Gli esuli tebani

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Gli esuli tebani

Gli esuli tebani

Di Francesco Mario Pagano

 

PERSONAGGI

Pelopida

capo degli esuli

Carone

principal cittadino di Tebe

Emonte

amico di Carone e sposo d"Ismene

Ismene

sorella di Carone

Aspasia

moglie di Carone

Leontida

capo dell"oligarchia e tiranno di Tebe

Servo di Carone

Polinice

figlio di Carone

Telefo

domestico di Fillia, un de’ congiurati, che non viene nella scena

Polifonte

capitano della guardia d’ tiranni

La scena è in una gran sala della casa di Carone, nella quale vi è un"ara co’ simulacri di Pallade, Bacco, Ercole ed Apollo.

ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

EMONTE, CARONE

EMONTE

Perché mai sì pensoso e sì turbato

Tu sei, Carone? in qual tumulto e in quale

Aspra procella di pensieri ondeggi?

Or fiso al suolo il guardo tieni or volgi

Intorno i lumi irrequieti. Grandi

Cose mi par che l"agitata mente

In sé rivolga e chiuda: ah, se hai tu pruova

D"Emonte tuo, della sua fé costante,

Fa che a parte ancor sia dell"alta cura

Che t"affanna cotanto.

CARONE

O sovr" ogni altro

A me caro e diletto, i rari sensi

Dell"amistà pi?a e della patria

L"acceso amor, che nel tuo petto annida,

Degno ti fero già d"esser a parte

Del gran segreto che nel petto io serbo.

Ed or che sono all"alta impresa accinto,

Compagno a me sarai nel gran cimento.

Della virtù tebana invida Sparta

Sai, che di più tiranni all"aspro giogo

Ci fé piegare il dorso, onde il valore,

Che della libertà si nutre all"aura,

Nell"emula città vedesse estinto.

Quindi il fiero Leontida, e i suoi pochi

Fidi compagni, del beozio suolo

E della sempre invitta e sacra Tebe

Strinsero a lor talento il duro freno.

EMONTE

E a che ripeti il nostro antico affanno

E cose a me ben note?

La ferale memoria acerba ho sempre

Scolpita in mente del funesto giorno,

Che i più famosi cittadini e saggi,

Come sospetti a quel novello impero,

Vittime sventurate ed infelici

Dell"empia tirannia, furo svenati

O da’ figli divisi e dalle mogli,

Afflitti e bisognosi

Lungi dal patrio suol n"andaro in bando.

CARONE

Or ho pi?te alla tua fé commesso

Che, stanchi alfin gli Dei che han Tebe in cura

Di sopportar sì obbrobrioso oltraggio,

Il generoso cor del gran Pelopida

Hanno destato a liberar la patria

Dalle gravi ed orribili catene

Sotto al cui peso misera si duole.

Or sappi, Emonte amato,

Che fra pochi momenti,

Seguìto dagli altri esuli tebani,

Pelopida sarà tra queste mura;

Ed opportuno è il tempo,

Perché i tiranni tutti alla vegnente

Notte saran del nostro Fillia a mensa.

Fra la crapula e ‘l vin facile impresa

Sarà perderli tutti; or tu, che sei

Esempio e specchio di gentil valore

Alla tebana gioventù, richiama

Al cor la tua virtude

E all"impresa magnanima il tuo petto

Disponi e il braccio porgi al gran disegno.

EMONTE

Ah! che grato mi sia per sì bell"opra

Spargere il sangue mio.

Molte volte, tu il sai, seguir promisi

La tua fortuna, sia felice o rea.

Ch"oltre il dover di cittadin onesto,

A te mi stringe il bel soave nodo

Che fra poco alla tua sorella Ismene

Mi legherà, se mai destin crudele

Non turbi invidioso il mio contento.

CARONE

Su la mia fé riposa. Or la tua patria

Servi con zelo e Ismene in premio attendi.

SCENA SECONDA

PELOPIDA, CARONE, gli ESULI da cacciatori

PELOPIDA

Amici, ormai siam giunti. O patri Numi!

O lari, o tombe antiche,

Che de’ padri chiudete il cener santo,

O sacre, amate mura della mia

Terra nativa, a riveder vi torno

Alfin, dopo tanti anni; ché da voi

Mi discacciò quell"empia mano istessa,

Che del sangue civil vi asperse e tinse.

Delle nostre miserie il fine è giunto.

Il Ciel seconda il bel disegno. Giove,

Di folta neve al suol spargendo un nembo,

L"aer fé spesso e denso,

Sicché ne tolse al guardo altrui. Celati

Qui giunti siamo ed a’ tiranni ignoti.

Il favore del Ciel aperto io scorgo.

Son tuoi gli auguri, o Giove, e tu, propizio,

La giusta impresa al suo bel fin conduci.

Ma vien Carone. O mio diletto amico,

Gloria di Tebe, alle mie braccia vieni.

CARONE

Metà dell"alma mia!

O Pelopida invitto! Alfin al Cielo

Piacque che prima del mio fato estremo

Io ti rivegga e la mia man congiunga

A questa tua, sostegno e solo appoggio

Della cadente patria.

Del fato avverso or più non temo l"ira:

Già la mia speme è giunta a riva. Io veggio

Di servitù la fine, i lacci infranti

E veggio ancor del sangue de’ tiranni

L"Ismeno correr tinto e gonfio al mare.

Ma quanti son gli amici

Venuti della patria al pio soccorso?

PELOPIDA

Cento nel borgo sono all"armi pronti

Oltre costor che vedi or qui, bramosi

Per la patria versar tutto il lor sangue.

Di cacciatori in abiti mentiti

Noi soli ardimmo trapassar per mezzo

L"armate schiere de’ tiranni, a’ quali

Sospetto e reo timor son sempre al fianco.

Ma tu di Tebe i congiurati insieme

Hai raccolti, e son pronti alla grand"opra?

Fillia che fa? serbò le sue promesse?

CARONE

Son tutti accinti e avvampano di zelo

Di liberar la patria o di morire.

Fillia tutto dispose.

Dal dì che un Nume amico

La mente t"ispirò romper il giogo

Che alla tua patria la cervice altera

Fece chinare al suolo,

E i fidi amici pur scegliesti a parte

Del gran disegno, Fillia chiuse in petto

Contro a’ tiranni l"acerbo odio e fiero

E fingendo amistà con lor si strinse;

Ché, quando è generoso e retto il fine,

Il finger è lodato.

Non han perciò di Fillia più sospetto,

Sicché ei divenne il lor più stretto amico.

Col confirmato impero ne’ tiranni

Scema il sospetto e in lor fiducia cresce.

Quindi costor omai corron sicuri

Nella rete fatal, ove gli attende

Inevitabil, non temuta morte.

Nella casa di Fillia or son raccolti,

Ove s"appresta splendido convito

Che da gran tempo lor Fillia promise.

Quivi speran passar l"intera notte

Fra tazze e suoni nel piacer disciolti.

Ma la morte fra tazze e suoni ascosa

Lancerà loro irreparabil telo.

PELOPIDA

Fortuna sia propizia al bel pensiero,

Ma fa mestier che ben si pesi, pria

Che ad effetto si ponga un gran disegno.

CARONE

Egli è pur vero, amico.

E se ogni impresa di maturo esame

Ha bisogno, sovra ogni altra al certo

È la congiura. Più terribil cosa

E di maggior periglio uom non attenta.

Io ben tutto disposi.

Or fin che non s"avanzi più la notte

Quai nuove cose, oh Dei! son queste e quai

E nel silenzio amico il mondo covra,

Nelle segrete stanze, ove celato

E sicuro starai, meco ne vieni.

SCENA TERZA

ASPASIA,poiCARONE

ASPASIA

Quai nuove cose, oh Dei! son queste e quai

Tetri presagi immagina la mente?

Che avvenne mai? Che mai tentar si pensa?

Gli esuli in Tebe fan ritorno, ascosi

son da Carone. Elmi, corazze e spade

Da molti giorni preparar vid"io.

Un gelido timor m"agghiaccia il core.

Formo cento pensier, né so qual sia

Il celato disegno.

Come potrò saper l"ordita impresa?

Ecco Carone; di tai nuove cose

Si chieda la cagion. O mio consorte,

A tempo giungi, ché parlar ti deggio.

CARONE

Perché affannata ti dimostri, Aspasia?

Qual grave affare a favellar ti spinge

Con tal premura or meco?

ASPASIA

Un torbido pensier alla mia mente

Sospetti orrendi e reo timor dipinge.

Deh! se l"antico amor in parte vive,

Né spento è tutto nel tuo sen, Carone,

Ti prego farmi la cagion palese

Onde tornati son gli esuli in Tebe

E perché in tua magion li accogli e celi?

Deh! qual tetro mistero a me si asconde?

CARONE

Qual meraviglia, Aspasia, se agli amici

Noi diam ricetto e agl"infelici asilo?

Nelle sventure il vero amico appare

E chi soccorre i miseri e solleva

Gli oppressi s"assomiglia al sommo Giove.

Ma s"egli è ver che m"ami, in petto cela

Quanto tu scorgi e vedi. Alto silenzio

Ti prego di serbare, ché altrimenti

La salute di noi tutti è in periglio.

SCENA QUARTA

ASPASIA,sola

ASPASIA

Qual nube (oimè) d"orrore il sen m"ingombra?

Qual notte e qual caligine profonda

Mi si para d"avanti?

Chi teme un certo mal, di quel si duole;

Ma chi nel suo timor incerto pende,

Tra mille affanni ondeggia.

O rei sospetti, o torbidi pensieri,

O penosi compagni del mio seno,

Il fiero assalto rallentate un poco!

È stanco il cor di soffrir se breve

Riposo a lui non date.

SCENA QUINTA

ASPASIA, ISMENE

ASPASIA

Più che sorella a me diletta, Ismene,

Deh vieni e calma tu questo mio core

Agitato da mille rei sospetti.

Dimmi, se sai, che fanno entro le stanze

Quegl"infelici che a turbar la pace

Nostra venuti or sono.

ISMENE

O mia sorella,

Ne’ penetrali, ove Caron li ascose,

Si stan segreti e chiusi.

Spinta d"accesa voglia di sapere

Qual gente ella si fosse,

Della vicina stanza al vecchio muro,

Ov"è non noto altrui spiraglio angusto,

Più volte io posi l"occhio:

Pelopida conobbi e insiem con esso

Altri esuli tebani

E vidi ciò che attonita la mente

Mi fe’ restar e d"alta tema ingombra.

Gli esuli cambian vesti e minacciosi

Arman i petti di lorica e al capo

Metton gli elmi su i quali all"aura sparse

Ondeggian con orror le nere piume.

Han nudi i brandi in mano: altri si prova

Vibrando in aria colpi, altri al compagno

Il fodero nel petto spinge come

Farìa col ferro al più crudel nemico.

ASPASIA

Ah! funesti princìpi!

ISMENE

Se vedessi

Come torvo Pelopida all"intorno

Sanguigno e furibondo il guardo gira.

Quando Marte dal ciel nel tracio suolo

Sitibondo di sangue irato scende

Non credo avrà così feroce aspetto.

ASPASIA

Ahimè, ché già m"immagino la cosa.

Terribil notte, e qual orror n"arrechi?

Che fere stragi e che ruine, o casa

Di Carone perduta! o figlio mio!

SERVO

Signora, or giunge in casa il fier tiranno

Leontida. Al padron porto l"avviso.

ASPASIA

O nuovo affanno, ecco scoverto il tutto.

Siamo perduti affatto, o Tebe, o Tebe,

Di funeste tragedie ognor feconda.

Non è placato ancor l"odio de’ Numi?

Non bastò pur di Labdaco la prole

L"ira a stancar d"inesorabil fato?

SCENA SESTA

LEONTIDA, CARONE

CARONE

Un tradimento io temo. Avrà scoverto

La venuta degli esuli il tiranno.

Leontida che chiede? Che farò?

O Dei di Tebe, protettori e vindici,

Consigliatemi voi.

Apri, o servo, le porte.

Da’ detti suoi noi prenderem consiglio.

Soffri mio core e ricomponi i moti

Dell"agitato sangue, ché altre volte

In perigli maggiori ti sei trovato.

LEONTIDA

Grave affare, Carone, a te mi guida.

Ciò che giova ad entrambi

Vengo a proporti. Amico,

Nella tua mano è la mia pace. E pende

La tua felicità dal mio potere.

Caron, nol crederai, mi vinse amore.

CARONE

Amor nel petto tuo? Che sento!

LEONTIDA

Amico,

Ardo ed avvampo per la bella Ismene.

CARONE

Ismene, mia sorella!

LEONTIDA

Sì. De’ sospiri miei questa è l"oggetto.

Amico, stringi tu l"amato nodo

Dell"imeneo felice e premio eccelso

Dal mio gran cor t"aspetta.

Risplenderà su la tua fronte ancora

Del mio poter un raggio.

CARONE

Leontida, mi spiace che ‘l servirti

In possa mia non è. Di già d"Emonte

Ismene è sposa e s" han la fé promessa.

LEONTIDA

Ah, s"altro non si oppon, poco mi cale

Di promesse, di fede e giuramenti.

È troppo saggio Emonte e al suo signore

La sposa cederà; rival mio farsi

È divenir di morte

Colpevole. Al padron non si contrasta.

CARONE

Ma la legge di Tebe e delle genti…

LEONTIDA

Su i prìncipi poter non han le leggi,

Ché, se di quelle sono essi gli autori,

All"opre lor non denno esser soggetti.

CARONE

Pur son soggetti a quell"eterna legge

Che scrisse di sua man l"alma natura.

LEONTIDA

E questa sol comanda che al più forte

L"infermo e debil serva.

L"aquila forte e lo sparvier rapace

Su gli uccelli minor hanno l"impero.

CARONE

Ma son gli Dei mallevadori e vindici

De’ sacri patti e della fé giurata.

LEONTIDA

Io ti credea più saggio

E sprezzator della volgar credenza.

Che son questi tuoi Numi? e questi Dei?

Idoli vani che creò la mente

E poi del parto suo serva si rese.

Lasciamo al volgo tal error, ché giova

La sua sciocchezza al saggio.

D"Ismene il cor disponi

All"imeneo beato. Arreca a lei

Lieta novella. Inaspettata sorte

La colmerà di gioia e di stupore.

Dille che meco dell"impero a parte

Io la destino e che vedralla in trono

Beozia e un dì l"adorerà sovrana.

Da Emonte intanto io vado

E intimerogli il mio sovran comando.

Io tornerò fra poco e voglio, prima

Che Febo torni in cielo, esser suo sposo

In quella notte istessa. Amor non soffre

Indugio e più contrasto il mio volere

Ritrova, più s"accende nel desio.

Pensa, Carone, alla mercè promessa.

La sorte mio compagno ti destina.

SCENA SETTIMA

CARONE,solo

CARONE

Io tradirò la patria? io tuo compagno,

Stolto tiranno! e pegno Ismene sia

Dell"empia società che mi proponi!

Con qual fasto parlò! quai voci orrende

Quell"empio disse? O Dei! fremo d"orrore.

Ma si trovi Pelopida,

Ché fia mestier di provvido consiglio.

ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

ISMENE, CARONE

ISMENE

Diletto mio german, giammai non fia

Ch"io stringa l"empia man del reo tiranno,

La mano ancor fumante vivo sangue

De’ miei congiunti e de’ miglior tebani

Che di vermiglio tinsero le case,

I letti maritali, l"are e i tempi,

Ove cercaro invano asilo e scampo.

Piuttosto sotto i piedi miei l"abisso

Or s"apra e mi divori in un baleno.

E tradirò la fé, che al mio diletto,

Al fido Emonte mio giurai più volte?

No, caro sposo, dal primiero istante

Che nel petto provai di amor la fiamma,

Fosti del mio pensier l"unica cura.

Deh non temer della mia fede, sono

Tutti sacrati a te gli affetti miei.

E se non può sottrarmi al fiero artiglio

Del tiranno crudel altro che morte,

Ho ben valore da squarciarmi il petto.

CARONE

O sensi di te degni

E di quel sangue donde nata sei.

Odia il tiranno. Al tuo bel cor conviene

Odio sì degno. Ma guidar si dee

Con prudenza l"affare.

Non s'irriti il superbo.

Fiera, tra lacci avvinta, invan minaccia

E contra il predator freme di sdegno.

Onde convienti con maniere accorte

E con dolce sembiante render mite

L"animo acerbo del crudel nemico

E differir il mal quanto si puote.

ISMENE

Che pro? saremo, alfine, nell"istesso

Duro cimento. Il differir che giova?

CARONE

Il tempo d"ogni Nume è il più potente.

Ei tutto al mondo cangia e nuovo aspetto

Qui dà alle cose e non provvisti aiuti

E non sperati mai consigli arreca.

Il dì venturo ne daran gli Dei

Forse diverso e più ridente assai.

Leontida s"appressa. Entro ti reca.

SCENA SECONDA

LEONTIDA, CARONE

LEONTIDA

Irrequieto a te presto ritorno,

Ché più soffrir non può quest" affannato

Mio cor l"aspra passion che lo martira.

Alla mie nozze impedimento omai

Non resta. Emonte non si oppone e cede.

CARONE

Al tuo poter avrà ceduto ei solo

Ed alla forza che ragion opprime.

LEONTIDA

Se adempio il mio voler, non curo il modo.

CARONE

Non è il proprio voler norma dell"uomo,

Ma la ragione e il giusto.

LEONTIDA

Dell"amistà, che t"offro, omai ti abusi,

Carone; eh poni termine a coteste

Ciance di vecchie e fanciullesche fole!

Che leggi, che dover stolto rammenti?

Vani fantasmi e nomi

Son questi, che inventò l"astuta frode

Del più potente per tener ne’ lacci

Le cieche menti dell"errante volgo.

Ma ti comando, non ardir parlare

In tal guisa mai più. Ché invan ti pensi

Che il nuovo nodo ti varrà di schermo.

Tronchiam le ciarle. A me conduci Ismene

E in questo punto diverrà mia sposa.

CARONE

Senza usate pompe ed il solenne

Rito e presenza de’ parenti e amici

Non saranno d"onor coteste nozze

Né a te, né a Ismene. Almen si aspetti il nuovo

Giorno e pomposa allor farem la festa.

LEONTIDA

Pascon le pompe e fregi esterni solo

L"alme volgari, ma le sprezza il saggio.

Del mio piacere un sol momento or io

Non vo’ tardar l"acquisto: ben perduto

Giammai non si ristora.

CARONE

La mente femminil di pompe è vaga

E la più saggia donna ancor si alletta

Dell"apparenze. A Ismene almen concedi

Questo piacer, che vada a nozze come

A tanto sposo e al grado suo conviene.

LEONTIDA

Ismene, che la sorte omai solleva

Sullo stato volgar, deve pensare

In degna guisa al suo novello stato.

Ma non tardare or più. Conduci Ismene

Ove l"attende impaziente amante.

SCENA TERZA

LEONTIDAsolo

LEONTIDA

Ah! quanto più sugli altri il mio comando

Distendo, tanto sovra me gli affetti

Miei spiegan feri il lor crudele impero.

Or son pur giunto a tal che, s"altri attenti

D"opporsi al mio volere,

Ira, vendetta ed odio

Scempio fan del mio seno e reo governo.

E quando la mia stagee di vendetta

Estinta ho già coll"altrui sangue sparso,

Rimorso, pentimento e fera imago

Di morte fan provarmi entro del petto

Le pene di Cocito e Flegetonte.

Ombra funesta del nemico estinto,

Di me che brami? lasciami godere

Del mio delitto almen tranquillo il frutto;

Ma si allontani pur il mio pensiero

Dall"imagin funesta che si aggira

Nella mia mente accesa.

Ismene più non viene. Andiam per lei.

Leontida s"inoltra nell"interna stanza.

SCENA QUARTA

ISMENE, CARONE

CARONE

Ove n"andò Leontida? nol veggio.

O Dio! che dentro il piede audace ei porta.

S"occorra… aspetta, Ismene, qui frattanto.

ISMENE

Ahimè! già scovre gli esuli celati!

O Ciel! e quanti affanni ci prepari!

Ma no. L"empio ritorna, ha lieto il viso;

Il mio timor si calma.

SCENA QUINTA

LEONTIDA, ISMENE

LEONTIDA

Ismene, idolo mio, che solo adoro,

Perché fuggi l"amante e ‘l fido sposo?

ISMENE

Sì dolci nomi ancor tempo di usare,

Leontida, non è; mentre che sono

Promessa altrui, come sarò tua sposa?

LEONTIDA

D"ogni legame ti ha disciolto Emonte.

Libera alfin tu sei, di te disponi.

ISMENE

E tanto amor poter scordar sì presto?

LEONTIDA

Sii certa pure che colui d"Ismene

Or più non prende cura.

ISMENE

E’ l crederò di tal viltà capace?

LEONTIDA

Presso di te sì poca fede io trovo?

ISMENE

Dunque a tal segno, Emonte,

Volubile, incostante, meco fosti!

LEONTIDA

Ma tu ancor sei irresoluta e incerta?

Lascia di quello ormai ogni pensiero;

Mentre, se aspiri alle sue nozze ancora,

Un impossibil chiedi.

ISMENE

Come impossibil fia?

Da Tebe forse discacciato l"hai?

Ah dimmi il ver, rispondi.

LEONTIDA

Troppo lontan da Tebe si ritrova.

ISMENE

Troppo lontan da Tebe! qual mistero!

Rischiara la mia mente: in quale parte

L"hai tu sospinto? tra feroci Sciti?

O nella Libia infame? in qual contrada?

LEONTIDA

In più rimota parte,

Onde il ritorno non sarà concesso.

Ma tu mi offendi assai, quando ti mostri

Sollecita così di un mio rivale,

Che per mio scorno e mia vergogna eterna

Del tuo core contrasta a me l"impero.

ISMENE

O Dio di Tebe, invitto Alcide! ahi misera!

Qual freddo gel mi agghiaccia. Io tremo; dimmi,

Perché il ritorno vien a lui negato?

LEONTIDA

Questa è la legge che mutar non ponno

Gli Dei medesimi, se v"ha Dio nel Cielo.

ISMENE

Qual legge e qual decreto empio rammenti?

LEONTIDA

La legge di natura e del destino.

Da tenebrosi, oscuri regni mai

Non si ritorna qui. M"intendi alfine?

ISMENE

Sì, barbaro, t"intendo. Ah più non vive

Emonte. O Dei… io moro.

Sviene.

LEONTIDA

Carone, occorri; a tua sorella porgi

Aita, ché il dolor suoi sensi offusca.

SCENA SESTA

CARONE, LEONTIDA, ISMENE

CARONE

Oimè, sorella! qual pallor di morte

Scolora il viso? gelo son le membra!

Leontida, che avvenne?

LEONTIDA

Emonte, il mio rivale, a un cenno mio

Cadde trafitto: riportò la pena

Di un temerario ardir. Ismene il seppe

Ed improvvisa doglia il cor le oppresse.

ISMENE

Emonte più non vive…

Ove son io? deh lasciami, crudele,

credendosi nelle braccia di Leontida.

O mio fratello, io giaccio…

Nelle tue braccia!

CARONE

Ismene, o Dei! coraggio.

LEONTIDA

Ella rinviene ed io mi appresto or ora

Ad ascoltar le sue querele e’ gridi.

Ma sordo al suo lamento, duro scoglio

Battuto ognor dall"onde dell"Egeo,

Immobile sarò. La donna al pianto,

A’ gridi, all"onte ha sempre mai ricorso.

Il saggio non sen cura e lascia il freno

Al femminil trasporto,

Ché, quando ha disfogato il suo talento,

Il turbin cessa e segue pace e calma

E grand"oblio di quel passato affanno.

ISMENE

Io vivo ancor! l"aura vitale io spiro!

E sovra il capo mio si arresta solo,

Barbaro, la tua spada?

Perché non versi ancor questo mio sangue?

Compisci l"opra e questo sen mi squarcia

E svelline quel cor, in cui pur vive

L"odiato tuo rivale.

Luce del sol, soave agli viventi,

A me sempre sarai funesto oggetto:

Tu fai mirarmi sì esecrabil mostro.

Stige non ha così tremenda imago

Che te paregi o te somigli in parte.

LEONTIDA

Ismene, al tuo trasporto, al tuo dolore

Ed al tuo sesso ancor perdono questi

Tuoi sconsigliati accenti e soffro l"onte

Solo da te, che al letto mio destino.

Piangi a talento tuo. Quando poi fine

Al pianto avrai tu dato e alla ragione

Loco, più saggia al tuo vantaggio allora

Abbi pensiero. Addio.

ISMENE

O Furie, Erinni orribili, voi tutte

A me d"intorno stagee. Io veggio, o Dive,

L"orrende vostre faci, odo il fischiare

Delle ceraste. Abisso, apriti pure,

E me sottraggi al mio dolor estremo.

CARONE

Ahi! sventurato amico! qual dolente

Ed infelice fin a tuoi begli anni

Il fato diè! qual frutto amaro cogli

Da tanto amore e da sì bella fede.

ISMENE

Ferma, mio sposo, d"Acheronte in riva

Ecco ti giungo, la fatale sponda

Debbe teco varcar la tua consorte.

CARONE

La doglia di ragion l"ha priva. Ismene,

Seguimi dentro e calma il tuo trasporto.

ATTO TERZO

SCENA PRIMA

PELOPIDA, CARONE, CONGIURATI

CARONE

Sono i nimici nella rete ordita

Caduti ormai: già tutti

Seggono a mensa placidi e sicuri.

Leontida nel vino

E nel piacer sepolto, il fianco porge

Ignudo al nostro ferro.

L"amico estinto nuovo ardore aggiunge

Alla vostra virtù. Che più si aspetta?

CONGIURATI

Ecco le destre ed ecco i petti pronti

Ad affrontar la morte.

O morte o libertà tutti cerchiamo.

CARONE

Pelopida, ti affretta, il tempo vola.

I tuoi conforta e alla grand"opra accendi.

PELOPIDA

Valorosi compagni, se pensato

Avessi che mestier era di sprone

O di conforto al noto

Vostro valor, la grand"impresa al certo

Io non avrei tentata. Le parole

Non aggiungon ardire all"uom codardo.

Qual"è ciascun per abito o natura

Tal ei si mostra in ogni dubbia impresa.

Sol pensate, compagni, in qual dolente

Misero stato questa patria giace.

Non regnano, qual pria, le sante leggi,

Ma l"arbitrio e il piacer di poca gente.

La vita e’ beni e libertà, le mogli

Non son sicure: esposte sono ognora

Alla voglia e libidine sfrenata

Di un tiranno crudele e senza legge.

A chi tolto non fu padre o fratello

O figlio dal feroce, empio Leontida?

Ne’ beni e nell"onor oltraggio e danno

Chi non sofferse da quell"uom superbo?

Ovunque il guardo volgi, alte rapine,

Violenze a stupri miste e stragi orrende

Si offrono al tuo pensier. Qual piazza e strada,

Qual sacro tempio o qual palagio in Tebe

Tinto non è del sangue cittadino?

D"Emonte (ahi! sfortunato ed infelice)

Il sangue ancor fumante

Chiede vendetta. Ombra dolente e cara,

Che a me ti aggiri intorno, avrai vendetta.

Anime illustri del tebano suolo,

Da me che mai chiedete?

Onde desio vi prese

Di far ritorno alla tebana terra?

Ah sì v"intendo appieno.

Voi del vostro furor m"empite il petto.

Ed io vi giuro che a’ dolenti regni

Di morte ne verranno in questa notte

Le pallid"ombre de’ tiranni esangui.

CARONE

Su, compagni, si adempia il sacro rito,

E poi si parta. Il Ciel principio sia

D"opra sì giusta e a’ Numi eterni accetta.

PELOPIDA

La vittima si rechi all"ara e voi

Assistete, o compagni.

Al sacro inviolabil giuramento

Prepari ognun la mente.

O della patria mia

Voi tutelari Numi, invitto Alcide,

Gran domator de’ mostri e de’ tiranni

E tu, potente Bacco, e padre Giove,

Volgete il guardo amico

Al popol pio di Tebe.

Come io di questa vittima nel seno

Il ferro immergo e il vivo sangue spargo,

Concedete così che de’ tiranni

In mezzo al cor si affondi

Dalla mia man questa lucente spada.

Il ciel balena ed a sinistra tuona.

O gran Rettor del fulmine,

L"augurio accetto, in mio favor tu sei.

Da questa tazza ognuno

Della vittima assaggi il sangue e giuri.

CARONE

Io giurerò primiero.

Gran Dei del Cielo, o santa Temi, o Giove,

E voi Numi d"Averno,

O Erinni, o della notte orrende figlie,

Vindici de’ spergiuri,

Come il sangue, che bevo, il mio si versi,

Se alla promessa io manco.

A te, mia patria, o mio gran Nume, il sangue

E ‘l viver mio consagro.

CONGIURATI

Di noi ciascun al giuramento è pronto.

Si beve e si giura.

SCENA SECONDA

SERVO, TELEFO e DETTI

SERVO

Signor, di Fillia un messo a te richiede

Parlar di grave e premuroso affare.

CARONE

Deh fa che venga. E qual novella mai

Potrà recar di nuovo?

TELEFO

È già palese… qual ruina, o Dei!

CARONE

Che mai tu rechi? che vuol dir l"affanno?

L"interrotto parlar? dì, su, favella.

TELEFO

La congiura è scoverta.

CARONE

La congiura è scoverta? o grande Alcide!

Come? chi fu? chi ne tradì? rispondi.

TELEFO

A’ tiranni la spia

La novella recò che dentro Tebe

La voce è sparsa, che venuti sono

Al tramontar del sol gli esuli armati.

CARONE

E sepper che in mia casa hanno ricetto?

TELEFO

Nulla sepper di ciò.

CARONE

Ed han sospetto alcun della mia fede?

TELEFO

D"essa, nissun sospetto.

CARONE

Grazie agli Dei, respiro. Il male è grande,

Ma non sì grave qual recato avevi.

PELOPIDA

Or qual partito prenderemo intanto?

CARONE

Ritorni in calma il core.

Non mancherà dal Ciel qualche consiglio.

SCENA TERZA

SERVO e DETTI

SERVO

Signor, batte la porta Polifonte,

Il capitan superbo della guardia

De’ tiranni di Tebe!

CARONE

Polifonte?

O misera mia patria!

Già siam d"armati cinti.

Pelopida, a perir tu sei venuto.

PELOPIDA

Morrò, se pure il Ciel così prescrive;

Ma invendicato e solo

Io non morrò, se ‘l mio valor non langue.>

A Polifonte acuto ferro in petto

Or ora immergerò.

CARONE

Frena il furor che t"agita la mente

E ‘l disperato ardir serba all"estremo.

Vediam che reca Polifonte. Amici,

Ite dentro a celarvi.

Tu, servo, fa che Polifonte venga.

SCENA QUARTA

POLIFONTE, CARONE

POLIFONTE

Leontida comanda

Che senza indugio alcun ora ti porti

Di Fillia in casa, ov"è raccolta tutta

La signoria di Tebe. Un grave affare

Si tratta; né tardar un sol momento.

CARONE

Ti è nota, o Polifonte, la cagione

Di tal grave premura?

POLIFONTE

La comune salute

In gran periglio è posta.

CARONE

Forse i nemici alle tebane porte

Or sono e dàn l"assalto?

POLIFONTE

Anzi i nemici son dentro la terra.

In Tebe si congiura: è certo omai

Che gli esuli venuti son d"Atene.

Ma più arrestarmi qui non debbo. Altrove

Grave cura mi chiama; affretta intanto

Il passo, né aspettar altra richiesta.

SCENA QUINTA

CARONE solo

CARONE

Che dubitar di più? La cosa è certa.

Sanno che in Tebe gli esuli già sono,

Che si congiura; io son chiamato e appunto

Per tal affare. È già palese il tutto…

In forza lor mi vonno

Per trar da bocca mia

De’ congiurati il numero e l"asilo…

Si vada pur e il lor pensier deluso

Sarà. Faccian di me spietato scempio,

Purché gli amici miei salvin la vita.

Di me si adempia pure

L"alto destino e ‘l gran voler di Giove…

Ma Polinice mio, diletto figlio,

Tu vittima cadrai de’ tuoi begli anni

Sull"alba e il genitor ti dà la morte.

Aspasia, Ismene, e voi sarete scherno

Di Tebe e de’ tiranni.

O pensiero! o tormento! Ah no, son padre

E sposo e non degg"io

Scordar sì sacri nomi.

Oimè che dico e parlo!

Ah no, si vada a morte.

Perisca il tutto: moglie,

Sorella e figlio e quanto ho caro al mondo.

La fé sia salva e l"amistà. Gran nume

Di un generoso cor, santa amistade,

E tu de’ miei pensier più dolce cura,

Mia cara patria, il sacrificio accetta.

Per te, se tutto io perdo, almen io viva

Nella memoria tua: un tal conforto

Mi fa dolce sembrar l"estremo fato,

Né mi spaventa nel più fiero aspetto

E terribil la morte.

SCENA SESTA

ASPASIA, POLINICE

POLINICE

Madre, perché tu piangi? e qual dolore

A sospirar ti muove?

Ma tu mi guardi e taci.

Deh parla, o Dei! m"affanni con quel pianto.

ASPASIA

Figlio, degli occhi miei più caro assai,

Lasciami in preda al mio tormento fiero.

Ah! tu mi uccidi, o figlio, e pur nol vedi.

POLINICE

In che ti offesi mai, diletta madre,

Qual cenno tuo posi in oblio? che feci?

Se mai ti spiacqui, involontario errore

Credilo, o genitrice.

ASPASIA

Taci, mio figlio, taci, io più non posso.

Tu mi laceri il core.

POLINICE

Perché dolente sei?

ASPASIA

Ah forse lo saprai con tuo gran danno.

Intanto parti e lasciami qui sola.

POLINICE

Ogni tuo cenno è mia sovrana legge.

ASPASIA

O sommi Dei! perché donaste voi

A me così leggiadro e nobil figlio,

In cui sovra l"età traluce tanto

Senno, valor e ogni virtù più rara?

Perché più vivo fosse il mio dolore.

SCENA SETTIMA

CARONE, PELOPIDA

CARONE

Pelopida, tardar senza sospetto

Io più non posso; partirò, ma voi,

In questi orti vicini stando ascosi,

Attenderete del destin l"avviso.

Se al mio morir l"irato ciel consente,

Fuggite, e resti a voi l"ardente cura

Di vendicar la patria.

Felice me! se del mio sangue solo

Sarà contento il fato

Ed a tal prezzo la mia patria acquisti

La libertà perduta.

PELOPIDA

O grand"eccelso eroe, in te d"Alcide

Il sangue scorre e ben palesi all"opre

Che in te l"erculea stirpe ancor germoglia.

Ma se tu cadi, o gran tebano, noi

Teco morremo e col nemico sangue

Vendicherò la tua grand"ombra e Tebe.

CARONE

Che! Pelopida, tu non ti rammenti

Il giuramento e il sacro, orrendo patto?

La vita or tua non è, ch"essa è già sacra

A Tebe: a lei te devi, a lei tu vivi.

Io lo dimando. E Tebe

Tel comanda: a miglior tempo ti serba,

Ché, se tu manchi, chi sarà per lei?

Tebe è caduta e la sua speme è morta.

PELOPIDA

Dovrò dunque sicuro il tuo periglio

Mirare e comprerò la vita mia

Col prezzo del tuo sangue?

CARONE

Chiama gli amici fuora. E tutti uniti

Ascolterete mie parole estreme.

SCENA OTTAVA

CARONE, ASPASIA, POLINICE

CARONE

In tempo giungi; l"ultimo congedo

Prendi, consorte amata.

ASPASIA

O Dei! che ascolto! che ferali accenti!

Qual voce orribil sul mio cuor rimbomba!

CARONE

Ora convien che in chiare, aperte note,

Aspasia, a te favelli.

Conosci dunque il gran disegno e l"empio

Destin che a terra sparse ogni mia speme.

A liberar la patria era rivolto

Ogni nostro pensier. Vicino il lido

Già n"appariva. Il Cielo, alle bell"opre

Nemico, suscitò nera procella

Che ne sommerge e in mezzo il porto affonda.

Scoverta è la congiura; il tutto è noto.

Polifonte a chiamar mi venne a nome

Del tiranno maggior nostro nemico.

ASPASIA

Oimè finito hai di tremar, mio core.

Or più non temi. Il male è certo. O Dei,

stagee contenti alfin? che più bramate?

O disperata donna! o miei furori!

Con ferro acuto chi mi passa il petto?

È pietà meco esser crudele e fiero.

CARONE

Che giova darsi al duol in preda? Il male

Acquista forza dall"altrui viltade.

ASPASIA

Ah! più ragion non ho. L"aspro martire

Ha tolto alla mia mente ogni vigore.

Tu me qui sola, e il caro unico figlio,

Abbandonata lasci e senza aita?

In preda al ferro ostile e in preda al fuoco

La tua magion, gli Dei Penati, il sacro

Letto genial tu lasci? ove l"antico

Tuo senno andò? qual Dio te l"ha rapito?

Qual Nume avverso nel furor ti spinge?

SCENA NONA

PELOPIDA, CONGIURATI, DETTI

CARONE

Della patria il destin e ‘l vostro ancora,

O del popol di Cadmo invitti eroi,

Sulla mia fé s"appoggia, unica base

Della comun salute.

De’ tormenti il timore, ovver d"impero

L"onnipotente stagee,

Deve a ragion render mia fé sospetta.

Siate sicuri pur: eccovi un pegno,

Il maggiore, che mai può darvi un padre.

Polinice mio figlio, unico figlio,

Sperato appoggio dell"età cadente,

Dò nelle vostre mani, caro pegno.

Vi segua pur: se tradirò la fede,

Se del mio sangue a pro comune avaro

Sarò, versate in lui del sangue mio

La parte la più pura e la più cara.

CARONE

Ah, Carone, t"arresta. Con tuoi detti

Dal seno il cor ne svelli e grave offesa

All"amistà ne rechi.

La tua virtù d"ogni sospetto è sgombra.

Con la sua madre il figlio tuo rimanga.

CARONE

No, venga pur con voi,

Almen perché valor e patrio zelo

Da tal maestro e in tanta scuola apprenda.

Se mai della Repubblica il partito

Vittoria avrà, sia dell"onor a parte;

E s"è nel Ciel prescritto

Che la tebana libertà perisca,

La cadente città con sue rovine

Il figlio e tutta la mia gente copra.

PELOPIDA

Se così brami, il tuo voler s"adempia;

Ma il ferro ostil non ferirà sue membra,

Se pria nel petto mio non si fa strada.

ASPASIA

Ahimè! son di me fuora. Adunque il figlio

E il padre insieme io perdo e senza figlio

E senza il mio consorte sola io resto!

Figlio mio, prega il genitor che senta

Pietà del mio dolor, che l"ostinato

Suo core a prieghi tuoi faccia cortese.

POLINICE

Deh, madre mia, non t"affannar di questo,

Lascia ch"io vada della gloria in traccia.

CARONE

O figlio mio, sangue de’ Dei, d"Alcide

Nostro progenitor degno germoglio,

Prendi forse da me gli ultimi baci.

O Dei! serbate a me tal figlio: e’ giunga

Carco di gloria nella età matura

E a più tranquilli dì serbatel voi.

Ma l"indugio si tronchi. Su partite,

Ché ad incontrar il mio destin mi affretto.

ASPASIA

Dove, crudel, ne vai? Tu me qui sola

Pensi lasciare? E dove il figlio mio

Senza di me n"andrà? seguir io voglio

Entrambi. Il petto mio riparo al figlio

Sarà contra del ferro ostile. O parte

Delle viscere mie, figlio mio caro,

Stringi al tuo petto la tua cara madre.

O leggiadro sembiante! o vaghe membra!

O bianco eburneo petto, o Dio! squarciato

E sanguinoso ti rimiro. Il seno

Ti veggio palpitar, l"ampia ferita

Versa di sangue un fiume. E a nome chiami

Tra singulti interrotti la tua madre.

Ah! spietato consorte, a qual mi serbi

Barbaro strazio, a qual crudel tormento?

POLINICE

Madre non pianger più. Di me gli Dei

Avran pietade e cura.

CARONE

Pelopida, tronchiam l"inutil pianto,

Ché l"affetto materno non ha fine.

E un sol momento può cangiar il tutto.

Partite: o Polinice, vanne. E resta,

Aspasia, e l"aspro duol saggia raffrena

PELOPIDA

Addio, Carone, al fianco ognor ti vegli

Un Dio che Tebe e i giorni tuoi difenda.

ASPASIA

Fermati, figlio, ferma.

POLINICE

O madre, addio.

ASPASIA

Non trattenermi… O Ciel… mio figlio… I lumi

È trattenuta da Carone

Aggravan d"Acheronte le profonde

Caligini. Vacilla il piè, si gela

E mi si stringe il core.

Sviene.

CARONE

Olà, guidate dentro

La padrona e porgete a lei soccorso.

Ah! qual ti lascio, o moglie,

Addio. Fato crudel, quando ti plachi!

ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

ASPASIA poi TELEFO

ASPASIA

Ah fermate, crudeli, non ferite,

Arrestate la mano, o il crudo ferro

Piuttosto in me volgete.

Ah! che non m"ode alcuno.

Già cade il ferro alato

Sull"innocente capo di mio figlio.

Volar già veggio l"asta

E aprir al mio Carone il petto e il core.

O Polinice mio, sei già tu morto!

Il tuo bel viso pallido si rese,

Come bel fior che vomere recise.

Sul bianco collo il biondeggiante capo

Già cade, ahi lassa! e gli omeri percote.

Misera madre! sventurata donna!

Ah barbari tiranni! ma più fieri

E più spietati Dei!

Deh che ragiono? ove son io? che dico?

Io vaneggio, deliro…

Ma viene in fretta Telefo. Ei serena

Fronte non ha. Su presto, o Nuncio infausto,

Morto è Carone, e Polinice mio?

TELEFO

Salvo è il consorte, e il figlio.

Giunse Carone, da’ tiranni atteso,

Nel cor premendo l"affannosa cura.

Parea qual uomo che ‘l suo fato estremo

Aspetta e fa sembianza che nol curi.

Ma ben tosto tornò sereno e lieto,

Ché l"affidò quel favellare amico

De’ tiranni, che alcun lieve sospetto

Non han di lui. Ben seppero che ascosi

Gli esuli in Tebe son e la congiura

Da lor si trami; ma la casa, in cui

Ascosi sono, è loro ignota affatto.

Anzi a Carone hanno adossato il peso

Di rintracciar la verità del tutto.

Il buon Carone e il saggio accorto Fillia

Han tentato sgombrar ogni timore

Dalla lor cieca mente.

Deh qual nemico, lor disse Carone,

Con finte nuove amaro tosco mesce

Ne’ più lieti momenti della vita?

Godete pure, io veglierò per voi.

E Fillia aggiunse fede

Col suo parlar a’ detti di Carone.

ASPASIA

O lieto Nuncio, inaspettata tregua

Tu rechi al cor, in gran procella assorto.

Ma come di leggier gli hanno creduto

In tanto grave affare?

TELEFO

Quando nell"onde del piacer sommersa

È la mente dell"uom, il tutto crede;

Ma periglio novello ne sovrasta.

ASPASIA

Ahimè che più mi apporti di funesto?

TELEFO

Le lettere da Atene son recate

In mano di Leontida;

E Fillia ebbe novella

Che dàn l"avviso dell"ordita impresa.

Hanno i tiranni spie per ogni parte

Ed in Atene molto più che altrove.

ASPASIA

Il tiranno le lesse?

TELEFO

Non già. Le pose in tasca, e al dì venturo,

Disse, rimetto i seri e gravi affari;

Benché premura dal corrier si fece

Ch"egli leggesse subito que’ fogli,

Come prescrisse l"ospite d"Atene

Che gli mandò l"avviso.

ASPASIA

Ah! mi ritorni nell"antico affanno.

Temo ch"ognor e’ legga

Il mio fatal arresto.

TELEFO

Perché nell"avvenir tu scerner vuoi

Sempre i tuoi mali? spera il bene ancora.

Chi sempre teme il male, o sempre spera

Il ben, del par s"inganna.

ASPASIA

Agl"infelici di sperar non resta.

SCENA SECONDA

POLIFONTE, TELEFO

POLIFONTE

O Telefo, la sorte a me ti guida

Incontro ed opportuno qui ti trovo.

Tu puoi coll"opre agevolar l"affare.

TELEFO

In che poss"io giovarti?

POLIFONTE

Già sai che il mio signor arde e delira

Per Ismene, né aver potrà mai pace,

Se possessor non diverrà di lei.

Quant"ei però l"adora, ella l"aborre,

Ché donna non si attiene a ben verace.

Or tu, che sei d"Ismene

Amico, l"ostinato

Suo cor alla ragion sommetti e piega.

TELEFO

Ma se quella l"aborre, perché mai

Tu nol consigli a discacciar dal petto

L"insano ardor? Che stolto è l"uom che brama

A donna unirsi, che il disprezza ed odia.

POLIFONTE

Al mio signor di giovamento sono

Tai nozze. Può l"affinità novella

Sulla sua fronte stabilir per sempre

Il diadema regale.

Grand"è Carone in Tebe e per ricchezze

E per favore popolar potente.

Ond"io nutrisco quell"ardor che serve

Al suo poter, che me fa grande ancora.

TELEFO

Fabro dunque tu sei delle catene,

Onde la patria ingrato figlio stringe.

POLIFONTE

Il suo vantaggio io bramo. Un sol padrone

È meglio aver che mille.

TELEFO

In libera città solo la legge

Sovrana impera e tutti son soggetti,

Né quivi serve, né comanda alcuno.

POLIFONTE

Dura è la legge e nulla scerne ed ode,

Né per pregar dal suo voler si torce;

Ma presso del signor grazia e favore

Può ritrovar chi "l chiede.

TELEFO

Altrui chi dà favor, cogli altri è ingiusto,

Né dritti uguali a ciaschedun dispensa;

Onde n"avviene ch"altri abbondi ed altri

Ingiuria soffra e in povertà ne gema.

POLIFONTE

Sono a’ mortali varie sorti fisse

Al nascer di ciascun, come la Parca

Di ferro o d"oro quelle ognor comparte.

Di grandi e di potenti

E della plebe per servir sol nata

Convien che la città composta sia.

Se tu salir in più sovrana parte

Brami, d"Ismene al cor gelato ispira

Fiamma pel tuo signor.

TELEFO

Al mio dovere

A tempo adempirò. Ma qui ne viene

Ella medesma, tu potrai con lei

A pro del tuo padron oprar ogn"arte.

SCENA TERZA

ISMENE, POLIFONTE

ISMENE

Qual oggetto funesto? del tiranno

E della morte il fier ministro io veggio

A rinnovar del cor la mia profonda

Ferita; e che ti porti, o Polifonte?

Ad insultar al mio dolor estremo

Forse tu vieni? appien non è contento

Il tiranno in formar l"altrui miseria,

Se non prende piacer del mal che fece

E non si pasce ognor del pianto amaro

Degl"infelici oppressi.

POLIFONTE

Ismene, e quando al tuo dolor dài freno?

Infido consigliero è fero sdegno.

A più mite pensier il tuo bel core

Alfin dia loco, e meglio il merto stima

Di chi ti adora e in sommo pregio tiene,

Ed al tuo piè la sua grandezza e ‘l fasto

E ‘l suo poter depone.

Chi di Tebe è signor, d"esser tuo servo

Non si disdegna e schiva.

Deh non sprezzar la sorte, ora che t"offre

Il crine; ella sdegnata

Il piè lontano porterà, se tardi

A stringer il suo dono.

ISMENE

Il mio dolor e l"aspra pena mia

Non avrà fine e l"odio del tiranno

Mi seguirà per anco nella tomba

E nel regno dell"ombre e della morte.

Né per altro mi piace che gli estinti

Abbian oltre l"avello e spirto e senso,

Che per nutrir etern"odio nel seno

Contra dell"assassin dell"infelice

Svenato sposo. Ahi misero mio sposo!

Sposo diletto, vittim"innocente

Del barbaro furor d"un mostro infame!

POLIFONTE

Tergi le belle lagrime e sereno

Torni col ciglio il cor. L"umane cose

Hanno termine e fin. Soverchio pianto

Hai tu finor versato.

Condona alfine un amoroso eccesso

Al tuo fedel Leontida. Un trasporto

D"amor merta perdono; e dal trasporto

Estima l"infinito amor, che nutre

Per te quel fido amante.

ISMENE

Amor d"ogni odio assai peggior! Deh pera

Il dì che piacqui agli occhi suoi. Deh fossi

Io stata all"empio il più ferale oggetto.

Infelici sembianze! del mio bene

Omicide crudeli, oh ree sembianze,

Se voi piaceste al perfido tiranno.

POLIFONTE

Non vidi mai al par di te nell"odio

Donna ostinata. Tigre, cui rapita

Dal cacciator fu la diletta prole,

Tranquill"ancor diviene e la natìa

Ferocia ha tregua e posa.

ISMENE

Deh Polifonte, alfin lascia l"impegno

Di mitigar l"acerbo mio pensiero.

Il mio dolor e l"odio al par saranno

Eterni in me. Lor esca eterna e cibo

Sarà questo mio petto.

POLIFONTE

Né ti lusinga lo splendor e ‘l fasto

Della sorte superba, a che t"invita?

ISMENE

Anzi m" irrita più, più faci aggiunge

All"odio mio, al mio mortal cordoglio.

POLIFONTE

Né l"ire tu del tuo signor paventi?

ISMENE

E che deggio temer? Chi si dispone

Morte a sprezzar, più nulla al mondo teme.

POLIFONTE

Deh superba, ti vanta a tuo talento

Di questa tua ferocia. Ben favella

Tu cambierai fra poco. Il tuo germano

Ne pagherà la pena.

Il suo sangue vedrai correr in rivi.

Allor palese fia se mai sereno

Il guardo tuo vedrà Carone estinto

E nel sangue del padre il figlio ucciso

Nuotar bagnato e immerso.

ISMENE

Come! Carone! che peccò? che fece?

Ei fia punito dell"altrui demerto?

Non è del tuo signor il crudo ferro

Sazio di stragi ancor? senti, t"arresta.

POLIFONTE

I sensi tuoi al mio signor riporto.

ISMENE

Polifonte, pietà di un"infelice,

Se del mio sposo mi privò la sorte,

Del mio germano non mi privi ancora.

POLIFONTE

Ma tu cangia pensier, deponi il folle

Orgoglio e quei feroci alteri spirti,

E il tuo Carone alla tebana gente

Signoreggiar vedrai.

ISMENE

Dona al dolor un giusto tempo almeno.

Poch"ore al pianto ho date. Il tempo porge

Maggior conforto che de’ saggi i detti.

POLIFONTE

Deh leggi questo foglio, egli ti appresta

Un conforto miglior che il tempo istesso.

Ismene legge il foglio.

ISMENE

Oh qual ardir! che pensoexcl che rispondo!

POLIFONTE

E ben risolvi… Ismene.

ISMENE

Leontida contento

Sarà: ne venga. Io spero che conceda

Qualche tempo al mio duol; e alla ragione,

Saggio qual è, pur ceda.

SCENA QUARTA

POLIFONTE solo

POLIFONTE

O delle donne instabil mente e inferma!

Di orgoglio e vanità quanto ricolma

Tanto leggiera e frale.

Quando si abbassa l"uomo e prega ed ama,

Nol curi, anzi lo schivi.

Quand"ei ti sprezza, l"ami e, se minaccia,

L"adori e al suo piacer tutta t"inchini.

Bontà, valor e cortesia non pregi;

Il buon non curi ed il malvagio onori.

Con te dunque convien che l"uomo adopri

Inganno e frode e reo costume ognora,

Se di piacerti brama.

Ecco costei, che sì feroce prima

E a tanti preghi si mostrò sì altera,

Ora cangiata in un momento solo,

Mansueta e umìle al minacciar divenne.

Stolta! vedrai fra poco

A che ti adduce tua sciocchezza estrema.

Il piè già tieni nell"ordito laccio.

SCENA QUINTA

ISMENE sola

ISMENE

Ombra diletta dell"amato Emonte,

Ombra onorata e cara,

Non ti sdegnar se ancor io resto in vita

E nel soggiorno dell"eterna notte

Ancor non scesi per unirmi teco.

L"anima mia seguì già l"orme tue.

Tu l"hai menata teco;

E queste membra muove e solo avviva

L"ardor della vendetta. Io spero

Ormai placarti coll"infame sangue

Del tiranno, cui voglio di mia mano

Strappar dal seno il core

E trapassarlo con pungente ferro,

Per fin che alle ferite vi sia loco.

O fido servo, fa che spento sia

comparisce il servo e spegne il lume

In queste stanze il lume;

Quando verrà Leontida, introdotto

Che sia qui dentro. Numi ognor tremendi

Della profonda notte, Ecate e Pluto,

Non mi negate il vostro gran soccorso,

Voi fate che nel core del tiranno

Io tinga questo ferro.

Creder deggio che voi

Spiraste sol la furiosa mente

All"impuro ladrone, acciocché paghi

Le meritate pene.

Spinto dall"ebria ed impudica fiamma,

Mi fa saper che tacito fra poco

Ei qui sarà per abboccarsi meco.

Forse lo stolto crede all"onor mio

Recar un"insanabile ferita.

Or voi donate nuovo,

Insolito valor a questo braccio,

Che gli trapassi il seno. Il denso buio

Aggio maggior darammi al gran disegno.

SCENA SESTA

EMONTE indi ISMENE

EMONTE

O tenebrosa notte! o tetro buio!

Qual profondo silenzio

Che spira orrore ed un feral spavento!

Non son pur queste le dilette mura

Che sì liete rendea quel caro viso?

Ov"è quel loco amato,

In cui sì dolce sospirai d"amore?

Non trovo più l"amabile soggiorno

Della mia bella dea.

Non odo o veggo alcun, né so novella

De’ congiurati, di Caron, di lei.

Che fia di loro, o Cielo!

Ella mi crederà per certo estinto;

Ché, fuor di Fillia che salvò mia vita,

Ognun morto mi crede.

Quante lagrime avrà da suoi begli occhi

Ella versate ognora?

De’ suoi sospiri è questo aer cocente

E parmi udire ancor da questi marmi

Ripetere le flebili sue voci.

Ismene, dove sei?

Di rivederti impaziente ormai…

Odo romor… occulterommi in questa

Parte per ascoltar qualche novella.

Si pone nella parte più rimota dal proscenio.

ISMENE

Ecco il tiranno, capitò nel laccio.

Ismene nell"uscire vede Emonte e lo crede Leontida.

Dal regno degli estinti

in voce più bassa

Odimi, o caro sposo;

Questa vittima accetta,

Che ti offre la fedel misera amante.

L"amor fu la cagion della tua morte,

Vendicator ne sia l"istesso amore.

Numi, guidate il braccio mio… Ma quale

s"incammina e poi si arresta

Forza trattiene il piè?… Trema la mano!

Sento i miei passi indietro

Respinger da poter celato. Fia

Tema che adombra il cor. Ah no, si vada

E beva il ferro del crudel il sangue.

EMONTE

Qual cheta voce ascolto

E tacito sussurro?

ISMENE

Ei vien incontra… O caro…

Muori malvagio…

Alza per ferir la mano.

EMONTE

Ismene?

Si arresta in quell"atto, sentendo la voce d"Emonte.

ISMENE

Emonte? eterni Dei!

SCENA SETTIMA

CARONE, SERVO con lume e DETTI

CARONE

Che veggio, Emonte vivo!

Ismene in atto di passargli il core!

Che strani avvenimenti il Ciel destina!

EMONTE

Qual fallo mio meritò tant"ira?

Che mai ti feci, Ismene?

ISMENE

Ah, caro Emonte mio, perdona questo

Involontario error. Tu vivi ancora?

Né ti fece svenar l"empio tiranno?

EMONTE

A Fillia diè la cura che di vita

Mi facesse privar; l"amico finse

Eseguito il comando e ‘l fier tiranno

Sicuro è di mia morte.

ISMENE

O Ciel! a qual eccesso il braccio mio

Ora portavi? vendicar lo sposo

Volendo, io stessa gli squarciava il petto.

Ah qual orrore nel pensarci io sento!

CARONE

E qual d"un tanto error fu la cagione?

ISMENE

Leontida, di vino e d"impudico

Amor ardente, mi cercò secreto

Abboccamento ed io

Qui lo trassi a venir, acciò tra l"ombre

Svenar potessi quell"orribil mostro.

E fui nel punto (ahi sollevar mi sento

Le chiome tutte) di passar il core

Al mio diletto sposo.

CARONE

Oimè! quest"accidente può turbare

La nostra impresa. D"affrettar fa d"uopo

Pelopida, ché parta in questo istante.

SCENA OTTAVA

EMONTE, ISMENE

EMONTE

Ismene, addio, qui restar non posso.

Al gran cimento l"amistà, l"onore

E Tebe ancor mi appella.

Conservati, ben mio.

Ah! se l"estrema volta, o Cielo avverso,

Mi concedi mirar quei cari lumi,

Onde il bel foco spira, il qual avviva

Ed anima il mio core,

A suoi begli anni aggiungi

Il numero de’ giorni

Che toglie a me l"inesorabil Parca.

Mia cara Ismene, addio.

Io nella tomba porto

La bella fiamma mia, onde arsi al mondo.

Idolo amato, a te sovvenga pure

Talor della mia fede….

Ma tu piangi, mia vita, e coi sospiri

E con singulti mi rispondi solo?

ISMENE

Ah! caro Emonte… oh Dio!

Ahi! tosto che la sorte mi ti rende,

Io ti perdo di nuovo.

Il Ciel forse per sempre ne divide;

Né ti vedran mai più questi occhi miei.

EMONTE

Ahi! qual assalto fiero, Ismene, or movi

A mia virtù, ch"amor si vede a fronte.

Tutte di lui le tenerezze e l"armi

Tu chiami in campo ad opportar la guerra

Alla mia gloria e al mio dover geloso.

Io parto. Ismene, addio.

ISMENE

Ah no, ti arresta, o sposo. Incontro a morte

Tu porti il piè. Ti ferma.

EMONTE

Se fosse mai nella fatal bilancia,

U‘ son le sorti del mortal librate,

Sospesa da una banda la mia morte

E dall"opposta eterna immortal vita,

Unita al biasmo di lasciar la patria

In tal periglio, un sol momento avrei

Rossor di bilanciar sul mio destino.

Alla mia patria io deggio

La vita, che ad usar solo mi diede.

Il sangue, che mi scorre nelle vene,

Non è suo dono? Spirto,

Del viver mio motor non è quest"aura

Che della patria da bei colli spira?

Gli avi vetusti, donde vita io trassi,

Non son di questo suol natìo germoglio?

S"aprì la fertil terra

E di Cadmo cacciò la fera gente,

Che abitò prima le tebane mure.

Deh lascia pure, Ismene,

Se nel volume del destino è scritto

Che alla mia patria io renda il proprio dono.

ISMENE

Qual Dio parlò col labro tuo? qual Nume

Tutelare di Tebe ne’ tuoi detti

Tonò? qual foco e qual ardor io sento

Destarmisi nel seno?

Ah! potess"io gravar le bionde chiome

Con lucido cimiero e armar il mio

Tenero petto di lorica e l"asta

Trattar con mano ardita

E qual Pentesilea sul Termodonte

Di sangue ostile insanguinar il campo.

Per la mia patria terra

Affronterei la morte

E teco avrei comun gloria e periglio.

Ma la natura o ‘l reo

Costume fu nemico al nostro sesso,

Che ne ristrinse tra di anguste mura;

E l"ingegno e ‘l valor vi chiuse ancora.

Deh vanne tu, dove si rota il brando,

Ché ‘l petto mio sarà campo di guerra,

Ove sarà più cruda aspra tenzone.

EMONTE

Son queste voci di tebana donna,

Sorella di Carone e sposa mia.

Figlia di Giove, Pallade Minerva,

O mia gran Dea, proteggi chi cotanto

A te somiglia e fa ch"io torni degno

Di questa eccelsa e gloriosa donna.

ATTO QUINTO

SCENA PRIMA

CARONE all'altare

CARONE

Onnipotenti Dei, che proteggete

Il popolo di Cadmo, o de’ tiranni

Sterminatori eterni,

Figlia di Giove, o Pallade tremenda,

Apollo, cui l"argenteo arco risuona

Sugli omeri divini, voi drizzate

I dardi e l"aste ultrici

Contra i tiranni della patria mia;

E sotto il tuo gran scudo, invitta Dea,

I generosi eroi

Della lor patria vindici difendi.

SCENA SECONDA

ASPASIA, CARONE

ASPASIA

Chi m"arreca o la vita o la mia morte?

Né alcun ancor qui viene?

Che affanno in aspettar l"incerto evento

Del dubbio Marte io provo!

Forse il timor del male

È più penoso dell"istesso male.

CARONE

Spera nel Cielo e nel favor de’ Dei.

ASPASIA

Le speranze nel Ciel e i caldi prieghi

Spesso coll"uom restar nell"onde immersi.

Né varco alla speranza apre quel fosco

Caliginoso orror ch"intorno al core

Stammi, onde presenti ognor mi sono

Forme d"orror, immagini di morte.

Parmi mirare ognor i tetti antichi

E queste mura di sanguigne fasce

Aspersi e tinti intorno.

Io vidi l"are de’ Penati Numi

Tremar co’ santi simulacri tutte,

E spumoso sudar e vivo sangue.

Deh guarda pur la tremula facella

E torbida di questi accesi lumi.

Odi l"orrende e spaventose voci

Che mandan fuor l"antiche oscure tombe,

Ove sepolti son i padri e gli avi

Che ne chiaman con loro.

Il figlio già riposa entro le braccia

Dell"ombre de’ Maggiori. Noi verremo,

Ombra del figlio mio,

Nell"eterna magion fra pochi istanti.

CARONE

Ah! che ‘l timor nell"animo ti pinge

Immagini fallaci di spavento.

Qual uomo spera o teme, tal figura

Le cose nella mente;

Ma agli occhi suoi perpetuamente annotta

E denso velo l"avvenir ricovre.

L"invincibil destin ha quel celato

In un eterno impenetrabil buio

E al misero mortal ognor conteso.

Ben il migliore di sperar ne giova.

Così, se accade, è dimezzato il male,

Siccome è doppio il bene.

ASPASIA

Vani pensieri! inutili conforti!

Ma vien qualcuno… o pur m"inganno? è vero.

O Polinice! o Numi!

SCENA TERZA

POLINICE, ISMENE e DETTI

POLINICE

Liete novelle, o padre mio, ti arreco:

Archia è già caduto e i suoi compagni

Sono in un mar del proprio sangue immersi.

CARONE

Grazie vi rendo, o Dei!

ISMENE

O Polinice, che mai fu d"Emonte?

POLINICE

È salvo il prode Emonte.

CARONE

Narra per ordin tutto, o caro figlio.

POLINICE

Nelle casa di Fillia ogni uscio aperto

Trovammo e senza servo alcun di guardia,

Ché Fillia con accorto modo avea

Indi rimossi tutti.

I tiranni giacean su i letti stesi

E sdraiati, dal vin oppressi e domi,

Aspettando le donne e con la mente

Anzi tempo il piacere divorando.

Quindi primier Pelopida tra quelli

Si lanciò, nell"aspetto a Marte uguale.

Siccome un pardo, che la fame punge,

Vede la cara preda e in un si avventa

Su quella sbigottita:

E con empito tal la spada al fianco

Spinse a Filippo, che passò dal lato

Opposto il ferro e giunse l"elsa al corpo.

S"alzò quell"infelice e cadde poi

Su la mensa di nuovo; e tazze e tutto

Andò sossopra e rovesciossi al suolo.

Scorreva il vivo sangue in rivi e al vino

Misto scorreva ed urla al ciel tremendi

Il moribondo tra rotti singulti

Mandava, alto fremendo, come toro

Innanzi all"ara, che ferì nel collo

Con lieve offesa il timido Ministro,

Cade mugghiando al suolo e si rivolge

Fra ‘l proprio sangue e minacciar non cessa.

Allor di spade lucide e taglienti

Un lampegiar fu visto in un baleno.

L"orror, la morte con sanguigna face

Quivi scorrea d"intorno.

Ognun de’ congiurati

Ne’ tiranni immergea

Ferro di sangue sitibondo e ingordo.

Emonte allora, qual leon feroce

Che ‘l cacciatore leggiermente offese,

Tra quelli si scagliò, facendo strage

E gridando: di Tebe alla vendetta

Io vi consacro, perfidi tiranni.

Ma il crudo Archia terribile ben tosto

Cacciò la spada ed a ferir i nostri

Lento non fu. Gli amici

Di questo, insiem raccolti,

Arditi incominciaro a far difesa.

Allora il valoroso e forte Emonte

Si strinse con Archia in fiera pugna

E questi furioso

Un rovescio tirò sul nudo capo

D"Emonte…

ISMENE

E l"ha ferito?

POLINICE

Ismene, no,

Ché nel mirar l"amico in tal periglio

Mi sospinsi da lato a quel crudele

E con ambe le mani il braccio tenni.

ASPASIA

O caro figlio, palpito di affanno.

POLINICE

Di sprigionar tentò l"avvinto braccio,

Ma invan tentò, ché l"amistade infuse

Insolito vigor alle mie membra.

Ei che si vide il braccio così stretto,

Ardendo d"ira, il suo pugnal si trasse

E con la manca me ferir volea.

Ma Pelopida, occorso al maggior uopo,

Con un fendente gli troncò la mano

Del pugnale. Stringeva ancora il ferro

La man, che al suol guizzava, e quegli ancora

Di combatter non resta; e il braccio versa

(Orribile spettacolo!) di sangue

Torrente, e l"empio il Ciel bestemmia e Dio.

Pelopida sdegnato alzò la voce:

E troppo, disse, al tuo destin contrasti;

E in così dire fulminò sul capo

Di quel malvagio un sì feroce colpo

Che insino al mento lo divise, e cadde

Del tiranno di Tebe il grave tronco.

Archia al suol caduto, ognun rimase

Estinto e questo fin ebbe ciascuno

Ch"empio la patria sua serva si rese.

CARONE

Ma del crudel Leontida novella

Tu non mi rechi, o figlio?

POLINICE

Poc"anzi egli di là si era partito.

CARONE

Il maggiore nemico oimè! ne resta.

Se fia salvo Leontida, ogni nostra

Fatica al vento è sparsa.

SCENA ULTIMA “QUARTA‘

LEONTIDA e DETTI “poi POLIFONTE e PELOPIDA“

CARONE

Ecco il tiranno, su, mio cor, valore.

Cedi sei morto…

Carone tira il ferro e va sopra Leontida.

LEONTIDA

Traditor, ti resta

Molto da far per superarmi ancora…

Leontida si disbriga da Carone e si pone in difesa e battonsi.

ASPASIA

O Dei! soccorso… aita…

CARONE

Lascia l"inutil ferro… mori, e tardi

Impara de‘ tiranni il fin prefisso.

Carone vince il ferro a Leontida.

LEONTIDA

I miei compagni ne faran vendetta.

CARONE

I tuoi compagni preceder tuoi passi.

Ombre gementi attendon il lor duce

Nella torbida sponda d"Acheronte.

POLIFONTE

Ma vi son io. Ti arresta; o Polinice

Sugli occhi tuoi ti sveno.

Polifonte, che viene, pone uno stile alla gola di Polinice e colla sinistra lo tiene stretto.

CARONE

O Fato, avverso ognora!

ASPASIA

Ah Polifonte, ferma.

POLIFONTE

Aspasia si muove verso Polifonte.

Se t"accosti, ferisco.

ASPASIA

Figlio, misero figlio!

Aspasia si arresta.

POLIFONTE

Caron, sciogli Leontida

O vibro al seno il ferro.

CARONE

Servo malvagio di un tiranno iniquo,

Contra la patria l"armi empio tu movi.

POLIFONTE

Il tempo vola. Ferirò, se tardi.

ASPASIA

Ah, Carone, pietà del figlio tuo.

Figlio, misero figlio…

Crudel, arresta il braccio.

Ecco il mio petto nudo.

Aspasia s"incamina di nuovo verso il figlio e poi si arresta.

POLIFONTE

Ferma. O l"uccido. E tu, Caron, risolvi.

CARONE

Ah figlio! o Polinice!

O patria! o sacra fede!

Provvidenza del Ciel, o vano nome!

POLIFONTE

Ecco, ferisco.

Accenna di ferire.

ASPASIA

No, t"arresta, o Dio!

Ah barbaro, crudel, sposo inumano,

E tu permetti e vuoi

Che sia svenato il caro unico figlio

Sugli occhi della madre?

Numi, Caron, pietà… Misera madre!

LEONTIDA

Polifonte, ferisci. Io moro lieto,

Facendo anco tremar l"eroe di Tebe.

CARONE

Viva la patria. Tu ferisci, e mori,

Empio tiranno.

Carone ferisce Leontida e costui cade.

ASPASIA

O Ciel! soccorso

Giunge Pelopida, trattiene colla sinistra il braccio di Polifonte e colla dritta lo ferisce

PELOPIDA

Mori.

e questi cade.

POLIFONTE

Io manco.

LEONTIDA

Invendicato io moro… empio destino.

CARONE

O Dei pietosi! O figlio mio! Carone!

CARONE

Stolti mortali! La celeste mano

È più vicina, allorché men si vede.

FINE