Giuditta

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GIUDITTA

Tragedia in tre atti

di JEAN GIRAUDOUX

Versione italiana di Emilio Castellani

PERSONAGGI

GIUDITTA – SUSANNA - SARA

DA­RIA

LIA, madre di Susanna

ESTER - LA PRIMA CANTATRICE

LA SECONDA CANTATRICE - LA GUARDIA

OLO­FERNE – GIOACHINO - GIOVANNI

EGONE – PAOLO - GIUSEPPE

OTTA – URI - ASSUR

IL PRIMO PROFETA

IL SECONDO PROFETA

IL DOMESTI­CO - IL PICCOLO GIACOBBE

YAMI, negro

EBREE - EBREI

SOLDATI - DOMESTICI

L'ECO

ATTO PRIMO

Prima che si alzi il sipario, si ode una sorta di richiamo lacerante, un'acuta voce maschile che gri­da: « Giuditta! Giuditta! Salvaci!-».

 (Al levarsi del sipario, sbucano domestici da ogni parte recando armi e randelli; lo zio dì Giuditta, Giuseppe, li incita).

Giuseppe                       - Sulle scale! Negli armadi! Nel ca­mino! Stavolta non ci sfuggirà! Un premio per chi lo trova.

Un Domestico               - Non lo troveremo.

Giuseppe                       - Cercate, amici. E' qui senza dubbio.

Il Domestico                 - E' qui, e non è qui.

Giuseppe                       - Che vai dicendo?

Il Domestico                 - Qui è la sua voce, evidente­mente. Ma non è qui il suo corpo. Un fantasma è, che chiama. A tutti i crocicchi, in tutti i bazar, da ieri si ode questo grido. I morti sono, che chia­mano tua nipote. Ognuno lo sa, Giuditta sola può salvarci. Giuditta! Giuditta! (Ha imitato, senza ac­corgersene, l'intonazione del grido dì prima. Gli altri domestici hanno un sussulto).

Giuseppe                       - Taci... Non avete trovato nulla, voi?

Il Domestico                 - Nulla! (I domestici escono. Giuseppe gira all'intorno uno sguardo sospettoso, poi anch'egli esce. Subito dopo, la finestra si apre senza rumore. Un uomo appare a cavallo del da­vanzale e, portandosi le mani alla bocca a guisa di corno, grida con la medesima voce stridula: « Giu­ditta! Giuditta! Salvaci!». Accorrono Giuseppe e i domestici, ma la finestra si è già richiusa. Quasi immediatamente si odono violenti colpi alla porta).

Giuseppe                       - Chi è?

Giovanni                       - Sono io, Giovanni. Apri, Giuseppe! l'ho preso. (La porta viene aperta. Giovanni, giova­ne ufficiale, spinge innanzi a sé l'uomo che aveva lanciato il grido dalla finestra).

Giovanni                       - Stava saltando dalla finestra; l'ho preso al volo. Insegneremo a questa ignobile bocca a tentare certi nomi... Chi sei?

Giuseppe                       - E’ sudicio, e senti come appesta! Certamente è un profeta...

Il Domestico                 - La città ne è piena. Sui cani moribondi i pidocchi, e sul popolo malato i profeti.

Giovanni                       - Vuoi parlare? Dicci il tuo nome.

Il primo Profeta            - (si solleva come volesse parla­re) Giuditta! Giuditta!

Giuseppe                       - Tutti uguali... Stanotte, rientrando in casa, ho dovuto farmi largo fra gli accattoni addormentati sotto il portico: « Giuditta! » hanno gridato. Lo strame va sognando Giuditta... Imba­vagliatelo.

Giovanni                       - Lascia che termini la sua frase. Può esserci utile.

Il primo Profeta            - La più bella delle nostre fanciulle, la più pura...

Giuseppe                       - Sì, sempre quella loro pretesa pro­fezia... La più bella delle nostre fanciulle, la più pura, deve andare da Oloferne.

Giovanni                       - E questa è Giuditta!

Il primo Profeta            - Giuditta! Giuditta!

Giuseppe                       - Mettetegli il bavaglio, e giù in cantina! (I domestici portano via il profeta. Sol­tanto il primo domestico rimane immobile, in piedi).

Giuseppe                       - Che vuoi, tu'?

Il Domestico                 - Che Giuditta ci salvi, padrone! (A un cenno minaccioso di Giuseppe, il domestico scompare).

Giovanni                       - Giuditta non è qui, spero"?

Giuseppe                       - E' ancora all'ospedale, tra i suoi feriti: l'aspetto.

Giovanni                       - L'hai avvertita"?

Giuseppe                       - Di che? Che cosa sai, tu"?

Giovanni                       - La sacrificano. Così è stato deciso. Il Consiglio vuole che questa sera, di qui a un'ora, sia mandata da Oloferne. Di pochi minuti ho pre­ceduto il gran sacerdote, che sta per venire in per­sona a convincere Giuditta.

Giuseppe                       - Troverà me.

Giovanni                       - Che speri contro di lui? Ha con sé la città. Non sei uscito nel pomeriggio di oggi"?

Giuseppe                       - Sono uscito.

Giovanni                       - Non hai veduto su tutte le ve­trine delle botteghe, sul basamento di ogni fanale, incisa col diamante o tracciata a carbone, a seconda dei mezzi di fortuna dello scrivente, la stessa scioc­ca frase sulla più bella e la più pura delle nostre fanciulle, che deve sedurre Oloferne"?

Giuseppe                       - L'ho veduta.

Giovanni                       - E in ogni luogo quella stessa ac­cozzaglia di vecchi isterici, di ragazzotti dal labbro leporino, di donne costellate dì lupus, che si as­sembrano davanti ad ogni miracolo in gestazione: non li hai sentiti' invocare incessantemente Giu­ditta"?

Giuseppe                       - Ascolta!... (Si odono grida di: « Giuditta» )Altre nazioni masticano gomma: gli ebrei hanno sempre bisogno di un nome proprio per riempirsene la bocca. La loro ammirazione non è che un pretesto per occuparsi degli affari altrui. Sono devoti per potersi occupare degli affari di Dio. (Si sente gridare: « Giuditta»)

Giovanni                       - Giuditta! Giuditta! Sentili accanirsi su questo nome, sul nome che per noi ha sempre designato il fiore, il segreto al suo limite, che ha sempre racchiuso in sé tanto velluto di dolcezza; sentili come lo martellano, come lo abbaiano, come ne fanno in eterno un richiamo di durezza, di ari­dità... A migliaia stanno dietro al gran rabbino-Che speri contro di loro"? E poi Giuditta ha vent'anni; è maggiorenne.

Giuseppe                       - Giuditta, se vuole, lo riceverà: difesa e ragione non le mancano...

Giovanni                       - Ragione"? Al punto in cui siamo, affamati, alla vigilia del massacro, la sola ragione è l'irragionevole. In questo senso è logica la tro­vata dei sacerdoti; « loro » hanno ragione.

Giuseppe                       - Per dirmi questo, sei venuto"?

 Giovanni                      - Sono venuto per tentare di salvare Giuditta. Non è qui, per fortuna; ma se i rabbini riescono ad avvicinarla, persuadila a non decidere nulla prima di avermi parlato. Tornerò tra poco, e ho un mio progetto... (Apre la porta principale) Che silenzio, di colpo! Ah, ecco il corteo. Silenzio sinistro, che grida Giuditta più forte di ogni stre­pito! Avanti, gridate, imbecilli! Giuditta! Giuditta!

Giuseppe                       - Va'... va'... (Giovanni esce da una porta laterale. Dalla porta principale entrano Gioa­chino e Paolo).

Gioachino                     - C'è tua nipote"?

Giuseppe                       - Che vuoi da lei"?

Paolo                             - Il gran rabbino Gioachino può avvi­cinare una piccola ebrea senza bisogno di giusti­ficarsi.

Giuseppe                       - Non per fare di lei ciò che sta meditando...

Gioachino                     - Che cosa voglio fare di lei?

Giuseppe                       - Una grande ebrea, un'eroina: una donna fuori del suo destino, una declassata...

Gioachino                     - Prenditela col popolo ebreo, che si è gettato sulla profezia e da tre giorni se ne pa­sce, in mancanza di pane. Ormai bisogna che si avveri: non c'è più un minuto da perdere.

Giuseppe                       - Tu sei rabbino, io banchiere; ed osi parlarmi di profezie! Parliamo d'isterismo col­lettivo.

Gioachino                     - E io dovrei credere di essere in presenza dell'’unico» uomo lucido; non è così?

Giuseppe                       - Sì, se tu non sei il più ipocrita.

Gioachino                     - E con cotesti tuoi occhi immuni da ogni velo, tu vedi senza dubbio la nostra città liberata dall'assedio e dalla rovina, i nostri com­merci in piena ripresa, satollo e grasso il popolo ebreo"? Col tuo naso, unico ragionevole fra i nasi ebrei, aspiri olezzi e primavere"?

Giuseppe                       - Vedo la fame, la peste intorno a me. Da nord e da sud, basta il più lieve vento a ricordarmi che, tra Oloferne e noi, un altro eser­cito di cadaveri, ci cinge di assedio... Ma il mio popolo che si salva con azioni degne di selvaggi, con un'infamia, no, mi dispiace, questo ancora non lo vedo.

Paolo                             - E che cosa mai vedi allora, tra la ca­restia di oggi e il massacro senza remissione di do­mani, quando tua nipote si troverà alle prese non più col condottiero, ma con l'ultimo bruto"? Vedi forse quello che la borghesia e la sua viltà chia­mano, nelle catastrofi, il miracolo"? Vedi i nostri morti levarsi nelle trincee udendo gridare: « I morti in piedi!»; vedi davanti alle fanterie combattere angeli con spade luminose e infrangibili, e il ma­resciallo nemico fulminato al momento giusto dalla sincope o dal rimorso? Di sicuro, nelle banche le situazioni senza scampo si risolvono così!

Giuseppe                       - Se così credete... Aspettiamo il mi­racolo.

Gioachino                     - Non c'è più da aspettarlo, Giu­seppe. Il miracolo è qui. Il miracolo è che al limite del suo martirio, questa città cieca e sorda senta e veda per virtù sola del nome di tua nipote. Le è venuto in mente di eleggerla a proprio duce: che vuoi farci? Quando i più spaventosi congegni sem­brano sul punto di incepparsi irrimediabilmente, non c'è che un dito di fanciullo o di donna che riesca ad introdurvisi per arrestare la macchina: il dito di Davide, il dito di Giaele, il dito di Giuditta...

Giuseppe                       - Lascia in pace le dita di Giuditta...

Gioachino                     - Dimmi: è qui?

Giuseppe                       - Una parola sola. Vattene prima che giunga.

Paolo                             - La guardia è fuori, Giuseppe.

Gioachino                     - Il popolo della strada ha scelto Giuditta; e più io penso a lei, più credo a Giuditta. La conosco, tua nipote; sono anni che la osservo. E' bella e sa di esserlo... Non mi dirai che in questa casa manchino gli specchi; ed essa conosce il valore della bellezza. Lo stato maggiore è pieno di spa­simanti di cui declina le profferte; è ricca e ben decisa a non trascurare nessun giovamento, nes­suna gioia di quante può offrirne la ricchezza. A vent'anni ha un suo seguito di letterati e una fat­toria modello, ha il suo ospedale e le sue collezioni. Alla fine di ogni giornata, la sua mano ha accarez­zato uno stallone ed un lebbroso, i suoi occhi si sono posati su una mediocre statua e su uno scultore bello. Delle destrezze e delle maestrie è forse troppo incline a scegliere quelle che le valgono il successo, un successo tra le folle. Va a cavallo e ci sta come un uomo; le piace ballare, e non di rado in luoghi pubblici. Le piace entrare con splendore in un teatro, in un ristorante, e ora in quella specie di harem senza rischi che vien detto ospedale mili­tare. Mi è capitato di indignarmi nel vedere come la moda acconciasse quel bel cervello, gonfiasse quel seno avvenente... oggi me ne rallegro, perché proprio coteste imperfezioni offriranno alla mano di Dio l'impugnatura necessaria per prenderla...

Giuseppe                       - Lascia in pace il seno di Giuditta...

Gioachino                     - E lei, che cosa dice lei di questa scelta?

Giuseppe                       - Abbiamo altri argomenti di cui parlare.

Paolo                             - Ma... lo sa, almeno?

Giuseppe                       - Come potrebbe non saperlo! La nostra casa è più assediata dei nostri baluardi; è colma di offerte e di mazzi di fiori. Sparisce una derrata, viene annientato uno dei nostri reggimenti, ed ecco che nasce nella città una nuova specie di fiori per Giuditta... Oggi siamo arrivati alle orchi­dee! Si capisce che sa!

Gioachino                     - E in che cosa ne è modificata la sua esistenza? Le sue vesti, i suoi pasti? Che pro­fumo è questo? C'è un buon odore in casa tua. Dimmi: scrive, la sera nella sua camera? Riceve Giovanni o Uzra sul far della notte, e dà loro il suo ritratto? Quel passaggio dallo stato umano all'eroico che si verifica sempre col dono di regalucci agli amici e mediante certe pressioni fisiche sui propri parenti, avviene naturalmente in lei? Ha già baciato Giovanni? E ha preso te, suo zio, fra le braccia con la scusa di spazzolarti il colletto o di aggiustarti la scriminatura, stringendoti a sé men­tre tu imprecavi contro Dio in questo luogo già sacro?

Giuseppe                       - Sacro? E perché? Spero bene che questo luogo non sarà mai sacro. Qui, in questa stanza, mio padre ebbe il primo attacco; e qui Giu­ditta radunava le sue bambole, e qui perdette il primo dente; e qui sua madre risentì il prima ma­lessere della gravidanza... Ci si mangia, in questa stanza, e ci si piange e ci si sputa. Toh, guarda, ci sputo! Se questo luogo è santo, lo è proprio perché è umano e niente affatto sacro...

Gioachino                     - Tocca a Giuditta, non a te, deci­dere di questa virtù.

Giuseppe                       - Deciderà domani, se vorrà farlo. Per stasera è al sicuro.

Paolo                             - L'ho mandata a chiamare da parte tua: eccola... (Entrano dalla porta principale Giuditta e il piccolo Giacobbe).

Giuditta                        - Salve, Gioachino. Buonasera, zio... Hai un po' di pane per il piccolo Giacobbe? L'ho raccolto per le scale, guardalo: muore di fame.

Il piccolo Giacobbe       - Non voglio pane.

Giuditta                        - Che cosa vuoi allora, piccino?

Il piccolo Giacobbe       - Voglio che la più bella e la più pura delle nostre fanciulle vada al campo di Oloferne.

Giuditta                        - Bravo! Sai bene la lezione. E che cosa farà al campo di Oloferne?

Il piccolo Giacobbe       - Non so.

Giuditta                        - Quanto sei caro! E prima di allora non mangerai più pane?

Il piccolo Giacobbe       - No, non mangerò pane prima di allora.

Giuditta                        - E carne, ne mangerai?

Il piccolo Giacobbe       - Carne? Carne?

Giuditta                        - Zio, dagli la scatola di carne con­servata...

Giuseppe                       - Adesso vattene... (Il piccolo Giacobhe se ne va).

Giuditta                        - Caro zietto, non t'arrabbiare. I bambini ripetono quello che gli insegnano a scuo­la... Calmati... Oh, perfino il tuo capello bianco si agita tutto!... Via, lasciati dare qualche bacetto... Non tirarti indietro... Sono certa che il gran rab­bino ci permette questa scenetta familiare: è troppo ebraica per dispiacergli... E ora, te ne prego, la­sciaci soli!

Giuseppe                       - O mia piccola Giuditta, te ne sup­plico, non fidarti di Gioachino...

Gioachino                     - Qui non c'è Gioachino, c'è Dio.

Giuseppe                       - Non fidarti di Dio, Giuditta

(Esce).

Gioachino                     - Così è, Giuditta: Dio è qui.

Giuditta                        - Ebbene, caro Gioachino, temo as­sai che abbia sbagliato di casa.

Gioachino                     - Meno complimenti, la profezia ha detto: «la più bella e la più pura», non la più modesta.

Giuditta                        - Ha detto forse la più frivola, la più civetta, la più volubile? Sono anche tutto que­sto, credimi. I miei cavalli e le mie vesti abbagliano la folla. Oggi non si tratta di premi di bellezza.

Gioachino                     - Se ne conosci altre di più degne, dimmi chi sono.

Giuditta                        - Designare un'amica per una così incerta avventura sarebbe una viltà. E poi, si de­nunciano forse la purezza, il fulgore"?

Gioachino                     - Al mondo cieco, sì; e all'occhio scintillante di Dio. Aspetto che tu dica i nomi.

Giuditta                        - Ogni donna che oserà tanto sarà bella e pura, qualunque sia il suo viso e il suo corpo. Questo volevano significare le profezie.

Gioachino                     - Temo di no, Giuditta, La lettera dei nostri libri è implacabile... Il nostro Dio non è un Dio greco: non parla per rebus o per bisticci; chiama ogni essere col suo nome, con le sue viscere, l'ermellino così come il capro.

Giuditta                        - E' strano: ancora non lo sento no­minare Giuditta.

Gioachino                     - Lo senti, allora, nominare Marta, Ruth, Ester, una qualsiasi delle tue compagne? Sono settimane che vado scrutandole una ad una come un sensale di cavalli; e ormai conosco, di quelle bellezze, di quelle virtù senza macchia, le rughe e gli amanti e le gengive. Pochi dei loro sorrisi non rivelano lo scorbuto. Tu mostrami, se puoi, un solo tuo dente che non sia perfetto.

Giuditta                        - Cerca allora nei ceti più umili: tra i piccoli funzionari, perché no? Vi troverai abbon­danza di unghie non smaniose e di verginità.

 Gioachino                    - Giuditta!

Giuditta                        - Oppure tra gli operai. Sii più de­mocratico... Tu vuoi ad ogni costo che Dio abbia riserbato alle famiglie dirigenti l'eroismo e la san­tità. La nostra storia nazionale sta diventando un dizionario del bel mondo. E' stata la figlia di un armatore a uccidere Golia, il nipote di un ban­chiere a fermare il sole... Tutte le imprese illustri che il nostro popolo ancora ha da compiere, sa­rebbe atto di equità riservarle, non al lignaggio o al censo, ma a qualcuna di quelle tribù che, tuttora anonime, vegetano in mezzo alle elette; insomma, offrire una buona occasione anche ai Levi.

Gioachino                     - Risparmiati lo spirito. Tutti co­testi reietti, appunto, scelgono te.

Giuditta                        - Essere scelti da quelli che Dio non sceglie, è poco interessante.

Gioachino                     - Confesso che non mi aspettavo di vederti resistere alla voce di Dio.

Giuditta                        - Te lo ripeto, per me non è la voce di Dio. Credi forse che, da quando la città mi tiene per incaricata della sua bellezza, io non abbia cer­cato di cogliere un segno di Dio mandato a me? Un segno per la grande e timida Giuditta quale io mi vedo, per la piccola e orgogliosa Giuditta quale egli mi deve vedere?... Per quanto debole fosse, mi sarebbe bastato.

Gioachino                     - Un roveto ardente? Tuo zio cir­condato da un nimbo?

Giuditta                        - Un tepore, una parola! L'eco di una parola. Quando ero bambina ed egli mi co­mandava di restar ferma col viso rivolto verso la pioggia; quando, già grandicella, avevo cura delle mie mani e, un momento prima di un ritrovo di danze, egli mi ordinava di tagliarmi le unghie cor­tissime, non lo spaventavano né la puerilità della mia missione, né quella della sua divinità... (Gioa­chino fa un movimento) Io ti spavento, forse?

Gioachino                     - No, mi rincuori. Continua,

Giuditta                        - Fra tutti i raggi del sole, ve n'era uno che d'improvviso prendeva un colore speciale: era il suo sguardo. Nella discussione che nasceva fra la mia balia e lo zio sulla maniera di far meglio il bucato, in mezzo alle parole di amido, di sapone e di lavatrici, d'improvviso spuntava una parola inat­tesa, splendente: era la sua parola. Non parlo delle carezze della sua mano: tutti i segreti ne conosco, dalla loro freschezza fino al loro bruciore. E nean­che ha la scusa di non sapere il mio nome. Egli lo sa. Cento volte, per delle inezie, lo ha sussurrato o gridato al mio orecchio, con quella risonanza d'ar­cobaleno che è l'accento di Dio... Ora, invece, nulla. Mi sono avvicinata più da presso ai miei feriti: di qualche dito rotto, pensavo, di qualche occhio squarciato, vorrà servirsi per farmi cenno, mi par­lerà attraverso qualche piaga; ho persino provocato dei lamenti, ma non hanno saputo dire che parole, nient'altro che lamenti di gente trafitta. Due mi sono morti tra le braccia, ed io non ho stretto che la morte...

Gioachino                     - Quel gran silenzio, quella grande assenza non ti colpisce? (Appare, alla porta il pic­colo Giacobbe)

Paolo                             - Che vuoi ancora, tu?

Il piccolo Giacobbe       - (deponendo sulla tavola la scatola di carne) Non voglio neanche la carne.

Giuditta                        - Eppure hai fame, piccino mio!

Il piccolo Giacobbe       - Non voglio formaggio, non voglio dolci!

Giuditta                        - E un bacio di Giuditta, questo al­meno ti è permesso?

Il piccolo Giacobbe       - Se è contro il di­giuno, no.

Giuditta                        - Sulla tua bella boccuccia, sì, sarebbe contro il digiuno; ma qui sul collo, dietro l'orec­chio, non c'è nulla che lo vieti... E una mela non la vorresti? C'è ancora una mela in casa.

Il piccolo Giacobbe       - Una mela?

Paolo                             - Tienti la mela. Sai benissimo che sarà costretto a portarla subito indietro.

Giuditta                        - Va', allora!'

Il piccolo Giacobbe       - Una mela, forse...

Giuditta                        - Eccoti la mela. Va'! (Il piccolo Giacobbe esce) Ti sono grata, Gioachino, di non avermi detto che Dio è venuto a parlarmi per bocca dei fanciulli.

Gioachino                     - Per bocca dei fanciulli viene l'in­fanzia a parlarti. Lo vedi? Tutti i nostri bambini, per rendersi degni di te, si sforzano da due giorni a confondere la carestia col digiuno. Dovrebbe ba­stare questo a piegarti.

Giuditta                        - I bambini non sanno che cosa av­viene tra una ragazza e un gigante soli in un luogo chiuso.

Gioachino                     - Lo sai tu?

Giuditta                        - Press'a poco. Tutta una notte mi sono dibattuta in sogno contro Golia...

Gioachino                     - E chi è rimasto vinto?

Giuditta                        - La notte lui, al risveglio io.

Gioachino                     - Cattivo allenamento, ma buon pre­sagio... Del resto, se temi la battaglia, aumenti le tue possibilità di vincere. (La mela, lanciata dall'esterno, sfonda un vetro e viene a cadere ai piedi di Giuditta).

Giuditta                        - Te ne prego, cerca altrove. Nella Strada Bassa c'è una ragazza che da alcuni giorni è oggetto di visite divine. Stimmate appaiono sul suo petto, sulla sua lingua; ha il mio stesso nome. Certamente è lei la vera Giuditta. Sulla mia pelle l'inchiostro divino non fa presa...

Gioachino                     - Quella Giuditta, l'ho vista. E' guercia e ha piaghe purulente.

Giuditta                        - Hai tutto il tempo per guarirla, per mutare in attrattive le sue imperfezioni.

Gioachino                     - Tempo? Quale tempo?

Giuditta                        - Il tempo di soffrire, di vincere.

Gioachino                     - Di soffrire, forse. L'ebreo sa rag­giungere un grado di magrezza che agli altri è sconosciuto. Di vincere, no.

Giuditta                        - Non corre voce che Oloferne di­fetti di munizioni, che per far frecce sacrifichi i suoi gioielli?

Gioachino                     - Che ci ferisca solo con platino e oro? Sì, in realtà così si dice. Anzi siamo noi a farlo dire... Ma il vero è il contrario. Non abbiamo più un'arma!

Giuditta                        - E quei trentamila Sirii che erano per via?

Gioachino                     - Sono arrivati stamane, ma come rinforzi per lui.

Giuditta                        - Tanto maggior lustro per il nostro esercito! Cresceranno i suoi meriti.

Gioachino                     - Il nostro esercito? Non esiste più il nostro esercito, Giuditta!

Giuditta                        - Che vai dicendo?

Paolo                             - La verità.

Giuditta                        - La verità dei rabbini. Quella degli ufficiali è un'altra.

Paolo                             - Quella degli ufficiali? Presti fede a uno di loro, a Giovanni per esempio?

Giuditta                        - Perché proprio a Giovanni?

Paolo                             - L'ho visto entrare or ora in questa casa; lo sento parlare con tuo zio nella stanza accanto... Vuoi che lo chiami e gli domandi chi ha ragione?

Giuditta                        - Inutile. Non vi credo.

Gioachino                     - Ma a lui crederai. Lo conosci, no, Giovanni? E' uno dei tuoi amici?

Giuditta                        - Sì, conosco Giovanni.

Gioachino                     - Sei stata spesso in sua compagnia?

Giuditta                        - Ci sono sovente.

Gioachino                     - Ti hanno vista cavalcare insieme a lui, ballare con lui?

Giuditta                        - Sì, mi hanno vista ballare e anche ridere con lui. Ma non mi hanno vista - poiché per questo cercavamo la solitudine e l'ombra - ba­ciarlo, bearmi nelle sue braccia...

Gioachino                     - E' il tuo fidanzato, tu l'ami?

Giuditta                        - Ebbene?

Gioachino                     - Ebbene, lasciaci soli con Giovanni. Se è per causa sua che esiti, sapremo noi convin­cerlo...

Giuditta                        - Convincerlo di che?

Gioachino                     - Di lasciarti andare come un'eroina, di riprenderti come una santa.

Giuditta                        - Una santa insozzata?

Gioachino                     - Chi sei tu che osi parlarmi così?

Giuditta                        - Chi sono? Lo saprete subito; Gio­vanni ve lo dirà. Davvero è Dio che lo manda, perché io pure lo interroghi, dinanzi a voi. Non è il mio fidanzato; non so neppure se lo amo; potrà dirvi di me ne più né meno di ciò che potrebbe dirvi Giacomo o Marcello o Pietro, o qualunque altro dei miei amici che sappia ballare e baciare come lui; ma quando mi avrà risposto, voi dubiterete se io sia quella indicata dalla profezia.

Gioachino                     - Paolo, chiama Giovanni! (Paolo introduce Giovanni).

Giovanni                       - Paolo dice che vuoi parlarmi. Che cosa vuoi da me?

Gioachino                     - Farti due domande.

Giovanni                       - Sono capitano in seconda e, a para­gone della tua alta scienza, il mio sapere è debole.

Paolo                             - Anche un tenente può rispondere a quelle due domande!

Giovanni                       - Ai tuoi ordini.

Giuditta                        - Giovanni, te ne supplico, rispondimi senza mentire. Anche se la risposta sarà crudele, se ti avvilirà o avvilirà me, rispondi. Ne va della sal­vezza della città e del suo onore.

Gioachino                     - Non credi che la mia domanda sia più urgente?

Giuditta                        - Oh, certo! Interroga, presto...

Gioachino                     - Giovanni, è vero che stamane quei pochi che rimanevano della nostra guardia si sono ribellati e, dopo aver massacrato i loro ufficiali, sono passati al nemico?

Giuditta                        - Menzogna.

Gioachino                     - E' una menzogna che il nostro battaglione sacro, oggi a mezzogiorno, in preda al panico, sia fuggito abbandonando in pieno sole la sua bandiera? Fin dalle mura la si vedeva sciorinata a terra!

Giuditta                        - E/ falso, ve lo giuro...

Gioachino                     - Insomma, Giovanni, risponde al vero che per difendere la città non rimangono altri uomini fidati, che quello sbarramento di vecchi do­ganieri, appena capace in tempi normali di impe­dire alle massaie di introdurre clandestinamente il burro? Rispondi!

Giuditta                        - Ma rispondi, dunque! Di' una pa­rola. Una frase!

Giovanni                       - Sei crudele!

 Giuditta                       - Crudele? Risparmiati la fatica, al­lora! Dove avevo gli occhi? La frase, posso indovi­narla dal tuo viso...

Giovanni                       - Ne ringrazio Dio

Giuditta                        - Anche di essere vinto, lo ringrazi?

Giovanni                       - Attenta! E’ la tua bocca che per prima ha fatto penetrare nella città questa parola.

Giuditta                        - Non ho paura delle parole. Mi ven­dicano da sé del loro contenuto. E poi quella pa­rola, tutto il tuo corpo la grida...

Giovanni                       - Non infierire.

Giuditta                        - Vinti, dunque! Il nostro magnifico esercito è un esercito di vinti! I nostri capitani dai doppi e tripli cimieri, i nostri bei tenenti dalle smaglianti cordelline, sono dei vinti!

Giovanni                       - Siamo meno belli, non è vero?

Giuditta                        - Schifoso sei, schifoso! E tutto sco­lorito. Che lebbra è mai la sconfitta posata su un'uni­forme! Come l'estate nel pelo delle bestie, come le tarme su per l'acciaio e il bronzo... E negli occhi di un soldato, quali sguardi si assomigliano più di quelli della disfatta e della viltà?

Giovanni                       - Non esagerare. Posso ancora guar­darti in faccia.

Giuditta                        - Se tu davvero mi vedessi, abbasse­resti gli occhi. Se tu vedessi quello che io sono in questo momento, dai piedi ai capelli - la patria dileggiata, la certezza lorda di fango - non po­tresti sopportare la mia presenza: fuggiresti, veloce come davanti al nemico. Poco fa ti ho visto nella strada: i bambini facevano ressa intorno a te, le donne ti applaudivano. Sì, applaudivano, toccavano la sconfitta. Tu hai baciato una ragazzina. Non ne avevi il diritto. E' stata la peggiore menzogna, il peggiore stupro. Ti sapevi vinto, e davi un bacio!

Giovanni                       - Tu ne dai solo se vinci?

Giuditta                        - O sconfitta, tu illumini tutto! Sulle mura vinte che crollano, sul cane vinto che urla, su ogni testa di vecchio o di bambino vinto, c'è il bagliore di un'aureola! Solo il soldato vinto è pau­rosamente sbiadito. Tutto ciò che è bandiera, trom­be, medaglie, diventa a un tratto il fango del mondo, e la stessa patria dei colori e dei metalli lo rinnega!

Giovanni                       - Che cosa vuoi? Non avvicinarti.

Giuditta                        - Lascia che anch'io ti tocchi; voglio conoscere il freddo di una corazza in fuga. E che ti baci per sentire sulle mie labbra il sapore della pelle vinta!

Giovanni                       - Sei giovane, Giuditta,

Giuditta                        - Che altro saprei, se più vecchia?

Giovanni                       - Che per il vero soldato non c'è né vittoria ne sconfitta, né onta né gloria: c'è la bat­taglia, di cui esse sono le facce, luminose o tre­mende.

Giuditta                        - E tu in questo momento combatti?

Giovanni                       - Fino a mezzogiorno ho combattuto; combatterò ancora dopo che ti avrò lasciato. Posso concedermi questo istante di dolcezza.

Giuditta                        - Se l'ironia è diventata l'arma con cui la cavalleria difende le città, si capisce che il nemico le prenda.

Giovanni                       - Vuoi tacere, Giuditta.

Gioachino                     - Giovanni, lasciala. Giuditta sta­sera è il primo dei nostri soldati.

Giovanni                       - Allora, che non insulti la sconfitta; e smetta le sue querimonie sui borghesi rovinati, le massaie violentate e i bazar in fiamme. Sì, ella ha un vinto davanti a se. Ma cotesto ricatto incessante della natura, delle donne, dell'onestà ai danni di un cuore che ingenuamente si vuole nobile, è una puerilità, grazie al cielo, ben visibile agli occhi di un vinto. Tutto al mondo segna un limite all'a­nima: la gioia, l'amicizia, la vittoria, tutto, fuorché la sconfitta. C'è un uomo libero, finalmente, da­vanti a te; tutte le vere forze del mondo, men­zogna, vendetta, vizi e veleni, sono ai miei ordini; e tu, che ho amata, sappi che malgrado i tuoi bei trasporti, l'insulto che rivolgi al vinto è sciocco come può esserlo un sorriso al vincitore.

Giuditta                        - E la semplicità di linguaggio, anche quella è ai tuoi ordini?

Gioachino                     - E il vostro Dio, anche da quello siete liberi?

Giovanni                       - Il nostro Dio si è sempre ritirato al momento giusto dalle cause dannate; e ci sarà rico­noscente dei nostri insulti, che non lo compromet­tono in tanto sfacelo. D'altronde, se ben vi capisco, c'è ancora qui Giuditta per salvare quello che Dio ha messo in giuoco.

Giuditta                        - Sì, Giuditta è qui!

Paolo                             - Taci, Giovanni.

Giovanni                       - Non dico nulla da cui tanto or­goglio non possa essere lusingato.

Giuditta                        - Che cosa ho fatto perché mi si parli così? Ho commesso un delitto, se ho pensato che il nome ebreo dovesse designare una razza vittoriosa? E' colpa mia se i tuoi compagni cedono il loro com­pito, il loro onore alle donne?

Giovanni                       - A te, comunque, non cedono nulla. L'immagine di te che hanno, la fierezza che pro­vano nel sapere la vita loro ornata del semplice fatto della tua vita, tutto va in pezzi se tu ti credi la bella di cui parla la profezia. Basta. Passiamo all'altra domanda. A te, Giuditta. Interroga!

Giuditta                        - Non c'è un'altra domanda.

Giovanni                       - La più bella delle nostre fanciulle... Sei tu davvero la più bella? Hai su di te, abba­glianti, i riflessi del fasto e dell'oro; con un sortilegio hai dato a tutto il tuo corpo quello splendore che Dio, negli altri esseri, ha riserbato ai volti. E, a distanza, Dio ci casca. « Benissimo Giuditta » deve dire di lassù... Ma questi meticolosi sacerdoti non dovrebbero cascarci. Guardala bene, Gioachino! Pro­va a dirmi che la bellezza di costei è santa o impe­ritura! Guarda quelle vampate di sangue, quel fre­mito alle narici! Un accesso di passione e di uma­nità è Giuditta: nient'altro! E col tempo, ci scom­metto, dimagrirà o ingrasserà... La sua bellezza non è altro che un momento!

Giuditta                        - Il momento giunge a puntino. A lui non occorre altro.

Giovanni                       - Eri più modesta, Giuditta, quando si trattava di me. Allora, quanti dubbi sulle tue grazie, quante scuse per la più lieve imperfezione nei tuoi tratti... Ma per Dio tutto va bene!

Giuditta                        - Stanotte sarò la più bella: lo giuro.

Giovanni                       - Orsù, protestate, rabbini, interve­nite! Stiamo macchiandoci di una bruttura verso Dio, di un crimine verso Giuditta! Venite con me. Cerchiamo senza preconcetti colei che designa la profezia: la troveremo.

Giuditta                        - Gioachino ha già cercato. La più bella dopo di me è guercia.

Giovanni                       - E la più pura è prostituta! O città, o popolo, se abbiamo da perire, francamente si pe­risca! Dio sarà meno compiacente di Gioachino per le solide posizioni di ricchezza. Tu, Giuditta, non sei la vergine delle scritture; e tu lo sai.

Giuditta                        - Non lo so più.

Giovanni                       - Allora, Gioachino, chiedile dove si trovava, appena due settimane or sono, a quest'ora, dopo essere stata in mezzo ai suoi feriti!

Giuditta                        - Dov'ero?

Giovanni                       - Nelle mie braccia.

Giuditta                        - In coteste braccia di marionetta, di uomo vinto?

Giovanni                       - In queste braccia che ti piegavano, sotto questa bocca che premeva la tua: la tua bocca schiava!

Giuditta                        - E ti cedevo, naturalmente? Ero la tua donna?

Giovanni                       - Non sei abbastanza semplice per questo. Dovunque andavo all'attacco, ciò che vi è ,di più colpevole in Giuditta accorreva alla difesa... Ma forse Dio ama le sue vergini palpitanti e pre­parate!

Giuditta                        - Tu sì, mio caro, sei semplice, in­genuo anzi.

Giovanni                       - Io sono uno che, d'improvvisa stan­chezza e d'amore, ha barcollato su di te.

Giuditta                        - Ascoltalo, Gioachino. Ascolta que­sto modello di amico inoffensivo, che si fa forte di un bacio dato in una serata di balli fra due piante in vaso, per venire a gettare lo scandalo tra la sposa e lo sposo il giorno delle nozze.

Giovanni                       - Tacerò dunque, davanti allo sposo Oloferne!

Giuditta                        - Oloferne non esiste. Esistono vie di sofferenza, di redenzione, che portano il suo nome. Se stanotte parto alla sua volta, mi dirigerò verso di esse. Non cercare di salvarmi insultandomi. Non sono io Tunica fanciulla che della propria bellezza e purezza si sia servita come avesse dovuto tenerle deste non per un uomo, ma per un grande istante del mondo.

Giovanni                       - Oloferne è un uomo.

Paolo                             - Basta, Giovanni!

Giovanni                       - Oloferne è un gigante. Le sue mani sono mani giganti, giganti le sue dita, giganti le sue falangi.

Giuditta                        - Oh miserabile! Perché non hai pietà? Non senti che tutta la mia forza sta nel darmi al destino senza pensare, senza immaginare nulla"? Lascia che Gioachino mi abbatta. Non es­sere così vile da restituire al mio atto la sua co­scienza, le sue orrende minuzie umane. Sì, qualche volta ho consentito che tu lottassi nell'ombra contro di me, con la tua armatura e l'elmo e la spada che ci percoteva i fianchi; sì, idiota che ero, l'ho con­sentito, perché credevo di lottare con un vincitore. Ma la stretta di un vinto, lo vedo chiaro, non ha lasciato traccia. Lì dove le tue mani, le tue labbra mi hanno toccata, proprio lì, cattivo soldato, io mi sento più pura. Di che t'immischi, dunque"? Nella mia vita non hai nulla da vedere. E tu stesso, certo, t'indovini appartenente a quella specie di amanti che si possono una sera blandire con le labbra, che si possono anche amare, ma che non si sono mai sposati...

Giovanni                       - O Giuditta, non pensiamo a quello che l'umanità sarebbe, se avvenissero dei matrimoni sul serio.

Giuditta                        - Basta coi gemiti. Ecco la mia do­manda: è tutto perduto?

Giovanni                       - Basta con la pietà per te. Tutto.

Giuditta                        - Nulla può più aiutarci?

Giovanni                       - Nulla: se non i sacerdoti, le donne, i feti nei seni delle donne. All'alba Oloferne darà l'assalto alla città: vuole annientarla. Quella che deve recarsi al campo nemico per salvare il popolo ebreo, non può più attendere. E' per questa notte.

Giuditta                        - Gioachino, che ora è?

Paolo                             - Cade la notte.

Giuditta                        - Grazie, Giovanni. Tu solo potevi farmi così decisa. Partirò... (Va verso Gioachino) A te, Gioachino. Mi accetti ancora?

 Gioachino                    - Ti accetto.

Giuditta                        - Sta' attento, sei responsabile. Guar­dami bene in faccia ancora una volta. Fa' il tuo mestiere. Toccami la pelle. Pizzicami un orecchio. Lascia che dica a Dio quello che realmente avevo detto a Giovanni. Naso troppo patetico, senza spi­ritualità; un po' spesse le ciglia; troppo ad arco le reni. Era soprattutto lo spessore delle ciglia che ur­tava Giovanni.

Gioachino                     - Calmati. Tu sei la più bella.

Giuditta                        - Nessuno ancora mi ha veduta senza vestiti. Ma tu mi fai malleveria, dinanzi a Dio e al popolo, che le mie ginocchia sono lisce e i miei piedi non sfregiati; e il mio seno - quanta parte non hanno i seni, in queste giornate storiche! t'impegni a sostenere che il mio seno è il più alta­mente, il più saldamente appeso...

Gioachino                     - Calmati. La tua calma è pure ne­cessaria.

Giuditta                        - E affermi, anche, che sono la più pura. Perché non ho amato neppure uno dei gio­vani che mi circondavano, perché li amavo tutti e non riuscivo a scegliere tra di loro... Perché li im­maginavo tutti nella mia vita, vicino a me, presso il mio corpo, presso la mia anima, e non volevo condannarmi a uno solo, ma a tutti indistintamente mi appoggiavo nella notte, turbata o dall'uragano, o dalla loro forza, o dal loro turbamento, o dalla peluria dei loro polsi, o dall'arco della loro tempia; perché sono stata fedele alla mia idea della voluttà e infedele ad ogni bel giovane, per questo sono pura, e Dio ha scelto me!

Gioachino                     - Ha scelto te... Sei pronta?

Giuditta                        - Sono pronta. Un attimo per figu­rarmi un mondo dove tutto non sia più bello e più puro di me, e sono pronta...

Gioachino                     - Hai ben riflettuto? Prevedi ogni cosa?

Giuditta                        - Soprattutto, Gioachino, niente le­zioni, ne consigli. Se per caso tu avessi in testa un progetto di quello che devo fare, taci. Del mio, non voglio sapere nulla. Anch'io sono vinta. Da Dio, spero. Ma questo so: che se fino ad oggi ho scartato da me tutto ciò che fosse collera, volontà di odio e di vendetta, istinto di avventura e di sangue, stasera me ne ritrovo pura ed intatta la scorta! Prevedere, dici! Come da migliaia di fac­cette, i miei occhi vedono già, in anticipo, tutto.

Gioachino                     - Addio dunque, Giuditta.

Giuditta                        - Giuditta! Eccola, la vedo la vostra Giuditta: velata ancora, impenetrabile. Ah! dav­vero, quello che è, quello che pensa, vorrei ben saperlo.

Gioachino                     - E Oloferne, lo vedi? Nella sua immagine più immonda, in preda al vino, insul­tante gli ebrei e il loro Dio?

Giuditta                        - Lo vedo.

Gioachino                     - Vedi intorno a lui l'orda delle sue femmine farsi ludibrio del tuo corpo, insozzare i tuoi capelli, le tue labbra?

Giuditta                        - Le vedo, sì... le mordo!

Gioachino                     - Vedi Oloferne che, mezzo addor­mentato, ti attrae a sé con l'abbraccio enorme, ti piega sopra di sé.

Giuditta                        - Lo vedo, lo tocco.

Gioachino                     - Resisti?

Giuditta                        - Vedo una grossa vena azzurra che batte sul suo collo come su un collo di toro. La schiaccio col dito. Il volto si fa purpureo... Cielo, dove sono?

Gioachino                     - Nel passato, Giuditta. Devi an­dare...

Giuditta                        - Andarmene, ora? Gioachino   - Aspetta che si alzi la luna. Così avrai tempo per le tue orazioni.

Giuditta                        - Va bene. Occupatevi di mio zio.

Gioachino                     - E tu, Giovanni, vieni con noi?

Giovanni                       - No, resto!

Giuditta                        - Sì, deve restare. E' l'ora del cam­bio. (Gioachino e Paolo escono),

Giuditta                        - L'ora del cambio: non è vero, Gio­vanni? Del cambio fra il giorno e la notte; fra i bei capitani e le ragazze; fra gli uomini che scen­dono e Dio che sale. La notte e Dio mi hanno trasmesso le loro consegne, una nerissima, l'altra abbacinante. Agli uomini, ora, al bel capitano... Ma lui tace...

Giovanni                       - Non avvicinarti. Mi ripugnano le agonie leziose.

Giuditta                        - Che cosa fate, che cosa vi dite l'un l'altro, quando quello che lascia la battaglia incon­tra quello che vi si reca?

Giovanni                       - Evitiamo di toccarci. Mi hai ca­pito? Lascia le mie mani.

Giuditta                        - Non vi guardate un minuto in pieno viso, ciascuno con la sua simpatia immensa, con la sua immensa pietà: simpatia per chi entra nella morte, pietà per chi rientra nella vita?

Giovanni                       - Grazie della tua pietà.

Giuditta                        - Grazie della tua simpatia.

Giovanni                       - Per l'ultima volta, sei decisa? Per salvare questo popolo brutale, questi preti senza onore, questi fanciulli senza bellezza: per questo parti?

Giuditta                        - Quanti aggettivi in un'ora così gra­ve! Per tentar di salvare questo popolo, questi preti, questi fanciulli: ecco perché parto...

Giovanni                       - Adesso?

Giuditta                        - Adesso. Te l'ho detto, è Fora del cambio.

Giovanni                       - Chiedi, allora!

Giuditta                        - Qual è la parola d'ordine?

Giovanni                       - Non la indovini? E' il tuo nome. E, per combinazione, il nome di Geova incomincia con la stessa lettera; è stato scelto come segnale di adunanza. Lui, lassù, ne è tutto soddisfatto!

Giuditta                        - Da quale porta uscirò?

Giovanni                       - Dalla postierla dirimpetto. Il guar­diano è avvertito. Getterà il suo grido e ti aprirà.

Giuditta                        - Dov'è la tenda di Oloferne?

Giovanni                       - Al nord, in pieno nord.

Giuditta                        - Come lo capisco! Gli piace vedere le città che assedia nella luce del sole.

Giovanni                       - Saprai riconoscere il nord in una notte come questa?

Giuditta                        - Tutte le bimbette lo hanno impa­rato a scuola. Si accarezzano gli alberi, e il mu­schio indica il nord.

Giovanni                       - Appunto. Accarezza gli alberi, strin­gi gli alberi dicendo la parola d'ordine. Ce n'è ancora qualcuno di grande, dalla statura di gi­gante. E poi rinnegali, pioppi o roveri che siano, se affermano di aver conosciuto il tuo abbraccio.

Giuditta                        - C'è una strada, una pista?

Giovanni                       - No. Risali il secondo ruscello che attraverserà il tuo cammino. Non berne l'acqua: è avvelenata. Non partire con coteste scarpe, il campo di battaglia più asciutto contiene zone putride; e prendi un mantello, perché nel cuore della notte estiva c'è il gelo... Avrai paura?

Giuditta                        - Non ho mai avuto paura del de­serto, né del silenzio.

Giovanni                       - Non far conto né sul deserto, né sul silenzio. Ogni dieci o quindici passi, inciam­perai contro sacchi stesi a terra, freddi o ancora tiepidi, muti o lamentosi, ma sempre pieni. Non spaventarti. Il campo di battaglia chiama, sogna ad alta voce, piange e si muove impercettibilmente.

Giuditta                        - E' lontana la tenda?

Giovanni                       - Da quella via, una lega.

Giuditta                        - Ci sono dei vagabondi, delle belve?

Giovanni                       - Belve? E' ancora un po' presto. Forse qua e là un'ombra dal riso lieve, un'ombra di velluto: niente paura, non è che un gufo. Può anche darsi che dalla terra sorga un mostro sghi­gnazzante - si ride assai, come vedi, in questa sorta di paese - e ti si avventi contro su tre zampe. Non è che un cavallo ferito. Colpiscilo con un ba­stone, soprattutto sulla gamba spezzata e fuggirà... Vagabondi? Può darsi. Prendi un pugnale... Ecco...

Giuditta                        - Ecco... un mantello e delle scarpe impermeabili... E' tutto quanto mi consigli?

Giovanni                       - E' tutto quanto ho da dirti.

Giuditta                        - Non mi hai detto come si uccide.

Giovanni                       - Come si uccide"?

Giuditta                        - Sì, a colpo sicuro, con un pugnale come il tuo.

Giovanni                       - Come ci si uccide, intendi dire"?

Giuditta                        - No, no, il verbo attivo prima del verbo riflessivo.

Giovanni                       - Segui la tua ispirazione. Ne l'as­sassinio, né l'amore si possono insegnare alle donne. Per istinto esse sanno il punto del nostro corpo dove risiede la morte o il piacere. Stendi la mano e troverai.

Giuditta                        - Come si uccide"?

Giovanni                       - Dipende.

Giuditta                        - Dipende da che"?

Giovanni                       - Dal tempo che avrai, oppure dalla sorpresa.

Giuditta                        - Avrò tutto il tempo.

Giovanni                       - Allora al cuore, pollice sulla lama e dal sotto in su.

Giuditta                        - Dov'è il cuore"? Che hai? Perché ti arrabbi?

Giovanni                       - Stupisco al vedere tanta pedanteria albergare in un'anima così grande! E come una fanciulla possa guardare in faccia un gigante in­forme: anche questo vuoi sapere? E come una vergine possa, in un accoppiamento forzato, salvare l'essenza della sua verginità, devo rivelartelo? E vuoi anche una lezione d'amore?

Giuditta                        - Sì, te ne sarò grata.

Giovanni                       - Ho precisamente sotto mano quello che occorre. (Si dirige alla porta interna) Sei costì, Susanna?

Giuditta                        - Chi è?

Giovanni                       - Giuditta, con me è venuta una donna per salvarti e per salvarci. Tu non la co­nosci: il suo stato è umile. Ma essa deve vederti. E' il mio ultimo desiderio. Ascoltala.

Giuditta                        - Oggi sono i sopravviventi ad espri­mere i loro ultimi desideri?

Giovanni                       - Ricevi quella donna... Nelle ore grandi, gli altri esseri non sono più che parti nel nostro concerto... Per una volta lascia che entri in te la parte dolce è vergognosa... Io aspetterò di là. Avanti, Susanna! (Giovanni, nell'aprire la porta a Susanna, lascia che altre due donne arrivino fino sulla soglia: una delle due cerca di trattenerla).

Lia                                 - Non entrare, Susanna, non entrare. Se dobbiamo morire, moriamo assieme, ma tu non la­sciarmi!

 Ester                             - Non c'è da morire, stai tranquilla. Io ci vado tutte le sere e ci muoio molto poco.

Lia                                 - Giovanni, che volete fare di lei?

Giovanni                       - Nulla; nulla. Giuditta vuole ve­derla.

Lia                                 - Ah, quella è Giuditta? Salvaci, Giuditta!

Giovanni                       - Vieni con me, Lia. Devono par­larsi. Mangeremo un po' nella stanza accanto.

Lia                                 - Mangeremo?

Ester                              - Sì, mi pare di aver visto anche del pane.

Lia                                 - Pane? Hanno del pane? Mi aspetti, Su­sanna?

Giovanni                       - Sì, sì, ti aspetta. (Esce con Ester e Lia. Susanna avanza).

Giuditta                        - Chi sei?

Susanna                         - Un'amica.

Giuditta                        - Sei capitata male, temo. Oggi non è precisamente il giorno dell'amicizia.

Susanna                         - Una donna che ti ammira.

Giuditta                        - Non è neanche il giorno dell'am­mirazione. Somiglia troppo a un insulto, oggi.

Susanna                         - Una donna che conduce una vita opposta alla tua.

Giuditta                        - In che consiste?

Susanna                         - Ho degli amanti. Mi dò, mi vendo. Il mio nome, fra i nomi che non si devono cono­scere, è il più conosciuto.

Giuditta                        - A questo titolo hai il diritto di par­larmi, stasera. Che vuoi?

Susanna                         - Salvarti.

Giuditta                        - Salvare quella che salva la città! Vedo che non si tratta soltanto di modestia, nel tuo caso.

Susanna                         - Sono bella, Giuditta?

Giuditta                        - E' da sperarsi, per l'onore della tua condizione.

Susanna                         - Ti prego: guardami. Che cosa vedi?

Giuditta                        - Non m'interessa. Sotto la somma degli occhi e dei nasi umani che devo conoscere, ormai è tirata una riga.

Susanna                         - Ma via, guardami, Giuditta! Quello che ho è un poco della tua bellezza. La mia non copre niente, lo so, non nasconde niente... Ma un po' della tua bellezza ce l'ho. Me l'han detto cen­tinaia di volte. ho anche la tua corporatura. I tuoi sguardi, con tutto il loro disprezzo, per arrivare ai miei occhi non hanno da alzarsi né da abbassarsi di un filo... E la mia voce...

Giuditta                        - La tua voce?

Susanna                         - La mia voce non nasconde, come la tua, alcun pensiero, non copre bei silenzi; ma è la tua voce.

Giuditta                        - Anche questo te l'han detto cento volte1? Chi? Quale uomo?

Susanna                         - Quale uomo? Venti uomini. Tutti quei bei giovani ai quali hai permesso di appog­giarsi contro di te, in una bella notte, davanti alla luna piena o ad un grande incendio; quello che nuotò due ore nel Mar Morto per trarne un re­litto che turbava il tuo sguardo; quello nel cui bic­chiere avevi bevuto sotto un pergolato da barrocciai e sulla cui mano avevi inaspettatamente premuto le labbra, rosse non di rossetto, quella volta, ma di vino; tutti coloro che l'ombra del desiderio ti avvicinava perché più violentemente li respingessi; tutti, insomma, quelli che, dopo, si gettavano nelle mie braccia a cercarvi l'oblio e la vendetta e, fra sin­ghiozzi e carezze, mi chiamavano Giuditta...

Giuditta                        - E' la loro parola d'ordine anche oggi-

Susanna                         - Da un anno, ogni giorno, questa somiglianza io l'accresco in segreto. Seguendo qual­che mio amante ho seguito anche te. Fingendo di urtarti, ti ho costretta a parlare, per udire la tua voce. Ora so come tu dici: « Che cos'ha da guar­darci quella ragazza? » oppure: « Non posso sof­frire le puttane dagli occhi dolci ». Ho copiato i tuoi vestiti: non per piacere ai tuoi amici, ma per essere tua schiava. Ogni nuovo incontro, anche a un solo giorno di distanza, mi dimostrava che avevo perduto ancora terreno. Ma debole, limitata, po­vera com'ero, provavo la voluttà di sapere che cosa sarei potuta diventare se dilatata all'estremo delle forze, all'estremo della ricchezza, all'estremo dello spirito... Che cosa ho commesso, agendo così?

Giuditta                        - Niente di grave: il furto.

Susanna                         - Non ti ho rubato né l'alterigia, né l'orgoglio. Ma a sopportare quel disprezzo per me che intuivo, mi bastava pensare a ciò che in te dev'essere la rassegnazione. Ho sopportato la tua cru­deltà con la tua stessa dolcezza, il tuo lusso con la tua modestia. Ero felice... Ti assomiglio, Giu­ditta.

Giuditta                        - Per nulla.

Susanna                         - Mi scambiano per te.

Giuditta                        - Chi ha un essere umano per mo­dello non può assomigliarmi.

Susanna                         - Non sei stata umana che fino a stanotte.

Giuditta                        - Stanotte è adesso... Sbrigati, imi­tami anche nelle parole. Parla chiaro...

Susanna                         - Voglio partire al tuo posto.

Giuditta                        - Lo aspettavo.

Susanna                         - Non credo ai profeti. Sono in mag­gioranza spie del nemico. Molti pensano che Oloferne abbia sentito celebrare Giuditta e l'attiri in un'insidia.

Giuditta                        - E se così fosse? Se Dio gli avesse mandato quel pensiero per lui funesto?

Susanna                         - Oloferne è un barbaro. Tra una bellezza che è rivestimento e la bellezza, non saprà distinguere. Là dove tanti ebrei che ci conoscono entrambe, hanno cercato l'errore, egli non vedrà differenza.

Giuditta                        - E Dio? Si sbaglierà Dio?

Susanna                         - Dio ha meno passione di Giuditta.

Giuditta                        - Ed io, perché sia perfetto lo scam­bio, sostituirò te vicino all'amante che verrà a tro­varti e che, lui pure, non si accorgerà della diffe­renza?

Susanna                         - Con le parole non mi respingerai. Sono troppo certa della mia causa. Capiscimi: non si tratta di salvarti la vita; non ti insulterò creden­doti paurosa. Di ben altro si tratta! Lasciami an­dare laggiù. Domattina il popolo crederà che tu sii tornata, e tutto sarà salvo.

Giuditta                        - Tutto che?

Susanna                         - Lo sai bene, la tua purezza'.

Giuditta                        - La mia purezza. Anche tu usi co­testi termini da catechismo e da laboratorio. Gio­vanni, portandoti qui, pensava a più concreti inse­gnamenti. La mia verginità, vuoi dire?

Susanna                         - Poco fa ho dato tutto ai poveri. Il mio asilo stanotte è là. Il mio mestiere sarà, per una volta, il mio onore.

Giuditta                        - La mia verginità? Non ti è neces­saria? Non è proprio questo che ti manca? O forse, di riflesso, è stata causa per te di tanta gioia, che tieni a impedirne la perdita?

Susanna                         - Oh, Giuditta! Noi, diventando don­ne, cambiamo non solo di condizione, ma di sesso, di razza. Vorrei preservare il miracolo che è Giu­ditta fanciulla.

Giuditta                        - Ah! le vergini folli si danno cura della mia verginità! Non so che cosa sia stata la tua, ma, la mia, comincio a conoscerla. Non è quella di una vergine sciocca... Non è l'innocenza, non è nemmeno la purezza. E' la mia purezza. Non è la privazione forzata o volontaria di un senso, di fre­nesie, di gioie; è una promessa ospitata in me come un figlio, la promessa della sconfitta più bella, della più orgogliosa vergogna. Dio la muta in promessa di vittoria: è affar suo. Anche se avessi un amante riamato al quale mi fossi rifiutata fino ad oggi, non lo chiamerei ora perché fosse il primo.

Susanna                         - Giuditta, salva Giuditta!

Giuditta                        - Chi ti dice che non la salverò? Guardami se vuoi imitare la vera Giuditta. Non pensare che me ne andrò laggiù come vittima consenziente. Non la regina di Saba si recherà presso quel re per giacersi ufficialmente con lui, ma una fanciulla ebrea, scatenata, ipocrita, inesorabile e pronta a sfidare tutte le leggi di Dio per meglio osservarle.

Susanna                         - Una fanciulla priva di forza, priva di armi!

Giuditta                        - Tutte le armi scoperte e nascoste io le avrò. Quella che è più insidiosa per Oloferne, la posseggo di già.

Susanna                         - Il veleno?

Giuditta                        - Non precisamente. Il mio linguaggio. L'uomo è loquace, Susanna. Certo io sono oggi tutte le specie possibili di Giuditta, Vado laggiù come va la fanciulla ignara davanti all'uomo rozzo, come la fanciulla scaltra davanti a un generale in­sindacabile, come l'inviata di una città va dal vin­citore. Ma ci vado soprattutto come va il bambino al tempio per rispondere ad una domanda, a una serie di domande che ignoro, ma di cui il mio lin­guaggio ha la chiave. Tutt'oggi, in realtà, non mi sono affatto preparata a una offerta del mio corpo, ma, direi, ad una gara di eloquenza. Mi sono pre­occupata della mia voce, ho mangiato pochissimo. E provo non tanto una vertigine dì martirio, quanto una sorda urgenza di discorsi, di ragionamenti, in­tesi a dimostrare non so che cosa, ma qualcosa che dimostrerò. Mi è già bastata una frase, Susanna, per convincerne di più ostinati, per sviare il desi­derio di più frenetici. Una parola, un sorriso. All'opera. Questa notte segnerà forse il trionfo del sorriso. Perché sorriderò se sarà necessario... E tu­tu piangi"?

Susanna                         - Per tanta dolcezza, per tanta vio­lenza sacrificate inutilmente.

Giuditta                        - La mia violenza. Ah, Susanna! Dunque tu non capisci meglio di Giovanni o dei rabbini qual è la mia pena. Tu, donna, pensavo che avresti intuito perché io soffro a vedere come popolo ed esercito e Dio stesso mi investano con tanta pompa della loro ambasciata. Nella solitudine delle notti, nell'agitazione dei giorni, già da lungo tempo io stessa mi ero investita di questa missione. Ho tardato troppo; ho avuto troppa fiducia nei no­stri soldati... Perché Dio ha voluto togliermi il me­rito colmandomi di gloria"? Quel Dio che ha tutta l'eternità per sé, si diverte a spogliarmi, con un mi­nuto, di tutti i miei effetti. Ah, come sarebbe stato più bello, Susanna, il mio viaggio nella notte, non già tracciato come per un corridore, ma disseminato di nemici, a cominciare dal guardiano delle nostre porte! Nessuno nella città avrebbe saputo che la più debole, la più anonima delle fanciulle - perché a questo titolo sarei partita - in un'ombra senza luna, accarezzando per farli tacere i cani da guerra randagi, andava verso Oloferne per la vita o per la morte. Vedo che non si può avere la stessa idea dei profeti: tengono terribilmente ai loro di­ritti, costoro... Avevo creduto che l'idea fosse sua; lui ha creduto che fosse mia; e si vendica!

Susanna                         - Giuditta!

Giuditta                        - E la mia debolezza! Felice te, Su­sanna, che oggi hai potuto trovare dolcezza in questo mio linguaggio. La dolcezza dello sfacelo, dell'odio. Vieni qui... sì, tra le mie braccia. Non irrigidirti. Che profumo! E' il mio, non è vero"? Non lo sentivo più su di me. Addio, profumo. E questa collana è identica alla mia, ma su di me non la vedevo più. Addio, collana. Su te, Susanna, prendo congedo da tutti questi oggetti familiari, da me stessa... Non così rigida, Susanna; più morbida... Non sarai per caso alla tua prima lezione di dol­cezza"? Poiché questa è forse la mia ultima sera, sappi tu, sola fra tutti e tutte, come può essere dolce Giuditta, Vedi se questa è la dolcezza che hai offerto ai disperati che fuggivano da me. Par­lavi a loro così in pieno viso, piegavi indietro la loro testa tirandola così, piano, per i capelli. Addio, dolce mia pelle; addio, miei occhi brucianti e ge­lidi; addio, mie labbra... Come preferisco dirmi addio davanti a una sorella che davanti a uno spec­chio... O cielo, se i miei occhi aprendosi potessero vedere il sole!

Susanna                         - Sarai salva, Giuditta!

Giuditta                        - E ora, vado!

Susanna                         - No! No!

Giuditta                        - Oh! donna stupida, non capirai mai la voce di Dio? Il tuo pugnale!

Susanna                         - Quale pugnale?

Giuditta                        - Dammi il tuo pugnale... L'ho sen­tito su di te. Non ho armi.

Susanna                         - Eccolo.

Giuditta                        - Il tuo veleno.

Susanna                         - Eccolo.

Giuditta                        - Niente pianti, te ne prego; è un'ar­ma che non riuscirai a passarmi... Che cos'è questo?

Susanna                         - Un pettine, del belletto.

Giuditta                        - Dammi... La città dorme?

Susanna                         - La strada sembra vuota, ma dietro ad ogni finestra una testa di donna o di vecchio aspetta il tuo passaggio... Tengono svegli i bambini per vederti.

Giuditta                        - E' ora che vadano a letto.

Susanna                         - Non partirai così, senza mantello?

Giuditta                        - Non voglio espormi a vedere mio zio.

Susanna                         - Prendi il mio... Tieni coteste scar­pe. Il cammino è aspro. Dovrai passare dei ruscelli, delle siepi.

Giuditta                        - Camminerò adagio. Non avrò fretta.

Susanna                         - Parti senza aver cenato? Non hai paura di aver fame?

Giuditta                        - Sete, forse sì.

Susanna                         - Bevi questo bicchiere d'acqua.

Giuditta                        - Le mie mani non sono più mie; non toccheranno più niente in questa casa... Fammi bere se ci tieni... Grazie. (Sì avvia verso la porta) Come sono, stasera?

Susanna                         - Oh, Giuditta! Come ogni giorno.

Giuditta                        - Come ogni giorno! Grazie, Susanna. Che stasera Giuditta sia come ogni giorno, è un bel complimento per gli altri giorni. Aprimi, ora. (Esce. Susanna va a chiamare Giovanni),

Susanna                         - Giovanni!

Giovanni                       - (entrando con Ester) E' partita?

Susanna                         - Sì.

Giovanni                       - Allora, come siamo d'accordo! Non c'è un minuto da perdere. Niente malintesi, nev-vero? Ripeti!

Susanna                         - Corro al campo nemico. Raggiungo Sara.

Giovanni                       - Scusami se ti mando da quella mez­zana. Saprai tenere la via più corta?

Susanna                         - Ester mi accompagna. Lei ci va quasi ogni sera.

Ester                              - Il male è che Sara la detesta, Giuditta. E' gelosa! Il mese scorso Giuditta l'ha fatta scac­ciare di casa.

Giovanni                       - Che le dirai?

Susanna                         - Che Giuditta sta per arrivare e vuole vedere Oloferne; che Sara si prepari in modo di incontrarla al suo arrivo e le impedisca di giun­gere ad Oloferne, anche a costo di tenerla rinchiusa fino al mattino. Promesso un buon compenso. Va bene? (Si sente il grido del piantone che apre la porta a Giuditta: un grido lugubre).

Giovanni                       - Va bene... Addio. Hai tutto il tempo di arrivare prima di lei. La strada che le ho indi­cato è impossibile. (In questo momento appare alla finestra il primo profeta).

Il primo Profeta            - (grida) Giuditta! Giuditta! Salvaci!

Giovanni                       - (lo fa stramazzare a terra e lo uccide) Tu, sei bell'e salvato!

Fine del primo atto

ATTO SECONDO

Sotto la tenda di Oloferne.

(All'alzarsi del sipario sono in scena Otta, Sara, Uri, Assur, il negro Yami e soldati di guardia; en­tra in quell'istante Egone).

Otta                               - Affrettati, Egone! Una volta tanto, Sara ha un'idea.

 Egone                           - E' ora. I nostri ufficiali si spazienti­scono, Sara: tu ci inganni sulla merce.

Sara                               - Io dò quello che ho.

Egone                            - Appunto. In un primo tempo ci davi delle ragazzine, curiose e piacevoli a maneggiarsi. Ogni inezia le attraeva: i giganti, i baffi alla mo-schettiera... Da quando nella città regna la carestia, non ci porti più che le sorelle maggiori.

Otta                               - O le nonne.

Uri                                 - O le madri. Mi han detto che ce n'è di quelle con i bambini al petto.

Otta                               - Si gettano come cagne sulla zuppa, poi, col lattonzolo a portata di mano, si danno senza al­cuna gioia.

Egone                            - Le tue vedove, in particolare, o sono prive d'inventiva fino all'incredibile, oppure, al con­trario, spingono le effusioni al di là di quel che un'onesta fanteria può desiderare.

Uri                                 - Certamente tu non eserciti dalla nascita cotesto mestiere?!

Sara                               - Come no? Discendo in linea diretta da Giacobbe.

Egone                            - Strano, allora. Ogni grande avo crea intorno al suo ceppo, per il seguito dei suoi eredi, una zona d'incoscienza, di saturazione e di irre­sponsabilità. Sulla nostra strada non abbiamo tro­vato che nomi illustri per aprirci di soppiatto le porticine o rifornirci di ragazzetti. Se le discendenti di Giacobbe non possono essere delle buone ruf­fiane, a che serve Giacobbe?

Otta                               - Stanotte, Giacobbe si riabilita.

Egone                            - Dunque, Sara, fuori la tua idea! Che cos'hai da offrirci stasera, per festeggiare l'annien­tamento della città?

Sara                               - Uno spettacolo gaio.

Egone                            - Li conosciamo i tuoi spettacoli gai. Dodici donne nude, e sui loro ombelichi, in proie­zione, l'orifiamma delle rispettive nazionalità. Solo il nostro ministro della guerra ci prova ancora gusto. No, basta con gli spettacoli d'arte, col teatro per l'esercito... Che ci proponi di un po' serio?

Sara                               - La scena più comica che un'ebrea abbia recitato finora, e reciterà mai, se domani le massa­crerete tutte.

Egone                            - Stai tranquilla, Sara; non ci sarà mai un'ultima attrice ebrea!

Otta                               - Risparmia il tuo spirito, Egone. Tra poco tornerà più utile.

Egone                            - Quale ebrea? E' qui?

Sara                               - Sta venendo.

Egone                            - Ti assomiglia?

Sara                               - Ha vent'anni.

Egone                            - Un'altra accattona?

Sara                               - No, milionaria e generosa. Durante tre secoli tutti i suoi avi banchieri hanno prestato, usureggiato, rubato per accumulare un piedestallo d'oro a questa meraviglia di beneficenza e di disin­teresse.

Egone                            - Mi par di vederla, con quelle verruche precoci e quei lobi di mezza libbra agli orecchi, che si vedono solo alle pesche di beneficenza.

Sara                               - No. Nelle alcove delle sue bisavole un numero incredibile di occhi sporgenti, di pelli squa­mose, di menti a galoscia si è adoperato a creare il più perfetto ovale, il più bello sguardo d'Israele.

Egone                            - Perché viene da te?

Sara                               - Non viene da me. Viene da Oloferne.

Egone                            - Che cosa prepari, tu, che cosa ordisci con cotesta ebrea? Bada...

Sara                               - Io non c'entro per nulla, in questa sua visita: sono la sola a non entrarci. E' mandata da tutto il popolo ebreo, il quale, stando alla parola dei profeti, può essere salvato solo dalla più bella e più pura delle sue fanciulle, che venga senza scorta a piegare Oloferne. Tutti hanno pensato a quella, e lei per prima. E ora sta venendo.

Egone                            - Buona idea. Purché sia un po' grassa.

Sara                               - Egone, non capisci... Che cosa ti è odioso, negli ebrei?

Egone                            - Non sono originale. L'orgoglio.

Sara                               - E non capisci che l'orgoglio in persona viene a gettarsi, in questo istante, nelle vostre reti?

Egone                            - Le nostre reti ne hanno visti ben altri.

Sara                               - Credi? Chi avete umiliato finora? Vec­chi re dai troni bucati, regine vili che avevano tra­scorso tutta la vita a preparare dentro di sé il giorno del loro crollo, qualche profeta vegetariano, qualche idolo rimbambito. Avete coperto d'obbrobrio sol­tanto parrucche, soltanto occhi cisposi da cui scen­devano lagrime bisunte... Ma, ora, eccovi questa ragazza, figlioli! Eccovi l'orgoglio nella sua gioventù, appena un tocco di pelame nero e lucido nel cavo delle ascelle; se piange o suda costei, è come ru­giada... Tu che sei cacciatore, Egone, tu sai come ogni belva acerba, sia il piccolo di pantera nella sua fossa o il volpacchiotto nella tagliola, apporti un che di fresco e di vergine alla morte. Tutto ciò che di nuovo e di intatto può essere portato allo scan­dalo, allo sconforto - anche alla morte, se siete in quell'ordine di idee - lo troverete in Giuditta. E' una ricca; i suoi dolori, perciò, sono stati di specie così elevata da non avere sui tessuti e sulle ghian­dole effetti diversi da quelli delle gioie.

Egone                            - Giuditta? Hai detto Giuditta?

Sara                               - Ho detto Giuditta. La conosci?

Egone                            - Quell'ebrea che la settimana scorsa fece prezzolare i nostri portatori arabi, perché mas­sacrassero gli ufficiali della guardia... Come si chia­mava?

 Sara                              - Si chiamava Giuditta.

Egone                            - E lei osa venire qui, lei che ha ucciso i nostri migliori amici? Otta, ricordati Lamia, il nostro povero Lamia, con la testa fracassata e la bava verde alla bocca.

Sara                               - T'interessa, finalmente!

Egone                            - Ah, sta venendo, quella che trasse verde sangue da un eroe come Lamia. Mi frego le mani dalla contentezza. Fin d'ora sono d'accordo su tutto. Che supplizio le prepari?

Sara                               - Il solo che possa turbarla: l'umiliazione. Potrò condurla qui?

Egone                            - Se vuoi. Il re lavora o riposa in fondo alle tende.

Sara                               - Allora, siediti su questo scanno. Otta, da' qui il manto.

Egone                            - Il manto di Oloferne? Vuoi che mi prenda per Oloferne?

Sara                               - Sì. Quando giungerà, tremante d'an­goscia ma inebriata all'idea di essere una regina di fronte ad un re; e pur aspettandosi l'ingiuria, e preparandola, sarà pronta ad essere la regina di Saba per un nuovo Salomone, e ad iniziare con lui una tenzone di corte amorosa; ricevila in luogo del re e col nome suo.

Egone                            - Perché proprio io?

Sara                               - Tu sai parlare, e ti ho detto che lei è vergine: dunque ciarliera, in primo luogo. Tu sei il più adatto a dirigere la commedia, a spingerla ai vertici del terrore, della vanità soddisfatta, dei piagnistei nazionalisti... Pensa che spettacolo go-dremo, quando ad un tratto capirà la beffa che le avevamo preparata! E non credere di aver a che fare con una vittima insignificante: tutto il popolo ebreo ha posto su lei, stasera, la sua missione, e passerà la notte sulle mura, nella certezza di ve­derla uscire dal campo all'alba, seguita da Oloferne penitente.

Otta                               - Hai capito il giuoco, Egone?

Egone                            - Io capisco sempre la vendetta. Tra poco sul mio viso aleggerà qualche cosa di vera­mente sovrano... il suo riflesso.

Otta                               - Del resto, il manto reale ti sta bene.

Egone                            - Un manto reale sta sempre bene. E' il trionfo della sartoria... Siete pronti, amici? E cer­cate una buona volta di tributarmi, come re, quella deferenza che mi dovete come vostro effettivo di­rettore di coscienza.

Uri                                 - Intesi, vecchio pederasta.

Egone                            - Ricordi, Otta, l'agonia di Lamia. Quel corpo così impareggiabile assalito da due morti di­verse: il lato sinistro rigonfio, tumefatto, scosso fino alla palpebra da gesti convulsi, ammiccante alla sua ultima ora; e il destro tutto liscio, nobile, la giuntura delle labbra unita da un punto impecca­bile... Lo rivedi sorriderci con la metà di un sor­riso, e quel bel sorriso steso nella terra con la metà di un orrendo Lamia? Solo il suo lato destro, ora, è in piedi vicino a me, pallidissimo, col taglio an­cor fresco, spalmato di catrame infernale... No, vieni alla mia sinistra, Lamia... (Entra Assur) E' giunta quella donna, Assur?

Assur                             - Sta per giungere.

Egone                            - Come hai permesso che una donna si aggirasse così nelle nostre linee?

Assur                             - Una spia la segue da quando ha la­sciato la città. D'altronde cammina lentamente, di­ritta e senza nascondersi.

Egone                            - Da che parte è entrata nel campo?

Assur                             - Presso il ruscello Esaù, dove gli ebrei hanno dato stamane l'ultimo assalto. Si è chinata sull'acqua sozza del loro sangue, e l'ha bevuta.

Egone                            - E di là, chi le ha fatto da guida?

Assur                             - Sara ci aveva raccomandato di ravvi­vare la sua passeggiata. Le abbiamo fatto attraver­sare il recinto dei prigionieri, dove erano in corso i supplizi. Adesso si trova dinanzi al recinto regio. Non vuole sedersi e chiede di Oloferne.

Egone                            - Portala qui... (Assur esce).

Uri                                 - Assegnaci le parti, Egone.

Sara                               - Niente di più facile. Tutti noi scaglia­mo addosso a Giuditta improperi e minacce. Egone, invece, finge di esserne sedotto, e lei a poco a poco gli strappa la grazia per gli ebrei.

Egone                            - In cambio di un bacio, di un semplice bacio.

Sara                               - Complimenti per il tuo coraggio!

Egone                            - Lamia... A lui, sì, piacevano le donne, ma solo le bionde, come lui. Ricordi l'anno scorso a Tiflis, quelle due sorelle provenienti dal nord, i loro capelli color paglierino, stretti sotto il turbante, i loro bei volti chiari dilaganti, nudi come natiche... Sara, voglio sperare che non sia bionda, la tua Giu­ditta, che non si sia spalmata del colore di Lamia per rabbonirlo...?

Sara                               - Guardala. (Affare Giuditta, Egone e gli ufficiali fingono di non accorgersi del suo arrivo e continuano a ridere e scherzare).

Giuditta                        - Eccomi, Oloferne.

Uri                                 - Chi osa pronunciare il nome del re? Chi sei tu per non sapere che è vietato a pena di morte di toccare il re anche con la sola parola?

Giuditta                        - Questa donna può informarti.

Sara                               - Ah, ti degni di riconoscermi, Giuditta! Da quando mi hai fatto scacciare dalla tua casa, con la lettera del bell'Edodo, ho fatto progressi, non ti pare?

 Otta                              - Non è qui il posto per le liti fra tenu­taria e pensionante. Yami!

Sara                               - Non è una mia pensionante. E' stata studentessa; sa prostituirsi da sé.

Otta                               - Che cosa ti spinge qui? Isterismo come le tue sorelle, fame, sete? Vuoi bere?

Giuditta                        - Ho bevuto poco fa al ruscello Esaù.

Egone                            - Che cosa dice?

Sara                               - Credo voglia dire che ha bevuto l'acqua rossa del sangue degli ebrei, per acquistare il loro coraggio. Una cosiddetta frase sublime.

Egone                            - Bella bruna, se ti sei disturbata per pronunciare frasi sublimi, stai perdendo tempo. Non sono mai servite che secoli dopo essere state dette, e agli attori.

Giuditta                        - Che quelle dette cento anni fa mi servano oggi!

Sara                               - Eccone un'altra.

Egone                            - Ti prego, non insistere. Non le ca­pisco. Se si fa il conto delle donne che al mio co­spetto hanno tentato di strapparmi i loro mariti, delle sorelle che davanti a me hanno passato ai fratelli il veleno già da loro bevuto in parte con un misero sorriso, delle donne incaponite a salvare dai nostri boia qualche nipotino riccioluto e camuso, puoi credere che di frasi sublimi, di gesti e di pose sublimi ne ho vedute formicolare intorno a me. Non mi hanno raggiunto per niente. Non ho visto che esseri dediti al vaniloquio e alle gesticolazioni fino alla soglia della morte. Hai bevuto al ruscello Esaù? E con questo? Hai bevuto fango misto a grumi di sangue? Era nel tuo diritto, ma è inutile farsene un vanto... Il tuo nome?

Giuditta                        - Giuditta.

Egone                            - Chi è Giuditta, Sara?

Sara                               - La ragazza alla moda.

Egone                            - Alla moda, sì, lo è. Eia quella bravura tipica delle donne di mondo, che a loro solo per­mette, nelle epoche più tristi, di acconciare lo sguardo o l'abito alla moda della sventura, della guerra, della carestia. Ma una ragazza, no.

Sara                               - Sta di fatto che è vergine. Nessuna ver­ginità fu desiderata più della sua, ne sfiorata più da vicino; però è ancora una verginità. Ha anche degli attestati del gran sacerdote... Devo spogliarla?

Egone                            - Ti faccio frustare, Sara, se la tocchi... Ammetti comunque che è bella, e meno magra delle tue solite reclute.

Sara                               - Non capisco come fa. La fame dissecca le altre ebree; costei mangia meno ancora, perché si fa un merito di regalare tutto, ma non è deperita di un'oncia. Si nutre della grandezza dei tempi.

Egone                            - Non le lesineremo cotesto cibo. Prin­cipessa, forse, per osar di apparire così"? La regalità stessa di Giuda aleggia intorno a lei.

Sara                               - No, è l'alta banca. Come non intravedi, intorno a tanta semplicità, le carrozze molleggiate, i gioielli con catenina di sicurezza? Sono sicura che non si è neppure toccata il vestito o i capelli, uscen­do di casa. E' di quelle che non hanno bisogno di prepararsi ne all'amore né alla morte: una ricca!

Egone                            - Non prendertela, Sara.

Sara                               - Davvero, Dio esagera nell'ingiustizia! Una vera martire non può essere che ricca. Quel corpo sempre lucido, adorato e adulato, guardalo, è proprio un modello di corpo destinato a tutti i supplizi... L'odore di santità, difatti, è il profumo. Finalmente eccola qui, reclusa e vergognosa, schiac­ciata dalla paura.

Egone                            - Su questo punto sei in errore, Sara, lo riconosco il coraggio.

Sara                               - Ha paura... Guardatela là, diritta e pal­lida, come la figlia del padrone in mezzo agli scio­peranti. Del padrone Geova! E tace. Com'è difficile, eh, ragazza, non proferire frasi sublimi in oc­casioni come queste!

Egone                            - Ancora una parola, Sara, e ti consegno a Yami... Quale proposito ti ha spinto qui, Giu­ditta"?

Giuditta                        - Volevo vedere in viso un grande re.

Egone                            - Lo vedi, ed è certamente come te lo figuravi"?

Sara                               - Non fidarti, signore. In quella bocca non c'è che piaggeria e dentifricio.

Giuditta                        - Non so come me lo figuravo. Ma so che sono venuta disperando, e che ora spero.

Egone                            - Un non so che nei miei occhi, no"? Qualcosa tra i peli della mia barba?

Giuditta                        - Un accento nella tua parola.

Sara                               - Ci siamo.

Egone                            - Che la renda dolce, non è vero"? Leale"?

Giuditta                        - No, ma sotto una durezza ipocrita da imperatore, sento una passione di giuoco e d'av­ventura, sento una curiosità che è una promessa.

Egone                            - Diffida, allora. Mille promesse ha fatto nella sua vita Oloferne. Alla regina di Aleppo promise di risparmiare l'unico figlio, se si fosse pro­stituita ad un ciuco. Promise al Dio dei Fenici, purché si manifestasse, di rispettare il suo tempio. La regina si schiuse all'asino, il Dio dei Fenici si mostrò in persona, ed io uccisi il figlio, ed io arsi la cattedrale.

Sara                               - Perché quella regina e quel Dio non erano Giuditta.

Giuditta                        - Perché tu allora non eri il vero Olo­ferne, quello cui io voglio parlare questa sera.

Egone                            - Egli ti ascolta.

Uri                                 - Signore, ti prego, scegli fra costei e noi.

Egone                            - Taci, ho scelto...

Otta                               - E' tardi, signore. Abbiamo appena il tempo di leggere il rapporto.

Egone                            - Parla, fanciulla. A che titolo sei ve­nuta"?

Giuditta                        - Appunto. Sai tu che cosa è una fanciulla?

Egone                            - Quello che è stata Sara; quello che sono state tutte coloro che sono l'ignominia del mondo.

Giuditta                        - Sai che cos'è una fanciulla"?

Egone                            - Tutti lo sanno, esse sole lo ignorano. Se tu lo sai, non lo sei più.

Giuditta                        - Qui sta l'eccezione. Io so quello che sono e lo rimango.

Egone                            - E' una futura donna, pronta alle grot­tesche ignominie che rendono donna.

Giuditta                        - E' una speranza, così forte da far impallidire le peggiori sventure, da far tacere le peggiori sofferenze: la speranza, un giorno, d'in­contrare grandezza in un essere umano.

Egone                            - Povera ragazza, e tu speri di trovarla qui, fra chi vince"? La grandezza è il premio desti­nato alla sconfitta, alla vittima.

Sara                               - Forza, Ester, è il momento buono. As­suero ti ascolta.

Giuditta                        - Risparmia gli ebrei, Oloferne, e il tuo nome sarà congiunto al loro per l'eternità.

Otta                               - Davvero, non ci sono che gli ebrei, per credere .cosi seriamente all'eternità. L'hanno in­ventata come interesse per un minuto, un solo mi­nuto di carità o di cortesia. E' l'ideale degli inve­stimenti, per loro.

Egone                            - Suvvia, Giuditta, parliamo seriamente. Credi che non abbia già sentito tutto ciò che può perorare in favore degli ebrei"? Ti credi più elo­quente della bella luce che ora inargenta, lassù sulle tue mura, la marmaglia stipata nell'ansia"? Mi credi sordo? Credi che questo silenzio del campo di battaglia, questo grido di uccello notturno incu­pito da una beccata di carne umana, il rumore di quel frutto che si stacca improvviso dall'albero, unica vittima pacifica e naturale di questa veglia, e l'im­magine di una donnetta ebrea che prega piangendo in una soffitta e accarezza il suo digiuno cane ebreo, e l'indifferenza delle stelle e il disprezzo dei venti, non mi abbiano già detto in loro favore ciò che po­tevano dirmi"? Tutto è Giuditta in questa supplica, e Giuditta non più che tutto il resto. Perché il tuo lamento, superando gli altri, dovrebbe giungere sino a me?

Giuditta                        - Perché è il più forte.

Egone                            - Non è il più forte: io amo i cani, le stelle, i riflessi della luna sugli umani, e non amo affatto le donne.

Sara                               - Oggi non si direbbe davvero. Per la prima volta Oloferne si degna dì parlare a una ra­gazza. Toccala, toccala, signore. Di fronte a un'e­brea ci vogliono gli occhi più acuti, le più sensibili mani; bisogna essere mille volte veggente e, in­sieme, mille volte cieco.

Egone                            - Portate via quella donna, frustatela.

Sara                               - Ma che ho detto, signore, che ho fatto?

Egone                            - Hai insultato la mia ospite. Sarai pu­nita.

Sara                               - Pietà, signore. Volevo scherzare.

Otta                               - Non si frustano i buffoni, signore.

Egone                            - Se Giuditta vuole avere pietà di te, è affar suo.

Sara                               - Pietà, Giuditta!

Egone                            - Un gesto di Giuditta, una sua parola, e sarai salva... (Giuditta rimane muta) Ah, ah. Be­nissimo.

Otta                               - Sta' in guardia, signore, sta' in guar­dia! Pensa che dal tuo amplesso con questa pul­zella può nascere una teoria di esseri e di simboli già quasi cancellati dall'universo: il berrettaio e l'usura, il virtuoso e la profezia. Per non parlare dell'eternità. Pensa a tutta una simile progenitura.

Egone                            - Ma si può sapere chi sono, perché mi si parli così! Bada anche a te, Otta! Come puoi dimenticare che oggi è l'anniversario del nostro caro Lamia, che tanto dovette a un'ebrea"? In onor suo ascolterò Giuditta.

Giuditta                        - Ascoltami, signore. Per quel Lamia che invoco ritto dietro di te, in questo momento.

Egone                            - C'è: almeno in parte.

Otta                               - Siamo dunque all'assolo? Non eviteremo l'assolo della favorita che supplica il re per la sal­vezza degli ebrei? Oloferne, ti avverto che non ri­sponderò di nulla se domani impedirai la strage alle nostre truppe dell'Africa. La doppia razione di semola e d'orzata che ricevono da due mesi non reclama che una vendetta: il sangue...

Egone                            - Parla, Giuditta.

Giuditta                        - O re, so bene di non chiedere un lieve favore alla strage. Sono infermiera; ogni gior­no curo uomini feriti e moribondi; e il cammino attraverso le linee mi ha del tutto snebbiati gli occhi. Ogni strumento di morte e di tortura, vicino a un corpo ebreo, acquista un senso, si affila. L'in­cisione risulta bella, grassa, sulla nostra pelle. Ven­go a te fiera della nostra ricchezza nella morte. Se la guerra fosse preveggente, non ci annienterebbe. Ma non si distrae la guerra dal sangue, se non col sangue. Ed io te ne indico una pista freschis­sima.

Otta                               - Il sangue di Giuditta è poca cosa per undici armate.

Egone                            - Taci!

Giuditta                        - Hai sentito parlare di Cittosa?

Egone                            - La città bionda?

Giuditta                        - Così la chiamano, infatti, quelli che chiamano città bruna la nostra.

Egone                            - Come potremmo ignorarla? Sono i due occhi vaiati il cui luccichio ci ha attirati in Giudea.

Giuditta                        - Cittosa è distante otto leghe, in­tatta, turgida di pace come una larva, piena dei suoi eunuchi, delle sue donne del Caucaso, delle sue patrizie in cui il grasso si stende uguale dalla gota fino all'alluce, come in tutti gli esseri privi di Dio. Invece dei nostri solai e delle nostre cantine vuote, delle nostre donne scheletrite, da' ai tuoi soldati quei corpi pieni come sacchi, quei bambini dorati, quell'abbondanza; e osserverai la sola legge propria della guerra, punire la sicurezza e irridere alla pace.

Egone                            - Che ne dici, Otta?

Otta                               - Interessante, ma mi sembra inutile il permesso di Giuditta. Verrà la volta anche di Cit­tosa.

Giuditta                        - Non verrà, se aspettate un solo minuto. Il nostro Consiglio ha spedito là stasera un corriere con l'avviso di prepararsi o di fuggire. Ma se partite subito, io conosco la montagna e vi farò da guida.

Sara                               - Bene, Giuditta. Ecco la tua vera voca­zione: sei fatta per perdere, non per salvare. Se Dio ti ha scelta per spingere Oloferne a un mas­sacro di innocenti, non posso che approvarlo: que­sto è il tuo forte.

Egone                            - Vieni qui, Giuditta. E' finita la com­media.

Giuditta                        - Commedia?...

Egone                            - Ti avevo mentito, Giuditta. Ti aspet­tavo. Il tuo nome era giunto a me, e non per via di questa mezzana. Era quello che i più bei prigio­nieri pronunciavano nelle torture; era questo tuo nome, la cui eco senza gengive non riesce a ripe­tere le sillabe troppo dense; il tuo nome che solo le labbra umane, rinforzate dai denti, possono profe­rire; e tutto quell'esercito non pareva che difen­dere te.

Sara                               - Pietà, Giuditta.

Una Guardia                 - Silenzio.

Egone                            - Finalmente sei nella mia tenda, e mia prigioniera. Non sono stato io a far correre la voce che, venendo a me, tu avresti salvato i tuoi; ma non credi, Giuditta, che la semplice fantasia dei popoli, così come sa isolare la saggezza in detti e in proverbi, sappia anche isolare, al disopra delle grandi lotte, i veri combattenti"? La guerra non po­teva finire che con questo duello che ci pone di fronte... E' finita. Otta, convoca i colonnelli, an­nuncia la partenza per Cittosa. Tu, Giuditta, va': sei libera.

Giuditta                        - Libera?

Egone                            - Corri ad annunciare ai tuoi ebrei la salvezza... Yami ti accompagnerà... Mi hai capito, Yami?... E impara a conoscere quelli che chiami barbari. Sì, tu mi piaci. Ma non voglio importi condizioni. Prima di tutto ci manca il tempo, e poi, io non sono molto convinto di piacerti.

Giuditta                        - Signore...

Egone                            - Sbaglio forse a crederlo? Potresti senza repulsione avvicinare il tuo al mio viso, de­porre sulla mia fronte le tue labbra, dolcemente, fraternamente, per un addio?

Giuditta                        - Certo, sì, posso...

Egone                            - Vieni allora... (Giuditta, sospettosa, depone un bacio sulla fronte dì Egone. Subito questi la bacia a piene labbra, afferrandola per la vita, mentre s'innalzano tutte le grida di beffa e di derisione. Giuditta si è divincolata e, libera, sta nel mezzo del cerchio con in mano il pugnale) Vo­leva colpirmi, maledetta! Yami, a te!

Sara                               - Ah, Giuditta! Povera scema! Dove cre­devi di essere? nella tua corte amorosa o in sagre­stia, fra i tuoi fidanzati e i tuoi preti? Qui sei giù fino al collo nella vergogna. Bello spettacolo hai dato a questi soldati dell'acume ebraico, prendendo quel pederasta per Oloferne! Grazie, Egone, per aver vendicato su questa ricca tutti i poveri della terra; su questa linguacciuta tutti i muti ed i bal­buzienti, su questa stretta tutti i ventri aperti fino all'ombelico.

Egone                            - Yami, avanti!

Yami                             - No.

Egone                            - Non hai capito? Te la regalo.

Yami                             - No.

Egone                            - Osi rifiutare? Sai a che cosa ti con­danni?

Yami                             - Sì.

Uri                                 - Forza, allora, guardie! (Yami viene con­dotto via o ucciso sul posto, secondo l'umore del regista).

Sara                               - Dalla a me, Egone. So come impie­garla. Con quanta grazia ti ha baciato. Che deli­zioso ritegno in quel po' di sputo! E che regina di eloquenza... Quel bruto di Yami, quello che non capisce, che non sente, lei lo ha convinto... Non vuol altro, ne sono certa: ha convinto un negro, e la sua vanità è salva.

 Egone                           - No, Lamia sarà vendicato qui.

Sara                               - Chiama i tuoi ebrei, Giuditta! Chiama i tuoi profeti! Chiama il tuo Dio!

Giuditta                        - Oloferne! Oloferne! Aiuto! (La cor­tina di fonda si scosta, appare Oloferne).

Oloferne                        - Portate via questa donna. Ucci­detela.

Sara                               - Che cosa ho fatto, Oloferne?

Oloferne                        - Hai pronunciato male il mio nome, mettiamo. Oloferno invece di Oloferne.

Sara                               - Non ho fatto che ubbidire a Egone, signore. Pietà!

Oloferne                        - Ricominciamo la commedia, ma nella verità stavolta. Sarà questa fanciulla a dire se vuole avere pietà di te.

Sara                               - Pietà, Giuditta!

Oloferne                        - Purché abbia un gesto, una parola di pietà, io vedrò... (Giuditta rimane immobile) Va bene, via. Anche lei è ebrea, del resto: deve morire.

Sara                               - Ah! povero ufficialetto, credi che gli ebrei moriranno! Vivranno, invece, e verrà il loro messia. E verrà non grazie a cotesta borghese e al suo pulzellaggio, ma grazie a Sara la ruffiana. Sappi che non li ucciderai tutti domani, perché da un mese ho spedito ogni giorno, coprendoli con i miei traffici, una fila di giovanotti e dì ragazze che ripo­poleranno al sicuro la nostra città, e che sputano sul tuo nome.

Oloferne                        - Ero informato. Ho fatto catturare e sterminare le carovane ogni sera...

Sara                               - Muori allora! (Si getta .su Oloferne, Le guardie la portano via).

Oloferne                        - Lasciatemi, voi. (Tutti escono, meno Oloferne e Giuditta) Si direbbe che giun­gano per l'aria, su ali...

Giuditta                        - …..

Oloferne                        - Si direbbe che giungano per il sottosuolo, simili a incantevoli talpe. Nell'ora in cui l'uomo meno l'aspetta, in cui la presenza fem­minile sembra esclusa, dai cunicoli dell'aria, dalle correnti della terra, ecco giungere una donna a portargli la sfumatura di dolcezza o di crudeltà che egli non conosceva.

Giuditta                        - ….

Oloferne                        - E questa è la conclusione a cui si arriva dopo dieci anni di conquiste. Le grandi av­venture sono serbate a quelli che si rinchiudono a chiave negli uffici, che si celano in fondo a tende solitarie. 1 filosofi speculando, i generali arrovellan­dosi, i banchieri facendo calcoli, tessono misteriose maglie invisibili; e d'improvviso odono qualcuno nella stanza accanto, che tira e si dibatte. Nella rete c'è una donna... e non v'è più altro da fare che districarla pian pianino, con le due mani. Questa, la più perfetta, da che parte è venuta?

Giuditta                        - Da un campo di stragi.

Oloferne                        - Io dimentico sempre come le don­ne se ne vanno, come scompaiono dalla mia vita. Ma ricordo sempre ogni particolare del loro arrivo, i colori delle vesti e del sole, e quel primo bagliore dei denti sotto il primo sorriso, che vi fa supporre delle ossa d'avorio, uno scheletro d'avorio. Come ci credevo! Come ci credo! E' la stessa donna, sem­pre, a lasciarmi... Ma come costei che ora giunge è diversa dalle altre! Il loro contrario tu sei, Giu­ditta; e mi allontani da loro di una distanza finora sconosciuta. Preparati, se vuoi...

Giuditta                        - A che cosa non dovrei essere pre­parata, in questo istante?

Oloferne                        - All'amore, lo saresti?

Giuditta                        - Egone mi ha toccata... Non sono più degna di te.

Oloferne                        - Asciugati cotesta macchia rossa vi­cino alla bocca, e di Egone su te non rimarrà nulla. Vuoi che neppure di lui rimanga nulla a questo mondo?

Giuditta                        - No, no! Deve vivere; e il suo mar­chio ignobile deve segnarmi per sempre.

Oloferne                        - Lo dici tanto per dire. Sai bene che alla prossima toeletta scomparirà.

Giuditta                        - Così non fosse. Sarebbe troppo bello che una donna, dopo aver visto saccheggiata la sua fede, la sua virtù, dopo che il suo Dio, per schernirla, si è inteso con una ruffiana, mostrasse al mondo la stessa faccia di prima! Non sono più che vergogna. Brucio di vergogna, e su questo fuoco sento l'incandescenza delle labbra di Egone.

Oloferne                        - Macché! E' un'impronta rosea so­pra la neve e la crema. Una scipitaggine di poco buon gusto. Vieni che te la cancello.

Giuditta                        - Non cancellare il bacio bugiardo del mio Dio: mi copre le guance, è il più diso­norante.

Oloferne                        - Cominciamo da quello di Egone. Ecco fatto. Che volto puro, ben lavato... Nessuno dei baci di cui certamente lo hanno coperto i gio­vani tuoi amici, direi che ora vi abbia lasciato traccia... L'ira soltanto è capace di rendere la ver­ginità ad un viso, di tradirne il segreto.

Giuditta                        - Che cosa tradisce il mio?

Oloferne                        - Il segreto di tanto furore, di cotesti occhi asciutti, del tuo disordine.

Giuditta                        - Sì, e quale è?

Oloferne                        - La dolcezza.

Giuditta                        - La dolcezza? Non senti un pu­gnale sotto la mia veste?

Oloferne                        - Lo sento come una parte del tuo corpo, indurita per me; ed è la sola parte dura. Mi credi tanto nuovo da non sentire questo tuo corpo improvvisamente rilassato, senza vertebre, un corpo innamorato, insomma? Tu sei l'abbandono teso su di un pugnale...

Giuditta                        - L'abbandono alla vergogna.

Oloferne                        - Via, via, sciocchezze. Sai benissimo che in certe ore l'essere non può toccare terra che nel vuoto supremo, nella voluttà. E tu la cerchi. Dimmi se la vuoi.

Giuditta                        - Toccare terra? Sì, lo voglio! Ma nel disprezzo di me stessa. Nell'abiezione... Che il Dio degli ebrei e loro, gli ebrei, abbiano dedicato vent'anni a lusingarmi, ad adularmi, che abbiano abusato della mia fiducia per precipitarmi in que­sto agguato... no, il mio pensiero respinge tanta vergogna! In così spregevole avventura sono per­duta corpo e anima.

Oloferne                        - Non ti pare più elevata, adesso? Quello che io sono non ti basta? dovrò lasciare il posto a un terzo Oloferne? Dopo tutto, volevi ve­dermi: mi vedi. Volevi parlarmi, ti ascolto. Che desideravi da me?

Giuditta                        - Nulla, più nulla.

Oloferne                        - Non volevi parlarmi del tuo Dio?

Giuditta                        - Ormai, sia lui a manifestarsi. E' forte e terribile a sufficienza.

Oloferne                        - Eppure non gli sarebbe stata inu­tile la tua intercessione presso me: poiché, per quanto mi conosco, le mie simpatie vanno piut­tosto verso un Dio debole, un Dio alla cui divi­nità sia necessario l'amore degli uomini... E i tuoi fratelli. Quando, poche ore fa, li hai lasciati, non ti proponevi di impetrare la loro salvezza?

Giuditta                        - Mille anni fa li ho lasciati.

Oloferne                        - Sono ancora vivi. E gridano. Ascoltali. Li si sente di qui. Ti chiamano.

Giuditta                        - Non li capisco più. Arrossisco alla idea di aver parlato poco fa la loro lingua. Sì, can­tano. Lo conosco a memoria, quel cantico. Mi stan­no sminuzzando in metafore. Cantano l'agnello che è la mia innocenza, la tigre che è la mia audacia. Non posso più sopportare tutta quell'enfasi che al soffio di Dio gonfia ogni parola, ogni gesto di co­storo... D'ora in poi sarò muta.

Oloferne                        - Ma no, ma no, parla. Sotto la mia tenda non corri pericoli.

Giuditta                        - Non ti capisco.

Oloferne                        - Mi capisci benissimo. Cominci a intuire dove sei.

Giuditta                        - Dove sono?

Oloferne                        - Dove ti senti?

Giuditta                        - Su un'isolotto. In una radura.

Oloferne                        - Vedi, hai indovinato.

Giuditta                        - Che cosa ho indovinato"?

Oloferne                        - Che non c'è Dio, qui.

Giuditta                        - Dove, qui?

Oloferne                        - In questi trenta piedi quadrati. E' uno dei pochi siti umani realmente liberi. Gli Dèi, Giuditta, infestano il nostro povero universo. Dalla Grecia alle Indie, dal Nord al Sud, in ogni paese, pullulano, ciascuno coi suoi vizi, ciascuno coi suoi odori... L'atmosfera del mondo, a chi ama respi­rare, sembra quella di una camerata di Dèi... Ma c'è ancora qualche luogo in cui non sono ammes­si; e questi luoghi, io so solo vederli. Resistono, come macchie di paradiso terrestre, sulla pianura, sulle montagne; gli insetti che li abitano non hanno il peccato originale degli insetti... Ed io li scelgo per piantarvi la mia tenda. Per combinazione, proprio di fronte alla città del Dio ebreo, da una curvatura di palme, da un richiamo di acque, ho riconosciuto questo. Per una notte ti offro questa villa su un oceano sfogato e puro. Deponi i tuoi organi divini, le tue divine branchie, ed entra, in­sieme a me. D'altro canto vedo anche che cominci ad indovinare chi sono io.

Giuditta                        - Chi sei?

Oloferne                        - Quello che solo il re dei re può permettersi di essere nella nostra età di Dèi: un uomo puramente di questo mondo, del mondo. Il primo, se vuoi. Sono l'amico dei giardini ad aiuo­le, delle case ben tenute, della maiolica rilucente sulle tovaglie, dello spirito e del silenzio. Sono il peggiore nemico di Dio. In mezzo agli ebrei e alla loro esaltazione, che ci stai a fare tu con la tua bella giovinezza? Pensa come sarebbero dolci le tue giornate, libere dai terrori e dalle preghiere. Pensa alla prima colazione servita ogni mattina senza promesse d'inferno, al tè delle cinque senza peccato mortale, col bel limone e la pinzetta da zucchero innocente e scintillante. Pensa ai sem­plici congiungimenti di giovani uomini e giovani donne tra le lenzuola fresche, alle battaglie di cu­scini, all'agitarsi dei calcagni rosei nell'aria, senza angeli né dèmoni che stiano a guardare... Pensa all'uomo innocente!

Giuditta                        - Ed è un quarto d'ora di questa in­nocenza che tu mi offri?

Oloferne                        - Non disprezzare un regalo simile. Ti offro, per tutto il tempo che vorrai, la sempli­cità, la calma. Ti offro il tuo vocabolario d'infanzia, le parole come ciliegia, come uva, senza Dio all'interno come un baco. Ti offro quei musici che odi cantare canzoni e non cantici. Ascoltali. La loro voce si spegne dolcemente sotto di loro, intorno a noi, senza essere aspirata verso il cielo da un terribile aspiratore. Ti offro il piacere, Giuditta... Ve­drai come Geova scomparirà davanti a questa pa­rola dolce.

Giuditta                        - Geova ritorna terribilmente presto, Sarà meglio che ti affretti.

Oloferne                        - Affrettarmi? No, no. Quale spet­tacolo più dolce vuoi che ci sia della donna improv­visamente spogliata del suo Dio, ancora tutta impac­ciata in questa suprema libertà? Quale svestizione varrà quella del suo involucro divino? Come sei bella, Giuditta, come semplice ad un tratto! Tutto il tuo corpo, in sillabe urgenti, mi dice la sua ve­rità. Oh! Giuditta, che vuoi!

Giuditta                        - Lo sai... Perdermi.

Oloferne                        - Il tuo corpo lo dice più dolce­mente.

Giuditta                        - E' affar suo.

Oloferne                        - Il tuo corpo mi dice che è stanco, che sta per cadere se un uomo non lo stende a forza sulla terra, che sta per soffocare se non lo soffocano due braccia possenti. Mi dice che vuole essere accarezzato, adorato, toccato con le labbra, con le palme delle mani, con la fronte... con la fronte di un re. Vuol essere Dio: lo reclama. E tu, che vuoi?

Giuditta                        - Essere vilipesa... saccheggiata...

Oloferne                        - Sarete ubbiditi l'uno e l'altra.

Giuditta                        - Oloferne! Per pietà, un momento! (Entra Assur).

Assur                             - Signore, Giuditta è qui.

Oloferne                        - Che dici?

Assur                             - Una donna che dice di chiamarsi Giuditta, è arrivata già da qualche ora. Credevo tu fossi addormentato, ma lei insiste.

Oloferne                        - Due Oloferne! Due Giuditta! Quanti doppioni oggi! Che cosa farne, di questa Giuditta?

Giuditta                        - La conosco. Falla entrare. Tu sce­glierai. (Assur introduce Susanna, quindi esce).

Oloferne                        - Tu sei Giuditta?

Susanna                         - Sì.

Giuditta                        - Fai bene a dirlo. Non lo si ca­pirebbe.

Susanna                         - Sono Giuditta.

Giuditta                        - Sei Ester, o Maddalena, o Rosaj Ricominciamo, dunque? Le tue pretese di stasera si rinnovano? Ora che ti sei mostrata, puoi an­dartene.

Susanna                         - Non senza di te.

Oloferne                        - Che cosa vuole?

Giuditta                        - Pretende di salvarmi da te.

Oloferne                        - Vuoi salvare Giuditta? E' forse in pericolo?

Susanna                         - Sì, diverso da quello che mi aspet­tavo, ma più grave.

Giuditta                        - Credevi di trovarmi a ginocchi da­vanti a un idolo barbuto, in lagrime?

Susanna                         - Credevo di trovare una vittima e un carnefice. Ho trovato un appuntamento.

Giuditta                        - Un appuntamento, sì: preso da Dio.

Susanna                         - Allora ringrazia Dio invece di be­stemmiare, se è di tuo gusto. Intanto gli ebrei si figurano Giuditta di fronte ad un minotauro, ed ele­vano suppliche.

Oloferne                        - Ah, sì? E di fronte a chi è? Ogni fanciulla non ha il minotauro che si merita?

Susanna                         - Di fronte a chi? Lo si vede bene. Di fronte al primo uomo che mai l'abbia scossa.

Oloferne                        - Da chi sei mandata?

Susanna                         - Io, da un uomo. Lei, da un Dio. Ma uomo e Dio si sono scambiati i loro posti per trattenervi noi. Oloferne, aiuto.

Oloferne                        - Aiuto, perché? Che cosa ho da salvare, ancora?

Susanna                         - L'onore del mondo.

Oloferne                        - La virtù di Giuditta, vuoi dire?

Susanna                         - E' la stessa cosa, quest'oggi. Finché Giuditta sarà vergine, il mondo lo sarà.

Oloferne                        - Un'altra verrà a sostituirla... Nulla si riproduce come la vergine.

Susanna                         - Tu non la conosci, signore! Questa donna umiliata che ti sta dinanzi, non è Giuditta! Lo sono io più di lei, io che ho soltanto il suo riflesso di ieri! E’ lei la sola del nostro popolo, dai vecchi agli eroi, che non è Giuditta...

Giuditta                        - Sì, quegli eroi che ieri mi hanno lasciata partire da sola verso ciò che essi credevano la vergogna.

Susanna                         - Ma io sono venuta, e te la rispar-mierò.

Giuditta                        - Ci siamo, finalmente! La nuova inviata da Dio svela il suo segreto: è gelosa di Oloferne.

Susanna                         - Fa' cessare questa scena, te ne sup­plico, signore.

Oloferne                        - Me ne guardo bene! La trovo in­teressante.

Giuditta                        - Ecco la tua rivale, Oloferne. A lei devi prendermi.

Susanna                         - O signore, abbi pietà! II troppo slancio le ha fatto superare il suo intento. Ora di colpo essa si trova qui nuda, vuotarla sua santità si è scaricata d'un tratto, e non le resta che un'esal­tata volontà di perdizione. Tu, anche se non credi alla grandezza di Dio, credi pure alla bel­lezza umana. Salvala!

Oloferne                        - La bellezza umana presentemente non è affatto minacciata, anzi. Mi pare che tutto questo la ravvivi un poco.

Giuditta                        - Sì, per la mia esaltazione: e sei tu, femmina imbecille, che me la restituisci! Do­veva dunque scatenarsi qui la lotta ipocrita che avevo sempre rifiutata. Tutta quell'insistenza, che non ho mai voluto capire, delle donne verso di me, quei baci ambigui delle mie compagne di scuola, quegli sguardi grevi che mi lanciavano le vicine a teatro, quelle carezze delle sarte... tu do­vevi mostrarmene la libidine, il ridicolo! Grazie.

Susanna                         - Si tratta degli ebrei, Giuditta.

Giuditta                        - Degli ebrei! Figurarsi se si tratta degli ebrei, ora! Sbagli se credi che Dio segua i propri affari fino alla scadenza, come un banchiere. Ci chiede l'atto iniziale, e basta. Quanto agli ebrei, il giuoco è fatto: gli ebrei non sono più a mio ca­rico. Capisci anche tu che la sorte lavora prò o contro di loro all'infuori di noi, e che né Oloferne il potente, né Giuditta la miserabile hanno più nulla da spartirvi. Ma per le ebree, è un altro discorso!

Susanna                         - Non insultare Dio!

Giuditta                        - Lo conosco più di te, Dio. Dio si preoccupa dell'apparenza e dell'insieme, non delle minuzie. Dio esige che la nostra opera porti il man­to del sacrificio, ma sotto quell'ampia veste ci la­scia poi liberi di seguire le nostre inclinazioni, anche le peggiori. E se ha consumato la mia dedi­zione e il mio odio in un incontro con dei fan­tocci, prima di mettermi di fronte al vero Olofer­ne, evidentemente gli occorreva il mio gesto, non il mio ausilio! L'ultima lavandaia avrebbe scoperto Oloferne travestito in mezzo ai suoi servi: io, la santa, no! Dio vuol perdermi: mi perderò, dunque.

Susanna                         - La senti, Oloferne. Non credere di aver sedotto questa donna! Se accetterà di dartisi, non sarà perché ti trova bello e potente, ma perché ha a schifo la sua vita.

Giuditta                        - Ti sbagli. Adesso sarà anche per lo schifo di te e delle tue sorelle. Uno ad uno si rivelano, sul mio corpo, i segni invisibili che esse vi hanno lasciato. Hanno bevuto nel mio bicchiere? Era come toccare le mie labbra, Mi hanno chiesto dei vestiti in prestito? Volevano il mio calore. Quando mi accarezzavano l'abito o i guanti, era per accarezzarmi la pelle o le mani. Che ingenua sono stata! Fino a prenderti nelle mie braccia, sta­sera, e baciarti. Ti sentivi mancare...

Susanna                         - Perché avevo pietà.

Giuditta                        - Va' via! Perché mi ami!

Susanna                         - E quegli amici che tradisci: Giovanni, Adal, Edmondo, che tradisci bassamente, senza ragione, sono anche loro donne?

Giuditta                        - Tutto ciò che al mondo lambisce, baciucchia, insudicia, è donna: ogni enfasi è don­na. Tutto ciò che già mi ha toccata, tutti quelli di cui già conosco lagrime e umori e sospiri, mi sembrano appartenere al mio sesso.

Susanna                         - Gloria ad Oloferne, solo uomo a questo mondo... Addio. Ma gli consiglio di stare in guardia. Essa è venuta per uccidere Oloferne: ha un'arma sotto le vesti.

Oloferne                        - Ne abbiamo appena parlato. Sap­piamo già cos'è.

Giuditta                        - Non ti avvicinare. Anche lei ha un pugnale. Ci ucciderai domani, se vorrai, ven­dicatrice. Oggi il mio sangue mi appartiene.

Susanna                         - E allora, scegli la tua ferita. (Esce).

Oloferne                        - Vieni tra le mie braccia, ebrea.

Giuditta                        - Ecco l'ebrea.

Oloferne                        - Non è ingiuriosa questa parola per te?

Giuditta                        - Mi rende pari alla tua regalità.

Oloferne                        - Eppure significa l'avarizia, gli stracci, significa il massimo di elasticità alle arterie sotto l'impulso della paura o dell'appetito!

Giuditta                        - Ma ogni generosità, ogni coraggio al disopra dell'umano porta quel nome!

Oloferne                        - Significa la tua amica Sara, le pic­cole fioraie esperte nello svuotare gli uomini tra due portoni, il pepe e il belletto.

Giuditta                        - Ma il vero fervore, il vero sopras­salto che Dio intende dare all'amplesso umano, sol­tanto l'ebrea lo sa.

Oloferne                        - Lo sai tu? Me lo vuoi insegnare?

Giuditta                        - Dio ispira i suoi.

Oloferne                        - Significa la maledizione.

Giuditta                        - Dio non ha trovato finora altro mezzo per scegliere un popolo o un essere, che maledirlo. Un giorno scoprirà il sorriso, e il po­polo ebreo sarà il popolo benedetto.

Oloferne                        - Complimenti per le risposte. Hai in serbo degli eccellenti duetti coniugali, se riesci a vivere fino a sposarti.

Giuditta                        - Questa è un'altra faccenda. Non preoccupartene, l'ho già decisa da me.

Oloferne                        - Tu vuoi uccidere perché ti ho avuta vergine?

Giuditta                        - Vergine? Non lo sono.

Oloferne                        - Sì che lo sei.

Giuditta                        - Pensi che sarei andata vergine in­contro a un orrore ignoto?

Oloferne                        - E verso che cosa vanno le vergini, se non questo?

Giuditta                        - Prima di partire mi sono data all'uomo che amavo.

Oloferne                        - Tu non ami nessuno. Ieri amavi il mondo all'ingrosso; oggi lo detesti al minuto. E poi, le donne come te, la prima volta, vogliono darsi non all'amore, ma alla violenza, alla forza.

Giuditta                        - Solo in Dio è la forza.

Oloferne                        - Appunto: Dio usa delegarsi. Si delega ai satiri, ai romanzieri, ai comandanti su­premi. Già più volte ho sostituito Dio in questo ufficio.

Giuditta                        - Allora, stavolta avrai una sorpresa.

Oloferne                        - Non l'avrò, te lo giuro. Una don­na è un essere che ha trovato la sua natura. Tu la cerchi: sei vergine.

Giuditta                        - La mia natura sta nel cercare.

Oloferne                        - Non è vero. Soltanto domani sa­prai se sei avara o prodiga, se sei un essere ange­lico o una megera. Oggi non lo sai. Ti alzerai dal mio letto col tuo primo figlio: te stessa. Che stu­penda sorpresa se, risvegliandosi donna, Giuditta fosse dolce e mansueta!

Giuditta                        - Nei tuoi panni, io non ci conterei.

Oloferne                        - ...Se tutto quel litaniare da notte nuziale ebraica, con le colline che si avventano come arieti e le montagne che si inarcano come tori, si trasformasse in una sola parola, pronun­ciata con tenerezza: Oloferne...

Giuditta                        - E' un nome un po' sordo per la tenerezza...

Oloferne                        - Eppure ha risonato poco fa nella tua bocca... Perché hai chiamato in aiuto me, in­vece del tuo Dio?

Giuditta                        - A ciò che avevo provato, solo un uomo poteva essere il rimedio.

Oloferne                        - E io stavolta ho sentito quello che non avevo sentito mai: il mio nome pronunciato come un ricorso, come un segnale. L'hai gridato così come si chiama un salvatore di professione, il bagnino delle spiagge, colui che ha il compito di salvare la gente afferrandola per la vita.

Giuditta                        - Da che cosa mi salvi in questo momento?

Oloferne                        - Da tutto ciò che ti avrebbe avvi­lito: da un letto nuziale insulso, dal risveglio in seno alla famiglia, da quei ricordi meschini che ri­mangono come testimoni.

Giuditta                        - E anche dall'amore?

Oloferne                        - Tu ti dai, in questo momento, non ti vendi: lo sai benissimo. Conosco le fan­ciulle e la loro intransigenza. Ammetti che, se ti dispiacesse uno solo dei miei capelli, se un solo tratto del mio corpo t'infastidisse, tu sapresti come scioglierti dalle mie braccia. Non si può dire che tu tenti di farlo. Ti pare di non toccarmi, e mi stringi.

Giuditta                        - E se a te sembrasse di scorgere in me, nella piega degli orecchi, negli interstizi dei denti, la più lieve difformità, continueresti a cre­dere questo nostro corpo a corpo voluto dal de­stino?

Oloferne                        - Intendi che ci piacciamo?

Giuditta                        - Intendo dire che non mi sarà rispar­miato nulla, che il duello Giuditta-Oloferne è di­ventato il duello di un corpo bruno con uno biondo.

Oloferne                        - Al tuo Dio piace solo assistere a lotte fra complici. Egli ha costruito più sulla nostra complicità che sul nostro odio, siine certa... Vieni, e taci.

Giuditta                        - Come si tace nell'odio?

Oloferne                        - Così. (La bacia) Hai pensato spesso a questo istante, Giuditta?

Giuditta                        - Sì.

Oloferne                        - Ti sei vista spesso abbandonata finalmente nelle braccia di un uomo, del primo uomo?

Giuditta                        - Ogni giorno. Ogni ora.

Oloferne                        - Soffrivi del tuo dormire sola, dell'essere sola a conoscere il tuo corpo?

Giuditta                        - Da morirne.

Oloferne                        - E non puoi più aspettare?

Giuditta                        - Non posso più.

Oloferne                        - Perché sei al sommo della tua vita?

Giuditta                        - Perché ne sono all'infimo. Dio mi ha abbandonata: non so perché, ma mi ha abban­donata... Gli piace nelle sue creature l'idea del sacrificio; ve le sospinge, ma gli ripugnano i par­ticolari. Sono stata troppo orgogliosa della mia virtù; perciò egli la vuole sprecata senza alcun merito.

Oloferne                        - Senza gioia, anche?

Giuditta                        - E senza profitto.

Oloferne                        - Non lamentarti. Sei l'unica fan­ciulla che porti a termine la sua missione; tra poco te ne accorgerai. Ogni fanciulla è fatta per un mostro, bello od orrido che sia, e viene data invece ad un uomo. E' questo che svilisce la loro vita.

Giuditta                        - E' questo che illumina la mia. (Pausa).

Oloferne                        - Che cosa vuoi, Giuditta, prima di raggiungermi? Hai fame, sete?

Giuditta                        - Non c'è una donna, qui?

Oloferne                        - A quest'ora non c'è più che Daria. Ti può aiutare a spogliarti: è abile. Ma non devi far conto né di parlarle, né di sentirla. E' sorda e muta.

Giuditta                        - Sorda, muta, cieca: purché sia don­na, venga qui.

 Oloferne                       - Aspettala... (Esce. Entra Daria).

Giuditta                        - Sei tu?... Sei Daria, nevvero?... Sì, sì, sei sorda e muta, lo so... E' finita... più nes­suna voce di donna chiamerà fanciulla Giuditta… Che cosa voglio? Niente, Daria: nient'altro che restare un minuto con una donna... Niente di male se sei muta: sarà la tua purezza, questo mu­tismo... Delitti, oltraggi agli uomini e a Dio... Chi sa quanti ne hai visti! E invece, tacendo, mi dici solo che sei donna, che sei stata fanciulla, che hai gemuto e sofferto... Sei vergine, Daria, sei vergine? Dici di no; quasi che ti chiedessi se senti, se parli... povera Daria! Non sei bella, sei deforme, hai crini al posto dei capelli, sassi al posto dei denti; non hai nemmeno una vera bontà negli occhi, ma in que­sto momento sei mia madre, mia sorella, me stessa... Certamente « lui » ti ha presa senza un bacio, con la testa sopra la tua spalla immonda; ma per tutto il tempo di quell'impresa ignobile lo sguardo di lui si posava puro sui disegni del tappeto o sugli insetti tra i fili d'erba... No, no, non ho freddo... Sei sorda? Meglio così: il tuo orecchio per me non avrà confini... Potrò dirti tutto quello che non oserei dire a un'amica, a una parente... No, no, non ho sete. Gli resisterò? No. Non c'è più da parlare di violenza. Mi ha violata lo sguardo di Dio, fin dal giorno in cui mi ha scelta a causa della mia purezza... Ti sembrerò orgogliosa, Daria, è una cosa che si può dire solo a un sordo, ma « con me » ce l'ha Dio: non con Oloferne, non con gli ebrei. Sotto i cataclismi che sconvolgono le razze e gli uomini a milioni, si cela la sua tenacia nel colpire un solo essere, nel ridurre alle strette una misera selvaggina. Mi senti, Daria, sorda schi­fosa? La storia dei popoli non esiste. Non esistono che le storie delle « sue » cacce a qualche poveruo­mo di mediocre intelligenza, a qualche donna di mediocre bellezza. E io sono ridotta alle strette, Daria... Egli trionfa... Tra un minuto potrà chiu­dere il caso Giuditta... Tutto quello che è in me di dannato, favorisce Dio! Che dici? E' bello? Sì, Daria, Oloferne è bello... La solita avventura che capita a tutte le donne che hanno creduto in se stesse: soccombere in un'alcova, sotto un seduttore. Niente da fare. Se fosse il mostro che tu sei in donna, Daria, tenterei di fuggire, forse... Ah, sì? Sarà piacevole? E va bene, Daria, va bene... qual­cosa tra l'esser messa in croce e il convulso di risa, no?, tra l'orticaria e la morte?... No, non alzare quella portiera. Ancora un istante... Dammi i tuoi muti consigli... E' ora; e sia... Che silenzio! Se un re nell'attesa dell'orgia, una fanciulla che si perde, un popolo davanti alla morte, un esercito che si prepara a dar morte, possono generare un silenzio così grande, c'è da pensare anche a un Dio sordo e muto... Possa egli perdonarmi, Daria, perché so che è bestemmia tutto quello che ti ho detto, e che verrà presto, prestissimo il giorno che tu ritroverai la lingua e le vendette del cielo si abbatteranno su coloro che ci hanno portati a queste vergogne, a questa voluttà... (Entra nell'alcova),

Daria                             - (la sordomuta, sghignazzando) Così sia!

Fine del secondo atto

ATTO TERZO

Sotto la tenda di Oloferne: una sala precedente l'alcova. (Susanna veglia seduta, tenendo la veste di Giu­ditta sulle ginocchia. Un soldato di guardia è steso su una panca, ubriaco fradicio. Giovanni entra cau­tamente, sollevando una portiera che lascia scor­gere il pallore dell'alba).

Susanna                         - Giovanni... tu!

Giovanni                       - Chi aspettavi? Mai più, Susanna, gli arcangeli si scomoderanno per Giuditta. E' già molto un capitano in seconda... Dove sono, loro?

Susanna                         - Perché sei qui?

Giovanni                       - Sara è riuscita a fuggire, e laggiù ha raccontato tutto: il voltafaccia di Giuditta, il suo tradimento. Contro di lei sta trascinando la città. Mi ha condotto lei stessa fino alla tenda... Ha addormentato le guardie, si può entrare senza ostacoli... Tutti come quel bestione lì, ubriachi fra­dici!...

La Guardia                    - (scossa da Giovanni) Fradici...

Susanna                         - Che vieni a fare?

Giovanni                       - Non lo capisci? Dove ha fallito l'ebrea, solo l'ebreo può avere successo... Sono an­cora insieme?

Susanna                         - Sì.

Giovanni                       - Trova la maniera di chiamare Giu­ditta: io la conosco bene... Ora che non è più sacra, vorrà essere maledetta... Al vedermi griderà, farà accorrere le sentinelle, si farà uccidere per salvare Oloferne...

Susanna                         - Dormono.

Giovanni                       - Dormono... Lo dici senza fremere. Eppure sai di che cosa è fatto, quel sonno... Nessun ebreo dorme, Susanna, all'infuori di Giuditta... Tut­to il nostro popolo ha passato la notte in piedi, dai bambini ai vecchi; e mentre il sonno ripara lei, su tutti quei visi innocenti l'alba depone le tracce della sua stanchezza, della sua lussuria!

Susanna                         - Non gridare!

Giovanni                       - E devo parlar piano, così da non turbare quel riposo, e parlo piano mio malgrado. Ma non per chiudere le nostre bocche il destino ha riunito noi due, come il piagnone e la piagnona, davanti al suo talamo... Ci vuole un recitante per descrivere la sua notte nuziale! Reciterò!

Susanna                         - Vuoi rischiare la vita? Non par- I lare così forte!

Giovanni                       - La notte nuziale di Giuditta! Anch'io posso narrarla, e meglio di te. Ho passato la mia notte a seguirla, ad ascoltarla. Neppure uno J dei suoi gesti più semplici, dei suoi più innocenti I vocaboli, è mancato all'appello per aiutarmi a de­finire quell'amore. E' questo il terribile, cara Su­sanna, con coteste vergini nobili... Per quell'avve­nimento tu, ne sono certo, avrai trovato perfino un nuovo timbro di voce; avrai invocato il cielo, tua madre, con parole nuove di madre e di cielo... Ma, per Giuditta, il linguaggio dei giorni feriali è patetico abbastanza da servire come lingua d'amore. Il debole lamento che mandò quel giorno quando io, maldestro fin d'allora, presi un suo dito dentro la mia corazza... Il grido lacerante con cui chiamò aiuto quella sera, quando un'amica stava per an­negare... E poi quei dolci gargarismi, e poi quella specie di bramito che si esalava da lei inconsciamente, nella voracità o nella danza... Eccola, la notte di Giuditta! Ah, Susanna! Infelici noi!

Susanna                         - Felice lei, forse!

Giovanni                       - Noi l'amavamo; non meritavamo 1a sventura. Lei, che si amava, ha provocato la sua. Quando in una fanciulla la passione di vivere non 1 è più istinto, ma ricerca così forsennata e sapiente; quando l'orgoglio di serbarsi non ad uno sposo ma al matrimonio, non ad un amante ma all'amore, l'ha spinta a tutto provare, a tutto respingere intorno a sé, il primo rigattiere straniero che arriva se la piglia come un pesciolino...

Susanna                         - Non solo all'amo dei pescatori sono presi i pesci: anche dalle aquile...

Giovanni                       - Bene. Che hai costì?

Susanna                         - La sua veste.

Giovanni                       - La sua veste. Inutile che ti disturbi, allora, Susanna. Hai in mano la trappola che ci serve per prenderla...

Susanna                         - Chi ti dice che non verrà fuori in­sieme ad Oloferne?

Giovanni                       - Credi? Così poco conosci Giuditta da non credere invece che vorrà esaurire tutti i supplementi gratuiti connessi al suo delitto... il ri­sveglio accanto all'uomo finalmente assopito; lo spie­tato esame, a due dita di distanza, del volto lontano e segnato dell'amante; le due gambe che, lunghe, sollevando quel che rimane di veli, scavalcano fur­tivamente quel corpo disteso, e raggiungono sul tappeto, lente e sicure, i sandali come due piedi­stalli; e il primo sguardo sull'alba velenosa... D'altronde, c'è un mezzo per far uscire la gente dalla stanza vicina, anche se sta sognando o accoppiandosi... Chiamarla! Chiamarla a gran voce... Giu­ditta! Giuditta! (Entra Giuditta. Giovanni dappri­ma rimane nascosto. La guardia è sempre addor­mentata).

Susanna                         - Sei tu, Giuditta?

Giuditta                        - - Sono io: o press'a poco. Che ora è?

Susanna                         - (scostando il tendaggio) Guarda.

Giuditta                        - Evidentemente. Non c'è più da sba­gliarsi... è l'alba... Quel cercine sanguigno sull'oriz­zonte, l'improvviso color di zolfo sul ventre dell'ul­tima civetta, il fiato gelido che arruffa l'erba e i capelli dei cadaveri; quella tenda da cui sporgono un piede livido e una coda di cane, che, goccio­lante di rugiada, si mette a un tratto ad agitarsi debolmente, unico segno di pietà in un mondo implacabile... Il cielo pieno di pus e di oro, l'uomo e la spada di ruggine e di minaccia, Giuditta di obbrobrio e di felicità... L'aurora, come loro la chia­mano... (E' venuta in avanti. Giovanni crede di poter passare e si rivela... Giuditta lo ferma) Ma è Giovanni!

Giovanni                       - Sì, Giovanni... (Va verso dì lei) E stata buona la notte? Tutto è andato bene?

Susanna                         - Taci, Giovanni!

Giovanni                       - Sei meno curiosa di me, tu, Su­sanna. In ogni pubblica o privata vergogna c'è sempre una donna che se ne crea subito un te­soro segreto. Ma lei... lei, per quanto la conosco, mi dirà tutto. E' stata buona la notte, Giuditta?

Giuditta                        - Breve.

Giovanni                       - Non sei più vergine? E' fatto?

Giuditta                        - E' fatto.

Giovanni                       - Sai che tutti gli ebrei conoscono il tuo tradimento?

Giuditta                        - Meglio così. Pensavo al modo di informarli...

Giovanni                       - Lo sai che hanno lapidato i tuoi servi, ferito tuo zio, bruciato la casa, e che le strade rigurgitano di folla che ti maledice?

Giuditta                        - Ho rinunciato a essere di tutti.

Giovanni                       - Di chi sei?

Giuditta                        - Lo capisci da te.

Giovanni                       - Di colui che fu più forte del tuo Dio, più vero del tuo popolo, più affettuoso e fe­dele dei tuoi amici? Di Oloferne?

Giuditta                        - Fino alla morte.

Giovanni                       - Non è lontana; sta appressandosi.

Giuditta                        - Sia la benvenuta. Puoi colpire.

Giovanni                       - Più pura è la missione delle mie mani. Ma se vuoi fuggire, affrettati. Nella spe­ranza di piegare Oloferne, il Consiglio gli manda le chiavi della città, e tutti i profeti seguono trave­stiti il corteo di Gioachino.

Giuditta                        - Che posso farci?

Giovanni                       - Hanno giurato di raggiungerti, di punirti. E tu li conosci: anche se qui li aspetta il massacro, sapranno ucciderti prima. Ti preparano il più atroce dei supplizi, quello degli adulteri, perché hai ingannato Dio.

Giuditta                        - Chi di noi due abbia ingannato l'altro, è ancora da stabilirsi.

Giovanni                       - Davvero, sei quello che dovevi di­ventare! Vi approvo, ebrei! Meglio è che sia stato bruciato tutto di lei, che non ci siano più gli ar­madi di Giuditta, i mucchi di biancheria, i gioielli, i taccuini di Giuditta. Tutto quello che a Giuditta appartiene è lì; ridotto a quel corpo, come una pan­tera, come una preda da abbattere.

Giuditta                        - Un po' di coraggio, da bravo! Sii cacciatore, una volta tanto, e non guerriero!

Giovanni                       - E quell'altro è là! Dorme appagato, sazio di te. Il primo uomo stanco di Giuditta, rim­pinzato di Giuditta, è di là con gli occhi cerchiati, e sta russando! Perché hai sentito anche, per la prima volta, russare uomini contro di te.

Giuditta                        - Appagato, è da vedersi... Dorme, però. Come marmo nel sonno. E in silenzio!

Giovanni                       - Dio me l'ha consegnato! (Giovanni, che aveva sguainato la spada, scompare, diretto alla camera di Oloferne. La guardia continua a dor­mire).

Giuditta                        - Povero Giovanni! Non ha capito niente di tutta la faccenda... Tu, Susanna, hai com­preso tutto, ne sono certa... (Giovanni riappare, tra­sfigurato, e si getta ai piedi di Giuditta).

Giovanni                       - O Giuditta, perdono!... Getta via quella veste, Susanna: non è questa che dobbiamo baciare. Bacia il mantello che la copriva stanotte, bacia i capelli che furono sciolti in quell'alcova. L'odio di Giuditta sia benedetto!

Giuditta                        - L'odio! Che va dicendo, col suo odio?

Giovanni                       - Sarò degno di te, Giuditta! (Si pre­cipita di nuovo verso la camera. Susanna è caduta in ginocchio davanti a Giuditta. La guardia è sem­pre addormentata).

Giuditta                        - E tu, cosa fai lì a terra?

Susanna                         - Giuditta la santa!

Giuditta                        - Vuoi alzarti? Perché dici queste stupidaggini?

Susanna                         - Perché hai ucciso!

Giuditta                        - Ucciso... E’ una parola da assas­sini.

Susanna                         - Una parola da soldati, da eroi.

Giuditta                        - Proprio questo intendevo.

Susanna                         - Neppure Dio ne ha una diversa.

Giuditta                        - Vuol dire che è poco ricca, la lin­gua dì Dio! Ma via, se non c'è altra parola, spero si veda bene perché ho ucciso... Non vorrei malin­tesi in proposito. Perché ho ucciso?

Susanna                         - Perché Dio ti ha fatto uguale all'odio.

Giuditta                        - All'odio? Ti pare che fra me e l'odio ci sia somiglianza?

Susanna                         - Sì. Un odio sconosciuto finora.

Giuditta                        - E tu aspettavi che uccidessi Olo­ferne in un sussulto d'odio, all'alba, dopo che egli mi aveva fatta sua?

Susanna                         - Aspettavo Giuditta all'opera.

Giuditta                        - Giuditta all'opera! Ben lontana era, Giuditta! Quando in Giuditta fu spento ogni ri­cordo del suo stato, della sua missione, della sua razza... ecco, in quel momento vibrai il colpo; quan­do ero sul punto di uccidere me stessa, in spregio ai nostri doveri, alle nostre leggi; e che mi restava al mondo, ormai, tra un popolo che avevo diser­tato e che mi odiava, ed un amante che il sonno armava contro di me del primo oblìo, del primo tradimento... dove non esisteva neppur più Oloferne?... Alla periferia del regno del Signore, i lu­nedì mattina, quando non c'è più che il bell'impiegatuccio addormentato e la piccola commessa che per la prima volta ha dormito fuori di casa; e, curva su di lui, trabocca a tal punto di grati­tudine, di angoscia, di gelosia, prova un tale sgo­mento davanti alla nuova settimana in negozio, dopo la domenica di vino spumante e di fuga, che comprende nella morte dell'amante il suo proprio suicidio. La verità di Dio, fammi ridere! Quanto più fatale la verità della cronaca nera e delle signorinette di sartoria...

Susanna                         - No; perché tu sei viva.

Giuditta                        - Io sono viva, perché se e facile conficcare un'arma, ci vuole molto più coraggio, molta più forza per ritrarla, e più realtà. Io sono viva perché sapevo che da un momento all'altro sarebbero venuti i suoi ufficiali a sorprendermi. Ne ero felice; aspettavo la morte. Sentivo di aver com­messo a volte, lungo questa notte, qualche lieve goffaggine nel mio modo di rispondere all'amore: qualche innocente disattenzione, perdonabile a una principiante, ma il cui degno castigo era soltanto il supplizio, non il suicidio... Poi ti ho sentita, mi sono alzata, ho vissuto per poterti dire tutto prima dell'arrivo dei giudici, perché tu possa, in testimo­nianza contro chiunque vorrà fare della vicenda di Giuditta una vicenda di odio, proclamare che colui mente, che quei due morti erano amanti...

Susanna                         - Ma tu sbagli... Hai ucciso...

Giuditta                        - Si capisce, ho ucciso. Chi non avrebbe ucciso al mio posto, in quel risveglio? Poi­ché ho dormito, Susanna. Ho chiuso gli occhi ap­pena un secondo, vinta dalla stanchezza che as­sale all'alba il conducente nella vettura... Ma quel secondo è stato per me la notte, il sonno... e mi sono svegliata... Sì, per la prima volta mi sono svegliata all'alba accanto a un altro essere umano-Che cosa atroce! Tutto era già passato, tutto era ieri. Tutto un avvenire incerto e geloso si preparava all'assalto di una meravigliosa memoria. Bisognava al­zarsi, riprendere la vita in piedi, dopo quell'eternità di vita coricata! E a me, già avviluppata nella mia morte eterna, egli destava una pietà infinita, così mal protetto com'era da una morte effimera contro le minacce del giorno sopravveniente! Che tutti, sve­gliandosi così ogni mattina al fianco del padre, del figlio, ogni mattina li lascino fuggire e ritornarsene verso la vita, non riesco a concepirlo... Ah, Su­sanna! Sii franca, dimmi, quale altro gesto d'af­fetto, se non l'omicidio, può ispirare la vista di un corpo addormentato?

Susanna                         - Può ispirarla agli omicidi. Tu sei nei secoli colei che ha scelto Dio per sé.

Giuditta                        - Mai. Gli ebrei sapranno tutto, Su­sanna! Dalla mia voce o dalla tua... Ascolta... Si avvicina gente... E' il castigo che giunge... Dirai loro tutto, non è vero? No? Ci vuole un bacio per deciderti? Vedrai... Non riconoscerai nemmeno il nostro piccolo bacio di ieri sera!

Susanna                         - Mi tappo le orecchie!

Giuditta                        - Oh! Dopo tutto, che bisogno ho delle tue orecchie! Sciocca che sono... C'è un uomo, qui... Guardia, svegliati!

Susanna                         - E' ubriaco.

Giuditta                        - Ubriaco o no, ha un orecchio; e in quest'orecchio un martelletto che batte su un'in­cudine, che a sua volta stimola un timpano. E' quello che basta per tramandare una notizia fino al termine dei secoli... Guardia!

La Guardia                    - Dormo...

Giuditta                        - Dormi, sì! Ascolta...

La Guardia                    - (rigirandosi, desto a metà) Chi osa dire che dormo?

Giuditta                        - Svegliati. Ne vale la pena.

La Guardia                    - Una donna... Evviva le donne!

Giuditta                        - Lo sai che cosa ha fatto, questa donna?

La Guardia                    - Che cosa?

Giuditta                        - Ha ucciso Oloferne! Il tuo re!

La Guardia                    - L'ha ucciso... Oh, male, male

Giuditta                        - E vuoi sapere perché? Per amore!

La Guardia                    - Per che cosa?

Giuditta                        - Per amore!

La Guardia                    - Per amore? Oh, bene, bene!

Giuditta                        - Ecco, Susanna!

La Guardia                    - (riaddormentandosi) Ecco, Susanna!

Giuditta                        - Ecco. Ho sepolto la verità in un uomo addormentato: e, fosse anche tra secoli, un giorno uscirà fuori, contro la verità dei generali e dei rabbini... Era ora... Vengono qui, nevvero? Chi è che viene? Guarda! (Susanna va a guardare attraverso le tende).

La Guardia                    - (nel sonno) Per amore ha uc­ciso Oloferne. E come si chiama?

Giuditta                        - (china sulla guardia) Giuditta!

La Guardia                    - E Oloferne, perché non ha ucciso Giuditta?

Giuditta                        - Sta' tranquillo. La uccideranno.

La Guardia                    - Ah. Bene, bene.

Susanna                         - Sono gli ebrei, coi profeti alla testa! Tutti armati di seghe, di martelli. Fanno gran gesti.

Giuditta                        - Questo me l'immaginavo... E si pas­sano la parola, correndo, come una cicca... E par­leranno quando mi legheranno le mani! E parlan­do mi sputeranno addosso: per loro è ancora la cosa più facile... Parleranno ad ogni agguantar di frusta o di bastone... Benissimo!... Serviranno la mia gloria meglio di un carnefice muto... Ad ogni sussulto risponderò, ad ogni colpo; e certamente, curiosi come sono, con tutta la loro furia, mi la­sceranno il tempo, tra una ferita e l'altra, di ridire una ad una le mie gioie di stanotte. (Irrompono nella tenda ebrei, ebree, Paolo, Gioachino, due cantatrici e il secondo profeta, ha guardia continua a dormire).

Gli Ebrei                       - Gloria a Giuditta! Giuditta, sii glo­rificata!

Un'Ebrea                       - Grazie, Giuditta!

Giuditta                        - Che cosa dicono?

Paolo                             - Giuditta, il tuo odio ha vinto. La sal­vezza degli ebrei è certa. Prosterniamoci tutti a Giuditta.

Susanna                         - (a Giuditta) Ti supplico, non par­lare! Gioachino, veglia su Giuditta.

Paolo                             - Gli alleati di Oloferne sono in rivolta. Giovanni percorre il loro accampamento mostrando la testa del re che tu hai ucciso! Essi combattono al nostro fianco. Le truppe rimaste fedeli si sbandano.

Un Ebreo                      - Tutti i carri dei viveri sono in nostra mano. Appena Giuditta lo vorrà, potremo mangiare.

Un altro Ebreo              - Abbiamo riconquistato le sorgenti. Appena Giuditta lo permetterà, berremo.

Un'Ebrea                       - Tu sei il pane, Giuditta!

Un'altra Ebrea               - Sei l'acqua!

Giuditta                        - Ebrei...

Gioachino                     - Che hai da dir loro?

Giuditta                        - La verità.

Gioachino                     - Essi conoscono la verità di Dio... Poco gl'importa la verità di Giuditta. Ancora un minuto, e saranno la stessa cosa... E poi, ascolta... Sentila, la tua verità, se la ignori! (Le due conta­trici escono dalla folla).

La prima Cantatrice      - Ed erano due giorni che Giuditta tra le sue vesti recava il pugnale; e ad ogni movimento, ad ogni allarme, esso urtava la carne e i ginocchi di lei, come fa il battaglio nella campana.

La seconda Cantatrice - Ed essa attraversò il campo di battaglia! Non era ancor sorta la luna. E per non smarrirsi, risaliva i ruscelli come belva infuriata... Era la furia del Signore...

Giuditta                        - (con voce ancora sorda) E se non tornò indietro, fu solo per amor proprio e per vanità, Perché Dio era lungi da lei.

Gioachino                     - Taci.

Gli Ebrei                       - Che dice Giuditta?

La prima Cantatrice      - E Oloferne nella sua tenda fece un sogno, e abbandonò l'amplesso.

La seconda Cantatrice - Della sua regina di Damasco, imbellettata fino al cuore e i cui occhi lasciano una traccia azzurra!

Un Ebreo                      - (amico delle gatte) Della sua Fa­raona!

Un altro Ebreo              - (apoplettico) Delle sue so­relle siamesi!

Un terzo Ebreo             - (notaio) Delle sue cento moscovite, impomiciate e depilate!

Un'Ebrea                       - (brutta ma di pelle morbida) Della donna che aveva pescata a Tiro, con le natiche di squame!

Un'altra Ebrea               - (dai gesti contegnosi) Della sua belva del Bengala, con ghirlande di braccia e di seni!

La seconda Cantatrice - E allora egli vide Giuditta.

Giuditta                        - Che bugie! Che favole da bambini! Oloferne era solo, ebrei, solo come un prete!

Paolo                             - Taci... In tanta esaltazione, come puoi ricordare quello che ti è capitato?... Giuditta mi piace, gridò Oloferne. Solo Giuditta è la dolcezza!

Una bella Ebrea            - Lei sola il balsamo...

La prima Cantatrice      - Lei sola la palma della mano, il velluto fra il ginocchio ed il pube...

Paolo                             - Ed era invece il veleno!

Susanna                         - E l'acciaio!

Un Ebreo                      - (cacciatore) E la trappola! E il cappio!

Un'Ebrea                       - (con la palpebra destra che batte più veloce della sinistra) E il vetriolo!

Un Ebreo                      - (dei campi, al -margine delle foreste) E il fungo velenoso!

Susanna                         - E l'odio!

Giuditta                        - Anche tu mi tradisci, menti... Ebrei!

Paolo                             - Avanti, cantatrici!

La prima Cantatrice      - Egli la fece denudare.

Susanna                         - Ma Dio la vestì.

La seconda Cantatrice - La vestì d'aria e di luce. La trasparenza fa da velo a Giuditta!

Giuditta                        - Non è vero!

Paolo                             - (alle cantatrici) Avanti! Avanti!

La prima Cantatrice      - Egli la fece coricare dinanzi a sé.

Paolo                             - Egli la fece coricare dinanzi a sé. E' vero? Giuditta. Di' che non è vero, se hai coraggio!

Giuditta                        - Se è vero? Questo è vero.

Paolo                             - Avete sentito?

Gli Ebrei                       - Glorificata sii, Giuditta.

Susanna                         - Ma Dio tutt'a un tratto l'indebolì, egli non la prese!

Gli Ebrei                       - Ed egli non la prese!

Giuditta                        - (che è riuscita a farsi avanti) Ed egli la prese... E non era mai stato così forte, ed essa era così ricolma di lui, da non aver più posto dentro di sé, neppure per Dio...

Gli Ebrei                       - Che cosa dice?

Gioachino                     - Silenzio. Uscite tutti... Giuditta vuole parlarmi da solo.

Giuditta                        - Restate. Restate! A voi voglio par­lare. Smettete per un quarto di minuto codesto vo­stro ufficio d'ebrei, di imbalsamare in cantici la menzogna! Ascoltate le parole semplici della ve­rità... Sì, stanotte un'ebrea si è coricata sul letto di Oloferne, e ne ha avuto gioia...

Gli Ebrei                       - Che cosa dice Giuditta? Sacrile­gio! Silenzio!

Gioachino                     - Vuoi perderci, Giuditta?

Giuditta                        - E quel letto non era il divano dei salmi. Era un letto vero, con guanciali e lenzuola - mi capite voi, fanciulle? - col crine e le piu­me che spuntavano fuori, con quella biancheria fresca che permette ai più sfrenati eccessi di me­scolarsi ai ricordi di famiglia, d'infanzia.

Il secondo Profeta        - (avanzando armato) Ven­detta!

Giuditta                        - Ed essa ha esaurito e sollecitato quelle gioie del letto, tutte, fino all'ultima; e al pri­mo freddo dell'alba ha pianamente ricoperto Oloferne col lenzuolo, così come deve fare la sposa.

Gli Ebrei                       - Siamo perduti!

Paolo                             - Dobbiamo farti tacere con la violenza?

 Il secondo Profeta       - Lasciala. Parla, ragazza!

Giuditta                        - E tra il suo popolo e Oloferne, essa ha scelto l'amore, cioè Oloferne. E da allora una sola idea la attira: raggiungerlo nella morte!

Susanna                         - (d'improvviso, facendosi avanti) E quella donna ero io!

Il secondo Profeta        - (trafiggendo Susanna) Sii appagata! (Susanna cade ed è portata via. Il gran sacerdote trae indietro Giuditta, muta e ine­betita).

Gioachino                     - Vi ripeto, uscite tutti.

Il secondo Profeta        - Perché?

Gioachino                     - Devo provvedere al ritorno di Giu­ditta in città.

Il secondo Profeta        - Fate presto, allora. I bambini e i malati aspettano che lei ritorni per mangiare e dormire... Non fateli aspettare troppo. (Tutti escono, meno Giuditta, Gioachino, Paolo e la guardia ubriaca. Al momento in cui il corpo di Susanna gli passa vicino, la guardia, tra il sonno, pronuncia qualche parola).

La Guardia                    - Ecco, Susanna. (Continua a dormire).

Gioachino                     - Di' le tue condizioni.

Giuditta                        - Le mie condizioni per mentire?

Gioachino                     - Per vivere e far silenzio.

Giuditta                        - Ho forse l'aria di una che vivrà e di una che tacerà?

Gioachino                     - La sorte degli ebrei è ancora in giuoco, Giuditta. Basta un minimo scarto nel tuo linguaggio o nei tuoi atti, perché il miracolo non sia più tale.

Paolo                             - E l'eroina non sia più un'eroina. Cam­biagli due piume sul codione, e il nibbio ti diventa una poiana.

Gioachino                     - Adesso tu non aspiri più che a startene per tuo conto, in solitudine: lo compren­diamo. Conosci la casa e i giardini che la città pos­siede sul lago? Ti sono offerti. Veglieremo a che nessuno venga a trovarti né a disturbarti, laggiù; ma ora seguici e guida il corteo.

Giuditta                        - Dunque tu credi, Gioachino, che alla mia età pensi di accontentarmi della solita villa con magnolie e spiaggetta riservata che si offre alle mantenute al tramonto? Io ho vent’anni.

Paolo                             - Sei diventata ben orgogliosa e suscet­tibile, da ieri!

Giuditta                        - Lui, no!

Gioachino                     - Lui, chi?

Giuditta                        - Lui! Ho ucciso in nome di un Dio diverso da lui, ma lui fa come se nulla fosse; e armeggia da ipocrita per prendere tutto sul suo con­to. Mi accetterebbe, purché lo volessi, come sua prima delegata in città, con aureola in fronte fino alla morte, salvo a rivelarsi in seguito.

La Guardia                    - (tra il sonno) Per amore, l'ha ucciso... Bene, bene.

Giuditta                        - Lo sentite?

Paolo                             - Chi?

Giuditta                        - La guardia.

Paolo                             - Ti suonano le orecchie. Non ha detto parola.

Giuditta                        - Si! Ha detto come io ho ucciso.

Gioachino                     - Ce lo immaginiamo, come credi di aver ucciso, tu. Ha poca importanza. Trovami una donna che non creda di aver ucciso per amore.

Giuditta                        - Come pronunci male questa paro­la!... Hai avuto poche occasioni di pronunciarla...

Gioachino                     - Anzi! A ogni delitto, si può dire... Che tu sia stata l'angelo vindice o lo scorpione, via: ormai è fatto! Suppergiù l'avevamo previsto.

Giuditta                        - Avevate previsto il mio piacere, la mia gioia del piacere, la mia frenesia?

Paolo                             - Risparmiaci le descrizioni.

Giuditta                        - E voi, che cosa mi avete rispar­miato? Mi avete forse risparmiato, ieri, le descri­zioni di un Oloferne mostruoso? E' questo che manca al vostro trionfo, dite? Mi obbligherete a dichiarare espressamente che Oloferne era deforme. I più diritti degli occhi ebrei in confronto ai suoi erano guerci: lo sai, Paolo? E il suo corpo era li­scio, luminoso, la parola umana stessa...

Paolo                             - Sì, sì, adesso lo sappiamo tutti.

Giuditta                        - Lo sapete tutti! Giovanni ha mo­strato la sua testa alla folla. Mi vendicherò di Gio­vanni, mi vendicherò di tutti quelli che l'hanno vista, per quanti siano.

Paolo                             - Vedi? Devi vendicarti. Devi vivere.

Giuditta                        - (volgendosi di scatto alla guardia) Che cosa sta gridando la guardia?

Paolo                             - Niente, ti dico. Dorme!

Giuditta                        - Perché si alza? Perché si siede e mi guarda così?

Paolo                             - Ma se è coricato. Tu sogni!

Gioachino                     - Calmati, Giuditta, te ne scongiuro, aiutaci fino in fondo. Basterebbe il minimo disin­ganno a scoraggiare il popolo. Già la tua esitazione è un crimine; perché è un'esitazione tra Dio e que­gli che Dio odiava.

Giuditta                        - Non esito affatto: ho scelto. Ho scelto contro l'odio!

Paolo                             - Sta' attenta... Ci spingi agli estremi!

Gioachino                     - Ti smarrisci.

Giuditta                        - Dio ne sarà felicissimo. Mi dete­sta... Neppure un attimo ho sentito, da ieri, la sua presenza, la sua insistenza. Se mi maneggia, lo fa senza volermi toccare, quasi fossi un pugnale di­sgustoso di cui si avvolge l'elsa in un fazzoletto. Aspettavo che mi lanciasse su Oloferne come un gio­vane arcangelo puro, forte, divinatore; con quanta modestia gli avrei reso stamane, al risveglio, quel manto, quella luce. E ciò che voi chiamate miracolo si è avverato perché sono stata lussuriosa, perché ho balbettato davanti a dei soldati, e perché ho mentito. Ho avuto un Dio dell'infanzia, un Dio dell'adolescenza; se il Dio dell'età pubere e adulta si dilegua, peggio per lui. Mi credevo insensibile agli uomini. Temevo che vicino a loro il mio corpo rimanesse inerte. Oloferne mi ha aperto gli occhi: gli resterò fedele. A Dio, sono insensibile!... Perché si è alzato? Perché viene verso di me?

Paolo                             - Chi?

Giuditta                        - La guardia!

Paolo                             - Stai fantasticando. E' coricato lì, non vedi?

Giuditta                        - E' la sua armatura che sfavilla così?

Paolo                             - Sei allucinata!

Gioachino                     - Non tentare di distrarci. Rifletti, dunque, o insensata! Non abbiamo forse, e tu per prima, ricevuto da Dio ciò che gli chiedevamo?

Giuditta                        - Che cosa gli ho chiesto io, se non lui stesso?

Gioachino                     - Puoi negare che ci sia stato un miracolo, e per tuo mezzo?

Giuditta                        - Il miracolo è uscito da un cumulo di viltà, di bassezze, di cose spaventose. Dio ha permesso a voi, suoi servi, di prepararlo a buon mercato con me, cioè col minimo di verginità e di candore, perché il mio nome di borghese ricca coprisse il dolo con la sua popolarità... Solo il ne­mico di Dio è stato nobile e buono. Un Dio giu­sto avrebbe piuttosto accumulato tutto ciò che è puro, dolce, sacro, poi avrebbe lasciato che il mi­racolo non avvenisse.

Paolo                             - Un Dio, fanciulla, forse! Ma, perché c'è un'ebrea che ha questo desiderio, credi che...

Gioachino                     - (parlando quasi contemporaneamen­te) Stai passando la misura! Ti tagli tutti i pon­ti verso di lui... Non far mai più conto che... (ha guardia ubriaca si è alzata e viene verso Giuditta. A partire dal momento in cui la guardia si è al­zata, Gioachino e Paolo rimangono immobili fuori del tempo, interrotti nella frase e nel gesto, inqua­drando la scena).

La Guardia                    - Scusa, mia piccola Giuditta...

Giuditta                        - Chi sei?... Che cos'è tutto codesto splendore?

La Guardia                    - Splendore? Ah, dunque risplen­do? Allora vuol proprio dire che oggi per te il fango luccica, lo sterco sfavilla... Mi vedi addosso anche le brache scarlatte, di sicuro.

Giuditta                        - Ti vedo come sei, tutto di porpora e d'oro...

La Guardia                    - E il mio cuoio manda profumo di rosa, e le guance sono pelle di pesca! I tuoi sensi sono più penetranti di quel che credevo. Bra­va! A noi due, Giuditta!

Giuditta                        - A noi due"? Perché? Perché questo grido di battaglia?

La Guardia                    - Perché la battaglia è vicina, ra­gazza mia... e il corpo a corpo, se occorre... E anch'io ti vedo realmente come sei in quest'ora: la nemica di Dio nella sua nudità, col tuo grazioso triangolino da lottatrice, e la nuca, e le ascelle sotto cui penetrerò con le mie prese... A noi due!

Giuditta                        - Non ti capisco.

La Guardia                    - Mi capirai... Dimmi, Giuditta: dal minuto in cui ieri sera uscisti di casa, il tuo corpo ha provato il più lieve bisogno: fame, sete o altro? E anche adesso, ti si risente lo stomaco, la vescica?

Giuditta                        - Perché mi fai queste domande?

La Guardia                    - No, vero? E forse che le foglie in cui inciampasti sul campo di battaglia hanno lordato le tue calzature? O le ha graffiate il cardo, inverdite la piantagione? E sulle tue mani ci sarà pure qualche traccia del delitto?... Sì, sì, fregatele, cerca di farvi comparire su una macchia di sangue! Fregale finché vuoi! Tutta la vita ti resteranno bianche e pure, e il tuo corpo senza alcun segno.

Giuditta                        - Ha il segno che gli spetta: quello di Oloferne!

La Guardia                    - C'è da discutere a lungo su que­sto argomento. Al tuo ritorno, va' a sottoporti all'esame delle matrone. Sentirai cose sorprendenti...

Giuditta                        - Chi ti dà il diritto di parlarmi così?

La Guardia                    - Il diritto! Come, il diritto? Osti­nata ragazza... Tutte le presenze celesti che da ieri sera ti hanno scortata e compianta e sostenuta, formando intorno a te una cattedrale di ali, non sai che, una a una, le hai costrette a velarsi la fac­cia e ad andarsene? e che di tutte resto io solo, obbligato ad entrare, per rendermi visibile, nel pe­sante e fetido involucro di questa guardia?

Giuditta                        - Tu solo? Se Dio mi parla adesso per bocca tua, è tardi!

La Guardia                    - Figurati se Dio ti vuol parlare! Tu pensi che Dio parli agli uomini per vederli mentre ascoltano la sua voce, come il cane la voce del padrone, con la testa stupidamente inclinata so­pra un corpo idiota. Ma quelli che Dio ha scelti, egli intende ungerli dall'alluce alla tempia; e a tutti noi diede l'incarico, stanotte, di prenderti in­tera nel nostro silenzio... Sul tuo cammino, siamo penetrati nei moribondi perché non gridassero, nei cadaveri perché s'interrompesse perfino il serpeg­giare della putredine... Ruscelli e grumi sono corsi ai tuoi piedi senza un mormorio, cani da guer­ra hanno divaricato le zanne verso di te senza abbaiare. E tu non ci hai sentiti dentro quel mar­ciume, dentro quelle fauci!

L'Eco                            - Quel marciume! Quelle fauci.

Giuditta                        - O voi che parlate così, perché avete taciuto?

La Guardia                    - Ecco com'è Giuditta, prima della classe, eletta da Dio! In quel silenzio non ha capito nulla!... Invece di correre a soffocare gli echi al punto stesso in cui sorgevano, invece di gettarci sotto ogni cedro, ogni cotogno a riceverlo per attu­tirne il tonfo mentre cadeva dall'albero, di strappa­re anzitempo il grido dal becco dei galli, sarebbe bastato dunque riempirle di ovatta le orecchie! E tutto ciò che di lei abbiamo creduto fosse un segno d'intesa, di connivenza: quella carezza che da lon­tano posò su un uccello notturno, quel bacio con cui sfibrò le labbra di un cavallo ferito, non erano dati a noi, ai cugini celesti che la ritenevano unita alla loro schiera, legata in una stessa cordata come nei precipizi l'alpinista e le guide; ma alla civetta, alla brenna!

L'Eco                            - Alla civetta! Alla brenna!

Giuditta                        - Perdono!

La Guardia                    - Mi ascolti, adesso? Mi capisci?

Giuditta                        - Perdono!

La Guardia                    - Di' la verità agli ebrei, ed Egli ti perdonerà!

Giuditta                        - Quale verità?

La Guardia                    - Che hai ucciso il nemico di Dio così come Dio, nel suo odio, lo aveva prescritto.

Giuditta                        - Tu sai che non è vero!

La Guardia                    - Non è vero?

Giuditta                        - Non hai visto tutto anche tu? Non sei tu stesso il mio testimone?

La Guardia                    - Di' che non è vero, se hai co­raggio! Ripensiamoci un po' alla tua notte, da cima a fondo. Tu sei entrata, e l'altro era già coricato, nevvero? e ti aspettava puntandosi sul gomito; e nell'occhio destro gli brillava l'uovo di struzzo acceso, e il sinistro non era che ombra; e con uno sguardo hai misurato il recinto della battaglia...

Giuditta                        - Ho visto un letto. Tutto qui.

La Guardia                    - Anche Dio ha riguardo ad esi­gere che una donna lotti stando in piedi. E la pia­stra possente del suo petto, dai muscoli come spil­loni, non ti ha messo paura. Hai slacciato le vesti e i pettini; non hai serbato né stoffe né avori...

Giuditta                        - E l'ho raggiunto.

La Guardia                    - E lo hai raggiunto; E noi tripu­diavamo perché sul tuo corpo nudo non si vede­vano più che armi: unghie affilate, denti forbiti, la tua fronte stessa, così liscia, così piena che, urtan­dola con tutte le forze, avrebbe spaccato la testa di Oloferne. Al punto che contavamo perfino sul martello del tuo ginocchio, sulla morsa del tuo ventre...

Giuditta                        - Dunque tutto quello che ho sentito di lui era realtà, tutto quello che ho ricevuto, rive­lazione...

La Guardia                    - Poteva anche darsi. Dio non aborre dal far giungere a voi le sue parole e i suoi tripudi attraverso corpi ruvidi, pelli grossolane... Gli servono da filtri. Ma Dio ti amava; ma Dio aveva stabilito che nulla di Oloferne toccasse te, e ci gettò come un trasparente mantello su quel corpo. E Mikaèl fu la lingua e la glottide, ed Efraìm fu il bacino, e io la mano destra, E tutta la notte il cielo prese lo stampo di te e del tuo sfre­narti... e all'aurora ti mandò l'idea di uccidere.

Giuditta                        - Di uccidermi.

La Guardia                    - Di ucciderti: se vuoi. Ma si trattava di ben altro che del suicidio di Giuditta! Quello che si voleva era che su di te, sulla tua pelle morbida, tu acuminassi l'idea dell'omicidio, così da renderne ugualmente puro il filo. E di colpo tutto scomparve dalla tua vista, fuorché un cerchio esangue sul petto del dormiente, un cerchio stretto e brillante, così come lo proietta il fanciullo con uno specchio; e chi sa con quale specchio fanciul­lesco lo proiettava Iddio... E al centro di quell'uo­mo che tu credevi di amare, ti sorprendesti a sor­vegliarlo, quel cerchio, e ad esecrarlo come un ber­saglio!... E' vero?

Giuditta                        - Forse!

La Guardia                    - E' vero?

Giuditta                        - E' vero.

La Guardia                    - E noi, noi piangevamo di gioia al vedere infine l'odio spuntare su quel corpo, ri­stretto dapprima come un bocciolo di rosa d'Aleppo, ma che in breve l'avrebbe intaccato, sviluppandosi come il cancro del sole. E già, deliranti, preparava­mo il ceppo e il cavicchio che ti avrebbero impe­dito di svellere il pugnale dal cadavere. E quando ti venne l'idea di appoggiare la punta sul cerchio...

Giuditta                        - Volevo sfiorarlo, volevo pungerlo...

La Guardia                    - Pungerlo?

Giuditta                        - Capiscimi anche tu! Capiscimi! Se mi fossi avvelenata, gli avrei fatto trangugiare, nel sonno, un piccolo sorso di bevanda amara: non per farlo morire, ma per affetto, per vedere la dolce smorfia delle sue labbra.

La Guardia                    - E quando ti venne l'idea di ap­poggiare sul cerchio la punta, tutti balzammo ad­dosso a te, centuplicando il tuo pensiero. Non ci hai sentiti, Giuditta?

Giuditta                        - Eravate voi a schiacciarmi così?

La Guardia                    - Erano gli spiriti, era la loro va­langa! E quando, lui morto, tu aspettasti infantil­mente la morte, senza un movimento, come l'ape dopo la puntura, rendemmo il mondo nuovamente sonoro, e tu sentisti il ragno aggirarsi nella ragna­tela, e dietro il letto quel topo campagnolo che ar­meggiava col suo chicco d'avena, e finalmente la voce di Susanna... Ecco, ingrata fanciulla, come Dio ti disprezza! Alzati... fa' aprire la tenda, corri verso gli ebrei; è ora!

Giuditta                        - No! No! Risparmiami questo mar­tirio!

La Guardia                    - Quale martirio?

Giuditta                        - Giacché Dio lo vuole, non smen­tirò nulla, rinuncerò ad ogni scandalo... purché mi risparmi! Oppure mi prenda! Permetta che dia alla morte un'ancor dolce Giuditta... Dio non vorrà che io sia, per tutto un popolo e per una lunga vita, il simbolo dell'uccisione e dell'odio; fin dall'infan­zia egli mi ha segnata per essere un simbolo di amore.

La Guardia                    - Così hai creduto; ti sbagliavi. Non si sbagliavano i tuoi fratelli.

Giuditta                        - I miei fratelli? Non riuscivo a fare un passo senza essere seguita dai fanciulli che mi gettavano rose.

La Guardia                    - Seguivano il sangue, gettavano rose al sangue!

Giuditta                        - Ai quadrivi vedevo i vecchi discu­tere ogni mio nuovo vestito e sorridermi.

La Guardia                    - Sorridevano a un'immensa mac­chia porporina che ti vestiva improvvisa!... Non in­sistere. E' vero, l'amore è passato su questo dramma; ma non grazie a te; grazie a Susanna. Nessuno ne saprà mai nulla, perché è sconveniente che l'amore abbia una liturgia e dei santi; ma Susanna era l'amore. D'altro canto, non temere: una ancor dolce Giuditta stasera non esisterà più!

Giuditta                        - Oh! tu, che non hai nome! Se la tenerezza fosse spenta in me, sentirei forse tanto intensa la sofferenza di non poterti nominare. Perché questo miracolo ritardato? Perché tutto a un tratto voler fare, di questa notte di spergiuro e di stupro, una notte santa?

La Guardia                    - Non ti preoccupare. A mille anni di distanza, Dio si riserva di proiettare san­tità sul sacrilegio, purezza sulla lussuria. E' una faccenda di illuminazione...

Giuditta                        - Tutta illuminata sono nella mia angoscia, nel mio scorticamento... brucia meno il fuoco che questa luce.

La Guardia                    - L'ustione che senti non è ancor nulla. Proverai al sole. Eccolo che sorge. Sorgi, o sole! Tu... va' verso la città. E' ora...

Giuditta                        - La mia città, dove nessuno mi sor­riderà più, se non quelli che sorridono alla morte; dove sarà scomparso per me, in una notte, tutto ciò per cui ho vissuto: i miei amici, le mie bestie, i miei fiori...

La Guardia                    - Sacrifica gli amici... quanto ai fiori, li ritroverai!

Giuditta                        - Sì! Mi sembra già di vedere la vec­chia Giuditta, canuta, baffuta, riscoprire la pesca e la rosa in una sera d'autunno tardivo... E i miei ricordi"?

La Guardia                    - Quali ricordi?

Giuditta                        - In quel corpo prosciugato, che ne sarà di tutti i ricordi del corpo tiepido, felice? Che ne sarà del dono di Oloferne? Avrà un figlio? Avrò un figlio? Ti supplico, liberami almeno da questa angosciai

La Guardia                    - Basta coi gemiti! Bada! Che do­vrei dire io, allora, Giuditta? Lo sai che riparto verso la disgrazia? Sai che per convincerti, per salvarti, ho infranto il segreto di Dio, ho perso tutti i gradi e tutta l'anzianità del mio rango? Va'. Se questo può alleviare la tua sofferenza, non ho nulla in contrario a che tu dica che, nelle coorti inferiori, c'è un decaduto per il quale il nome di Giuditta significa tenerezza... Ma ubbidiscimi all'istante, o mi vedrai qui, davanti al popolo, riprendere forma e abbattermi e lottare con te per strappare dalla tua faringe la menzogna di Dio, e scaraventarti al suolo come fa il vaccaro con la pastora! (Con un gesto inchina verso terra le spalle di Giuditta, poi si ricorica sulla panca dove, ubriaca fradicia, ri­prende il suo sonno. Appena la guardia è di nuovo stesa siti banco, Gioachino e Paolo riprendono ani­ma e vita e ricominciano la frase interrotta).

Paolo                             - ... egli le mandi un messaggero spe­ciale?

Gioachino                     - ...si degni di comparirti! (En­trambi sono agitatissimi. Stupita, Giuditta li guar­da, tornando in se).

Giuditta                        - Ah! Sei tu, Gioachino!

Gioachino                     - Se di proposito egli ti sfugge, femmina empia, non sarai tu a ritrovare il na­scondiglio di Dio!

Paolo                             - La sua luce ti ha accecata. Ebbene, resta cieca!

Giuditta                        - Siate contenti... Vi seguirò...

Gioachino                     - Ci seguirai?

Paolo                             - Per rinnovare lo scandalo, per semi­nare il panico? No, no. Non usciremo di qui fin­ché non sia tutto stabilito... Che cosa vuoi?

Giuditta                        - Vi ho detto che vengo, senza con­dizioni.

Gioachino                     - Senza condizioni? Sì, ma ora siamo noi a porre condizioni. Dobbiamo premunirci contro i tuoi scarti.

Giuditta                        - Dite. Vi ubbidirò.

Gioachino                     - D'ora in poi abiterai nella sina­goga. Non lascerai che amici o parenti giungano fino a te.

Giuditta                        - Non è difficile. La mia sporcizia e la mia gloria non mi consentono più altra dime­stichezza che con Dio.

Gioachino                     - Se le parole di amore e di gioia si trovano ancora nella tua bocca, gridale, se vuoi, per l'ultima volta; getta su noi cotesti sputi prima del silenzio supremo. Avanti, sputa!

Giuditta                        - La mia bocca è arida..,

Gioachino                     - Se senti macchiato il tuo corpo, chiama le fantesche. Lavati. Aspetteremo il tempo necessario.

Giuditta                        - Il mio corpo è arido.

Gioachino                     - A principiare da domani avrai sor­veglianza sulle famiglie irregolari, sulle scuole amo­rali, sulle ragazze perdute. Le giudicherai al tri­bunale della sinagoga, e sceglierai il supplizio per loro.

Giuditta                        - Lo sceglierò.

Gioachino                     - E designerai coloro che ogni gior­no dovranno, insieme con te, digiunare e indossare il cilicio. Accetti?

Giuditta                        - Accetto.

Paolo                             - Allora, gloria a Giuditta e sbrighia­moci... Tutto può essere ancora salvato! Aspetta... lascia che ti copra con questo manto: è nero; si addice meglio alla sposa di Dio.

La Guardia                    - (ubriaca) E alla vedova di Olo­ferne.

Giuditta                        - Che ha detto?

Paolo                             - Non ci occupiamo dei rutti.

La Guardia                    - Per amore. Ha ucciso per amore...

Gioachino                     - Esiti ancora?

Giuditta                        - (si è avvicinata alla guardia e la con­templa con affetto e ripugnanza) Gioachino, converrà far tagliare la lingua a questa guardia...

Gioachino                     - D'accordo.

La Guardia                    - Giuditta, si chiamava! E che corpo aveva!... Tutta la notte, senza mai fermarsi...

Giuditta                        - (copre con la mano la bocca alla guar­dia) Fallo fare da soldati con le orecchie ben­date... (La guardia si solleva) Che gli prende, ora?

Paolo                             - Chi sa chi vuol imitare, con quel bacio!...

La Guardia                    - Chi imito? Imito Giuditta, la puttana.

Giuditta                        - Sarà meglio farlo uccidere, Gioa­chino.

Gioachino                     - Lo uccideremo...

Giuditta                        - (dopo un'ultima occhiata alla guardia) Fate avanzare la vostra processione... Giuditta la santa è pronta.

FINE