Gli amanti timidi

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Carlo Goldoni

GLI AMANTI TIMIDI

O SIA L'IMBROGLIO DE' DUE RITRATTI

Commedia di tre atti in prosa, rappresentata la prima volta in Venezia nel Carnovale dell'anno

.

L'AUTORE A CHI LEGGE

Questa è una di quelle Commedie, che possono facilmente rappresentarsi nelle Società di Dilettanti. Corta, di pochi Personaggi, giocosa, modesta; ecco, come le vogliono in tali occasioni.

Il nome di Camilla, che ho dato alla Serva della Commedia, dà a divedere ch'io l'ho scritta per la Compagnia de' Comici Italiani a Parigi; poiché con questo nome si chiama in casa, in città, e sopra la scena quella celebre Attrice, che colà sostiene un tal personaggio.

In Parigi la Commedia, quantunque a soggetto, ha piaciuto moltissimo in grazia del merito e dell'abilità della Servetta e dell'Arlecchino, e in grazia forse delle situazioni teatrali della Commedia medesima; lavoro faticosissimo, e necessario per far riuscire un simile componimento senza l'aiuto del Dialogo, e senza Caratteri originali.

Venendomi domandate a Venezia delle Commedie, e convenuto che ne avrei mandate di quelle fatte a Parigi, scritte però intieramente, ed accomodate all'uso di que' Teatri, questa è una delle sei che ho mandate quell'anno. L'ho scritta, e l'ho allungata. Può essere ch'io abbia mal fatto. Non so se, per colpa mia, o colpa d'altri, la Commedia in Venezia non ha riuscito. Temendo che l'allungamento l'abbia pregiudicata, l'ho ridotta ora a maggior brevità, più breve ancora di quel ch'io l'aveva fatta la prima volta a Parigi; ma quanto basta per renderla finita, condotta, e nel suo genere completa. Ella potrebbe passare per una Commedia Spagnuola; poiché tutto il merito consiste negli equivoci, e nell'intreccio. Ma cose vi sono, che non trovansi nelle Commedie Spagnuole: l'una è il carattere de' due Protagonisti; l'altra è la verità e l'esattezza della condotta, credendo di non avermi a rimproverare d'aver donato alla Scena la menoma cosa, che non sia conforme alla natura e alla verità. Quando trattasi dell'Arlecchino e della Servetta, molte cose si permettono i Comici, come se questi Personaggi non fossero della natura degli altri. Io sono un poco difficile su quest'articolo, e la mia difficoltà fa male a me solo; poiché mi affatico alle volte moltissimo in cose da niente, solo per renderle naturali. So per altro, che questo piace ai Lettori e agli Spettatori, e credo bene impiegate le mie fatiche per dar piacere al Pubblico, che mi onora, e mi compatisce.


PERSONAGGI

ANSELMO negoziante. DOROTEA figliuola d'Anselmo. ROBERTO ospite in casa d'Anselmo. CAMILLA cameriera in casa d'Anselmo. ARLECCHINO servitore di Roberto. CARLOTTO servitore d'Anselmo. GIACINTO pittore. FEDERICO cameriere di Roberto. Un altro SERVITORE di Roberto.

La scena si rappresenta in Bologna, in casa d'Anselmo, in una anticamera che introduce

nell'appartamento occupato da Roberto.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Arlecchino solo.

Ripulisce un abito disteso sopra un tavolino ch'è ben innanzi, e facendo le sue incombenze, parla come

segue:

ARL. Dise el proverbio: o servi come servo, o fuggi come cervo: no voggio ch'el me patron s'abbia da lamentar de mi. Ghe piase la pulizia, e amo anca mi la nettìsia. E po el xe cussì bon, ch'el merita de esser servio de cuor. Qualche volta el par un pochetto fantastico; ma un omo che xe innamorà, el gh'ha delle ore bone e delle ore cattive. (porta l'abito sull'altro tavolino, e prende il cappello per ispazzarlo) So mi, che brutta bestia che xe l'amor. Ma mi son più bestia de lu. Xe do mesi che son in sta casa, do mesi che semo qua mi e el me patron, ben visti, ben trattadi, e ben alozai: el me patron fa anca un pochetto l'amor colla patroncina de casa; e mi non gh'ho coraggio de dirlo alla cameriera, e moro, e crepo, e me desconisso per una che no lo sa, e che probabilmente no ghe pensa gnente de mi. (rimette il cappello a suo luogo, poi ritorna pensoso) Come mai poderàvio far a saver se la me vol ben, o se no la me vol ben? Se no ghe lo domando, non la me lo dirà, e mi non gh'ho coraggio de scomenzar. Se la me dasse qualche motivo... Se la me vardasse qualche volta con un poco de distinzion; ma sior no, no la m'ha mai dà un'occhiada... una de quelle occhiade che digo mi. No posso assicurarme de gnente. Ma no gh'ho gnanca rason de desperarme. Se savesse scriver, rischierave una lettera. Ma per mia disgrazia, mio padre e mia madre no i saveva né lezer, né scriver, e no i ha volesto che so fio sia più virtuoso de lori. Xe vergogna che un omo della mia sorte non sappia scriver e in st'occasion la me despiase piucché mai. Imparar a scriver? Xe tardi. Farme scriver da qualchedun? Non voggio confidarme con chi se sia. La più curta xe de farme animo, e dirghe i mi sentimenti. Sior sì, bisogna farlo assolutamente... Ma co sarò là... Maledetta la mia modestia! Son seguro che no farò gnente.

SCENA SECONDA

Roberto agitato, ed il suddetto.

ROB. Arlecchino.

ARL. Signor.

ROB. Il pittore è venuto? (agitato)

ARL. Sior no, nol s'ha visto.

ROB. Bisogna ritornare da lui; dirgli che mi preme il ritratto: che se non l'ho prima del

mezzogiorno, non mi serve più. ARL. El ritratto so ch'el giera fenìo. So che no mancava altro che metterlo... Come se dise? Sì, in

t'una scattola, in t'un stucchio. ROB. E bene, egli si è incaricato di assistere alla fattura, mi ha promesso di mandarmelo avanti

sera; ma io ne ho bisogno prima del mezzogiorno. ARL. Caro sior patron, perché sta gran premura? Da oggi a doman... ROB. Questa sera deggio partire...


ARL. Sta sera? (con ansietà)

ROB. Sì, che il baule sia all'ordine per questa sera.

ARL. (Oh poveretto mi!) Per dove, sior patron? (patetico)

ROB. Per Roma. (agitato)

ARL. Mo perché cussì, co sto precepizio?

ROB. Sono dieci giorni che doveva esserci andato. Mio zio è moribondo; ed oltre all'affetto e al

debito che mi sprona, vi è anche il mio proprio interesse. Sai ch'egli mi ha tenuto luogo di

padre, e che dal suo testamento dipende lo stato mio. ARL. Sior sì; ma avè mandà el camerier: aspettè che Federigo torna da Roma, o che almanco el ve

scriva. ROB. Non vi è tempo da perdere; ho ricevuto lettere questa mattina, che mi assicurano essere la

malattia acuta, e che i medici non gli danno sei o sette giorni di vita. Va subito dal pittore. ARL. No la va fora de casa sta mattina? ROB. Sì, anzi; ho degli affari moltissimi. ARL. E no la vol che la vesta?

ROB. Non so dove m'abbia la testa. Presto, vestitemi, e poi andate. ARL. (Gli leva l'abito che ha; lo veste, e gli dà tutto il bisogno; e frattanto parlano come segue) Lo

sali qua in casa, che la va via? ROB. Non ho ancora veduto nessuno; è ancor di buon'ora. ARL. Cossa dirà siora Dorotea? (vestendolo, come sopra) ROB. Son certo che sentirà della pena, ed io ne sono mortificato; ma è meglio così: è meglio ch'io

me ne vada. ARL. Mo perché meggio? Per cossa? Se vussiorìa ghe vol ben, per cossa no ghe la domandelo a so

sior padre? ROB. E come vuoi che ardisca di domandargliela? Tu conosci mio zio; sai qual sia la sua

delicatezza: si offenderebbe s'io lo facessi senza parteciparglielo; ed il signor Anselmo

medesimo non me l'accorderebbe senza essere da mio zio prevenuto. ARL. E ben! che la ghe lo scriva al sior zio. ROB. Sciocco! Adesso ch'è moribondo?

ARL. Ghe domando perdon; se la savesse quanto che me despiase a lassar Bologna! ROB. E perché? ARL. Cussì... No so gnanca mi. ROB. Hai tu ancora qualche amoretto? ARL. Oh! mi amoretti? (vergognandosi) ROB. Oh! via, va a vedere di questo ritratto. ARL. Me par che i abbia battù alla porta dell'anticamera. ROB. Va a vedere. ARL. (Poveromo mi! Tutte le mie speranze xe andade in fumo). (da sé; va a vedere alla porta) Oh!

via, che la se consola, che xe qua el servitor del pittor.

SCENA TERZA

Giacinto ed i suddetti.

GIAC. Servitore umilissimo. ROB. Avete portato il ritratto? GIAC. Eccolo qui, signore. ROB. Vediamo. (lo apre, ed osserva) GIAC. In verità, è un capo d'opera.


ROB. Non vi è male.

GIAC. Osservi quella verità... quella delicatezza del colorito. Osservi quel panneggiamento; e

quella mano? Oh quella mano! Benedetta sia quella mano! ROB. Tutto va bene. La pittura è bellissima; ma circa la somiglianza non ci vedo portenti. Che ne

dici, Arlecchino? Che te ne pare? ARL. Ghe xe qualcossa. Ma el poderia someggiar da vantazo. GIAC. Circa la somiglianza... dirò... non faccio per dar contro al mio padrone; ma questo è un dono

di natura, è un talento che non si può acquistare con l'arte. Per esempio... Io, veda... io... per

rassomigliare ho un dono particolare. ROB. Bravo! Siete anche voi pittore? GIAC. Vuol veder qualche cosa del mio? ROB. Vi ringrazio, ora non ho tempo. (Vo' vedere di darlo subito alla signora Dorotea. Posso far

meno per soddisfar le di lei premure, ed il mio cuore medesimo?) (da sé) Arlecchino. ARL. Signore.

ROB. (Darai la mancia a quel giovane). (piano) ARL. (Quanto?) ROB. (Quel che ti pare. Sai ch'io non amo di farmi scorgere). (piano ad Arlecchino, e parte)

SCENA QUARTA

Arlecchino e Giacinto

GIAC. (Mi pare abbia dato qualche ordine in mio favore). (da sé)

ARL. El me padron m'ha ordenà de darve una piccola recognizion per el vostro incomodo...

GIAC. Oh! signore... (cerimonioso)

ARL. Tolè, amigo, per l'acquavite. (allunga la mano per dargli il danaro)

GIAC. Oh! non s'incomodi. (ritirasi un poco; ma poi allunga la mano)

ARL. Senza cerimonie.

GIAC. Per non ricusar le sue grazie. (prende il danaro)

ARL. Compatì, se i xe pochi. Anca nu gh'avemo delle spese.

GIAC. Oh! che cosa dice? Vossignoria è troppo compito. Corrisponde l'animo liberale all'aspetto

gentil, manieroso. ARL. Oh! troppa bontà; mi no gh'ho nissun merito. Eseguisso i ordeni del mio patron. GIAC. È vero, capisco benissimo; ma vi sono de' servitori che vorrebbero tutto per loro, che fanno

scomparire i padroni, e che strapazzano i galantuomini in vece di ricompensarli. ARL. Oh! mi, compare, no son de quelli. Poveromo, ma galantomo. GIAC. Ne son sicurissimo. Subito che ho veduto la vostra fisionomia, mi è piaciuta infinitamente.

Mi è restata impressa per modo tale... Aspettate un momento. (Tira fuori un astucchio da

ritratto, simile a quello di Roberto, e l'apre) Conoscete questo ritratto? ARL. Come! La mia figura! (con ammirazione) GIAC. Ah! Vi pare che vi somigli? ARL. Sangue de mi, el me someggia terribilmente.

GIAC. Ve lo diceva io, che per li ritratti vi vuole un dono di natura particolare? ARL. Ma chi l'ha fatto sto ritratto?

GIAC. Il vostro umilissimo servitore. (annunziando se stesso) ARL. Vu? (guardandolo bene) GIAC. Vi pare impossibile perché mi vedete con questa livrea? Ho del genio, ho del talento per la

pittura; e un giorno farò anch'io la mia figura nel mondo.


ARL. Ve stimo infinitamente. Circa al dessegno, mi no me n'intendo; ma per someggiar, el

someggia. GIAC. Ciascuno ha il suo talento particolare. ARL. Ma come aveu fatto? Come diavolo m'aveu depento, senza che lo sappia? senza che me

n'accorza? GIAC. Mentre il mio padrone dipingeva il vostro, fingendo io di ripulire le tavolozze, lavorava

guardandovi segretamente. Questo si chiama un ritratto rubato; e questa sorta di furti fanno

onore ai ladri della mia abilità. ARL. Me consolo della vostra abilità. Tolè, amigo, e andè là che sè un omo de garbo. (gli vuol

render il ritratto) GIAC. Signore... (ritirandosi un poco indietro) ARL. Cossa?

GIAC. Il ritratto è suo. Io l'ho fatto per vossignoria. ARL. Per mi?

GIAC. La prego di riceverlo, e di aggradirlo. ARL. Ricusar un presente sarave un'inciviltà. No so cossa dir; no lo merito, ma ve ringrazio. (lo

chiude) GIAC. Credo di aver impiegato bene il mio tempo per una persona come vossignoria. ARL. Tegnirò memoria de vu, e a Roma parlerò de vu. GIAC. (Guardandolo attentamente) Tre o quattro giorni di lavoro li sagrifico assai volentieri.

(mortificato) ARL. In verità, ve son infinitamente obligà. GIAC. La prego solamente di aver in considerazione la spesa dei pennelli, dei colori, dell'avorio,

dell'astucchio, della legatura. ARL. Sior sì, gh'avè rason; no gh'aveva pensà. Quanto valerà tutta sta gran spesa? GIAC. Mi rimetto alla sua cortesia. ARL. (Ho capio). (da sé) Vedè ben, un povero servitor no pol corrisponder come meritè. (mette la

mano in tasca) GIAC. Oh! signore... né io pretendo ch'ella mi paghi il ritratto. ARL. Lo ricevo come un presente; e per le piccole spese, tole. (gli dà un testone) GIAC. Perdoni. (lo ricusa mostrandosi malcontento) ARL. Come! El xe un teston; tre paoli. Ve par poco tre paoli? GIAC. Perdoni. (come sopra) ARL. Ma cossa aveu speso? Disè, parlè. GIAC. Né tutto donato, né tutto pagato... Io non le domando né sei, né otto, né dieci zecchini. Il suo

padrone ha pagato il ritratto dodici zecchini, e non somiglia quanto il mio... A far la cosa

miserabile... per essere vossignoria... mi darà tre zecchini. ARL. Amigo, tolè el vostro ritratto. (lo prende dal tavolino, e glielo vuol rendere) GIAC. Ma io l'ho fatto per lei. (ritirandosi un poco) ARL. Ma mi no ve l'ho ordenà. GIAC. È vero; ma il ritratto è suo. ARL. O mio, o vostro, mi no voggio spender tre zecchini. GIAC. Per un ritratto di questa sorta! (sempre senza scaldarsi) ARL. E chi v'ha dito de farlo? Chi ve l'ha domandà? Per cossa vegnìu a offerirmelo? Per cossa me

voleu obligar a riceverlo? GIAC. Perché l'ho fatto per lei. ARL. E mi ve digo che no lo voggio. GIAC. Vossignoria lo prenderà. (con flemma) ARL. La mia signoria no lo prenderà. (scaldandosi) GIAC. Son sicuro che lo prenderà. (con flemma) ARL. Debotto me vien voggia de buttarlo zo del balcon.


GIAC. È roba sua; ne può far quel che vuole... (con flemma)

ARL. Me faressi vegnir el mio caldo. Tolè el vostro ritratto. (glielo vuol dare per forza)

GIAC. È roba sua. (ritirandosi modestamente)

ARL. Ma mi no lo pagherò. (in collera)

SCENA QUINTA

Roberto e detti

ROB. Cos'è questo strepito? (ad Arlecchino)

ARL. St'omo me fa dar in bestia, signor. L'ha fatto el mio ritratto, senza che gh'el domanda. El s'ha

esebìo de donarmelo; e adesso el pretende che ghe lo paga. ROB. E quando l'ha fatto? Io non so che tu ti sia fatto dipingere. (ad Arlecchino) ARL. El m'ha visto, e gh'è vegnù in testa de farlo. GIAC. È un ritratto rubato. Questa è la mia abilità. ROB. Lasciatemi vedere questo ritratto. (ad Arlecchino) ARL. Eccolo qua; mi no ghe l'ho ordenà. (dà il ritratto a Roberto) ROB. Non si può dire che non somigli. Ma circa al disegno, signor pittore, ci si conosce la lavatura

de' pennelli. GIAC. Somiglia. Ecco la mia abilità.

ROB. Oh! via, Arlecchino, buono o cattivo che sia, il ritratto somiglia, e bisogna prenderlo. ARL. Per mi, ghe voleva dar un teston, ma adesso no ghe daria sie baiocchi. ROB. L'accomoderò io. Signor abil uomo, signor pittore, quanto domanda di questo ritratto? GIAC. Ella sa quanto ha pagato il suo. ROB. E vorreste mettervi col vostro padrone? GIAC. Ciascheduno ha la sua abilità. ROB. Pretendereste dodici zecchini? (scaldandosi) GIAC. Non signore, s'acquieti; una miseria, una bagattella: per li colori, per l'avorio, per l'acquavite,

tre zecchini, tre zecchini, e non più. (con flemma) ROB. In verità il lavoro non val tre paoli; ma, in grazia della somiglianza felice, siete contento di

due zecchini? GIAC. Povera virtù strapazzata! Li prenderò. (come sopra) ROB. Dategli due zecchini. (ad Arlecchino) ARL. Mi?

ROB. Due zecchini per conto mio.

ARL. Ghe li darò. (El l'ha vinta colla so maledetta flemma). (da sé, va a prendere il danaro) ROB. Perché fare un ritratto senza che vi sia ordinato? (a Giacinto) GIAC. Oh! non è il primo ch'io abbia fatto così. Ne ho fatti parecchi altri. ROB. Ma perché?

GIAC. Perché se aspettassi che me li ordinassero, non ne farei mai. ROB. E perché farne? GIAC. Perché questa è la mia abilità. ROB. (È curioso costui). (da sé) ARL. Ecco qua i do zecchini. (a Roberto) ROB. Dateli al signor ritrattista (ad Arlecchino, ridendo) ARL. La toga, sior virtuoso. (dà i due zecchini a Giacinto) GIAC. La ringrazio infinitamente. (Due zecchini! chi non s'aiuta, si affoga). (da sé, parte)


SCENA SESTA

Roberto ed Arlecchino

ARL. Cossa vorlo far de sto ritratto? (a Roberto)

ROB. Farne un presente ad Arlecchino. (glielo dà)

ARL. Ma veramente me somèggielo?

ROB. Sì, per dire la verità, somiglia moltissimo.

ARL. La ringrazio infinitamente. (lo mette sul tavolino)

ROB. Non mi è stato possibile di vedere la signora Dorotea; procura di vedere la cameriera, e dille

che venga qua. ARL. La vuol parlar a Camilla? (con passione) ROB. Sì, ella è a parte di tutto, e voglio pregarla di dar ella il ritratto alla sua padrona. Trovala, e

dille che si solleciti; perché ho cento cose da fare, e questa sera si ha da partire. ARL. E sta sera s'ha da partir? (sospirando) ROB. Sospiri? Sei sì fortemente innamorato di questa città? ARL. E la vol che lo diga a Camilla? (sospirando) ROB. Sì. Perché?

ARL. Ghe lo dirò. (sospirando, e in atto di partire) ROB. Vieni qua, vieni qua. Sarebbe ella forse che ti fa piacere Bologna? ARL. Caro sior patron, son de carne anca mi. ROB. Ed ella ha dell'inclinazione per te? ARL. No so gnente.

ROB. Povero pazzo! Va, va, domani sarai guarito. ARL. Ah! sior patron. ROB. Cosa c'è? ARL. Son inasenìo come va. (parte)

SCENA SETTIMA

Roberto, poi Camilla

ROB. Povero giovane! Lo compatisco. So anch'io che cosa è l'amore. Non s'è mai spiegato! Non

avrà avuto coraggio. Conosco il suo temperamento. È timido. È il più buon figliuolo del

mondo. CAM. (Povera me! Che nuova mi ha dato Arlecchino! Se va via, mi porta via il cuore). (da sé) Che

cosa mi comanda, signore? ROB. Oh! quella giovane, scusate se vi ho incomodato. CAM. Niente, signore. Son qui ad obbedirla. (confusa) ROB. Voi sapete che ho promesso il mio ritratto alla signora Dorotea... e siccome deggio partir

questa sera... CAM. Questa sera assolutamente? ROB. Senz'alcun dubbio.

CAM. (Ah il mio Arlecchino! Ah non vedrò più il mio caro Arlecchino!) (da sé) ROB. Che avete, Camilla? Vi dispiace tanto la mia partenza? CAM. Signore... mi dispiace sicuramente. ROB. Dite la verità. Vi dispiace per me, o per Arlecchino? CAM. Arlecchino... ha il suo merito... Ma né egli pensa a me, né io penso a lui.


ROB. E se egli pensasse a voi?

CAM. Io non so niente. Io non sono portata per queste cose; e mi farete piacere a mutar discorso. ROB. (Non saprei. Mi pare, e non mi pare). (da sé)

CAM. (Ho taciuto finora. Sarebbe imprudenza la mia, se mi spiegassi fuori di tempo). (da sé) ROB. Orsù, volete voi dare il mio ritratto alla signora Dorotea? CAM. Cosa volete ch'ella faccia del vostro ritratto? ROB. Se non volete darglielo, non l'avrà.

CAM. Date qui, date qui. (prende il ritratto, e lo mette in uno dei due taschini del grembiale) ROB. Il signor Anselmo è in casa? CAM. L'ho veduto ch'era per sortire. ROB. Andrò ad avvertirlo della mia partenza. CAM. Andate, che prego il cielo... (alterata) ROB. Di che? CAM. Niente, niente.

ROB. (Potrebbe darsi ch'ella amasse Arlecchino. Se così è, questo viaggio gli farà del bene). (da sé, parte)

SCENA OTTAVA

Camilla sola.

CAM. Mi sento proprio che l'ammazzerei. Andar via, e condurmi via il mio caro Arlecchino! Il mio Arlecchino? E come posso chiamarlo mio, se probabilmente egli non pensa a me né poco, né molto? In quattro mesi ch'è in questa casa, non mi ha dato mai il menomo segno d'inclinazione per me. Io sì, l'ho amato, posso dire, dal primo giorno che l'ho veduto; e si è accresciuto l'amor mio a tal segno, che sono pazza per lui. Eppure non gliel'ho mai detto e non gliel'ho mai voluto dare a conoscere. Ho sempre avuto paura di non esser gradita, di essere disprezzata; ora se n'anderà, ed io resterò qui colla pena di non vederlo, e col rammarico di non aver mai saputo s'egli ha qualche stima per me. Se sapessi questo, alla buon'ora, lo lascierei partire; spererei che ritornasse a vedermi. Ma sa il cielo, se lo vedrò più! Ah pazienza! È tardi; non vi è più rimedio. Andiamo, andiamo a portare il ritratto. Andiamo a dare la buona nuova a quest'altra afflitta. (nell'atto di partire, getta l'occhio sul tavolino, e vede l'altro astucchio da ritratto) Ma qui vi è un altro ritratto. Almeno l'astucchio è da ritratto. Che sì, che la signora Dorotea ha fatto fare il suo, e lo ha dato al signor Roberto? (apre e vede il ritratto d'Arlecchino) Ah! il ritratto di Arlecchino. Il ritratto del mio caro Arlecchino! Oh come è bello! Oh come è somigliante! Gioia mia! Oh caro! Oh che tu sia benedetto! Quegli occhi guardano, quella bocca parla. Dimmi se tu mi ami, consolami, se lo puoi; consola la tua povera sfortunata Camilla. Ma perché mai Arlecchino ha fatto fare questo ritratto? Avrebbe egli qualche innamorata in Bologna? Ah! sì, senz'altro. Ha un'innamorata; le lascierà il suo ritratto. Tanto peggio per me. Non si cura di me. Sono disperata. (getta il ritratto sul tavolino) Ma quel ritratto non potrebbe anche averlo fatto fare per me? Come il suo padrone lo dona alla mia padrona, non potrebbe egli aver in animo di far lo stesso presente alla cameriera? Oh se la cosa fosse così! (torna a prendere il ritratto) Quanto sarei contenta, quanto sarei fortunata! Caro il mio bel ritratto! Amor mio, gioia mia; dimmi, caro, è vero quel che dico? Arlecchino ti ha fatto fare per me? Chi tace, conferma. Sì, sì, tu sei mio.

SCENA NONA


Carlotto e la suddetta.

CARL. (Che ha nelle mani Camilla? Mi pare un ritratto. Ho sempre paura di quel maledetto

Arlecchino. Sarebbe bella che un forestiere venisse a soverchiare un servitore di casa! Che un

contrabbandiere venisse a frodare sugli occhi miei!) (da sé) CAM. È bello è rassomigliante; ma l'originale il sorpassa. Ha un certo vezzo Arlecchino, ha un

certo riso grazioso... (Povera me! Carlotto!) (mette via il ritratto perché non sia veduto; e lo

mette nell'altro taschino, non in quello dove ha messo il primo ritratto) CARL. In che si diverte la signora Camilla? CAM. Oh sì certo! Chi sente voi, io non penso che a divertirmi. CARL. Che cosa osservava di bello con tanta attenzione? CAM. Io? Niente. CARL. Oh! questo niente è un poco troppo. Chi tutto nega, tutto confessa. Se non avessi veduto,

non parlerei. CAM. E bene, che cosa avete veduto? CARL. Che cosa ho veduto? CAM. Sì, sentiamo che cosa avete veduto. CARL. Non ho avuto l'indiscrezion di sorprendervi; ma ci giocherei la testa che quello era un

ritratto. CAM. Un ritratto? CARL. È un ritratto. Ne son sicuro. CAM. È un ritratto? Bene, è un ritratto. E così? CARL. E m'immagino di chi sarà quel ritratto. CAM. Di chi? CARL. Di Arlecchino. CAM. Di Arlecchino? CARL. Sì, di Arlecchino, e so quel che dico; e avanti che colui vada via, corpo di Bacco! mi

vendicherò. CAM. Voi non sapete quel che vi dite.

CARL. Eh! ora vedremo, s'io so o s'io non so. Anderò dal padrone. (in atto di partire) CAM. Fermatevi, venite qua. (Oh che bestia!) (da sé) CARL. Il ritratto nelle mani! Lo contempla, lo adora! CAM. Se vi dico la verità, mi promettete di non dir niente a nessuno? CARL. Oh! se mi dite la verità, non parlo con chi che sia. (Sciocca se lo crede). (da sé) CAM. È vero; aveva nelle mani un ritratto. CARL. Di Arlecchino; ne son sicuro. CAM. Ne siete sicuro? CARL. Sicurissimo.

CAM. Tenete dunque. Eccolo qui. (gli dà il ritratto di Roberto serrato) CARL. A me si fanno di questi torti? A me che vi amo tanto, e che ho intenzion di sposarvi? E che

posso fare la vostra fortuna? (prende il ritratto con disprezzo, e lo apre) Come! il ritratto del

signor Roberto? CAM. Oh! oh! Vede, signor politico, che sa tutto, ch'è sicurissimo, che non falla mai, che indovina

sempre? È restato con tanto di naso. CARL. Oh! oh! signora innocente, che crede difendersi, quando più si condanna. Il di lei merito è

grande: non è più il servitore, che l'ama; è il padrone. Se non è Pasquino, è Marforio. CAM. E avreste ardire di credere?... CARL. Che ardire? Se il signor Roberto non vi amasse, non vi avrebbe dato il ritratto. E voglio

dirlo, e tutto il mondo l'ha da sapere. (in atto di partire) CAM. No; venite qua, sentite. (Oh povera me! Sono ancora in un maggiore imbarazzo). (da sé)


CARL. (Io so come bisogna prenderla). (da sé)

CAM. Sentite. Vi confiderò ogni cosa; ma per amor de cielo, non parlate. (da sé)

CARL. Oh! non vi è pericolo... (ch'io taccia).

CAM. Questo ritratto è destinato per la signora Dorotea.

CARL. Da chi?

CAM. Dal signor Roberto.

CARL. Cosa mi volete dare ad intendere? Un galantuomo, un uomo d'onore, come il signor

Roberto, donerà il suo ritratto ad una giovane onesta e civile, alla figliuola di un amico che l'ha

ricevuto in casa sua? lo donerà senza che il padre lo sappia, e senza alcun principio di

matrimonio? CAM. È tutto vero; ma questa sera il signor Roberto parte per Roma, e glielo lascia per una finezza,

senza cattiva intenzione. CARL. E voi lo dareste alla signora Dorotea? CAM. Cosa volete ch'io faccia? La padrona mi ha tanto pregato. CARL. (Eppure non ne sono ancor persuaso). (da sé) CAM. Datemi che glielo porti. CARL. Glielo porterò io.

CAM. E bene, dateglielo voi. Basta che il signor Anselmo non sappia niente. CARL. (Bisogna dunque che dica il vero, se accorda ch'io glielo porti). Tenete, tenete. Sarà meglio

che glielo diate voi. (glielo dà) CAM. Oh! sì, sarà meglio. (lo prende, e lo mette per distrazione nel taschino, dove è quello di

Arlecchino) CARL. Perché non dirmi subito la verità? CAM. E perché non credermi, quando dico una cosa? CARL. Perché alle volte voi altre donne... CAM. Oh! io non direi una bugia per tutto l'oro del mondo.

CARL. Sì, sì; ma, Camilla mia, questa tresca della signora Dorotea... Questo ritratto non mi piace. CAM. Se parte questa sera...

CARL. Non importa. Se il padrone lo sapesse... io credo che siamo in obbligo di avvertirlo. CAM. No, per amor del cielo.

CARL. No, no, non dirò niente. (fa sospettar di voler parlare) CAM. Avvertite bene. CARL. Se vi dico di no. (Al mio padrone? vado a dirglielo immediatamente). (da sé, parte)

SCENA DECIMA

Camilla sola.

CAM. Ho una paura grandissima che per zelo, o per vizio, costui parli. Ho fatto male io, lo so; ma ho fatto per coprire me stessa. Non vorrei che si sapesse ch'io ho dell'amore per Arlecchino. Non che mi prema di Carlotto, che non ci penso; ma non voglio che si sappiano i miei segreti. Non ho parlato; non l'ho detto a nessuno, e nessuno l'ha da sapere. Non so s'io abbia da rimettere il ritratto sul tavolino...

SCENA UNDICESIMA

Dorotea e la suddetta


DOROT. Camilla. (con premura)

CAM. Signora.

DOROT. Datemi il ritratto che vi ha dato per me il signor Roberto.

CAM. Come lo sapete che vi ho da dare un ritratto?

DOROT. Me l'ha detto egli stesso.

CAM. (Dubitava di Carlotto). (da sé)

DOROT. Licenziandosi da mio padre, me l'ha detto in passando.

CAM. Che dite eh? Vuol partire.

DOROT. Mah! pur troppo per me.

SCENA DODICESIMA

Il Servitore e le suddette.

SERV. Camilla, il padrone vi domanda; ma subito con premura. CAM. (Povera me!) (da sé) Carlotto è con lui? (al Servitore) SERV. Sì, parlano segretamente. (parte)

CAM. (Oh! il briccon me l'ha fatta). (da sé) Presto, presto. (in atto di partire) DOROT. Venite qua. CAM. Vengo, vengo. (in atto di partire) DOROT. Datemi il mio ritratto. (con forza)

CAM. Tenete, tenete. (gli dà un ritratto senza badare) (Uomini ciarloni! e poi dicono di noi donne). (da sé, parte correndo)

SCENA TREDICESIMA

Dorotea sola.

DOROT. Che diancine ha costei? Cosa può volere mio padre che l'inquieta in tal modo? Lo saprò, quando la rivedrò: quello che mi dà pena, è la partenza del signor Roberto. Mah! i suoi interessi lo vogliono. Chi sa? Se mi ama davvero, spero che otterrà da suo zio la permissione di rivenire, di parlarne a mio padre, e che mio padre sarà contento. Ma intanto che farò, lontana da lui? Almeno mi consolerò col ritratto. Vediamo, se il pittor si è portato bene. Cosa vedo! Questo è il ritratto del di lui servitore. Che cosa è mai questa stravaganza? Un equivoco di Camilla? Potrebbe darsi. Questo ritratto potrebbe essere a lei destinato. Oh cieli! Ecco mio padre. Nascondiamolo, se non per altro, per salvare almeno Camilla. (si mette il ritratto in tasca)

SCENA QUATTORDICESIMA

Anselmo e la suddetta.

ANS. Che cosa si fa in questa camera? (con isdegno) DOROT. Sono qui... così... Ci sono venuta per accidente.


ANS. In questa camera non ci si viene; non ci si viene, e non voglio che ci si venga.

DOROT. Signore, ci sono venuta in tempo che non c'è nessuno, e non credo che possiate per questo

rimproverarmi. ANS. Il ritratto. (bruscamente glielo domanda) DOROT. Che ritratto? ANS. Il ritratto. (come sopra) DOROT. Io non capisco niente. ANS. Fuori quel ritratto. DOROT. Io non ho ritratti. ANS. So tutto. Fuori quel ritratto. DOROT. In verità, quasi, quasi mi fareste ridere. ANS. Non ridere, giuro a Bacco Baccone. Metti fuori il ritratto. DOROT. Qual ritratto? ANS. Del signor Roberto. DOROT. Signore... (le viene da ridere) ANS. Non ridere, che giuro al cielo, ti farò piangere. DOROT. Chi vi ha detto che io abbia il ritratto del signor Roberto? ANS. Chi me l'ha detto? Carlotto me l'ha detto. E Camilla voleva negarlo, ed è stata convinta, e l'ha

confermato. DOROT. Che cosa vi hanno detto?

ANS. Che tu hai avuto un ritratto; e fuori quel ritratto. E... giuro a Bacco Baccone... DOROT. Oh! se Carlotto vi ha detto che ho avuto un ritratto, se Camilla l'ha confermato, dirò la

verità: sì, signore, l'ho avuto. ANS. Ah! ah! fuori quel ritratto. DOROT. (Fa bocca da ridere) ANS. Imprudente! sono cose da ridere? DOROT. Oh! io non rido. (si sforza) Ecco qui; io sono figlia obbediente; ecco il ritratto che mi

domandate. (glielo dà) ANS. Sfacciata! Direi di quelle cose che non si dicono e che non sono state mai dette. (sdegnato) DOROT. Si potrebbe saper, signor padre, che cosa avete con me? ANS. Ancora me lo domandi? DOROT. Pare ch'abbia fatto qualche gran cosa. ANS. Ti pare una bagattella? Sono cose da ridere?

DOROT. Parliamo sul sodo, signor padre. Di chi credete voi che sia quel ritratto? ANS. Di quel discolo, di quel malcreato, di quell'impostor di Roberto. DOROT. (Fa bocca da ridere)

ANS. Tu ridi ancora? Uh! mi sento pizzicare le mani. (minacciandola) DOROT. Qualche volta le persone si potrebbero ingannare. ANS. Non m'inganno, e non parlo senza esser sicuro di quel che dico. E quest'infame ritratto. (lo

apre, e vede che non è quello. Si volta alla figlia senza parlare, ed ella non può trattenersi di

ridere) Maladetto sia questo ridere! La volete finire? Questo non è il ritratto ch'io vi domando.

Fuori il ritratto di Roberto. DOROT. Signore, vi protesto sull'onor mio, non ho avuto altro ritratto che questo. È uno scherzo, è

una bizzarria, è una burla; e non merita che vi mettiate in furia, e vi scaldiate il sangue, e che

diciate di quelle cose che non si dicono, e che non sono state mai dette. (con caricatura) ANS. Non c'è altro ritratto che questo?

DOROT. No certamente. Ve l'attesto per il rispetto e per l'amor che vi porto. ANS. (Giuro a Bacco Baccone, Baccone, Baccone!) (mortificato, da sé, guardando il ritratto) DOROT. Signor padre, la riverisco. (ridendo parte)


SCENA QUINDICESIMA

Anselmo solo.

ANS. Quel ridere non lo posso soffrire. Da una parte non ha tutto il torto. Mi son lasciato dar ad intendere... Che Carlotto e Camilla si siano presi spasso di me? Per Camilla mi pare impossibile; ella è sempre stata una figliuola dabbene... Eh! chi n'ha colpa, è quel briccone di Carlotto. Giuro a Bacco Baccone! lo caccierò via, giuro a Bacco Baccone. (parte)


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Carlotto solo.

CAR. Gira, rigira, non trovo né il padrone, né la padrona. Mi ha pur detto il guattero di cucina ch'erano qui in questa camera, e che ha sentito gridare. Son curiosissimo di sapere che cosa è nato. Sicuramente la figlia si sarà ritirata nel suo appartamento; ed il vecchio l'avrà seguitata, e sarà lì ancora a bacconare e a gridare. Oh sarà restata brutta la signora Dorotea, quando si sarà trovata scoperta! Quando suo padre le avrà fatto rendere il ritratto del signor Roberto! (ridendo) So che mi odieranno per questo; ma non importa: ho dell'astio contro Arlecchino; per conseguenza non posso soffrire il di lui padrone, e copro la mia passione col zelo d'uomo prudente e di servitor fedele. Un poco di politica è una bella cosa...

SCENA SECONDA

Anselmo ed il suddetto.

ANS. (Oh! eccolo qui). (da sé) Cerca, chiama; ti ho poi ritrovato.

CARL. Ed io andava in traccia di vossignoria. Ebbene, signore, com'è andata la faccenda? L'avete

avuto il ritratto? ANS. Mi verrebbe voglia... Mi verrebbero di quelle voglie... (freme) CARL. Avete ragione di essere in collera contro vostra figlia; e contro quell'imprudente del signor

Roberto. ANS. Del signor Roberto? (fremendo)

CARL. Certo; le povere figlie sono anche compatibili, ma il signor Roberto... ANS. Il signor Roberto!

CARL. Egli merita di essere rimproverato e mandato via sul momento.

ANS. Il signor Roberto ha dato il suo ritratto a mia figlia! (a Carlotto, fremendo e dissimulando) CARL. È un'azione indegna.

ANS. Dorotea aveva il ritratto del signor Roberto! (come sopra) CARL. E merita anch'ella di esser corretta. ANS. E Carlotto, servitor fedele, me n'ha avvertito! (come sopra; e va tirando fuori, ed aprendo il

ritratto) CARL. Ho fatto il mio debito, e niente più.

ANS. Giuro a Bacco Baccone! (caccia davanti agli occhi di Carlotto il ritratto di Arlecchino) CARL. Questo è il ritratto di Arlecchino. (lo prende)

ANS. Sciocco, ignorante... Ma che dico io? Impostore bugiardo: è il ritratto del signor Roberto? CARL. Ma il ritratto del signor Roberto... ANS. Ma il malan che ti colga. CARL. Chi l'aveva questo ritratto? ANS. Chi l'aveva? Dorotea l'aveva. CARL. Ma io ho veduto... (mortificato) ANS. Che cosa hai veduto? (con isdegno) CARL. In mano di Camilla...


ANS. In mano di Camilla...

CARL. Il ritratto del signor Roberto.

ANS. E che cosa c'entra Camilla con Dorotea? E perché darmi ad intendere che il ritratto era per

Dorotea? E se Roberto ha donato il suo ritratto a Camilla, perché s'incolpa la mia figliuola?

Perché, giuro a Bacco Baccone, perché si carica Dorotea? Falsi, bugiardi, seminatori di

discordie, di zizzanie, di falsità... CARL. Ma io, signore... ANS. Taci là, che ti fiaccherò l'ossa di bastonate. (parte)

SCENA TERZA

Carlotto solo.

CARL. Io resto attonito, maravigliato. Il padrone può aver avuto un ritratto per l'altro; ma quel di Roberto ci deve essere, perché l'ho veduto. Questo però non è quello che più m'inquieta. Quel che mi mette in maggior apprensione, è questo ritratto qui che non so da chi venga, e dubito che Camilla m'inganni. Se Arlecchino si ha fatto fare il ritratto, avrà avuto la sua ragione. Chi sa ch'egli non l'abbia dato a Camilla; e che Camilla, o a posta o non volendo, non l'abbia dato alla sua padrona? Oh! se potessi scoprire la verità.

SCENA QUARTA

Arlecchino ed il suddetto.

ARL. (Carlotto che varda un ritratto!) (da sé, non veduto)

CARL. Oh! riverisco il signor Arlecchino. (vedendo Arlecchino, nasconde il ritratto)

ARL. (Dov'è 'l mio? Non lo vedo più). (guardando sul tavolino) (Senz'altro el l'ha tolto lu. La me

par un pochetto d'impertinenza). (da sé) Comàndela qualcossa, signor, in sta camera? Vienla a

cercar qualchedun? CARL. Sento che la vostra partenza è vicina, e sono venuto per augurarvi il buon viaggio... ARL. A caso averessi visto un ritratto su sto taolin?

CARL. Su quel tavolino? vi assicuro che su quel tavolino non ho veduto niente. ARL. Caro sior Carlotto... caro sior Carlotto, vu sè un galantomo... Se lo fe per farme una burla... CARL. Vi dico sull'onor mio che non ho preso niente, e che su quella tavola non vi era niente. ARL. Quando son vegnù in sta camera, ho visto mi co sti occhi che gh'avevi in man un ritratto. E

me maraveggio de vu, e no se tol la roba dei altri. (con calore) CARL. Vi dico ch'io non ho preso niente. Ecco qui un ritratto, è vero; ma son galantuomo, mi è

stato dato ed io non l'ho preso; e s'è roba vostra, eccolo qui, tenetelo, ch'io non so cosa fare né

di lui, né di voi. (gli dà il ritratto, e parte)

SCENA QUINTA

Arlecchino solo.


ARL. (Prende il ritratto, e se lo mette in tasca senza guardarlo) Che impertinenza! Sior sì, el giera là, el l'ha tolto, e el voleva negar. Manco mal che son arrivà a tempo, e che l'ho trovà sul fatto. Orsù, bisogna far i bauli e destrigarse. Pazenzia! anderò via. Andar via, lassar Camilla senza dirghe gnente; e forse senza véderla gnanca! Ah! sì, sarave meggio che no la vedesse. (porta la roba nel fondo per metterla nel baule)

SCENA SESTA

Camilla ed il suddetto.


CAM. (Non vedendo Arlecchino ch'è occupato a fare il baule) Se vedessi il signor Roberto, vorrei persuaderlo a riprendere il suo ritratto, prima che nascano nuovi scandali e nuovi rumori. Manco male che lo sbaglio ch'io ho fatto... Ah! questo sbaglio mi costa caro. Ho perduto il ritratto del mio Arlecchino. Ma s'è restato nelle mani del vecchio, spero che un giorno lo ricupererò. (volgendosi un poco) Oh cieli! Arlecchino è qui. (fa qualche movimento, onde Arlecchino si volti)

ARL. (Ah! cossa védio! La mia cara Camilla!) (da sé stando al suo posto)

CAM. (Mi sento una smania: non ho coraggio di andar innanzi: non so come fare a tornare indietro). (da sé)

ARL. (Vorria parlarghe; ma non so come far). (da sé)

CAM. (Vorrei profittare dell'occasione, ma non trovo le parole per introdurmi). (da sé)

ARL. Siora Camilla, la riverisso. (con timidezza)

CAM. Serva, signor Arlecchino. (con modestia)

ARL. Vorla comodarse? (le offerisce una sedia)

CAM. No, obbligatissima: non mi posso trattenere. Son venuta per vedere se vi era il signor Roberto.

ARL. (Oh! za, se gh'intende; no la xe vegnua per mi). (da sé)

CAM. Vedo che non c'è, vado via. (in atto di partire)

ARL. Cussì presto?

CAM. Non vorrei disturbarla. Vedo ch'ella è in faccende.

ARL. Ho da far el baul; ma da qua a sta sera gh'è tempo.

CAM. Si parte questa sera dunque? (patetica)

ARL. Siora sì, pur troppo. (sospirando)

CAM. Che? le rincresce di dover partire? (con un poco di premura)

ARL. In verità... me ricresce assae, ma assae.

CAM. E perché le rincresce? (pare che si lusinghi)

ARL. Ghe dirò... me piase Bologna... gh'ho dei amici... dei camerada...

CAM. (Ah! no, non gli rincresce per me). (da sé)

ARL. Sta sera anderemo via, ghe leveremo l'incomodo.

CAM. Questa sera? (afflitta)

ARL. Siora sì, el patron l'ha dito; e col dise una cossa, el la fa siguro.

CAM. Ma perché mai questa partenza così improvvisa? così precipitata? (afflitta)

ARL. Ghe despiase che andemo via? (consolandosi un poco)

CAM. Me ne dispiace infinitamente (come sopra)

ARL. E perché ghe despiase? (consolandosi un poco)

CAM. Le dirò... I miei Padroni vedevano tanto volentieri il signor Roberto... È tanto un signore proprio e compito.

ARL. (No gh'è pericolo che ghe despiasa per mi). (da sé)

CAM. (Vo' vedere se dice niente del ritratto che non ha più trovato sul tavolino). (da sé)


ARL. (Ghe diria qualcossa; ma ho paura che la se burla de mi). (da sé)

CAM. Si vede per altro che il signor Roberto ha della stima per la mia padrona; poiché partendo ha

promesso di lasciarle il di lui ritratto. ARL. El gh'ho anca mi el mio ritratto. (con bocca ridente) CAM. Anch'ella ha il suo ritratto? (mostrando maravigliarsi) ARL. Siora sì. (come sopra) CAM. E dove lo ha il suo ritratto? (sorridendo) ARL. L'ho qua. (accennando la saccoccia sorridendo) CAM. Oh! non sarà poi vero. (scherzando) ARL. L'è cussì, da galantomo. (seriamente) CAM. L'ha in saccoccia? (con premura e maraviglia) ARL. Siora sì. (con serietà) Vorriala véderlo? CAM. Lo vedrei con piacere. (Mi pare impossibile). (da sé) ARL. Eccolo qua, la se serva. (tira fuori il ritratto e glielo dà, volgendosi in altra parte per

vergogna) CAM. (Prende il ritratto, lo apre un poco e lo chiude subito) È verissimo. (Come mai è ricapitato

nelle sue mani? (da sé) Bravo! me ne consolo, tenga il suo ritratto. (lo suol rendere) ARL. (No la l'ha gnanca vardà). (da sé, con dispiacere) CAM. Tenga, signore. ARL. No la se degna vardarlo gnanca? CAM. Oh! l'ho veduto.

ARL. S'el ritratto no ghe despiasesse... me torave la libertà... (timoroso) CAM. Di che?

ARL. De offerirghelo. (con riverenza e timore)

CAM. No, no. La prego; non sono in caso di riceverlo. (glielo dà, ed Arlecchino lo prende) ARL. (Questo xe segno che no gh'importa dell'original). (da sé, afflitto) CAM. Serva sua. (in atto di licenziarsi) ARL. Servitor suo. (mortificato)

CAM. (Oh! quanto volentieri accetterei quel ritratto: ma mi vergogno). (da sé) ARL. (Oh! ho fatto ben a no dichiararme). (da sé) CAM. (Sì, vo' veder se mi riesce). (da sé) Favorisca. Il pittore che ha fatto il suo ritratto, è egli il

medesimo che ha fatto quello del signor Roberto? ARL. Nol xe el medesimo veramente. El xe un poveromo, ma che gh'ha dell'abilità per far

someggiar. CAM. E che sì, che il suo somiglia più di quello del signor Roberto? ARL. Me par de sì.

CAM. Quello l'ho veduto, e l'ho presente, come se lo vedessi; mi lasci un'altra volta veder il suo. ARL. Volentiera. (Vorria pur che la ghe chiappasse gusto, e che la l'accettasse). (da sé) Eccolo qua.

(le torna a dare il ritratto serrato) CAM. Vediamo un poco. (senza aprirlo) Oh! mi pare di sentir gente. Non vorrei che dicessero...

(guardando verso la scena) ARL. Mi no vedo nissun. (volgendosi un poco) CAM. (Se mi va fatta...) (da sé; mentre Arlecchino guarda verso la scena, Camilla cambia il

ritratto mettendo via quello di Arlecchino, e tirando fuori quello di Roberto) CAM. Tenga, tenga. (gli vuol render il ritratto, mostrando aver paura) ARL. L'ala vardà?

CAM. No, no, sento gente. Ho paura di esser sorpresa. (gli vuol dare il ritratto serrato com'era) ARL. La lo tegna. CAM. No certo. ARL. La prego. CAM. No sicuramente. (glielo fa prender per forza)


ARL. Lo butterò via. (seguitando Camilla con ansietà) CAM. Ne faccia quello che vuole. (parte)

SCENA SETTIMA

Arlecchino solo

ARL. Che fazza quel che voggio? Che lo butta via? Piuttosto che riceverlo, la se contenta che lo butta via? Possio esser più desprezzà de quel che son? Me porla trattar de pezo? Povero Arlecchin! Almanco, co no saveva gnente, sperava, me lusingava, e diseva: chi sa? Ma adesso? son chiaro, son confuso, son desperà. Maledetto ritratto! Causa ti, maledetto! Se no ti gieri ti, se non avesse parlà de ti, no averave savesto gnente; me poderia ancora lusingar. Ti è causa ti; ti ti m'ha sassinà, ti m'ha rovinà. (lo getta per terra) Maledetto ritratto! Maledetto el pittor che l'ha fatto! (lo calpesta)

SCENA OTTAVA

Roberto ed il suddetto.

ARL. Sì, maledetto ritratto! maledetto pittor! (lo calpesta ancora)

ROB. Che cosa fai? Sei pazzo?

ARL. Lassème, sior, che son desperà.

ROB. Ma si può sapere che cosa tu hai?

ARL. Son desperà, ve digo. Sì, maledetto! (calpesta ancora il ritratto)

ROB. Fermati, bestia, che cosa ti ha fatto quel ritratto?

ARL. Cossa che 'l m'ha fatto? Tutto el mal che se pol far a sto mondo. La mia rovina, e el mio

precepizio. Lo vôi far in polvere, lo voggio desterminar. (vuole calpestarlo) ROB. Fermati, dico. ARL. Sior patron... ROB. Dammi quel ritratto. ARL. No, sior patron, no lo vôi più toccar. ROB. Dammelo, dico, obbedisci. ARL. Despensème, ve prego. ROB. Dammelo, o giuro al cielo... ARL. (Oh povero Arlecchin!) (prende il ritratto da terra) ROB. (È innamorato come una bestia). (da sé)

ARL. Tolè sto infame, sto sassin, sto maledetto ritratto. (lo dà a Roberto) ROB. (Sicuramente lo avrà fatto in pezzi). (da sé; apre l'astucchio e vede il suo ritratto) Come! Ah

indegno! Ah scellerato! (ad Arlecchino, pateticamente) ARL. Sior sì; indegno, scellerato. (con collera) ROB. A chi? (ad Arlecchino) ARL. A quel ritratto. ROB. E all'originale? (pateticamente) ARL. Scellerato e indegno anca lu. ROB. A me, briccone?

ARL. A vu? A mi, a mi. Scellerato el ritratto, e indegno l'original. ROB. Perfido, ingrato! Il tuo padrone che ti ha fatto?


ARL. El mio patron? (maravigliandosi)

ROB. Che ti ha fatto questo ritratto? Di', che ti ha fatto l'originale? (mettendogli il ritratto sotto gli

occhi) ARL. El m'ha fatto... (con calore) Oh!... (vedendo che non è il suo) ROB. Di', scellerato, di che ti puoi dolere di me? ARL. Ah! sior patron... (con estrema afflizione) ROB. Se ti spiace partire, se non vuoi venire con me, perché non dirmelo; perché dare in pazzie?

Perché prorompere in impertinenze? ARL. Ah! sior patron... (si getta in ginocchio) ROB. Meriteresti ch'io ti fiaccassi l'ossa di bastonate. ARL. Mazzème, coppème, son un povero desfortunà. ROB. Se sei afflitto, perché non confidarti col tuo padrone che ti ama? Perché ingiuriarmi? Perché

insultarmi? ARL. Ah! sior patron, piuttosto che dir un'impertinenza a vu, me straperave la lengua colle mie

man. ROB. A chi dunque dicevi tu: scellerato? A chi dicevi tu: maladetto? ARL. A mi, a mi, e al mio ritratto. ROB. E dove lo hai?

ARL. No so gnente. Lo gh'aveva qua. (cerca nelle tasche) ROB. Levati.

ARL. Dove diavolo xe sto ritratto? (si alza, e cerca in tasca, sul tavolino e per terra) ROB. (Certamente convien dir che si sia ingannato. Arlecchino mi ama, e non è capace di dire a me

le ingiurie che ha dette). (da sé) ARL. Ma dove diavolo saralo andà? ROB. E così, non lo trovi? ARL. No lo trovo.

ROB. Ma questo come ti è capitato alle mani? ARL. No lo so. ROB. Non lo sai? ARL. No lo so! (pateticamente) ROB. Questo è il ritratto che ho fatto fare per Dorotea. ARL. Sior sì.

ROB. L'ha ella avuto, o non lo ha avuto? ARL. No so gnente. ROB. Ma tu da chi l'hai avuto? ARL. Da nissun.

ROB. Spropositi! Qualcheduno te l'avrà dato. ARL. Ve digo che nissun me l'ha dà. ROB. Ma come l'hai avuto? ARL. No so gnente.

ROB. Tu mi faresti uscire de' gangheri. Voglio sapere, e vo' che tu mi dica la verità. ARL. Mi no so gnente... Son vegnù in camera... ho trovà Carlotto... el gh'aveva in man el mio

ritratto... ma non so... no l'ho ben visto.. no so adesso s'el giera el mio. L'ho tolto senza vardar...

xe vegnù Camilla... ghe l'ho fatto véder... ma no so se l'abbia visto... gh'el voleva donar... la l'ha

refudà... ma qualo ala refudà? el vostro, o el mio?... no so gnente. Son confuso, son stordìo.

Son fora de mi. ROB. Orsù, vedo che vi è dell'imbroglio: non capisco il mistero; ma concludo che siamo tutti due

ingannati. Questo è il ritratto che doveva aver Dorotea; e a quel che posso comprendere,

Carlotto lo ha riportato, e Dorotea probabilmente è quella che lo rimanda. La padrona si burla

di me; ed il servitore si è burlato di te. ARL. E Camilla?


ROB. Camilla può essere sia colpevole, come gli altri; e può essere sia innocente.

ARL. Ma el mio ritratto?

ROB. Il tuo ritratto dov'è?

ARL. Questo xe quel che no so, e che me farave deventar matto.

ROB. Non ci pensare. Va a terminare il baule. Io andrò ad ordinare i cavalli. Andiamo, sortiamo di

questa casa. Andiamo a Roma. Mio zio mi aspetta. Desidero trovarlo vivo; e qui non vedo che

inganni, che pericoli, e che disprezzi. (parte)

SCENA NONA

Arlecchino solo.

ARL. Andemo donca, presto, subito. Fenimo de far el baul. Andemo a tor la mia roba in te la mia camera, e che se fenissa el baul, e che presto se vaga via... Ma prima me vorave almanco chiarir... Vorria saver chi ha tolto el mio ritratto che giera su quel taolin... Carlotto m'ha zurà, m'ha protestà che nol l'ha visto, che nol l'ha tolto. E po, cossa vol far Carlotto del mio ritratto? E Camilla? Camilla l'ha refudà. Ma cossa ala refudà? El mio o quello del mio patron? L'ala visto, o no l'ala visto el ritratto che ghe voleva dar? Se no la l'ha visto, l'ha inteso de refudar el mio, e no gh'è da sperar gnente per mi; se la l'ha visto, l'averà visto che nol giera el mio, e no disendome gnente, la s'ha burlà anca ela de mi. Povero Arlecchin! Poveri ritratti! Quello del patron calpestà. E el mio?... e el mio? el diavolo l'ha portà via. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Arlecchino portando le robe sue per metterle nel baule.

ARL. Corpo del diavolo! No la pol esser altro che cussì. Penso, repenso; el mio ritratto ghe giera. In fumo nol pol esser andà. Carlotto no lo pol aver tegnù per elo. Certo, seguro, Camilla l'ha tolto. Camilla me l'ha scambià... ma se la lo voleva, perché refudarlo? Pol esser che la l'abbia fatto per modestia, per suggizion. Ma cossa ghe ne vorla far? Tor el ritratto e no dir gnente all'original, per cossa? No credo gnente. E chi me segura che Carlotto m'abbia dà el mio, o quello del mio patron? Se almanco podesse parlar a Carlotto! Son sempre più confuso, stordìo. Cossa ghe xe vegnù in testa a quel lavador de pennelli de far el mio ritratto per farme deventar matto? No m'importa de aver perso el ritratto; perché averlo, o no averlo, per mi xe l'istesso. M'importa de saver come e dove el xe andà: averò guardà sessanta volte in ste maledette scarselle. (torna a guarlarsi in saccoccia) Me par ancora impussibile... Orsù, no ghe vôi più pensar, perché le xe cosse da dar volta al cervello.

SCENA SECONDA

Il Servitore ed il suddetto.

SERV. Signor Arlecchino, ecco una lettera ed una scatola che viene a voi.

ARL. A mi?

SERV. Sì, a voi.

ARL. Sarà per el mio patron.

SERV. No, la lettera è diretta a voi.

ARL. Mi non aspetto lettere da nissun. Ghe xe anca una scatola!

SERV. Eccola qui. Una scatola col vostro nome. Al Signor Arlecchino Battocchio.

ARL. Da dove vienla?

SERV. L'ha portata un facchino.

ARL. Ah! no la vien dalla Posta?

SERV. Non credo. L'ha portata un facchino.

ARL. Dove xelo sto facchin?

SERV. È andato via subito. Mi ha dato la lettera e la scatola da consegnarvi, ed è subito andato via.

ARL. Che ghe sia in Bologna qualche altro Arlecchin Battocchio?

SERV. Io non so perché facciate tante difficoltà. Osservate se la lettera viene a voi: Al Signor,

Signor mio riveritissimo il Signor Arlecchino Battocchio, presso il Signor Roberto suo

Padrone, in casa del Signor Anselmo, vicino alla Torre degli Asinelli. Bologna. Con una

scatola al suo nome. Siete voi, o non siete voi? ARL. No so cossa dir. Son mi. SERV. Sia ringraziato il cielo, che siete voi. Tenete. ARL. Avè dà gnente al facchin? SERV. Niente.

ARL. Ve ringrazio dell'incomodo. SERV. Non è niente portare una lettera ed una scatola, non è niente; ma mi avete fatto sudare a

persuadervi che viene a voi. (parte)


SCENA TERZA

Arlecchino solo.

ARL. Chi mai me pol scriver sta lettera? Chi scrive, probabilmente no sa la mia disgrazia; no sa che cussì grando e grosso come che son, no so né lezer, né scriver. Sia maledetto! Se almanco fusse qua el mio patron, lo pregheria... Ma za che no posso lezer la lettera, vedemo cossa che ghe xe in te la scatola. La xe ben serrada e ben sigillada. (tira fuori una forbice, e poi si ferma) Ma la poderave esser una scatola da portar a Roma. E per questo? In ogni forma xe giusto che sappia cossa che ghe xe drento. (taglia lo spago) Qualchedun sa che vago a Roma, e me manda a pregar... no pol esser altro... la sarà cussì. (apre la scatola) Com'èla? (trova il ritratto, e lo apre) Oh bella! El mio ritratto! Oh questa xe curiosa! Da galantomo el xe andà in ziro, e el xe tornà in t'una scatola; e un facchin me l'ha portà: che 'l sia el diavolo? Oh el diavolo no se saria servìo de un facchin. Tutto el secreto sarà in sta lettera. Se savesse lezer! Maledetta la mia fatalità! (getta via la scatola e il legno, e mette il ritratto in saccoccia) Ho una curiosità, ho una smania, che me sento brusar, che me sento morir; e la sera se avicina, e el patron tornerà in furie. Vegnirà i cavalli, e bisognerà andar via.

SCENA QUARTA

Carlotto ed il suddetto.

CARL. Vengo a dirvi per parte del vostro padrone...

ARL. A proposito. Ve recordeu del ritratto che gh'avevi in man, e che m'avè dà?

CARL. Sicuro che me ne ricordo.

ARL. Che ritratto gièrelo?

CARL. Il vostro ritratto.

ARL. El mio? Certo, certo el mio?

CARL. Il vostro sicuramente, il vostro. È ben facile a conoscere il vostro ritratto.

ARL. (Ah! la xe cussì senz'altro. Camilla l'ha tolto, Camilla l'ha avudo ela. Chi sa? Spero ben). (da

sé) E cussì dove xelo el mio patron? (a Carlotto) CARL. L'ho incontrato per istrada vicino alla posta de' cavalli, e mi ha pregato di dirvi che teniate

tutto pronto, perché da qui a un'ora al più vuol montare in sedia. ARL. (Ah! pazienza). (da sé) Che 'l vegna co 'l vol; la roba xe all'ordene. (afflitto) CARL. Mi pare che siate assai melanconico. ARL. Sior sì, gh'ho qualcossa per la testa. CARL. Via, almeno negli ultimi momenti che siete per partire, prevaletevi di un buon amico.

Ditemi, se avete qualche premura. Datemi qualche commissione; vi servirò di buon cuore. ARL. (Se podesse fidarme de costù!) (con allegria affettata) CARL. Ho poca fortuna con voi. Vi sono amico, e non lo credete. (Vo' veder se posso tirarlo giù).

(da sé) ARL. (Ma o de lu, o de un altro, bisogna ben che me fida de qualchedun). (da sé) CARL. Se avete qualche impegno, qualche interesse, qualche amoretto... siamo uomini alfine.

Confidatevi, e non dubitate. ARL. (El mal xe, che me vergogno de far saver che no so lezer). (da sé)


CARL. Capisco dalla vostra confusione, dal vostro silenzio, che siete imbarazzato, dubbioso. Voi

mi fate un gran torto, se non vi fidate di me. È segno manifesto che non mi siete amico. ARL. Sior sì, me fido de vu, son vostro amigo, e per darve una prova della mia amicizia, tolè, lezè

sta lettera. (gliela dà) CARL. Questa lettera viene a voi. (osservando la soprascritta) ARL. La vien a mi.

CARL. E non l'avete nemmeno dissigillata? ARL. No, ve la confido tal e qual come che l'ho ricevuda. CARL. Sapete che cosa contenga? ARL. Mi no so gnente. CARL. E volete ch'io la legga prima di voi?

ARL. Sì, perché se ghe fusse qualche cattiva nova per mi me ne dirè el contenuto in succinto. CARL. (Ci scommetto che non sa leggere). (da sé) ARL. (Se podesse scansar la vergogna...) (da sé) CARL. Eccola aperta. (apre la lettera) ARL. Chi la scrive? CARL. Non vi è alcuna sottoscrizione. ARL. Ma pur?

CARL. Tenete. Voi capirete dal contesto della lettera... (gli vuol dar la lettera) ARL. No, feme sto servizio, lezèla vu.

CARL. Ci potrebbe essere qualche cosa, che non vi convenisse di far sapere, tenete. ARL. Gh'ho la testa confusa. Gh'ho mal ai occhi. Favorime de lezer vu. CARL. (Ho capito. Non sa leggere, e si vergogna) (da sé) ARL. Via, disème quel che la contien. CARL. Aspettate. Il carattere è un poco difficile da rilevare. (Corpo del diavolo! Conosco la mano;

questa è una lettera di Camilla). (da sé, fremendo) ARL. Me despiaseria che no savessi lezer. (a Carlotto) CARL. Datemi tempo, e la leggerò. È una donna che scrive. (ad Arlecchino) ARL. Una donna? (con premura) CARL. Sì, parla di ritratto... dice che vi rimanda il vostro ritratto. L'avete dato a qualcheduna il

vostro ritratto? ARL. Mi no; cossa dìsela? cossa dìsela? Disème le precise parole. CARL. Aspettate, perché il carattere è sì difficile... qui ci si vede poco... bisogna ch'io mi

approssimi alla finestra. (si tira da una parte) ARL. (Chi mai pol esser sta donna che me scrive? Camilla? Chi sa? Se poderave anche dar. Son

curiosissimo de saver... e no so lezer! E bisogna che me fida!) (da sé) CARL. Capitatomi nelle mani per accidente il vostro ritratto, ve lo rimando, perché mi credo

indegna di possederlo. (legge da sé piano, che Arlecchino non capisca; ma in maniera che il

popolo senta) (Sì, è Camilla che scrive. Non si crede degna di possederlo? Sentiamo il resto).

(da sé) ARL. E ben, cossa dìsela? CARL. Ho rilevato il primo periodo. Ecco cosa dice: Signore, capitatomi nelle mani il vostro

ritratto ve lo rimando, perché non saprei cosa farne. (ad Arlecchino, cambiando il senso della

lettera) ARL. Cussì la dise? (mortificato) CARL. (Torna a ritirarsi in disparte) ARL. (Oh questa è bella! Se no la sa cossa far del mio ritratto, ghe giera bisogno che la me

scrivesse una lettera per strapazzarme?) (da sé) CARL. Confesso che la leggiadria del ritratto potrebbe farmi accendere dell'originale. (legge,

come sopra) (Bravissima! Ora capisco tutto). (da sé) ARL. E cussì, gh'è altro?


CARL. Datemi tempo. Il carattere è indiavolato, cattivo, indegno. (fremendo per altra ragione; poi

legge piano) ARL. (Qualcheduna che se tol spasso de mi. Pazienza! Camilla no credo mai. Voggio ben ch'ela no

la ghe pensa de mi; ma no la credo capace de maltrattarme cussì). (da sé) CARL. (Ecco tutto il segreto. Lo ama, e non lo vuol dire. Ecco le belle parole, i bei sentimenti. (da

sé, legge) Siate sicuro che vi amerà sempre la vostra fedele, ma sfortunata Incognita. Oh!

Signora incognita, voglio accomodarvi io come va). (da sé) ARL. Aveu gnancora capìo, aveu gnancora fenìo? CARL. Sì, ho letto tutto, ho capito tutto. (inquieto) ARL. E cussì, cossa dìsela?

CARL. Vi amo troppo per dirvi in faccia il contenuto di questa lettera. ARL. N'importa; disè quel che la dise. Vu no ghe n'avè colpa. CARL. È una donna che scrive; ma una donna superba, incivile, che meriterebbe di essere

mortificata, e mi fa rabbia, e mi si scalda il sangue per causa vostra. ARL. Cossa mai porla dir?

CARL. E mi par di conoscerla; e ci scommetto la testa ch'è quella che dico io. ARL. Chi credeu che la sia? CARL. A chi avete dato il vostro ritratto? ARL. A nissun.

CARL. Ma se ora ve lo rimandano, qualcheduno l'ha avuto. ARL. Ve dirò. L'ha avudo in te le man Camilla; ma non credo mai... CARL. Ah sì, l'orgogliosa, la superba! Che si burla di tutti, che sprezza tutti: pretende che tutti

l'adorino; e odia quelli che non sanno spasimare per lei. Dite la verità: le avete fatto la corte?

L'avete lodata, esaltata? Vi siete dichiarato ammirator del suo merito, incantato delle sue

bellezze, spasimante dell'amor suo? ARL. Mai nissuna de ste cosse. CARL. Ora capisco da che procede la sua animosità; intendo ora il fondamento di questa lettera

indegna. ARL. Indegna? CARL. Ha fatto lo stesso con me. Pretendeva ch'io la servissi, ch'io l'adorassi. Ha veduto ch'io non

mi curava di lei; mi ha perseguitato alla morte. ARL. Camilla? CARL. La signora Camilla. ARL. Ma cossa dìsela in quella lettera? CARL. Dispensatemi... ARL. No; ve prego, disème. CARL. Sentite le belle cose che dice... Già avete inteso che vi rimanda il ritratto, perché non sa cosa

farne. ARL. Ho capìo.

CARL. Seguita dicendo: (finge di leggere) Vi consiglio di darlo a chi fa galleria di cose ridicole... ARL. El mio ritratto? CARL. Il vostro ritratto. (seguita a fingere di leggere) Io ne faccio quella stima che faccio

dell'originale... ARL. Dell'original!

CARL. Ecco qui. Dell'originale. (compitando) ARL. Capisso benissimo. CARL. Sentite. (come sopra) E se mai aveste la pazzia di credere ch'io avessi della stima e

dell'amore per voi, siate sicuro che si burlerà sempre di voi l'Incognita che vi scrisse. ARL. Cussì la dise? (agitato)


CARL. Leggete. (gli offre la lettera. Arlecchino vorrebbe prenderla, e Carlotto con arte la ritira,

come se fosse in collera per amor di Arlecchino) Cospetto! Si può scrivere una lettera più

indegna, più temeraria di questa? ARL. E credeu che sia Camilla, che l'abbia scritta? CARL. Non lo so di certo; ma ci giocherei quanto ho al mondo. E poi ella ha avuto il vostro ritratto

nelle mani, e non può venir che da lei. ARL. Ghe l'ho esibìo, e no la l'ha volesto. CARL. Perch'è superba. ARL. E la me scrive ste impertinenze? CARL. Perch'è prosontuosa. ARL. Deme quella lettera. (rissoluto) CARL. Cosa volete farne? ARL. Avanti che vaga via, avanti che vegna a casa el patron, ho ancora tempo de véder ste

impertinenze, e de buttarghe in fazza sta lettera stomegosa. CARL. E un uomo come voi, darebbe in simile debolezza? Non sapete voi che colle donne si ha

sempre torto? Non prevedete ch'ella negherà di averla scritta; e che un uomo, per offeso che

sia, non può gettar una lettera in faccia di una donna, benché lo meriti? ARL. Xe vero, ma poderò almanco mortificarla... CARL. Eh! via, usate in questo caso la prudenza e la noncuranza. Questa sorta di lettere si

disprezzano, si scordano, e per non ricordarsene più, si fa così, si stracciano... (comincia a

stracciare) ARL. No, fermève. (vuol trattenerlo) CARL. Si fanno in pezzi. (seguita) ARL. Ma no, ve digo... CARL. Si mandano al diavolo, e si sbandiscono dalla memoria. (finisce di stracciare, e getta i pezzi

per terra) ARL. Ma per cossa seu cussì infurià? CARL. Perché? Per l'amicizia che ho per voi; per l'ira che ho contro simili soverchierie; perché mi

spiacerebbe vedervi esposto a novelli insulti, e per insegnarvi come si trattano le lettere di

questa specie. Amico, l'avete voluto; vi ho servito secondo la mia intenzione. (parte)

SCENA QUINTA

Arlecchino solo.

ARL. Gran amor, gran amicizia ch'el gh'ha per mi! Mi non l'averia mai credesto. Me par però ch'el sia scaldà un poco troppo, e ch'el me podeva dar la mia lettera... Ma no; l'ha fatto ben. Che utile ghe n'averàvio cavà, se l'avesse fatta véder a Camilla? O che l'averia negà, o che l'averave ridesto de mi. Ma podeva tegnirla... e per cossa? Per farla lezer a qualcun altro, e un'altra volta rabbiarme, e renderme un'altra volta ridicolo? Pazienza. Dise ben el proverbio: No te conosso, se no te pratico. Chi mai averia credesto quella zovene cussì modesta, in apparenza, cussì bona, cussì cortese... Eh! certo, certo l'ha recusà el ritratto per superbia, e po la me l'ha tolto per malignità. Ecco qua la causa del mio deliro, dei mi affanni, dei mi malani. (tira fuori di tasca il ritratto) No lo voggio più; ch'el vaga al diavolo; lo butterò... Sì, lo butterò in t'un pozzo. (agitando la mano colla quale tiene il ritratto, sente dentro muoversi qualche cosa, e per assicurarsi lo accosta all'orecchio, e lo scuote) Coss'è sto negozio? (torna a scuotere) Anca sì, che per farme despetto la l'ha anca rotto? No gh'ho abadà... Vedemo. (apre) No, el ritratto xe intiero. (scuote) Ghe xe qualcossa sotto l'avorio. (leva la figura) Oè! bezzi. Sie zecchini! La me manda el ritratto, perché no la sa cossa farghene; la me dise in te la lettera centomile insolenze,


e la me dona dei bezzi? Ste do cosse no le se accorda. Ho paura che Carlotto m'abbia ingannà; che savendo la mia ignoranza el m'abbia burlà, o per malignità, o fursi fursi per zelosia de Camilla. Chi sa che nol sia innamorà de ela? Camilla lo merita, el xe servitor de casa; ma che alocco che son! A sta cossa no gh'ho mai pensà, e el doveva preveder, e ghe doveva pensar assolutamente; costù m'ha fatto la baronada. Se podesse... sti pezzi de carta... se i se podesse unir!... Li faria lezer a qualcun altro. Vedemo un poco, se se podesse vegnir in chiaro. (va raccogliendo i pezzi di carta che sono sparsi qua e là per la scena)

SCENA SESTA

Anselmo ed il suddetto.

ANS. Dov'è il vostro padrone?

ARL. No so gnente. (raccogliendo i pezzi)

ANS. Andate a vedere, se fosse nell'altra camera.

ARL. El xe fora de casa. (raccogliendo)

ANS. Quando torna, mi preme parlargli. (cammina, e monta sopra i pezzi)

ARL. La prego. (impedisce che non calpesti i pezzi di carta)

ANS. Subito che viene, ditegli che favorisca venir da me. (cammina sopra i pezzi di carta)

ARL. La supplico... (lo trattiene come sopra)

ANS. Ma che diavolo avete? Non mi abbadate? (dà una gran camminata sopra i pezzi di carta)

ARL. Ma la se ferma per carità. (gridando forte)

ANS. Che cosa raccogliete?

ARL. Ho bisogno de sti pezzi de carta. (raccoglie)

ANS. Via spicciatevi, e poi ascoltatemi. (si ritira un poco; ma ha un pezzo di carta attaccato ad

una scarpa) ARL. Con so permission. ANS. Cosa c'è? ARL. Quel pezzo... ANS. Qual pezzo? ARL. Sotto la so scarpa. ANS. Sotto la scarpa? (striscia il piede) ARL. Ma no la me l'insporca, no la me lo ruvina. (gli fa levar il piede pian piano, e raccoglie il

pezzo) ANS. (Uh che sofferenza è la mia!) (da sé) Quando viene il vostro padrone, ditegli che non sia in

collera meco, che voglio che siamo buoni amici. ARL. Sior sì. (ha tutti i pezzi li carta in una mano; e tiene la mano aperta) ANS. Ditegli che so tutto, che mia figlia mi ha confidato ogni cosa, e che se suo zio è contento... ARL. Vorria pregarla de una grazia. ANS. E di che?

ARL. Che la me disesse, se se pol unir sti pezzi de carta, e lezer una lettera che s'ha strazzà... ANS. Eh, giuro a Bacco Baccone! (dà colla sua mano sotto la mano di Arlecchino, e tutti i pezzi

tornano a cader per terra. Li calpesta irato, e parte)

SCENA SETTIMA

Arlecchino solo.


ARL. Oh vecchio del diavolo! Se pol dar? Tanta fadiga che ho fatto, e tutta la fattura è buttada via. Pazenzia! Ecco qua i pezzi de carta calpestai, malmenai: ghe ne xe ancora però qualchedun, che sarave ancora lezibile. Se se podesse rilevar qualcossa, che mettesse in chiaro la bricconeria de Carlotto... Vedemo un poco, za che gh'ho un momento de tempo. (raccoglie qualche pezzo di carta)

SCENA OTTAVA

Camilla ed il suddetto.

CAM. (Ah! i cavalli sono alla porta; Arlecchino or ora se n'anderà. Povera me! Non lo vedrò più.

Eccolo; ma che fa? che raccoglie?) (da sé) ARL. Ah Camilla, Camilla! (da sé forte, senza vederla) CAM. Signore, mi chiamate? (corre avanti) ARL. Oh! (resta sorpreso e confuso) la perdona. CAM. Vi occorre qualche cosa? (confusa) ARL. Gnente.

CAM. Mi ha parso che abbiate pronunciato il mio nome. ARL. Può esser, perché el xe un bel nome.

CAM. (Eppure mi lusingo ancora, che s'io mi spiegassi... ma è tardi, non è più tempo). (da sé) ARL. (Xe impussibile che la sia capace de aver scritto una lettera cussì cattiva... Ma se non fusse

cussì, Carlotto saria un gran galiotto). (raccoglie un altro pezzo di carta) CAM. E che cosa raccogliete di terra? ARL. I avanzi de certa lettera. CAM. Di una lettera? E di chi era questa lettera? ARL. No so chi l'abbia scritta; ma so che la vegniva a mi. CAM. Era una lettera di qualche donna? (agitata) ARL. Siora sì, de una donna. CAM. Di una donna! (prende un pezzetto di terra) (Ah! sì, è la mia lettera, la conosco). (da sé) Fate

dunque sì poco conto delle finezze e delle lettere delle donne? Le stracciate, le disprezzate, le

calpestate in tal modo? (sdegnata) ARL. No son stà mi veramente che l'ha strazzada. CAM. E chi dunque? ARL. Un mio amigo... (ironico) CAM. E voi avete la debolezza di confidare agli amici le cose vostre? Di confidare una lettera di

una donna? Siete un indiscreto, un imprudente; non conoscete i favori, e mostrate non

meritarli. (con caldo) ARL. Siora Camilla, ve scaldè tanto per sta lettera... Disème per grazia, per finezza: saressi vu

quella che l'ha scritta? CAM. Io?... no, non l'ho scritta io sicuramente... no, non l'ho scritta io. ARL. Ma per cossa dunque ve scaldeu in sta maniera? CAM. Perché so chi l'ha scritta; perché conosco la giovane che ha della stima e dell'amore per voi,

perch'ella è mia amica, e mi riscaldo e vi rimprovero per parte sua. ARL. Cara siora Camilla, ve domando perdon, permettème de dirve che sta vostra amiga xe un

pochettin stravagante. La me manda el mio ritratto... Ma prima de tutto, come sta vostra amiga

ala podesto aver el mio ritratto in te le so man? CAM. Non lo so; non me l'ha detto, e non gliel'ho domandato. (Ho paura di confondermi e di

scoprirmi). (da sé)


ARL. (Capisso a poco presso; ma vorria saver, se 'l xe amor, bizzaria, o desprezzo). (da sé) E cussì,

come che ve diseva, sta vostra amiga la me manda el ritratto, e la dise per no saver cossa

farghene. CAM. Per non saper cosa farne? La mia amica m'ha detto che voleva rimandare il vostro ritratto,

perché non si credeva degna di possederlo. ARL. Sia in t'una maniera, o in t'un'altra, l'espression xe un poco più modesta; ma la vol dir squasi

l'istesso. Quel che me fa maraveggiar, xe questo: la me manda el mio ritratto, la fa la generosità

de metterghe sotto sie zecchini, e po l'accompagna el regalo con una lettera piena de desprezzi

e de villanie? CAM. Come questa lettera conteneva ingiurie e disprezzi? ARL. Siora sì e me recordo che la feniva cussì: Siate sicuro che si burla e si burlerà di voi

l'Incognita che vi scrive. (con forza) CAM. Come, come! Io ho veduto la lettera, io l'ho letta; vediamo se si può raccapezzar qualche

cosa. Questo pezzo è del fine; ma non è intiero. Lasciate vedere. (si fa dare i pezzi che

Arlecchino ha in mano) Eccolo, eccolo l'altro pezzo. Ecco qui cosa dice: Siate sicuro, che vi

ama e che vi amerà sempre l'Incognita che vi scrive. Ah! che ne dite? Sono falsità, sono

imposture le vostre? Vergognatevi della più nera ingratitudine di questo mondo. ARL. Siora Camilla, vu avè scritto cussì? (con affanno) CAM. Io? l'amica.

ARL. Voggio dir... l'amiga ha scritto cussì? (con affanno) CAM. Questi sono i suoi caratteri e i suoi sentimenti. ARL. Ah indegno! Ah baron de Carlotto! CAM. Cosa c'entra Carlotto? ARL. Ve dirò... Sappiè che mi so poco lezer le carte scritte. Ho pregà Carlotto, e quel furbo m'averà

letto la lettera a modo suo. CAM. Come! Avete dato a leggere quella lettera a Carlotto? A Carlotto? Ma che testa! Che

giudizio! Ma che imprudenza! A Carlotto che può essere vostro nemico? A Carlotto che può

essere vostro rivale? ARL. Mio rival Carlotto? Ah! sì; l'ho sospettà anca mi un poco tardi. Sì; ho sospettà che Carlotto

fusse innamorà de vu... CAM. Di me! Di me! Cosa c'entro io? Carlotto conosce l'amica mia; e potrebbe essere innamorato

di lei. (con un poco di trasporto) ARL. Ma se sta vostra amiga, se sta vostra amiga ha tanta bontà per mi, anderò via da Bologna

senza conosserla? CAM. Siete vicino a dover partire, ed è superfluo che ci pensiate. ARL. E perché mai in quattro mesi che son qua, sta vostra amiga non m'ala dà un qualche segno

d'amor, de bontà, de compatimento? CAM. Oh! signor mio, una giovane savia, onesta e dabbene non deve esser la prima. Mi ha detto la

mia amica che toccava a voi a dimostrarle qualche parzialità, qualche inclinazione. ARL. Xe vero; ma son timido de natura, e no gh'ho coraggio. Son stà cento volte sul ponto de

dichiararme, e la vergogna m'ha trattegnù. CAM. Dal modo vostro di parlare, pare che la conosciate questa giovane che vi ama. ARL. Sì, me par de conosserla; credo de no m'ingannar. (pateticamente, e con lazzo)

SCENA NONA

Federico in abito da viaggio, e detti.

FED. Ben trovato, Arlecchino.


ARL. Bon zorno, Federigo, ben tornado. Vegnìu da Roma? (con premura)

FED. Sì, vengo da Roma.

ARL. Cossa fa el barba del nostro patron?

FED. Il zio del padrone è morto.

CAM. È morto il zio del signor Roberto? (a Federico)

FED. È morto, ed ha lasciato il nipote erede di tutto il suo.

ARL. S'alo recordà de mi? (a Federico)

FED. Sì, di voi, e di me: mille scudi per ciascheduno.

ARL. No vago più a Roma. (a Camilla con un poco di gioia)

CAM. (Lo volesse il cielo!) (da sé)

ARL. Lo salo el patron? (a Federico)

FED. Lo sa; l'ho trovato alla Posta, gliel'ho detto, e siamo venuti qua insieme.

ARL. Vorlo più andar via?

FED. A quel che dice, andrà a vedere gl'interessi suoi; ma non partirà così presto.

ARL. Allegramente. Dov'èlo el patron? (a Federico)

FED. È in camera del signor Anselmo. Credo che vi sia qualche altra cosa di nuovo.

ARL. Disè, disè...

FED. Non posso trattenermi. Il padrone mi aspetta; son venuto a vedervi. Addio. (parte)

SCENA DECIMA

Arlecchino e Camilla

ARL. Bone nove per mi. (a Camilla)

CAM. (E per me ancora, se potessi sormontare questa indegna timidità). (da sé)

ARL. No la me dise gnente? Crédela che la so amiga sarà contenta, che no vaga via?

CAM. Crederei di sì.

ARL. Mo cara! mo benedetta quella so amiga! (allegro)

CAM. Ma se non partite oggi, partirete da qui a pochi giorni. La consolazione dell'amica non durerà

lungo tempo. ARL. Ma intanto se poderia... CAM. Giacché presto o tardi dovrete partire, lasciate almeno una memoria di voi alla mia cara

amica. ARL. Lo faria volentiera; ma no saveria cossa darghe, che la podesse gradir. CAM. Lasciatele il vostro ritratto. Datelo a me, che lo darò all'amica. ARL. Ma se l'amiga no la lo vol, se la me l'ha mandà indrio? CAM. Vi dirò: ella è assai delicata. Non ha voluto ritenere un ritratto che aveva avuto per accidente,

ma so che lo riceverà volentieri dalle vostre mani. ARL. Se la xe cussì, velo qua. (tira fuori il ritratto) Tolè, deghe el mio ritratto, e assicurèla de tutto

l'amor dell'original. CAM. L'amate senza conoscerla? ARL. Ah! me par de conosserla. (con tenerezza) Credo de no m'ingannar. (guardandola con

passione) Disèghe a sta cara amiga, disèghe che l'amo con tutto el cuor. CAM. Ed io vi assicuro, che io... che ella... che l'amica... (Non posso più). (da sé) ARL. Per pietà, per compassion, no me tegnì più in pena, ve supplico, ve sconzuro. Disème la

verità: vu sè quella, vu sè l'amiga. CAM. No, no, non sono io. (con estrema passione) ARL. Ma sì, per pietà, per compassion. (si getta in ginocchio) CAM. No, l'amante... l'amica... Vien gente. (con timore)


ARL. Poveretto mi! (balza in piedi)

SCENA ULTIMA

Roberto, Dorotea, Anselmo, Carlotto, ed i suddetti.

ROB. La morte del mio povero zio mi rende padron di me stesso, e mi procura l'onore e la felicità

di offerirvi la mano ed il cuore. (a Dorotea) DOROT. Poiché mio padre il consente, mi abbandono alla più tenera inclinazione. ANS. Ci ho gusto, giuro a Bacco, a Baccone, ci ho gusto. ARL. Me rallegro col mio patron. ROB. Il povero zio è morto. (ad Arlecchino) ARL. Me despiase infinitamente. Anderémio a Roma? ROB. Ci anderemo da qui a qualche giorno, se la signora Dorotea lo permette. DOROT. Signor sì, andate a vedere gli affari vostri. ROB. E al mio ritorno... ANS. E al vostro ritorno si faranno le nozze. CAM. (Povera me! S'egli parte, ho paura che non torni più). (da sé) ARL. Sior padron. La vorria pregar d'una grazia. ROB. Che cosa vuoi?

ARL. Avanti de andar a Roma, me vorria maridar anca mi, se la se contenta. ROB. Per me non ho niente in contrario; e con chi vorresti tu maritarti? ARL. Coll'amiga de Camilla. (guardando Camilla) CAM. (Ah furbo, furbo! Mi vengono i sudori freddi). (da sé) ROB. E chi è questa amica di Camilla? (ad Arlecchino) ARL. Domandèghelo a ela. ROB. E bene: chi è questa giovane? (a Camilla) CAM. Signore... Io non so niente. (Non so cosa dire). (da sé) ROB. È sua amica, e non la conosce: tu la conoscerai. (ad Arlecchino) ARL. La cognosso, e non la cognosso.

ROB. Ma chi è? Che cos'è? Vediamo se merita che un servitore onorato e fedele, come tu sei... ARL. Oh! per meritar, la merita molto più. Camilla sa chi la xe, ma Camilla no lo vol dir. Sior

patron, sior Anselmo, siora Dorotea, ve prego tutti per carità, fe che Camilla parla che la diga

chi xe sta persona, chi xe st'amiga che vol el mio ritratto, che m'ha scritto una lettera, che m'ha

fatto un presente, che me vol ben... DOROT. Oh! come Camilla vien rossa. (a tutti) ANS. Ci scommetterei ch'è Camilla. DOROT. È Camilla senz'altro.

CAM. (Povera me! Non so in che mondo mi sia). (da sé) ROB. Ma perché non dirlo? Perché non parla? DOROT. È timida, è modesta. ANS. Fa la vergognosa. ROB. Animo, animo, figliuola. Arlecchino è un uomo dabbene, è un servitore onorato. (a Camilla)

Ma via, parla, prega, accostati. (ad Arlecchino) ARL. Me vergogno. ROB. Sono cose da morir di ridere.

ANS. Orsù, finiamola. Vuoi tu maritarti, o restar fanciulla? (a Camilla, con calore) CAM. Maritarmi. (modestamente cogli occhi bassi e voce tremante) ANS. Hai qualche genio per qualcheduno?


CAM. Non lo so.

ANS. Ti vuoi maritare in questa casa, o fuori di questa casa?

CAM. In questa casa. (come sopra)

ANS. Vuoi tu Carlotto?

CAM. Signor no. (con più spirito)

ANS. Ma chi vuoi dunque?

CAM. Vorrei... (modestamente, come sopra)

ANS. Ma parla.

CAM. Eccolo qui. (fa vedere il ritratto d'Arlecchino, e si copre il viso)

ARL. (Son mi, son mi. Camilla xe l'amiga, e mi son mi). (da sé, giubilando, e tutti applaudiscono)

ROB. Animo, promettetevi tutti due, e al ritorno nostro da Roma vi sposerete. Sei contento? (ad Arlecchino)

ARL. Sior sì. (modestamente)

ROB. E voi siete contenta? (a Camilla)

CAM. Signor sì. (con una riverenza modesta)

ANS. Bravi, evviva e che vivan gli sposi.

CARL. Cos'è quest'allegria, signori? Chi si marita?

ARL. Mi per servirla. (a Carlotto)

CARL. E chi prende il signor Arlecchino? (ironico)

ARL. L'incognita che se burla de mi. (sorridendo)

CARL. (Ah! pazienza; me l'ho meritata). (da sé, mortificato)

Fine della Commedia

ROB. Solleciterò la mia partenza per sollecitare il ritorno, e giugnere più presto al possedimento della vostra mano. (a Dorotea) E voi altri, in cui l'amore ha combattuto colla timidezza, soffrite la dilazione con eguale modestia, e siate sempre teneri sposi, e servitori fedeli.