Galealto
di Torquato Tasso
ATTO PRIMO
Scena prima
Nutrice, Alvida Principessa
Figlia, e Signora mia, deh qual cagione
sì per tempo ti sveglia? Ed or ch' a pena
desta è nel ciel la vigilante Aurora,
e ch' il garrir de l' aure e de gli augelli
dolce lusinga i matutini sonni,
dove vai frettolosa? E quai vestigi
di timore in un tempo e di desio
veggio nel tuo bel volto? Il qual per uso
sì longo è noto a me, che non sì tosto
d'alcun novello affetto egli si imprime,
ch'io me n' avveggio. A me, che per etate,
e per officio di pietosa cura,
e per zelo d' amor madre ti sono,
e serva per volere e per fortuna,
non dee men noto il cor esser, ch' il volto:
e nulla sì riposto, o sì secreto,
deve tenere in sé, ch' a me l' asconda.
Alvida
Cara Nutrice, e madre, è ben ragione
ch' a te si scuopra quello, onde osa a pena
ragionar fra se stesso il mio pensiero.
Però ch' a la tua fede ed al tuo senno,
canuto più che non son gli anni e 'l pelo,
meglio è commesso ogni secreto affetto
ed ogni del mio cor tacita cura,
che a me stessa non è. Temo e desio,
no 'l nego; ma so ben quel ch' io desio,
quel ch' io tema non so. Tem' ombre e sogni,
e un non so che d' orrendo e d' infelice,
ch' un dolente pensiero a me figura
confusamente. Ohimè, giamai non chiudo
queste luci meschine in breve sonno,
ch' a me forme d' orrore e di spavento
non appresenti il sonno: ora mi sembra
che dal fianco mi sia rapito a forza
il caro sposo, e scompagnata e sola
irne per longa e tenebrosa strada;
ed or sudar e gocciolar le mura
d' atro sangue rimiro, e quanti lessi
mai ne l' istorie, o in favolose carte,
miseri avvenimenti e sozzi amori,
tutti s' offrono a me. Fedra e Iocasta
gl' interrotti riposi a me perturba,
agita me Canace; e spesso parmi
ferro nudo veder, e con la penna
sparger sangue ed inchiostro: onde, s' io fuggo
il sonno e la quiete, anzi la guerra
de' notturni fantasmi, e s' anzi tempo
sorgo del letto ad incontrar l' aurora,
maraviglia non è, cara nutrice.
Lassa me, simil sono a quella inferma,
cui la notte il rigor del freddo scorre,
e 'n su 'l mattin d' ardente febbre avvampa;
però che non sì tosto il freddo cessa
del notturno timor, che in me succede
l' amoroso desio, che m' arde e strugge.
Ben sai tu, mia fedel, ch' il primo giorno
che Galealto agli occhi miei s' offerse,
e che sepp' io che dal suo nobil regno
della Norvegia era venuto al regno
di mio padre in Suezia egli medesmo
a richiedermi in moglie, io mi compiacqui
molto del suo magnanimo sembiante,
e di quella virtú per fama illustre,
sempre cara per sé ma vie più cara
s' ella viene in bel corpo, e se fiorisce
co 'l verde fior di giovinetta etade.
E sì di quel piacer presa restai,
ch' il mio desir prontissimo precorse
l' assenso di mio padre: e prima fui
amante sua che sposa. Or come poi
il mio buon genitor con ricca dote
per genero il comprasse, e come in pegno
di casto amor, d' indissolubil fede
la sua destra ei porgesse a la mia destra;
come negasse di voler le nozze
celebrare in Suezia, e corre i frutti
del dolce matrimonio in fin che fosse
giunto al paterno suo norvegio regno,
ove dicea desiar la sua madre
ch' il primo fior di mia virginitade
nel letto genial del re norvegio
fosse colto, là 'v' ella ancora giacque
vergine intatta, e con felici auspicii
ne sorse poi sposa feconda e madre,
tutto è già noto a te. Sai parimente
che pria che dentro di Norvegia ai porti
la nave ei raccogliesse in riva al mare,
in erma riva e 'n solitarie arene,
stimulando la notte i suoi furori,
come sposo non già, ma come amante
rapace celebrò furtive nozze,
le quai sol vide il raggio de la luna:
e quei notturni abbracciamenti occulti
ivi restar, ch' alcun non se n' avide:
se non forse sol tu, che nel mio volto
ben conoscesti il rossor novo e i segni
de la perduta mia virginitade,
onde dicesti a me: – Donna tu sei. –
Ed io, tacendo e vergognando, a pieno
confermai le parole. Or, poi che siamo
giunti ne la cittade, ov' è la sede
real del re norvegio, ov' è l' antica
suocera, che da me nipoti attende,
che s' aspetti non so; ma veggio in lungo
trar de le nozze il desiato giorno.
S' è venti volte il sol tuffato e sorto
di grembo a l' Oceàn da che giungemmo,
ch' i giorni ad un ad un conto e le notti,
e pur ancor s' indugia; ed io fra tanto,
(debbol dir, o tacer?) lassa, mi struggo
come tenera brina in colle aprico.
Nutrice
Alvida, anima mia, sì come folle
mi sembra il tuo timor, ch' altro soggetto
non ha che d' ombre e sogni, a cui, s' uom crede,
più degli stessi sogni è lieve e vano,
così giusta cagion parmi che t' arda
d' amoroso desio: che giovanetta,
che per giovane sposo in cor non senta
qualche fiamma d' amor, è più gelata
che dura neve in rigid' alpe il verno.
Ma donnesca onestà temprar dovrebbe
la tua soverchia arsura, e dentro al seno
chiuderla sì, che fuor non apparisse:
che non conviene a giovane pudica
farsi incontro al desio del caro sposo,
ma gli inviti d' amor attender deve
in guisa tal, che schiva e non ritrosa
se 'n mostri, e dolcemente a sé l' alletti
con l' onesto rossor più che co' i vezzi.
Frena, figlia, il desio, che breve ormai
esser puote l' indugio, e sol s' attende
il magnanimo re de' Goti alteri,
che viene ad onorar le regie nozze.
Alvida
Sollo, e questa tardanza anco molesta
m' è per la sua cagion. Non posso io dunque
premer il letto marital, se prima
non vien fin dal suo regno il re de' Goti?
forse perch' egli è del mio sangue amico?
Nutrice
Amico è del tuo sposo, e dee la moglie
amar e disamar non co 'l suo affetto,
ma con l' affetto sol del suo consorte.
Alvida
Siasi, come a te par: a te concedo
questo assai facilmente. A me fia lieve
d' ogni piacer di lui far mio piacere.
Così potess' io pur qualche favilla
smorzar de le mie fiamme, od a lui tanto
piacer, ch' egli sentisse uguale ardore.
Lassa, ch' invan ciò bramo. Egli mi sembra
vago di me non già, ma di me schivo;
perché da quella notte, in cui di furto
godette del mio amor, a me dimostro
non ha si sposo più segni o d' amante,
non dolce bacio nel mio volto impresso,
non pur giunta la sua con la mia mano,
non pur fissato in me soave sguardo.
Madre, io pur te 'l dirò, benché vergogna
affreni la mia lingua, e risospinga
le mie parole indietro: io pur sovente
tutta in atto amoroso a lui mi mostro,
e li prendo la destra, e m' avicino
al caro fianco; egli s' arretra, e trema,
e di pallor sì fatto il volto tinge,
che mi turba e sgomenta: e certo sembra
pallidezza di morte, e non d' amore;
e china gli occhi a terra, e pur turbata
volge la faccia altrove; e, se mi parla,
parla in voce tremante, e con sospiri
le parole interrompe.
Nutrice
O figlia, segni
narri tu di fervente intenso amore.
Tremar, impallidir, timidi sguardi,
timide voci, e sospirar parlando,
effetti son d' affettuoso amore,
che per soverchio amor teme ed onora;
e s' or non vien a te con quello ardire,
che mostrò già ne le deserte arene,
sai che la solitudine e la notte
sproni son de l' audacia e de l' amore.
Ma la luce del giorno e la frequenza
de le case reali apporta seco
rispettosa vergogna; e s' egli fue
già ne' luochi solinghi audace amante,
accusar non si dee, s' or si dimostra
ch' è, ne la regia sua, modesto sposo.
Alvida
Piaccia a Dio che t' apponghi. Io pur tra tanto,
poi ch' altro non mi lice, almen conforto
prendo dal rimirarlo; e sono uscita,
perché so che sovente ha per costume
venir tra queste spaziose loggie,
a goder del mattin il fresco e l' òra.
Nutrice
Figlia e signora mia, più si conviene
al decoro regale, ed a quel nome,
che di vergine ancor sostieni e porti,
a le tue regie stanze ora ritrarti,
e quindi (se pur vuoi) chiusa e celata
dal balcon rimirarlo.
Scena seconda
Galealto Re. Consigliere
Ahi, qual Tana, qual Istro, e qual Eusino,
qual profondo Oceàn con tutte l' acque
lavar potrà la scelerata colpa,
ond' ho l' alma e le membra immonde e sozze?
Vivo ancor dunque, e spiro, e veggio il sole?
Ne la luce de gli uomini dimoro?
Son detto cavalier? son re chiamato?
È chi mi serve, e chi mi onora e cole?
E forse ancor chi m' ama? Ah certo m' ama
colui che del mio amor tai frutti coglie.
Ma che mi giova, ohimè? s' esser mi pare
di vita immeritevole, e se stimo
che indegnamente a me quest' aria spiri,
e 'ndegnamente a me risplenda il sole?
Se l' aspetto de gli uomini m' è grave;
se 'l titol regal, se 'l nome illustre
di cavalier m' offende? e s' ugualmente
i servigi e gli onor disdegno e schivo,
e s' in guisa me stesso odio ed aborro,
che ne l' esser amante offesa i' sento?
Lasso, io ben me n' andrei per l' erme arene
solingo, errante, e ne l' Ercinia folta,
o ne la negra selva, o in quale speco
ha più profondo il Caucaso gelato,
mi asconderei dagli uomini e dal cielo.
Ma che rileva ciò, se a me medesmo
non mi nascondo, ohimè? Son io, son io
consapevole a me d' empio misfatto.
Di me stesso ho vergogna, ed a me stesso
son vile e grave ed odioso pondo.
Che pro, misero me, che non paventi
i detti e 'l mormorar del volgo errante,
o l' accuse de' saggi, se la voce
de la mia propria conscienza immonda
mi rimbomba altamente in mezzo il core?
S' ella a vespro mi grida ed a le squille,
se mi turba le notti, e se mi scuote
dagli infelici miei torbidi sogni?
Misero me, non Cerbero, né Scilla
latrò così giamai, com' io ne l' alma
sento i latrati suoi: non can, non angue
de l' arenosa Libia, né di Lerna
Idra, né de le Furie empia cerasta,
morse giamai, com' ella morde e rode.
Consigliere
Signor mio, se la fè, che già più volte
si sia dimostra a manifeste prove
ne le liete fortune e ne l' averse,
porger può tanto ardire ad umil servo,
ch' egli osi di pregare il suo signore,
che de' secreti suoi parte li faccia,
io prego te che la cagion mi scopra
di questi novi tuoi duri lamenti,
e qual fallo commesso abbi sì grave,
che contra te medesmo ora ti renda
accusatore e giudice sì fiero.
Non me 'l negar, signor, perché ogni doglia
s' inasprisce tacendo, e ragionando
si mitiga e consola; ed uom, che il peso
de' suoi pensier deponga in fide orecchie,
molto ne sente allegerito il core.
Galealto
O mio fedel, a cui già il padre mio
la fanciullezza mia diede in governo,
perché informassi tu l' animo molle,
e l' ancor rozza mia tenera mente
di bei costumi onesti e del sapere,
ch' è richiesto a color ch' il ciel destina
a grandezza di scettri e di corone,
ed ad esser de' popoli pastore;
ben mi sovien con quai prudenti e saggi
detti m' ammaestravi, e quai sovente
mi proponevi tu dinanzi agli occhi
d' onestà, di virtú mirabil forme,
e quai di regi esempi e di guerrieri,
che ne l' arte di pace e di battaglia
furon lodati, e con quai forti sproni
di generosa invidia il cor pongevi,
e con quali d' onor dolci lusinghe
l' allettavi a virtú. Lasso, m' accresce
quest' acerba memoria il mio dolore,
che quant' io dal sentier, che mi segnasti,
mi veggio traviato esser più longe,
tanto più contra me di sdegno avampo:
e s' ad alcuno
asconder per rossor dovessi il fallo,
che la vita mi fa spiacente e grave,
esser tu quel dovresti, i cui ricordi
così male da me fur posti in opra.
Ma l' amor tuo, la conosciuta fede,
l' avedimento e 'l senno e quella speme,
che del consiglio tuo sola mi avanza,
benché speme assai debole ed incerta,
mi confortano a dir quel che paventa
e inorridisce a raccordarsi il core,
e per duol ne rifugge, e che la lingua
tremante e schiva a palesar s' induce;
e per questo in disparte io t' ho qui tratto.
Ben rammentar ti dei, ch' a pena io fui
di fanciullezza uscito e da quel freno
sciolto, co 'l qual tu mi reggesti un tempo,
che, vago di mercar fama ed onore,
lasciai la patria, il caro padre e gli agi
de le case regali, e peregrino
vidi varii costumi e varie genti;
e sconosciuto io mi trovai sovente,
ove il ferro si tratta e sparge il sangue.
In quegli errori miei (come al ciel piacque)
mi strinsi d' amicizia in dolce nodo
co 'l buon Torrindo, principe de' Goti,
che giovinetto anch' egli, e dal medesmo
desio spronato d' onorata fama,
peregrinava per li regni estrani.
Seco i Tartari erranti e i Moschi i' vidi,
abitator de' paludosi campi,
gli uni Sarmati e gli altri e i Rossi e gli Unni,
e de la gran Germani i monti e i lidi,
e in somma ogni paese che si giaccia
soggetto ai sette gelidi Trioni.
De la milizia i gravi affanni seco
soffersi, e sempre seco ebbi commune
i perigli non men e le fatiche
che le palme e le prede. Assai sovente
ei del suo proprio petto a me fè scudo
e mi sottrasse a morte; ed io talora
la vita mia per la sua vita esposi.
Né dopo che moriro i padri nostri,
e ch' a la cura de' paterni regni
richiamati ambo fummo, i dolci offici
cessàr de l' amicizia; ma disgiunti
di luogo, e più che mai di core uniti,
cogliemmo anco di lei frutti soavi.
Misero, or vengo a quel che mi tormenta.
Questo mio caro e valoroso amico,
pria che a lui fesse elezione e sorte
me de l' armi compagno e degli errori,
mentre ei sol giva sconosciuto attorno,
trasse in Suezia a l' onorata fama
d' un torneamento, ond' ebbe poscia il pregio.
Ivi in sì forte punto agli occhi suoi
si dimostrò la fanciulletta Alvida,
che ne la prima vista egli sentissi
l' alma avampar d' inestinguibil fiamma.
E ben ch' ei non potesse far ch' in guisa
favilla del suo ardor fuor tralucesse,
che dagli occhi di lei fosse veduta,
perch' essa più del tempo in casta cella
era guardata da la madre allora,
quasi in chiuso giardin vergine rosa,
non di men pur nodrì nel core il foco
di memoria vie più che di speranza.
Né longhezza di tempo o di camino,
né rischio, né disagio, né fatica,
né il veder novi regni e nove genti,
piagge, monti, foreste, e fiumi, e mari,
né di nova beltà nova vaghezza,
né, s' altro è che d' amor la face estingua,
intepidiro i suoi amorosi incendii;
ma qual prima gli corse ardente al core
l' imagine di lei, tal vi rimase.
De le fatiche sue solo ristoro
era il parlar di lei meco talvolta,
talor tra se medesmo; ed involava
le dolci ore del sonno a la quiete,
per darle a' suoi pensier, che sempre desti
tenea ne l' alma il vigilante amore.
Così de' suoi pensier e de' suoi detti
esca facendo al suo gradito fuoco,
che quasi face a lo spirar de' venti
s' avvivava commosso a' suoi sospiri,
secretamente amò tutto quel tempo
che peregrino andò; e del suo core
fummo sol secretarii amore ed io.
Ma poi che, richiamato al patrio regno,
nel gran soglio degli avi egli s' assise,
e ch' a le nozze l' animo rivolse,
tentò con destri ed opportuni mezzi
s' indur potea d' Alvida il vecchio padre
che la figliuola sua li desse in moglie;
ma indurato il trovò d' alma e di core.
Però che il vecchio re, crudo d' ingegno,
di natura implacabile e tenace
d' ogni proposto, e di vendetta ingordo,
ricusò di voler pace coi Goti,
non ch' amicizia o parentado alcuno,
da cui sì spesso depredato ed arso
vide il suo regno, violati i tempi,
profanati gli altari, e da le cune
tratti i teneri figli e da' sepolcri
le ceneri degli avi e sparse al vento;
da cui, non ch' altro, un suo figliuol su 'l fiore
fu de l' età miseramente estinto.
Poiché sprezzar ed aborrir si vede
il buon Torrindo, ancorché giusto sdegno
concetto avesse contra il fiero veglio,
che fatto avea di lui aspro rifiuto,
non però per repulsa, o ver per l' ira
che l' ardea contra il padre, ei scemò dramma
di quell' amor, onde la figlia in moglie
così cupidamente aver bramava.
E ben è ver che negli umani ingegni,
e più ne' più magnanimi ed altieri,
per la difficoltà cresce il desio,
e ch' a quel ch' è negato, uom s' affatica
con isforzo maggior di pervenire;
però che la repulsa e 'l novo sdegno
al vecchio amor del principe de' Goti
fur quasi sferza e sproni, e confermaro
l' ostinato voler ne l' alta mente.
Dunque ei fermato di voler, malgrado
del padre, aver la figlia, e di volere
viver con lei, o di morir per lei,
d' acquistarla per furto o per rapina
pensava, e varii in sé modi volgea,
ora d' accorgimento ora di forza;
al fin, come al più agevole e più breve,
al pensier s' appigliò ch' ora udirai.
Per un secreto suo messo fedele,
e per lettere sue, con forti prieghi
mi strinse ch' io la bella Alvida al padre
per consorte del letto e de la vita
chieder dovessi, e che, da poi ch' avuta
l' avessi in mio poter, la conducessi
a lui, che se n' ardeva e che non era
del pertinace re genero indegno.
Io, se ben conoscea che quest' inganno
irritati gli sdegni e forse l' armi
incontra me de la Suezia avrebbe;
e se ben conoscea che tutto quello
ch' è in fraude, o c' ha di fraude almen sembianza,
brutta il candido onor più ch' altra macchia,
perché la fraude è non pur vizio infame,
ma 'l più sozzo de' vizii e il più nocivo;
nondimen giudicai, ch' ove interviene
de la sacra amicizia il sacro nome,
quel che meno per sé sarebbe onesto
acquisti d' onestà sembianti e forme;
e, se ragion mai violar si deve,
sol per l' amico violar si deve;
ne l' altre cose poi giustizia serba.
Questa credenza dunque, e 'l creder anco
che 'l beneficio allor a chi 'l riceve
più grato sia, quando colui che il face
con suo periglio il fa, furon cagione
ch' io posposi al piacer del caro amico
la mia pace e del regno; e mi compiacqui
divenir disleal per troppa fede.
Questo fisso tra me, non per messaggi,
né con quell' arti, che tra' regi usate
sono, tentai del suocero la mente;
ma, per troncar gli indugi, io stesso a lui
de la mia volontà fui messaggiero.
Ei gradì la venuta e le proposte,
e per oste e per genero m' accolse,
e congionse a la mia la regal destra,
e a me diede e ricevé la fede,
ch' io di non osservar prefisso avea.
Indi, sì com' a sposo, a me concesse
la figlia sua, che vergine matura
fioria, cresciuta di bellezza e d' anni.
Ed io, tolto congedo, in su le navi
posta la preda mia, spiegai le vele,
e per l' alto oceàn drizzai le prore.
Noi solcavamo il mare, e la credente
mia sposa al fianco mi sedeva affissa
sempre, e pendea da la mia bocca intenta;
e dai suoi dolci sguardi e dai sospiri
ben comprendea ch' ella nel molle core
ricevuto m' avea sì fattamente,
che si struggea d' amore e di desio.
Io, che con puro e con fraterno affetto
rimirata l' avea, come sorella,
prima che del suo amor mi fossi accorto,
quando vidi ch' amando ella ad amare
mi provocava, mi commossi alquanto;
pur ripresi de l' alma i moti audaci,
e posi freno ai guardi, e le parole
ritenni, e tutto mi raccolsi e strinsi.
Ma 'l luogo angusto, il qual seco congiunto
mi tenea, mal mio grado, e l' ozio lungo,
e i suoi d' amor reiterati inviti,
tanto efficaci più quanto temprati
eran più di modestia e di vergogna,
vinsero al fin la conbattuta fede.
Ahi, ben è ver che risospinto amore
dopo mille repulse, assai più fero
torna a l' assalto; ed è sua legge antica,
ch' egli a nissun amato amar perdoni.
Già con gli sguardi ai guardi e co' sospiri
rispondeva ai sospiri, e le mie voglie
a le voglie di lei si feano incontra,
su la fronte venendo e 'n su la lingua;
ma pur anco di me signor intanto
era, ch' io contenea le mani e i detti.
Quando ecco la fortuna e 'l cielo averso,
con amor congiurati, un fiero turbo
mosser repente, il qual grandine e pioggia
portando e cieche tenebre, sol miste
d' incerta luce e di baleni orrendi,
volser sossopra l' onde; e per l' immenso
grembo del mar le navi mie disperse,
e quella, ov' era la donzella ed io,
scevra da tutte l' altre, a terra spinse,
sì ch' a gran pena il buon nocchiero accorto
la salvò dal naufragio, e si ritrasse
dove si curva il lido e fra due corna,
che stende in mar, rinchiude un cheto seno,
che porto è fatto dagli opposti fianchi
d' un' isola vicina, in cui si frange
l' onda che vien da l' alto e si divide.
Quivi ricoverammo, e desiosi
ponemmo il piè ne le bramate arene.
Mentre altri cerca i fonti, altri le selve,
altri rasciuga le bagnate vesti,
altri appresta la mensa, io con Alvida
solo lasciato fui sotto il coperto
d' una picciola tenda. E già sorgeva
la notte amica de' furtivi amori,
già crescea per le tenebre l' ardire,
e fuggia la vergogna; allor mi strinse
la vergine la man tutta tremante:
questo quel punto fu...
Allor amor, furor, impeto e forza
di fatal cupidigia al cieco furto
sforzar le membra temerarie, ingorde;
ma la mente non già, che si ritrasse
tutta in se stessa schiva e disdegnosa,
e dal contagio de' diletti immondi
pura si conservò quanto poteva.
Ma com' esser può pura in corpo infetto?
Allor ruppi la fede, allor d' onore
e d' amicizia violai le leggi.
Allor, di sceleraggine me stesso
contaminando, traditor mi feci:
allor di cavalier, di rege e d' uomo
perdei l' essere e 'l nome: allor divenni
fero mostro odioso, esempio infame
di mancamento e di vergogna eterna.
Da indi in qua son agitato, ahi lasso,
da mille interni stimoli, e da mille
vermi di pentimento, ohimè, son roso;
né da le furie mie pace, né tregua
giamai ritrovo. O furie, o dire, o mille
debite pene e de' miei ingiusti falli
giuste vendicatrici, ove ch' io giri
gli occhi, o volga il pensiero, ivi dinanzi
l' atto, che ricoprì l' oscura notte,
mi s' appresenta, e parmi in chiara luce
a tutti gli occhi de' mortali esposto.
Ivi mi s' offre in spaventosa faccia
il mio tradito amico; odo l' accuse
e i rimproveri giusti, odo da lui
rinfacciarmi il suo amore, e ad uno ad uno
tutti i suoi benefici e tante prove,
che fatto egli ha d' inviolabil fede.
Misero me, fra tanti artigli e tanti
morsi di conscienza e di dolore,
gli amorosi martir trovan pur loco;
e di lasciar la male amata donna
(che è pur forza lasciar) m' incresce in guisa,
che di lasciar la vita anco dispongo.
Questo il modo più facile e più breve
mi par d' uscir d' impaccio; e poi che il nodo
onde amor e fortuna involto m' hanno
scior non si può, si tronchi e si recida:
ch' avrò, morendo, almen questo contento,
ch' in me, giudice giusto, avrò punito
io medesmo la colpa onde son reo.
Consigliere
Signor, tanto ogni mal sempre è più grave,
quanto in parte più nobile e più cara
adivien ch' egli caggia; e dal soggetto
natura e qualità prende l' offesa.
Quinci vediam che quel che leggier colpo
forse parrebbe ed insensibil male
ne la spalla e nel braccio e 'n quelle membra,
che natura formò robuste e dure,
quel medesmo negli occhi è grave e reca
di cecità pericolo e di morte.
Però quest' error tuo, che per se stesso
non saria di gran pondo, e lieve fora
negli uomini volgari, e 'n quelle usate
cittadine amicizie, che congiunge
l' utile, o in quelle che diletto unisce,
grave divien (no 'l nego) oltre misura
tra grandezza di scettri e di corone,
e tra il rigor di quelle sante leggi,
che la vera amistà prescrisse altrui.
Error di cavalier, di re, d' amico,
contra sì nobil cavaliero e rege,
contra amico sì caro e sì leale,
che virtude ed onor ha per oggetto,
fu questo tuo; ma pur chiamisi errore,
abbia nome di colpa e di peccato,
di sfrenato desio, di cieca e folle
cupidigia si dica indegno fallo:
nome di sceleragine non merta.
Lunge, per Dio, signor, per Dio sia lunge
da ciascun' opra tua titol sì brutto;
non sottentrar a non devuto carco:
che, s' uom non dee di falsa laude ornarsi,
non dee gravarsi ancor di falso biasmo.
Non sei tu no (la passion t' accieca)
scelerato, signor, né traditore.
Scelerato è colui che la ragione,
ch' è del ciel caro e prezioso dono,
data perch' ella al ben oprar sia duce,
torce di sua natura e piega al male,
ed incontra il voler di chi la diede
guida a l' opre, e le fa malvage ed empie,
e mostra ne l' insidie e ne le fraudi.
Ma quel che senza alcun fermo consiglio
di perversa ragion trascorre a forza,
ove il rapisce impetuoso affetto,
scelerato non è, quantunque grave
sia il fallo ove il trasporta ira od amore.
D' ira o d' amor, potenti e fieri affetti,
la nostra umanitade ivi più abonda
ov' è più di vigor; e rado aviene
che cor feroce, generoso e pieno
d' ardimento e di spirito guerriero,
concitato non sia da' suo' duoi moti,
quasi da vento procelloso mare.
Ora a memoria richiamar ti piaccia
ciò che fanciullo udir da me solevi.
Mira de' prischi Greci i duo più chiari,
e vedrai l' un che per concetto sdegno
siede fra l' armi neghittoso e niega
feroce, inesorabile e superbo,
soccorso ai vinti e quasi oppressi amici;
l' altro ammollito da pensier lascivi
vedi spogliarsi il duro cuoio, e involto
in gonna feminil torcere il fuso.
Mira Alessandro ancor, che da' conviti
corre sovente al ferro, e talor mesce
col vino il sangue, e su le liete mense
i suoi più cari furioso uccide;
in questi esempi ti consola, o figlio.
Vedesti bella e giovinetta donna,
e 'n tua balia l' avesti; e non ti mosse
la bellezza ad amare, ed invitato
non rispondesti a gli amorosi inviti:
desti ad amor quattro repulse e sei,
raffrenasti il desio, gli sguardi e i detti;
al fin amor, fortuna, il tempo e 'l loco
vinser la tua costanza e la tua fede.
Errasti, e gravemente, in vero, errasti:
ma però senza esempio e senza scusa
non è il tuo fallo, né di morte degno.
Né morte, ch' uom di propria man si dia,
scema commesso error, anzi l' accresce.
Galealto
Se morte esser non può pena od emenda
giusta del fallo, almen de' miei martiri
sarà rimedio e fine.
Consigliere
Anzi principio,
e cagion fora di maggior tormento.
Galealto
Come viver debb' io? Sposo d' Alvida?
O pur di lei privarmi? io ritenerla
non posso, che non scuopra insieme aperta
la mia perfidia; e s' io da me la parto,
come l' anima mia restar può meco?
Il duol farà quel che non fece il ferro.
Non è, questo, non è fuggir la morte,
ma sceglier di morir modo più acerbo.
Consigliere
Non è duol così acerbo e così grave,
che mitigato al fin non sia dal tempo,
consolator degli animi dolenti,
medicina ed oblio di tutti i mali.
Benché aspettar a te non si conviene
quel conforto ch' al volgo anco è commune,
ma prevenirlo devi, e da te stesso
prenderlo e da la tua virtude interna.
Galealto
Tarda incontra al dolor sarà l' aita
se dee il tempo portarla; e debol fia
se da la vinta mia virtù l' attendo.
Consigliere
Virtù non è mai vinta e 'l tempo vola.
Galealto
Vola, quando egli è apportator de' mali,
ma nel recarci i beni è lento e zoppo.
Consigliere
Ei con giusta misura il volo move;
ma nel moto inegual de' nostri affetti
è quella dismisura, che rechiamo
pur suso al ciel noi miseri mortali.
Galealto
Or, posto pur che il tempo e la ragione,
ragion, misero me, frale ed inerme,
mi difenda dal duolo: essere Alvida
può moglie insieme di Torindo e mia?
Se la fe', ch' io le die', fu stabilita
con l' atto (ohimè) del matrimonio ingiusto,
fatta è mia moglie: or, s' io la cedo altrui,
la cederò qual concubina a drudo.
A guisa dunque di lasciva amante
si giacerà nel letto altrui la moglie
del re norvegio; ed ei soffrir potrallo?
Vergognosa union, divorzio infame,
se da me la disgiungo in questa guisa,
e l' unisco a Torindo, ei non per questo
donzella goderà pura ed intatta;
tal aver non la può, ch' il furor mio
contaminolla, e 'l primo fior ne colsi.
Abbia l' avvanzo almen de' miei furori,
ma legitimamente; ed a lui passi
a le seconde nozze, onesta almanco,
se non vergine donna, Ah, non sia vero,
che, per mia colpa, d' impudichi amori
illegitima prole al fido amico
nasca, e che porti la corona in fronte
bastardo successor del regno goto.
Questo, questo è quel nodo, oh me dolente,
che scioglier non si può se non si tronca,
e non si tronca insieme
il nodo ond' è la vita
a queste membra unita.
Consigliere
Veramente or, signor, ragion adduci
per le quai non mi par che in alcun modo,
rimanendo tu vivo, Alvida possa
unirsi in compagnia del re de' Goti;
ma non rechi tu già dritta ragione,
per la qual debba tu contra te stesso
armar la destra violenta, e l' alma
a forza discacciar dal nobil corpo,
ove quasi custode Iddio la pose,
onde partir non dee pria che, fornita
la sua custodia, al cielo ei la richiami.
Nulla dritta ragion ch' a ciò ti spinga
ritrovar si potria, che non si trova
d' ingiusto fatto mai giusta cagione.
Ma poi che tu senza la vita, o deve
senza l' amata rimaner Torindo,
senza l' amata sua Torindo resti.
Galealto
Egli privo d' amata, ed io d' amico,
ed insieme d' onor privo e di vita,
come vivremo? ohimè, duro partito!
Consigliere
Duro (no 'l nego), ma soffrir conviene
ciò che necessità dura commanda:
necessità degli uomini tiranna,
se non quanto è 'l voler libero e sciolto,
a cui non solo i miseri mortali
soggetti son, ma i cieli anco e le stelle;
e le leggi di lei ne' moti loro
serbano inviolabili ed eterne.
Ma pur consiglio io vedo, onde d' onore
privo non rimarrai; perché, s' è vero
che nel petto d' Alvida abbia sì fisse
l' amor tuo le radici, ella giamai
consentir non vorrà che ignoto amante,
nemico amante ed odioso, e tinto
del sangue del fratel, sposo le sia.
Ella negando di voler Torindo,
non piegandosi a' preghi pertinace,
ti porgerà legitimo pretesto
di ritenerla; e dir potrai: Non lece
a cavalier far violenza a donna,
a vergine, a regina, a chi creduta
ha ne la fede mia la vita sua.
Pregherò teco, amico, e teco insieme
co' i preghi mischierò sospiro e pianto,
ed userò per persuaderla ogn' arte;
ma sforzar non la voglio. Il buon Torindo,
s' egli è di cor magnanimo e gentile,
farà ch' amor a la ragion dia loco.
Così la sposa tua, così l' amico,
così l' onor non perderai.
Galealto
L' onore
séguita il bene oprar com' ombra il corpo;
ed io, s' in ciò non lealmente adopro,
privo non rimarrò?
Consigliere
L' onor riposto
è ne le opinioni e ne le lingue,
esterno ben, ch' in noi deriva altronde;
né mancamento occulto infamia reca,
né gloria vien d' alcun bel fatto ignoto.
Ma perché con l' onor anco l' amico
conservi, e strettamente a te l' unisca,
darai d' Alvida in vece a lui Rosmonda,
sorella tua, che, se l' età canuta
può giudicar di feminil bellezza,
vie più d' Alvida è bella.
Galealto
Amor non vuole
cambio, né trova ricompensa alcuna
donna cara perduta.
Consigliere
Amor d' un core,
per novello piacer, così si tragge
come d' asse si trae chiodo con chiodo.
Galealto
Ma che? se mia sorella è così schiva
degli amori non sol, ma de le nozze,
come mai fusse ne l' antiche selve
rigida ninfa, o ne' rinchiusi chiostri
vergine sacra?
Consigliere
È casta ella, ma saggia
non men che casta; e della madre i preghi,
e i soavi conforti, e i dolci detti,
e i tuoi consigli, e le preghiere oneste,
soppor faranle al novo giogo il collo.
Galealto
O mio fedel, nel disperato caso
quel consiglio, che sol dar si poteva,
da te m' è dato. Io seguirollo; e quando
vano ei pur sia, per l' ultimo refugio
ricovrerò ne l' ampio sen di morte,
ch' ad alcun non è chiuso, e tutti coglie
i faticosi abitator del mondo,
e gli sopisce in sempiterno sonno.
Scena terza
Straniero. Coro. Galealto. Consigliero.
Straniero
L' errar lontan da la sua patria, e 'l gire
peregrinando per le terre esterne,
mille disagi seco e mille rischi
suole ogni ora apportar; ma pur cotanto
è 'l piacer di veder cose novelle,
paesi, abiti, usanze e genti strane,
e così ne le menti de' mortali
il desiderio di sapere è innato,
che del peregrinar non si pareggia
co 'l diletto l' affanno. Altri ozioso
sieda pur ne le sue paterne case,
del letto marital covi le piume,
e nel sen de la moglie i molli sonni
dorma securo, or sotto l' ombra al suono
d' un mormorante rivo, or dove tempri
il rigor d' Aquilon tepida stanza:
ch' io però gli ozii suoi nulla gl' invidio.
Me di seguir il mio signor aggrada,
o de' monti canuti il ghiaccio calchi,
o le paludi pur ch' indura il verno.
Ed or, quanto m' è caro, e quanto dolce
l' esser seco venuto a l' alta pompa,
che s' apparecchia per le regie nozze
in quest' alma cittade! Egli mi manda
suo precursore al prencippe norvegio,
perch' io gli dia del suo arrivar aviso.
Ma voglio a quel guerrier, che colà veggio,
chieder dove del re sia la magione.
Amici, a me, che qui straniero or giongo,
chi fia di voi che l' alta regia insegni?
Coro
Vedi là quel di marmo e d' or superbo
edificio sublime: ivi è la stanza
del signor nostro; ed egli stesso è quello,
ch' or vedi in atto tacito e pensoso
starsi con quel canuto e saggio vecchio.
Straniero
O magnanimo re de la Norvegia,
il buon Torindo, regnator de' Goti,
t' invia salute, e questa carta insieme.
Galealto
La lettra è di credenza. Amico, esponi
la tua ambasciata.
Straniero
Il mio signor Torindo
a le tue nozze viene; e ormai non solo
dentro a' confini del tuo regno è gionto,
ma sì vicino l' hai, che pria ch' il sole,
che ora è ne l' orto, a mezzo giorno arrivi,
dentro al cerchio sarà di queste mura.
Ed ha voluto ch' io messaggio inanti
venga a dartene aviso, ed a pregarti
che tu 'l voglia raccorr senza solenne
publica pompa, e senza quei communi
segni d' onor che son tra regi usati;
però ch' al vostro amor foran soverchi
tutti del core i testimoni esterni.
Ei teco usar non altramente intende
di quel che già solea, quando in più verde
età ne giste per lo mondo erranti.
Galealto
Frettolosa venuta! Oh come lieto
del mio novello amico odo novella!
Sarà dunque ei qui tosto? Ohimè, sospiro,
perché il piacer immenso, onde capace
non è il mio cor, convien ch' in parte esali.
Coro
La soverchia allegrezza e 'l duol soverchio,
venti contrari a la vita serena,
soffian da l' alma: egualmente i sospiri.
E molti sono ancor nel core i fonti,
onde il pianto deriva: il duol, la gioia,
la pietade e lo sdegno; onde da questi
esterni segni interiore affetto
mal s' argomenta; ed or nel mio signore
l' infinito diletto effetto adopra,
qual suole in altri adoperar la doglia.
Straniero
Signor, se sì con tenero ed ardente
affetto ami il mio re, giurar ben posso
ch' ei ne l' amar ti corrisponde a pieno.
Qual è di lui più fervido ed acceso,
o qual più fido amico?
Galealto
Ohimè, che sento!
Come son dolci al cor le tue parole!
Straniero
Egli de le tue nozze è lieto in modo
ch' ogni tua contentezza in lui transfusa
sembre; s' ode lodar la bella sposa,
ne gode sì, come se sua foss' ella,
come s' a lui quella beltà dovesse
recar gioia e diletto, e spesso chiede...
Galealto
Di lei chiede, e di me: nulla di novo
narra mi puoi, ch' il mio pensier previsto
non l' abbia; e te, che del camin sei lasso,
non vuo' che stanchi il ragionar più lungo.
Or per risposta sol questo ti basti,
ch' il re Torindo qui così raccolto
sarà, com' egli vuol: che è qui signore.
Or va, prendi riposo; e tu 'l conduci
a l' ospitali stanze; e sia tua cura
ch' abbia quegli agi e quegli onor riceva,
che merta il suo valor, e che richiede
la dignità di lui, ch' a noi lo manda.
Scena quarta
Galealto
Pur tacque al fin, e pur al fin dagli occhi
mi si tolse costui, le cui parole
m' erano al cor avvelenati strali.
O maculata conscienza, or come
ti trafigge ogni detto! Ohimè, che fia,
quando poi di Torindo oda le voci?
Non al capo di Sisifo sovrasta
così terribil la pendente pietra,
com' a me 'l suo venire. Ahi, Galealto,
come potrai tu udirlo? o con qual fronte
sostener sua presenza? o con quali occhi
drizzar in lui lo sguardo? o cielo, o sole,
che non t' involvi in sempiterna notte,
perché visto io non sia, perch' io non veggia?
Misero, allor ciò desiar dovea,
per non veder, quando affissar osai
nel bel volto d' Alvida i lumi audaci
e baldanzosi: allor trasser diletto,
onde non conveniasi. È ben ragione
ch' or siano aperti a la vergogna loro,
e di là traggan noia, onde conviensi.
Ma l' ora inevitabile s' appressa,
e fuggir non la posso; or che più tardo,
che non ritrovo la mia antica madre,
perché constringa con materno impero
la mia casta sorella a maritarsi?
Alvida so ch' a' prieghi miei fia pronta,
a recar in se stessa ogni mia colpa.
Ma chi m' affida, ohimè, che di Torindo
l' alma piegar si possa a novo amore?
Vano, vano, ohimè, fia questo consiglio,
né rimedio ha 'l mio male altro che morte.
Coro.
ATTO SECONDO
Scena prima
Rosmonda sola.
Oh felice colui, che questa immonda
vita nostra mortale in guisa passa,
che non s' asperga de le sue brutture!
Ma chi non se ne asperge? e chi nel limo
suo non si volge e tuffa? Ahi, non son altro
diletti, onor mondani, agi e ricchezze,
ch' atro fango tenace, onde si rende
sordida l' alma e 'n suo cammin s' arresta.
Però, chi men di cotai cose abonda,
men nel mondo s' immerge, e più spedito
e più candido al ciel si riconduce.
Io, che da la fortuna alzata fui
a quella altezza che più il mondo ammira,
e son detta di re figlia e sorella,
quanto ho d' intorno, ohimè, di quel che macchia
ed impedisce un' alma! Oh come lieta
dagli agi miei, dal lusso e da' diporti,
da questo regal fasto e da le pompe
de' sublimi palagi io fuggirei
a l' umil povertà di casta cella!
Or tra lascive danze e tra' conviti
spendo pur, mal mio grado, assai sovente
i lunghi giorni interi, e giongo a' giorni
de le notti gran parte, e neghittosa
abbandono a gran dì le piume e 'l letto,
ond' ho talor di me stessa vergogna.
E gran vergogna è pur che gli augeletti
sorgano vigilanti ai primi albori
a salutar il sole, e ch' io sì tarda
sorga a lodare il creator del sole.
La monacella al suon di sacre squille
desta previen l' aurora, ed umilmente
canta le lodi del signore eterno;
poscia in onesti studi e 'n bei diporti
con le vergini sue sacre compagne
trapassa l' ore, insin che 'l suon divoto
la richiami di nuovo a' sacri offici.
Oh quanto invidio lor sì dolce vita!
Ma ecco la regina a me sen' viene.
Scena seconda
Filena. Rosmonda.
Filena
Figlia, tu sola forse ancor non sai,
ch' oggi arrivar qui deve il re de' Goti.
Rosmonda
Anzi pur sollo.
Filena
Ma saper no 'l vuoi.
Rosmonda
E chi ciò dice?
Filena
Tu medesima dici.
Rosmonda
Fatto motto non ho.
Filena
Nè fatto hai cosa
per la qual mostri di voler saperlo.
Rosmonda
Che debbo far? Non so ch' a me s' aspetti
alcuna cura.
Filena
Or non sai dunque, o figlia,
che tu con tua cognata essere insieme
devi a raccorlo? E ch' egli è quel cortese
prencipe e cavalier che il grido suona?
Visiterà la sposa, e forse prima
ch' il sudor e la polve abbia deposta.
Rosmonda
Così certo mi credo.
Filena
Or come dunque
così gran rege in sì solenne giorno
raccor tu vuoi così negletta e inculta?
Perché non orni le leggiadre membra
di preziose vesti, e non accresci
con l' arte feminil quella bellezza,
onde natura a te fu sì cortese?
Beltà negletta e in umil manto avolta,
è quasi rozza e mal pulita gemma,
ch' avolta in piombo vil poco riluce.
Rosmonda
Questa nostra bellezza, onde cotanto
il volgo feminil se 'n va superbo,
di natura stim' io dannoso dono,
che nuoce a chi 'l possiede ed a chi 'l mira:
il qual vergine saggia anzi dovrebbe
celar, che farne ambiziosa mostra.
Filena
La bellezza, figliuola, è proprio bene,
e propria dote del femineo stuolo,
com' è proprio degli uomini il valore.
Questa, in vece d' ardire e d' eloquenza
e di sagace ingegno, a noi natura
diede, più liberale in un sol dono
ch' in mill' altri ch' a' maschi ella dispensa.
Con questa superiamo i valorosi,
i facondi e gli industri; e son le nostre
vittorie più mirabili che quelle
onde va glorioso il viril sesso:
perché i vinti da lor son lor nimici,
ch' odiano la vittoria e i vincitori;
ove i vinti da noi son nostri amanti,
ch' aman le vincitrici, e lieti sono
de le nostre vittorie. Or s' uomo è folle,
s' egli ricusa di fortezza il pregio,
folle stimar devi colei non meno,
la qual rifiuti il titolo di bella.
Rosmonda
Io più tosto credea che doti nostre
fossero la modestia e la vergogna,
la pudicizia e la pietà devota;
e mi credea ch' un bel silenzio in donna
agguagliasse le doti de' facondi.
Ma se pur la bellezza è così cara,
come tu dici, ella è sol cara in quanto
di queste altre virtù donnesche è fregio.
Filena
Se fregio è, dunque, esser non dee negletto.
Rosmonda
Se d' altri è fregio, adorna è per se stessa;
e benché tale a mio parer non sono,
come giudichi tu, che mi rimiri
con lo sguardo di madre, ornar mi debbo
per esser, se non bella, almeno ornata;
e lo farò non per piacer ad uomo,
ma per piacer a te, de le cui voglie
è ragion ch' a me stessa io faccia legge.
Filena
Saviamente ragioni; ed a me giova
sperar, che tale al peregrino eroe
parrai, quale a me sembri; ond' ei sovente
dirà fra se medesmo sospirando:
Già sì belle non son, né sì leggiadre,
le figliuole de' prencipi de' Goti.
Rosmonda
Tolga Iddio, che per me sospiri alcuno.
Filena
Vaneggi? Or dunque a te saria discaro
che sì forte guerrier, re sì possente
sospirasse per te di casto amore,
in guisa tal che farti egli bramasse
de' bellicosi suoi Goti regina?
Rosmonda
Madre, io no 'l negarò: ne l' alta mente
questo pensiero è in me riposto e fitto
di viver vita solitaria e sciolta
da' maritali lacci; e conservarmi
de la virginitade il caro pregio
stimo più ch' acquistar scettri e corone.
Filena
Ei si par ben che, giovinetta ancora,
quanto sia grave e faticoso il pondo
de la vita mortal tu non conosci,
poi che portar sì agevolmente il credi.
La nostra umanitade è quasi un giogo
gravoso, che natura e 'l ciel n' impone,
il qual ben sostentato esser non puote
da l' uom, s' egli è disgiunto, o da la donna.
Ma quando avien ch' in matrimonio uniti
di conforme voler marito e moglie
compartano fra lor gli uffici e l' opre,
scambievolmente allor l' uno da l' altro
riceve vita, e fanno sì ch' il peso
lieve lor sembra e dilettoso il giogo.
Deh chi mai vide scompagnato bue
segnare i solchi? o, cosa anco più strana,
che sola donna sterilmente segni
i fruttiferi campi de la vita?
Questo, ch' io ti dico or, figlia, l' insegna
l' esperienza, mastra de' mortali;
però che quel signore, a cui mi scelse
compagna il cielo, e 'l suo volere e 'l mio,
in guisa m' aiutò, mentre egli visse,
a sopportar ciò che natura e 'l caso
suole apportar di grave e di noioso,
ch' alleggiata ne fui, sé sentii mai
cosa che di soverchio il cor premesse.
Ma poi che morte ci disgiunse (ahi morte
memorabil per me sempre ed acerba),
sola rimasa sotto iniqua soma,
pavento spesso di cader tra via,
oppressa dagli affanni; ed a gran pena
per l' estreme giornate di mia vita
trar posso il fianco debole ed antico.
Lassa, né torno a ricalcar giamai
lo sconsolato mio vedovo letto,
ch' io no 'l bagni di lacrime notturne,
rimembrando fra me ch' io già solea
vederlo impresso de' vestigi cari
del mio signore, e ch' ei solea ricetto
dar a' nostri riposi ed agli onesti
piaceri, ed esser secretario fido
de' celati consigli e de le cure.
Ma dove mi trasporta il mio dolore?
Or, ritornando a quello onde si parla,
s' a me d' alleggiamento e di diletto
fu il ben amato mio signore, ed io
a lui sovente agevolai gli affanni;
e quant' ei co' consigli in me operava,
tant' io co' dolci miei conforti in lui,
e co 'l soppormi a' suoi travaglia stessi,
e con piangerne seco; e mentre ei volto
era a' civili offici ed a le guerre,
sovra me tutto ei riposava il peso
de' domestici affari: in cotal guisa
questa vita mortal, se non felice
(che felice non è stato mortale)
contenta almeno e fortunata i' vissi;
e sventurata sol, perché quel giorno
che chiuse a lui le luci, anco non chiuse
queste mie stanche membra in quella tomba,
ov' egli i nostri amori e i miei diletti
sen' portò seco, e se li tien sepolti.
Oh piaccia al ciel, ch' a te vita e consorte
simil sia destinato; e tal sarebbe,
per quel ch' io di lui stimo, il re de' Goti.
Tu s' avvien ch' egli a te l' animo pieghi,
schiva non ti mostrar di tale amante.
Rosmonda
Se ben di noi, che giovinette siamo,
quella è più saggia che saper men crede,
e che le cose co 'l canuto senno
de la madre misura, e non co' suoi
giovenili consigli, io nondimeno
osarò dir quel che ragion mi detta,
che, scompagnata ancor da esperienza,
suol molte volte non dettar il falso.
Non nego io già ch' alleggerir non possa
la compagnia de l' uom la noia in parte,
onde la vita feminile è grave;
ma parmi ben che s' in alcune cose
ci alleggia, in alcune altre ella ci preme,
e che di peso più che non ci toglie
ci aggiunge. Io lasso che dificil soma
stimar si può l' imperio de' mariti,
qualunque egli si sia, severo o dolce:
or non è ella assai gravosa cura
la cura de' figliuoli? E non son gravi
le morti e i morbi loro? E, s' il ver odo,
la gravidanza ancora è grave pondo
e del parto gravissimi i dolori:
sì che il figliuol, ch' il frutto è de le nozze,
al padre è frutto ed a la madre è peso:
peso anzi al nascer grave, e più nascendo,
né poi nato leggiero. E pur di questo,
di cui la vita virginale è scarca,
il matrimonio solo è che ci aggrava.
Che dirò s' egli avvien che sian discordi
il marito e la moglie? O se la donna
s' incontra in uom superbo, o crudo, o stolto?
Misera servitude e ferreo giogo
puote allor dirsi il suo. Ma sian concordi
d' animi e di consigli, e viva l' uno
ne la vita de l' altro; or che ne segue?
Forse questa non è gravosa vita?
Allor, quanto ama più, quando conosce
d' essere amata più, tanto la donna
a mille passioni è più soggetta,
ed agli affetti propri aggiunge quelli
del caro sposo suo, che proprii fassi:
teme co' suoi timor, duolsi co 'l duolo,
piange con le sue lacrime e co' suoi
gemiti geme; e, benché stia sicura
in chiusa stanza, o in ben guardata rocca,
esposta è seco nondimeno a' casi
de le battaglie incerte ed a' perigli.
Di ciò non cerco io già stranieri esempi,
ch' abondo de' domestici, e li prendo
da te medesma; e tu stessa ragioni
contra le tue ragioni a me ministri.
Ma se 'l marito muor, sente la moglie
tutto ciò che di grave è ne la morte,
e seco muore, e in un medesmo tempo
vive, e sostenta de la vita i pesi.
onde conchiudo,
che sia noioso il maritale stato,
in cui l' essere sterile o feconda,
l' essere amata od odiosa, apporta
solleciti pensier, fastidi e pene
quasi egualmente. Io non però le nozze
schivo, per ischivar gli affanni umani,
ma più nobil desio, più santo zelo
me de la vita virginale invoglia.
E somigliar vorrei, sciolta vivendo,
libera cerva in solitaria chiostra,
non bue disgiunto in mal arato campo.
Filena
Non è stato mortal così tranquillo,
qual ei si sia, del quale accorta lingua
molte miserie annoverar non possa.
Però, lasciando il paragon da parte
de le due varietadi, io sol dirotti
che a te stessa tu sol non ci nascesti:
a me, che ti produssi, ed al fratello
ch' uscì del ventre stesso, a questa egregia
cittade ancor nascesti. Or perché dunque
in guisa vuoi di scompagnevol fiera
viver sola e selvaggia a te medesma?
Chiede l' utilità forse del regno
e del caro fratel che ti mariti.
Dunque al pro' de la patria e del germano
fia il tuo piacer preposto? Ah, non ti stringe
la materna pietà? Non vedi ch' io
del mortal corso omai tocco la meta?
Perché m' invidi quel piacer compito,
ch' avrò s' io veggio, anzi ch' a morte giunga,
rinascer la mia vita e rinovarsi
ne l' imagine mia, ne' miei nipoti,
nati da l' uno e l' altro mio figliuolo?
Rosmonda
Già non resti per me, che de' nipoti
tu felice non sia, ch' egli è ben dritto
ch' a la sua genitrice ed al germano
obedisca la figlia e la sorella.
Filena
Ben è degna di te questa risposta.
[non passò più oltre il Poeta]