpetto ca nce sta munzù Schiattamorton che se sta scar­fanno no decotto de potassa, chiamma­lo cii na scusa e fallo venì cca dinto.

Pri. Vi.                 So lesto (via).

                              (Monsù Cutenella comparisce dalla platea tutto avvolto in un gran scialio che gli serve di cravatta).

“So”, senza apostrofo, come detto sopra.

L’inglese ha capito “casinò”, non “casino”.

Mon.                     Mannaggia l’arma de vaveta, te piglie la chiave da casa mia pecché te serveva pe la scena e te la scuorde de darmella e me faje arrivà a casa, vaco pe mettere ‘a mane dinte ‘a sacca pe piglià ‘a chiave e arapì la porta e rimango come un sa­lame; io sto de casa ncoppa a la Specula e tu me faje fà stu poco de tragitto io me ne era andato piano, piano perché ho finito al primo atto e tu me faje chisto complimento. Scusino lor signo­ri, se mi piglio tanto ardire, so che si èsospeso lo spettacolo, perciò m’azzardo.

Pul.                       Aggie pacienzia, me so scurdato.

Sig.                       Anzi, voi giungete a proposito. Sarete compiacente a contribuire anche voi a rappresentare qualche parte nella trage­dia per non fare interrompere lo spet­tacolo annunziato.

Cut.                       Ma io la tragedia non la conosco, se è cosa facile io vi servo.

Pul.                       E’ facilissima: sono versi sciolti. Saglie ca rimedio io… .

Cut.                      So lesto - Signori miei, permettete.

(Primo Violino dalla platea e Monzù Schiat­tamorton tutto incappottato).

Sc hia.                 Il Primo Violino mi ha detto tutto ma io mi protesto, nella tragedia non ci ho fatto altro che la parte de lo scudiero cinquanta anni fa.

Pul.                Ha fatte la primma parte!

Ing.                      Cosa significare scusa jeri?

Pul                        Scudiere: vuol dire parente de cucchie­re.

Ing.                      E che viene a essere a Francesca? Nutriccia.

Schia.                   Questa è una bestia, ma nu le date ret­ta.

 Sig.                       Basta salite e rimediate

Schia.                   Son pronto - (va per salire da dentro al­l’orchestra sul palcoscenico, dà un piede sul violino e sul cappello del suggeritore che sta sul palcoscenico)

Pri.Vi.                  Che avete fatto? Mi avete rotto il violi­no ed il cappello del suggeritore!

Schia.                   Scusate, non ci ho badato nella confu­sione.

Pul.                       Saglie mo, ca po se ne parla d”o cap­piello e d”o violino (gli dà la mano e l’ajuta a salire).

Schia.                   Piano, ca me faje cadè ‘o decotto da din­to a la sacca.

Pul.                       Statte zitto, trase e aspetta.

Schia.                   E gli abiti, e il libro.

Pul.                       Trase.

Scia.                     Eccome ca (entra)

Pul                        Signori miei, ve prego a considerà ca ‘o xestiario non c’è, ‘a tragedia tutta non se po fà pecché è troppo longa e nisciuno ne sape na spaghioccola per cui nzerrate l’uocchie coppa  ‘o         vestiario e datene ‘o che nce facesse qualche tagliolillo mentre se fa la sinfonia.

Sig.                       Rimediate.Basta che non ne togliete il meglio.

Pul.                      Per questo poi, state Senza pensiero.

Sig.                       Dunque v’accordiamo tutto. Rimediate.

Pul.                      So lesto - Signori miei, permettete (via).

Comincia la sinfonia. Dopo poco tempo si alza la tela.

La scena rappresenterà una sala di un castello mezzo diruta proprietà di Lanciotto. Lanciotto sorte dalla dritta e va ad incontrare Guido, che viene dalla comune, e dopo di essersi vicendevolmente abbracciati tragicamente:

Ing.                       Come va che quel signore là con bonbò grosso grosso tenere barba bianca e ca­pelli neri?

Guid.                    Vedermi dunque ella chiedea: subeto so venuto a telegrafo elettrico.

Lan.                      (con voce rauca)Ah, senza voce, Guido, mi trovi, solita­rio e mesto
Se tu sapessi!...Non vo dirti il resto.

Guid.                    Dov’èmia figlia?...

Lanc.                    Alla cucina intorno.

Guid.                    E sempre t’ama, t’idolatra.

Lan.                      Un ... corno.    Mo t”o diceva.

Guid.                    Mancami appieno nell’udirti il fiato.

Lan.                      Sono, mel credi, da Francesca odiato.

Guid.                    Causa la cuccia tua forse saranne,
Quando la notte a lei dormi vicino.

Lan.                      Sì, ma io me la cummoglio c”o barrettino.
                      

                               Guid.                    Mi poni nelle viscere un inferno.
Lan.                      Ecco, tua figlia viene dall’interno.

SCENA II

Pulcinella vestito con camicia da donna lunga, e cuffia da notte con un lenzuolo appeso dietro

Guid.                    (alzando le braccia per slanci arsi) France­sca figlia.

Fran.                    O Guido padre.

Sig.                       (dal palco) Ma signori miei, questa mi sembra un’indecenza. Come, una don­na si presenta al pubblico in camicia?

Pul.                      (slanciandosi dal padre e facendosi avanti)
Mio signò, ho l’onore di dirve che lei sbaglia perché io non son donna e poi ho creduto di far bene vestendome accussì perché la storia dice che France­sca era molto calorosa.

Ing.                       O jese, seguitate. Piaciuto calorosa.

Guid.                    (Dopo di queste parole corre a Francesca, l’afferra, e stringendosela al seno dice) Che io ti stringa, o zuccarin d’amore!

Pul.                      Guè, non stregnere tanto, viecchio ve­ziuso.

Guid.                    (seguitando senza badare alle parole di Pulci nella)
Lungi da te Di lagrime versai quasi un barile.

Pul.                      E io mme ne sto jenno mpilo mpilo.

Guid.                    Che ascolto mai! Sarebbe ver, Lanciotto

Lan.                      Purtroppo ella ha bisogno di decotto.

Guid.                    E qual ne è causa?

Lan.                      (grattandosi la pancia) Chi lo sa?

Pul.                      (con posa alla Ristori)Tu il sei!

Lan.                      (si balestra verso la moglie)Io che ti feci mai, o donna bella?

Pul.                      Guè, statte cujeto, ca sto senza vonnel­la.

Lan.                      (grugnando)
Sono un marito, o una rapa sono?

Pul.                      Sei una bestia.

Lan.                      (confuso)
Che vuoi dir quel tono?

Guid.                    Fremo in udirli, a stento io mi tratten­go.

Lan.                      Guai, se mi scaldo, son capace

Pul.                                            Io svengo.

Guid.                    Ahimè! ella manca.

Lan.                                 E’ da un demonio invasa.

Guid.                    Qualche cordiale .. ha dell’aceto in casa?

Lan.                      Per fin di notte si contorce ed urla.

Pul.                      Signori miei, no vi pigliate collera. Io
svenni per burla.

                             

SCENA III

Paggio e detti

Pag.                     Chiede l’ingresso un cavalier...

Lan                       Si noma...

Pag.                     Dirlo non volle. S’aggiustò la chioma,

                              Vide i tuoi avi appesi alle pareti,
Girò intorno lo sguardo irrequieto

                              E se ho da dire, mi sembrò commosso.

Lan.                      Cielo, qual dubbio omai mi piomba ad­dosso!

                              Sarebbe forse? ... O non sarà? Diavolo!

Pag.                     Scommetto un soldo che è il fratello, Pavolo9.

Pul.                      (Paolo!) O numi, io perdo i sentimenti!

Lan.                      Fallo passare senza complimenti.

Pul.                      (a Guido)
Non vo vederlo, amato mio papà.

                               Involami da lui, per carità.

Lan.                      Questa è un’offesa a tuo cognato, e io...

Pul.                      Tu resti, io parto. Andiamo, padre mio.

Guid.                    Son teco, o figlia, ma sento appetito.

Pul.                      Venite cu mico, ca ve faccio na zuppa de bollito. (viano)

SCENA IV

Lanciotto solo iniscena

Lan.                      Sarebbe vero?

Pri. Vi.                  (dalla platea) Nè, faciteme mi piacere, Don Asdrù, pecché ‘o scudiere jeva ve­stuto a cucchiere?

D.Asd.                  (un poco irnbrogliato) Ecco qua …... pecché fra scudiero e cocchiere nc’è una certa relazione, ecco pecché chillo, non pu­tennese vestì a scudiere, pe nun tradì ‘o carattere s’è vestuto da cucchiere.

Ing.                       Jese, cocchiere e scocchiere essere tutto una cosa.

Sug.                      Nè, Don Asdrù, vuje volite seguità? Ca nce sta ‘a parola de filo, si no nun poz­zo attaccà ‘a bussata de Paolo.

D.Asd.                  Se, jammocenne trenta carri. Sarebbe vero, Paolo qui? Oh contento.

nIn nap. “Pavolo”, che fa rima.

SCENA V

Paolo, Paggio e detto

Pao.                     (Dà la lancia e lo scudo al paggio che fa             riverenza e via poi a Lan.) Fratello!

Lan.                      E’ desso!

Pao.                     Son io.

Lan.                      (abbracciandolo)  Portento

                              (Poi lo guarda, vede il bacile che porta in testa e dice)
Con i barbieri ognor facesti guerra

                              Se un tal cimiero a te la testa serra.

Pao.                     No, fratellin, chisto è ‘o nuovo modello.

Lan.                      Sai che ti trovo molto grosso e bello.

Pao.                     Nulla di nuovo nella nostra tana?

Lan.                      No, spesso ci viene la tramontana.

Pao.                     A disturbarti.

Lan.                      No ... Qui come narra?

Pao.                     Lo vuoi, Lanciotto? Occhi ed orecchi sbarra.

                               Se ancor mi vedi ben tornito e sano

                              Puoi proprio dir che non sono bagiano.

Lan.                      Stelle! i tuoi detti e la tua voce fioca

                              Mi fecero venir la pelle d’oca.

Pao.                     Ed oca fui quando in lontano sito

                               Andai per gli stranieri a fare il pito.10
D’ora in avanti pugnerò soltanto

                               Contro chi mette il mio paese in pianto,

                              E lo sdegno conservo e il mio furore

                              Perché sovra le polizze al latore Pretende 11

                              di cambio il venti per cento,

                              Cosa che con orror solo qui sento.
Se tu vedessi, caro mio Lanciotto.
Guai a color che mi cascano sotto,
Atterro un bue e quando 12egli è distrutto
Con pelle ed ossa me lo mangio tutto.

Lan.                      E questa è lopa.

Pao                      No, sol bizzarria,E noi l’abbiamo per galanteria.

Lan.                      Questi sensi ti onorano e del paro
Vo’ dirti io pur che non sono somaro.
Marito io son.

Pao.                     Che dici?

Lan.                      Or son tre mesi.
Di Guido la figliuola ho preso in moglie.

Pao.                     Francesca, o ciel! (Mi vengono le doglie)

Lan.                      Se tu vedessi come scrive e ciancia.

Pao.                     Lo so, lo so (Quale dolor di pancia!)

Lan.                      Che miro! Bianco quale straccio. Vieni
Malato forse?

Pao.                     Oh no.

Lan.                    Ma pur convieni.

10 contesto dell’ignoto “pito”, in rima con “sito”, fa pensare ad un sinonimo di “soldato di Ventura”.

 11 I1 testo ha “prende” ma il verso zoppicherebbe malamente.

12   L’edizione del 1867 ha qui un improbabile “guardo”, op­portunamente corretto da Greco.

Pao.                     Paleserotti (ah mai!). Lanciotto, senti,
Tengo na terribil flussion di denti.

Lan.                      Quale fortuna! Abbiamo Dulcamara

                              Che per strapparli ha una virtude rara.
(per andare)

Pao.                     (trattenendolo) Odi, t’arresta, non lasciarmi solo.

Lan.                      Il cavadenti a ricercarti io volo. (via)

SCENA VI

Paolo e il Suggeritore

Pao.                     (traballando) Sposò Lanciotto! ... Moglie sua Francesca!
Ah, chi mi porge un poco d’acqua fre­sca?

Sug.                      (Spinto da compassione, offrendogli un bicchiere di vino che gli serve per rinfrescarsi le fauci)
Ho un po’ di vino. Se le piace, prenda.

Pao.                     Oh grazie tanto, il cielo te Io renda. (Beve, restituisce il bicchiere al Suggeritore, si pulisce la bocca con la manica dell’abito, poi dice)

                              Che far degg’io? Fuggir di nuovo, op­pure

                              Di Tantalo soffrir le ne torture? Meglio è che io fugga. Che veggio io? Oh momento!

                              E vien Francesca. (Si ritira indietro)

SCENA VII

Francesca e detti

Franc. Annot.13    (Concentrata ali ‘ultimo g’rado) Ahimè, stanca mi sento.

Amor crudel. tu mi scunquassi,

E addeventà me fai vecchia carcassa.

Sto male, e li ciacelle’4 aggio perduto

Pe chillo brutto viecchio nsallanuto.

Ah Paolo! Paolo mio, dove sei tu?

Pao.                          (precipita ndosi)

                                  Son qui. crudel. Non mi conosci più.

Franc.                     (fuori di se stessa)

Oh vista! ... Paolo! ... qual fatal destino

Ti guida in quest’istante a me vicino?

Pao.                         E lo chiedi, cagion dei miei sospiri?

Ritorno a te dopo fatali giri.

Franc                      Ebben, torna a girare! Assai men duole

Ma è mio dover di tosto alzar le suole.

                                  Me n’aggio, si capisce.’5 (per andarsene)

‘~ Un’abbreviazione, ma di che?

‘~‘ Il testo: “a li ciacell”. Seguiamo l’interpretazione di Greco.

“Ciacelle” per dire carne umana, quindi Francesca è dimagrita..

Forse meglio “Me n’aggia’ì”. Credo che la battuta sia a parte,

fuori metro (v. la nota seguente).

Pao                          Ah no, m’ascolta, io sono fuor di me.Fran.Torna ad entrare.’6

Pao.                         Noi posso io da che

                                 Mi comparisci più celeste e bella.

Franc.                     (facendo la scala sernitonale)
Ma il fratel mi rompe ‘a capuzzella.

Fao.                         Io me la prenderei pur col creato,
Non posso paventar d’uno scocciato.

Fran.                       Ahimè! vacillan le mie gambe! Oh Dio!

Fao.                         Tu tremi, fanne a meno, core mio.
(Frende una mano di Franc. e la bacia)

Fran.                       Paolo, che fai?

Fao.                         (in ginocchio come uno scolare)
La bella man ti bacio.

Franc.                     Cessa, crudel, non mettermi in impac­cio.

Fao.                         (in estasi)
Deh, dimmi almen con la gentil bocchi­na
Che m’ami dalla sera alla mattina.

Franc.                     (urlando)
Paolo, sì, t’amo. Sei contento adesso?

Fao.                         (abbracciandola)
Tanto contento che farò un processo.

Fran.                       Per carità, non dir più ciuccerie,
Pensa un istante alle faccende mie.

Fao.                         (con rimprovero dolce, brusco)
Io t’ebbi sempre dentro al cor scolpita

Tu invece ingrata, hai la mia fè tradita.

                                 Mira!
(Presenta il libraccio che porta ligato a tra­collo)

Fran.                       (con finto riso)
 Che veggo, che libraccio è questo?

Pao.                         Più noi ravvisi? Stupefatto io resto.
E’ il pappucon(18), che leggevamo un gior­no
Quando fummo in Acerra(19)a far sog­giorno.
Soli eravamo e sotto ombrosa frasca
Mangiando il casatel cuIl’ov”e Pasca.
Li lacreme d’ ‘o monte eran cascate
Su tre o quattro delle sue facciate.
Vedi, ancora ne gronda, no vide 20
Che fet’ ‘e vino? (21)

Fran.                       E’ proprio vero, oh stelle!
Dunque tu sempre m’ami! Oh paparei­le!

Pao.                         E’ disperato I’amor mio~ Fuggiamo!
Meco condurti all’altro mondo io bra­mo.

Fran.                       Ah, no! Mi lascia, non toccarrni, io gri­do.

Pao.                         Cielo ed inferno in quest’istante io sfi do.

                              (Afferra Francesca per portarla via)

 16Neli’edizione del 1867, la battuta di Francesca, “Torna ad entrare , è scambiata per una didascaiia, avendo lei appena pri­ma fatto cenno “per andars’~’ne”. Ma lei risponde qui a Paolo, che ha detto di essere fuori di se, imponendogìi di rientrare (in se), così come poco prima gli impone di girare. Così la battuta seguente di Paolo, “Noi posso io ...“ riacquista un riferimento immediato. Insieme, le due battute formano I’endecasillabo, che altrimenti mancava, e si ha la rima con la precedente battuta di Paolo (“che” con “me”).

17 Nel testo “mira” fa parte della didascalia (“mira e presenta ilbraccio, ecc.), opportunamente sciolta da Greco.  (18)Parola che non so spiegare.  (19)  Per alcuni, compreso Petito, Acerra fu la terra natale di Paolo Cinelli, che poi sarebbe divenuto Pulcinella (v. Antonio Petito, Genno storico romantico sulla origine della maschera del Pulci-nella, saggio sinìpaticissimo pubblicato nello stesso volume con la Francesca). 20 verso zoppica. 21 libraccio “puzza di vino”. Le lacrime del monte saranno il Lacrima Christi, vino vesuviano. Galeota fu allora il vino, oltre che il misterioso “pappucon”. Né Cristo né Dio potevano nomi­narsi in una farsa, sennò interveniva il Delegato e poneva fine allo spettacolo.

­

                                                  

SCENA VIII

Lanciotto, Guido e detti

Lan.                      Che veggo? Oh infamia! (diventa verde)

Fran.                    Siam perduti.

Guid.                    Io gelo!

Fran.                    Chisto farrà ‘o surbettiero.

Lan.                      Squarciasi al fin il tenebroso velo.22

Pao.                     Vieni, Francesca, ridigli sul muso.

Lan.                      Tremate, iniqui.

Pao.                     Di tremar ricuso.

Lan.                      (sfoderando la spada)
Donna infedele, il brando mio giustizia
Alla fine farà di tal nequizia.

Fran.                    Fermate, o crudi!

Pao                      O crudi o cotti ornai.
Tempo egli è questo di sortir da’ guai.
Io non ti temo più, brutto sconciglio.

Guid.                    Pace, fratelli.

Lan.                      Mai, non son coniglio.

Pao.                     All’armi!

Lan.                      All’armi!

                              Te voglio va verè che saccio fà.

Fran.                    Facitelo p’arnore de zi’ Cuniella ‘a zel­-
losa! 23
Non vi battete!

Gu id.                   Ve ne prego anch’io.

Lan.                      Non v’è pietà, ammazzerò l’indegno.

Franc.                  (in terponendosi)
Ah, no!

Lan.                      (dandole un colpo di spada)
 Ebben, prova di mie furie il pegno.
(Passa Francesca da una parte all’altra)
Ah, c’aggio fatto?

Fran                     Ah, me infelice!
M’ha rott” a camicia.

Pao.                     Ferita!

Guid.                    Figlia mia!

Lan.                      Sì, traditrice!

Pao.                     Ah pietà, un’innocente hai spenta.

Fran.                    Prieste, dateme nu poch”e spirit’a men­ta.

Guid.                    Figlia. fa core.

Pao.                     (cacciando la spada)
Vendicarla almeno
Voglio. Oh tiranno, a trapassarti il seno
Ripara i colpi.

Lan.                      A me, ah carognone!
(cacciando la spada)

Pao.                     Cado colpito E’ ver, sono un mignone.

Guid.                    Che facesti

Lan.                      Ah gioja!

Pao.                     Francesca.

Fran.                    Paolo.

 Il verso è uno di quelli, non molti, mutuati direttamente dalla tragedia di Pellico. sulla quale sarà centrata invece tutta la forza parodistica della Francesat di Scarpetta.

23 C’è difficoltà con questa e le due battute precedenti, che non sembrano lasciarsi sistemare metricamente.

Il testo ha “da se Cuniella”.

Guid.                    Oh, mio dolore!

Pao                      Invita
Fosti ai miei baci, e al mio cor rapita.
Divisi fummo ed or crepiamo insieme.

Franc.                  Questa fu sempre la mia dolce speme.

Pao.                     Dobbiam spirar.

Fran.                    Spiriamo pure.
Guid.  Oh caso!

Fran.                    Riman lo sposo con tanto di naso.

Lan.                      E insulti ancor.

Fran.                    Ah no! Son morta. Addio! (cade)

Pao.                     Francesca, aspetta, sono morto anch’io.

Guid.                    (c.s.) (24)

                              Contempla, iniquo, l’opra tua. Son spen­ti.

Lan.                      (piangendo)
Guarda, ne piango

Guid.                    Inutili lamenti
Chisto fa comme ‘o cuccutrillo.

Lan.                      Sento il rimorso nelle interne balze.
Anch’io, lo giuro, tirerò le calze.

Guid.                    Ferma, infelice.

Lan.                      (prendendo una forbice dal tavolo da lavoro
di Francesca e ferendosi)
 E’ vano, il priego, indietro.
In cor l’acciar mme è penetrato un metro
Tongo (25)

Guid.                    Misericordia a lu maciello.

Lan.                      (dandogli il laccio che ha al collo con la  medaglia)
Suocero, addio. Te do stu funiciello.
(muore)

Guid.                    Ahimè, che miro! Morto! Ora si, man­co!

Sug.                      Don Cutené, vide de finì ca songo stanco.

Guid.                    Tu che dici! Adesso viene il meglio,
E se suggerir non vuoi certo è che sba­glio.

Sug.                      Tu dì chello che ~ruò che io mine ne saglio.

                              (Va per uscire, Guido lo trattiene. Finalmen­te gli

                               riesce di sbarazzarsene, e monta sul pal­coscenico

                               e va per fuggire nelle quinte)

Guid.                    (l’afferra)
No, non la vincerai, brutta marmotta.

Sug.                       (Guè, s’è nfucato chisto mo de botta!)
Lascia che beva almen.

Guid.                    Non sarà mai.

Sug.                      Dunque, guerra tu vuoi? Or sì, l’avrai.
(Si azzuffano fra loro come a concerto)

Guid.                    (dandogli un urtone)
Prendi, fellone.

Sug.                      Cado pecché è tardi.

Guid.                    (Che teneva le falde della giamberga del sug­-
geritore strette tra le mani, nel cadere che fa,
quelle gli rimangono in mano scucendosi dal­-
la giamberga, e lasciando vedere un calzone
tutto rattoppato)

Guid.                    (inorridito dice)

                              Quale vista crudel s’offre a’ miei sguar­di!!!

24Cioè “centro scena”.

2~Non si capisce “tongo”, che combina col verso seguente per comporre l’endecasillaho

Quadro finale, come a concerto. Giù la tela.

FINE