Gli amanti indivisibili

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GLI AMANTI INDIVISIBILI

Tragedia in un atto

Di ANGELO FRATTINI

PERSONAGGI

TIMARCO

SUSANNA

ZEMBLO

L’AGAVE

Commedia formattata da

Ai giorni nostri, in questa vita e nell'altra.

Nella didascalia; «ire questa vita, e nell'altra», è implicita la risoluzione dì un problema che, con quello del moto perpetuo e della quadratura del circolo, affatica da parecchi millenni quella parte dell'umanità che si dà pensiero di cose inutili: voglio dire l'immortalità dell'anima. E' dunque provato che l'anima sopravvive alla morte del corpo. E quando penso che questa gi­gantesca scoperta, alla quale io sono giunto tan­to facilmente, ha travagliato in ogni secolo i cervelli dèi più poderosi filosofi e scienziati, mi invade un certo senso d'orgoglio. Esiste una religione occidentale che pretende da qualche tem­po la medesima cosa: ma essa non è ancor giun­ta, come me, ad affermarla. Ma non basta; ho fatto anche un'altra scoperta di enorme portata. Voi sapete che una religione - (o una superstizio­ne) orientale vuole che, dopo la morte, un indi­viduo - serbando la sua anima, la sua coscienza e la sua memoria - si reincarni, si metamor­fosi, si transumanzi in un altro di diversa natura e specie; animale o vegetale. Si tratta, in breve, della famosa « metempsicosi», che parecchimesi addietro ebbe tanta reclame, in Grecia, da Pitagora e soci. Esempio: un critico d'arte, de­funto, pur serbando la sua intelligenza, assume le spoglie di una talpa; più tardi, morto come talpa, si tramuta in un cocomero. Eccetera. E' per la certezza della « metempsicosi », della se­conda e della terza vita, che i giapponesi affron­tano la morte con sublime, incomparabile di­sprezzo; ed è per questa stessa ragione che i russi, di religione diversa, hanno perduto la loro ultima guerra contro di essi.Dette queste cose necessarie alla comprensio­ne della presente tragedia, eccoci senz'altro al

PRIMO ATTO

(La camera nuziale dì Susanna. A sinistra un sofà, accanto al quale sorge una lampada a stelo che diffonde una soave luce rosea. Mezzanotte).

Susanna                        - (in vestaglia, a Timarco) Amore mio!

Timarco                         - (in pigiama, a Susanna) Mio amo­re! (Si abbracciano).

                                      - (Credo inutile delucidare che Timarco non è il marito dì Susanna, assente, bensì il suo amante).

Susanna                        - (con crescente abbandono) Potes­simo vivere sempre nell'ebbrezza di questa fe­licità: ma fra noi è sempre un'ombra: lui, Zemblo: egli non è un marito: è un incubo.

Timarco                         - (pratico) Non detestiamolo trop­po, mia dolcezza, finché egli ci concede sere come questa. Dimmi; resterà assente lunga­mente?

Susanna                        - (con rammarico) Tre giorni soli. Mi telegraferà sabato, come sempre, l'ora dell'arrivo. (Dopo una pausa) Ma non c'è alcuna speranza che ci lasci per sempre. Tu sai che egli soffre gravemente di cardiopalmo, e coinè tutti gli infermi di simile male egli vivrà a lungo.

Timarco                         - (generoso) Non essere crudele. Non parliamo più di lui. Parliamo di noi. Su­sanna, (l'abbraccia), Susanna mia (più forte), Susanna infinitamente... (...).

                                      - (Siedono sul sofà di sinistra, occupando in due lo spazio normale per una sola persona. Susanna spegne la luce. Il brusìo lieve di un bacio; i successivi non si odono. D'improvviso)

Il campanello                - (trilla aggressivamente, peren­toriamente, lungamente).

                                      - (Sì, lei ha indovinato, signora: è il marito che torna, come sempre, conte in tutte le comme­die internazionali: situazione antichissima, ma non sdegnata neppure dai più audaci innovato­ri contemporanei!).

Susanna                        - (riaccendendo la luce esclama le classiche parole) Cielo! Mio marito!

Timarco                         - (allarmato, sorgendo) Zemblo? A quest'ora?

Il campanello                - (trilla, vibra ancor più aggres­sivo ed insistente).

Susanna                        - (agitatissima, pallida) Egli suona perché ha veduto la luce, dalla via: ma ha le chiavi... sta per aprire! Salvati!

Timarco                         - (smarrito, gettando il pigiama e in­filando il vestito) Come? Come?

                                      - (Ma è troppo tardi: Zemblo è apparso sulla soglia. Quadro. Poiché soffre gravemente di car­diopalmo, e non è un uomo di spirito).

Zemblo                         - (ha un grido) Ah! (Cade esanime, muore).

                                      - (Gli adulteri, esterrefatti, sbarrano occhi di terrore. Cala rapida la tela).

ATTO SECONDO

La scena rappresenta una piazza della grande città nella quale si sono svolti i tragici avveni­menti dell'atto primo. Andirivieni di folla e di veicoli. Lungo un marciapiede a destra, una fila di vetture pubbliche: la prima porta il numero 137. Il cavallo di questa vettura non è altri che Zemblo, il quale vive la sua seconda vita nelle spoglie del nobile quadrupede).

Il cavallo della vettura 137    - (fra se) Tra­gico destino! Da cinque interminabili mesi tra­scino questa umiliante esistenza. Non mi sor­regge che la speranza della vendetta. Questo pen­siero mi ossessiona, mi dà le vertigini, mi fa commettere degli eccessi. Ieri mi è sembrato di scorgere, in fondo a un viale, mia moglie e il suo amante. Prendo una rincorsa pazza. Inutil­mente il padrone strappa di redini e moltiplica le frustate: i passeggeri         - una coppia di sposi in viaggio di mozze - urlano di spavento gesti­colando, la gente fugge e si mette a riparo. Fu­ribondo, madido di bava e di schiuma, raggiun­go i due, e mi avvedo di essermi ingannato: essi non sono un uomo e una donna, ma un uomo e un prete. Nell'istante in cui, deluso, sto per riprendere volontariamente il trotto da passeg­gio un vigile urbano mi afferra al morso, e tutti applaudono il suo coraggio. Bella forza! (Co­me sempre fissa lo sguardo ansiosamente sulla folla, scruta figure, profili, volti) Nulla. Mai nulla. E' un martirio.

 (Una giovanissima dignitosa signorina dall'aspetto austero, che reca le trecce corte sulle spalle e un rotolo di musiche sotto il braccio, sale sulla vettura, accompagnata da un giovanot­to guantato di bianco: il giovanotto dà sommes­samente al cocchiere un indirizzo).

Il cavallo della vettura N. 137           - (udendola) Hotel Moderno. Finalmente! la strada di casa mia! Se la buonasorte mi assiste potrò infine vendicarmi.

                                      - (La vettura parte velocissima. Ritorna tre ore dopo, al passo).

Il cavallo della vettura N. 137           - Tutte le finestre erano chiuse. Partiti dunque? Non hoquasi più speranza. (China tristemente la testi, E' il tramonto. Per distrarsi, il cavallo legge le scritte della pubblicità luminosa, che sì alternano al sommo dei palazzi. Ciò gli impedisce di vedere subito Susanna e Timarco che attraversano la strada, a dieci metri da lui: ma li vede poco dopo, improvvisamente, e...)

Il cavallo della vettura N. 137           - (con un nitrito terribile) Lei! Lui! E sottobraccio, e vicini, in affettuoso colloquio: non sposi dunque, ma amanti, ancora, felici! (Con un balzo da ippogrifo si avventa contro gli amanti li raggiunge presso un portone, li travolge, li calpesta, li sfracella. Ma egli stesso, nel folle impeto cieco, si spacca il cranio contro una colonna di granito. La folla accorre da ogni parte; gri­da, clamori, tumulto, agenti di polizia intorno ai tre cadaveri).

Il cavallo della vettura N. 137           - (esalando! l'ultimo respiro) Ven...di...ca...to! Ven.„ di...ca...to!

TERZO ATTO

 (L'orto fiorito della piccola canonica di un paese della Riviera. A sinistra, oltre una siepe, la sagoma di un campanile; a destra un folto di ulivi, attraverso il quale traspare, lontanissima, evanescente, la linea del mare. Nel mezzo, duo quadrati di terreno coltivati a verdure. Nel centro dell'uno sorge un grande Girasole; dall'altro, un candido Giglio. Fra i due quadrati, divisi da un rialzo di roccia, spicca l’àgave: le temibili punte delle sue lunghe spade verdi sfio­rano gli steli del girasole e del giglio. Brilla l'ul­tima stella. Pace. Silenzio. E' l'alba).

L'Agave                        - (ex « Zemblo », ex « Cavallo della vettura N. 137 ») Da due mesi la mia vita si è rinnovata sotto spoglie vegetali: ma si è rinnovato anche il mio tormento. Ho ucciso mia moglie e il suo amante, ed essi, a loro volta, so­no rinati qui alla mia destra e alla mia sinistra; lui, in forma di girasole, lei - quale ironia! di giglio. Due adulteri nell'orto di una canoni­ca, sotto gli occhi di persone pie quanto inconsapevoli: è un'infamia. (Sorge lentamente il so­le) Tutta la notte li ho uditi parlarsi d'amore,non dimenticando, fra l'altro, di insultare la mia memoria. Li ho veduti accostarsi, e... Ma essi ingorano chi io sia, e nulla temono, mentre l'ora della rivincita, l'ora della definitiva ven­detta si avvicina. In quindici giorni, nutrendomi intensamente, assorbendo ogni più riposta linfa del terreno, ad ogni ora, ad ogni istante, mi è riuscito di svilupparmi in modo da sfiorare, con gli aculei delle mie durissime spade dentate, lo stelo di mia moglie e quello del suo complice. Ecco; mi avvicino, mi avvicino... (Compie ru­di sforzi per accostarsi loro ancor più) Il tra­monto segnerà l'attimo del castigo. Attendiamolo. (Lo attende fremendo).

(Suonano le campane di mezzogiorno, rin­toccano h « due », le « tre »,.le « sei ». Men­tre scoccano al campanile le sei...)

L'Agave                        - (di scatto) A voi! (Flette rapida­mente le due ultime spade di sinistra e di de­stra e trafigge con violenza gli steli del girasole e del giglio, che, dopo essersi tesi disperata­mente l'uno verso l'altro, nel momento supremo, come Paolo e Francesca, come Pelléas e Melisande, cadono spezzati in due. La sommità fulva del girasole e il calice bianco del giglio strascicano inerti sulla terra nera).

L'agave                         - (con gioia feroce) Ora sì, sono de­finitivamente vendicato! (Rimane immobile, reggendo sulle punte micidiali le sue vittime. Un'ora di silenzio: un silenzio greve, opaco: quello che segue le catastrofi. Poi, da sinistra, entra)

Il contadino                  - (scrolla il tronco di un melo in­festato dai maggiolini, raccatta un frutto gua­sto; infine scorge i due assassinati, e ha un gesto di dispetto) L'ho detto sempre di strappare questo malanno spinoso. (Stacca dalla cinghia dei pantaloni un falcetto, fa a pezzi l'agave, ne strappa e ne taglia le radici. Zemblo muore così per la terza volta. L'ultima luce illumina la

FINE DELLA TRAGEDIA

Nota. Cioè, no: la vera tragedia incomin­cia ora. Zemblo, Susanna e Timarco rinascono sotto specie umana. Si tramutano in tre neo­nati, in tre case diverse e lontane ; ma qualche decennio dopo ridiventeranno il marito, la mo­glie e l'amante. E si ritornerà, automaticamen­te, alla situazione del primo atto, cui faranno seguito, identiche, quelle del secondo e del ter­zo. Così, Zemblo non potrà vendicarsi mai, poi­ché la tragedia, in ogni sua fase, si rinnoverà infinite volte inesorabilmente uguale.

Finche la terra girerà intorno al sole.

FINE