GRISAGLIA BLU
Sergio Velitti
Antonietta Gavone, vedova Cairano è una donna di 35 anni: quando è festa e si lava e si pettina è bella, prosperosa. Fa venire delle idee agli uomini, ed essa stessa se ne compiace. Se ne è compiaciuta chissà quante volte se in cinque anni dal matrimonio ha dato a suo marito quattro figli, aggiungendo ai suddetti figli tre fratelli nei restanti sette anni di vedovanza che seguirono e precedettero il giorno in cui... Tre altri figli dicevamo, di cui due morti all'atto del parto. I due morti erano, nel caso, gemelli. La disgrazia si potrebbe spiegare tenendo presente che i due gemelli vennero alla luce, e al buio contemporaneamente, un venerdì 17 e che l'ostetrico di turno alla maternità dell'Ospedale dei Pellegrini aveva il sintomatico nome di Buonaventura. Di quella sfortuna di allora Antonietta Gavone conserva ancora le tracce nel viso, precisamente all'angolo della bocca: una riga sottile, nemmeno una ruga, una smorfia. Ma sembra una cicatrice. Quando non si pettina e non si lava Antonietta Covone ha l'età dei dolori che la affliggono, se è fame sta rattrappita, se è sonno, stanchezza, le si arrossano gli occhi come a una centenaria. Le condizioni di spirito e di stomaco agiscono su di lei in modo palese, tangibilissimo, il suo aspetto ne rimane sconvolto e deformato. Figuriamoci adesso. Si discute al Tribunale di Napoli, seconda Sezione, Presidente Federico Innominato, Cancelliere Giuseppe Schirò, una causa contro di lei promossa dallo Stato per avere ella avvelenato me-diante veleno per i topi i suoi cinque figli. Il fatto ebbe luogo un pomeriggio di domenica, esattamente il 14 agosto 1952. La Cairano, nonché Antonietta Gavone, risultò alla perizia psichiatrica sanissima di mente, onde scartata da parte della difesa la possibilità di reclamare per la sua protetta e imputata lo stato di infermità mentale, pur considerando possibili le attenuanti generiche (ma quali? Avvelenare cinque figli: che scherziamo?), e risultando inoltre la predetta tutt'altro che incensurata avendo essa anni prima insultato e aggredito un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, si addiviene facilmente alla conclusione che la condanna a vita per la predetta signora, non esistendo in Italia la pena di morte, è quanto di più probabile le possa venir comminato. Sentiti i testimoni, ascoltate le richieste del Pubblico Ministero, udita con scettica attenzione l'arringa del chiarissimo dott. Maione, avvocato d'ufficio, il Presidente dott. Innominato prima di dare lettura della sentenza ha appena doman-dato alla signora Antonietta Covone, vedova Cairano, se essa « ha qualcosa da dire prima che la sentenza venga dichiarata »...
Antonietta Gavone: (al Presidente) Sissignore, sissignore tengo proprio qualcosa da dire. (All'avvocato difensore) Avvocà voi avete finito... che dite? potrei compromettere? E che cosa? Più compromessa di cosi e poi quello... scusate volevo dire « quello il presidente » non « quello » cosi, generico. Quello il presidente ha domandato se Antonietta Gavone, vedova Cairano, aveva qualcosa da dire prima di udire la sentenza. Antonietta Gavone, vedova Cairano, sono io o mi sba-glio? Sono io si, si. E io, se permettete, qualche cosa da dire la tengo,.. (È interrotta dal presidente, che evidentemente si rivolge all'avvocato difensore) ...avete sentito? Il presidente ha detto che è mia facoltà. Io me ne sono stata buona durante tutto questo processo perché tenevo il difensore d'ufficio che poveretto quello che ha potuto dire l'ha detto e poi perché qua a cominciare da voi signor presidente stavate tutti cosi preoccupati di questo fatto mio, che io, scusate, e come mi potevo permettere di di-sturbare? Certe volte ce ne ho avuta proprio voglia di parlare... una voglia preside... quel giornalista me lo sarei mangiato... (È richiamata.) Com'è?... non lo posso dire che il giornalista me lo sarei mangiato?... È giusto, preside, mancherebbe... voi siete il padrone. E poi arriseccuto com'era... avete ragione voi: è meglio che il giornalista non me lo mangio... (E’ richiamata.) No... no... non divago... i fatti? Come no? Però una cosa io la devo dire subito sennò schiatto... schiatto nel senso che scoppio. Qua, circa questa faccenda mia se ne sono dette di fesserie... (È richiamata.) ...fesserie non va bene? (Ripete le parole del presidente) « Inesattezze caso mai » dite voi? E va bene. Inesattezze caso mai. Ah, inesattezze e basta? Senza caso mai? Per l'amor di Dio se è per fare un piacere a voi... a me mi pareva che fesserie era più sbrigativo.
Dunque io tengo cinque figli e questo ormai lo sanno pure i muri del tribunale. Ma bisogna che mi rifaccio i conti pure io. Prima è nato Michelino, un anno dopo è nato Francesco, poi per tre anni niente, mio marito non ne voleva sapere... mi mancò pure quel conforto, sapete ogni tanto uno si ricrea... e se pure deve nascere un figlio, pazienza. E poi non è detto. Gesù. Ma quello mio marito diceva « io attento non ci so stare »... per tre anni niente ma proprio niente... che so un tentativo... mio marito quann'era 'a sera usciva e tornava tardi che io m'ero addormentata. Ormai non ci pensavo quasi più quando una sera mio marito che è che non è mi disse « Antonietta mia e tu ti sei fatta più bella... » ...questa volta Luigino e Giuseppe tutti e due assieme. Belli, parevano due garofani, poi, chi sa fu lo sforzo, io non l'ho potuto capire, mio marito mori. Voi dite e il quinto figlio... come fu che?... Il fatto è che a casa nostra ci abitava pure il fratello di mio marito, mio cognato Eduardo. Un tipo fine: sapeva parlare. Lui mi convinse. Diceva sempre « a mio fratello stai sicura che non gli dispiace » e cosi Pasquale e Gaetano. Nacquero e morirono. Fu un colpo brutto, preside. Ma quello l'ostetrico si chiamava Buonaventura. B-u-o-n-a-v-e-n-t-u-r-a... mi spiego? Figuratevi voi è robba che quando quello passava per le corsie dell'ospedale la gente moriva cosi spontaneamente... (È richiamata.) ...com'è. Nemmeno questo posso dire?... diffamazione? Può essere. Comunque il fatto rimane. Pasquale e Gaetano morirono... fecero uè uè... quello Buonaventura disse « signora due bei maschietti » e quelli, i due maschietti, diventarono angeli di Nostro Signore. (Ci ripensa.) Può essere perché quel giorno veniva di venerdì diciassette, ma insomma (improvvisamente drammatica) una madre una scusa la deve trovare sennò che fa... bestemmia? Mi rimisi. Mio cognato una sera, tale e quale a mio marito, mi disse « Antonietta mia e tu ti sei fatta più bella... » Io niente. Dura, presidè. Un sasso. Rispondevo « Eduà, tu non hai capito: quello, mio marito, ha fatto la vendetta sua.» Poi... una sera... i figli miei, quelli che avevo fatto prima, dormivano. Stavamo a marzo... faceva già un po' di caldo. Eduardo s'era fatta una grisaglia nuova... precisa alla vostra, cancelliè. Mi portò pure due bignè col liquore... a me i bignè mi piacciono. Dissi : « Eduà, uno me lo mangio e uno lo stipo per i bambini »... me li mangiai tutti e due e chi sa come fu... Eduardo teneva una voce, con quel vestito mi pareva un signore e i signori uno non li può contraddire. E cosi nacque Raffaele, l'ultimo. Fino a qua tutto bene. È vero che tenevo cinque figli da sfamare, ma Eduardo teneva premura: una sera un po' d'olio, una sera i fagioli... io poi vendevo le sigarette... male non stavamo. Oddio qualche volta mi pigliava la finanza e io per due giorni le creature mie le dovevo lasciare a quella del piano di sotto che è venuta pure qua a testimoniare. Ha detto che io trascuravo i figli miei. Io non trascuravo, presidè, la cosa è diversa. Io lavoravo. Anzi faticavo perché le sigarette le dovevo andare a prendere da un vicino a via Roma che teneva un negozio di scarpe... (A una domanda capziosa del Pubblico Ministero) ...come si chiama?... non mi ricordo. E ci mancherebbe... quello è tanto una brava persona e io lo vengo a inguaiare... come?... io lo so che era una attività illecita, ma io tenevo cinque figli. Mi sentivo autorizzata. Insomma il tempo se ne passava in grazia di Dio, poi, una sera Eduardo venne a casa; stava disperato. Disse che lo cercavano per un fatto di pomodori... un camorrista di Acerra... (Nuova capziosa domanda del Pubblico Ministero, o del Presidente.) ...Chi è?... Io vi racconto i fatti ma i nomi non me li ricordo. Per i nomi io ci sto' negata. Eduardo se ne dovette scappare a Milano dove ci stava un amico suo che gli faceva il passaporto falso per la Francia e non mi domandate come si chiamava questo amico perché pure di quello io il nome non me lo ricordo proprio. E cosi mi mancò quel conforto di Eduardo e pure l'aiuto che mi dava. A questo punto mi si ammalò Rafieluccio. Va truvanno 'e medicine, 'o dottore. Io tenevo un paio di catenelle d'oro. Una a 'o farmacista, una a 'o dottore... e Rafieluccio guari, ma gli era cresciuta una fame, una fame... era il più piccolo e mangiava quanto gli altri messi insieme. Questa volta il dottore lo dovetti chiamare perché Rafieluccio stava troppo bene : venne il dottore e disse « Signo', questo deve crescere. Dategli banane e cioccolata. » 'E capito? Io ci riflettei! : quello, Rafieluccio mio, era venuto al mondo quella sera che Eduardo teneva la grisaglia blu uguale alla vostra, cancelliè. Insomma era stato signore sin dal primo momento e come un signore voleva campare. Io m'ero pure mangiata due bignè quella sera e il figlio mio giustamente che doveva pretendere cipolle e patate? Nossignore, banane e cioccolata. Io a certe cose ci penso: quello che è giusto è giusto. 'E va truvanno tutte 'e juorne quella grazia di Dio.
Cominciarono i debiti, gli impegni: Presidè, scusate, a voi quanto vi costa una carta di mille lire? Mille lire, no? A me mille lire mi costavano mille e due, milletre... gli interessi. Michelino il più grande non mi dava troppo pensiero, teneva già sette anni, si può dire che era il conforto mio... si era messo in commercio... era nu' guaglione preciso, non gli sfuggiva niente... ritrovava le penne stilografiche per conto di uno che abitava alla salita Materdei, una brava persona. Michelino aiutava la mamma sua, un giorno cento, un giorno duecento, secondo la distrazione della gente. Ma quello non bastava, con le sigarette ero stata diffidata. Mi serviva un lavoro. Qua è successo un altro fatto che durante questo processo, se voi mi permettete, non è stato chiarito bene. Qua avete detto che io nel '51 ho malmenato un pubblico ufficiale. Questo non è giusto : bisogna pure vedere come e perché. Mo' vi spiego. Io stavo senza lavoro e nel vico mio avevo passato parola caso mai ci fosse qualche occasione, cosi un bei giorno si presenta a me un amico di mio marito buon'anima, Gennarino 'o Carpentiere. Dice : « A sapite 'a nuvità? » « Che nuvità? » dicett'io. « Quello il Sindaco ha detto che da ora in poi per il decoro pubblico per chi vuole entrare a sbrigare qualche pratica nei pubblici uffici bisogna che si mette la giacca e la cravatta. » « Embè? » dissi io. « Come? » fece Gennarino « non vogliamo approfittare? » « E come profittarne, Gennari? » « È facilissimo » mi spiegò Gennarino 'o Carpentiere « noi ci mettiamo con un carretto appretto al tribunale o all'esattoria e fittiamo giacche e cravatte alla povera gente che deve entrare e giacca e cravatta non ne tiene. Facciamo un buon prezzo. Cento le giacche e cinquanta le cravatte. » Mi convinse, io feci altri debiti, comprai tredici giacchette e una ventina di cravatte. Michelino proprio quel giorno aveva ritrovato un carrettino che uno si era dimenticato all'angolo di Santa Lucia e stavamo a posto. Gennarino 'o Carpentiere prese un cartello e ci scrisse si FITTANO GIACCHE E ACCESSORI. A me questi accessori non mi piacevano ma comunque... e cosi tutte le mattine ce ne venivamo proprio qua di fronte al tribunale. In un primo momento gli affari si misero bene. Quella era stata proprio una bella pensata: le giacche si fittavano e la gente ce le riportava puntualmente. A questo punto si mise di mezzo un mammasantissima. Venne da me con molte belle maniere e spiegò che quella era zona sua e che dovevamo pagare un tanto di percentuale. Io mi ribellai e quello fu uno sbaglio. Grosso. Mi credetti pure che l'avevo convinto perché per un paio di giorni non successe niente. Invece una mattina tutti quelli che s'erano fittate le giacche e le cravatte non si fecero più vedere. Ti saluto giacchette e ti saluto accessori. Quello il mammasantissima si era vendicato.
Be', proprio quella mattina io me ne stavo tutta sconsolata vicino al carretto vuoto e pregavo la Madonna che provvedesse con urgenza quando, altro che provvedere, non se ne viene bello bello un brigadiere a domandare se tenevo la licenza? « Io non commercio più » dissi al brigadiere. Quello niente, duro, presidé; mi voleva fare la multa e se non lo pagavo lo dovevo seguire. E si io seguivo proprio a lui... non mi tenni più... ma io non lo toccai, quello fu Michelino, il figlio mio, che mi vedeva disperata. Dette due o tre botte 'n cap'o brigadiere... ma piano... una cosa da niente... oltraggio avete detto voi ma, scusate, e l'oltraggio che avevo ricevuto io? Me ne tornai a casa e quella sera per la prima volta i figli miei non mangiarono. La mattina Michelino si andò a vendere la penna stilografica che il brigadiere si era perduta mentre che discutevamo... perduta, cancelliè... voi pensate sempre male... Michelino certe cose non le fa... vedi un po'... adesso i brigadieri non si possono perdere le penne stilografiche... e chi lo dice? Quel giorno qualche cosa mangiammo; Francesco, Luigino e Giuseppe quando il giorno dopo non gli potetti dare niente si misero a piangere. Pure Rafieluccio si mise a piangere. Avete mai sentito quando quattro bambini, che vi sono pure figli, si mettono a piangere? Durò una settimana... il cuore non mi ci stava più in petto... (Rivolta al Pubblico Ministero) avete ragione, avvoca... voi al processo avete detto che piuttosto di avvelenare i figli miei avrei potuto cercare qualche altra strada... avete sottinteso?... avete lasciato capire... insomma io che dovevo fare? Io non saccio arrubbà... potevo fare... insomma... potevo fare... e pure a quello ci pensai. Alla fine una donna non tiene altra risorsa... bisogna pure vedere che donna è... io ci pensai quando già avevo pensato tutto... pensai tre giorni, poi la terza sera mi misi un poco di rossetto e me ne uscii. A Michelino gli dissi « Sta attento alle creature, mammà va a comprare un poco da mangiare e torna subito... » Ma quello, Michelino, era uguale a suo padre. Sospettoso che non vi dico, preside. Mi segui. Io non me ne accorsi. Camminavo come se fossi una ladra, fianco al muro, guardanno pe' terra. Arrivai fino addò sta l'albergo Vesuvio. Là pensavo, ci passano i signori... può essere... Passeggiai là innanzi più di un'ora. Avanti e indietro, avanti e indietro. E non passeggiavo sola, no, no ce ne stavano assai che passeggiavano comm'a me, tenevano un passo sciolto, cosi curioso... ma stavano vestite bene. Nutrite. Mi scoraggiai. Pensavo. Pensavo « qua se pure qualcuno tiene l'intenzione si piglia a una di quelle... io sto cosi scartellata... » ma a casa mia ci stavano i figli che piangevano... restai, presidè, mi misi pure io a fare il passo sciolto, era curioso stavo addolorata e quasi mi divertivo... è la natura mia... restai, sissignore, non mi vergogno, restai. A un certo punto viene uno, stava vestito bene, passò e ripassò un paio di volte poi si avvicinò e disse : « Signò qua non potete stare, questo non è territorio vostro»... avete capito: un altro mammasantissima. Cosi andai a via Caracciolo. Ero appena arrivata quando mi si avvicina uno con un impermeabile chiaro. Voleva combinare. Mi dava duemila lire. Duemila lire, preside. Io stavo combattuta: che faccio? Ci vado, non ci vado? Tanto brutto non era. M'ero quasi decisa quando sentii una voce alle spalle mie: « Mammà, io sto qua. » II sangue, presidè... non ne tenevo più nelle vene. Mi si fermò qua, tutto in faccia. Mi presi Michelino e me ne tornai a casa. Mi feci quella camminata da via Caracciolo fino a casa mia e capii una cosa. Le mamme appartengono ai figli e a nessun altro. E pure i figli appartengono alle mamme. Ci sta un diritto... un diritto vero... non mi so spiegare meglio. Quella non fu una camminata, fu un calvario. Michelino mi teneva una mano e stava pensieroso: quello, il figlio mio, aveva capito tutto. Quello già soffriva, quello non teneva più sette anni, quello m'era fratello, m'era padre... Arrivati vicino alla casa mi fermai e lo chiamai : « Micheli... » « Eh? » teneva quell'« eh » proprio come uno grande. « Micheli... » volevo seguitare ma quello mi fece un bei sorriso, dolce dolce e mi disse : « Mammà, non ti preoccupare : quello a via Caracciolo si è perso la penna stilografica. Mo me la vado a vendere... » Mi lasciò sotto al portone come una stupida. E quella fu la prima volta che mi venne il pensiero... Piuttosto li ammazzo i figli miei... e poi salii a casa. Dormivano. Luigino e Giuseppe stavano abbracciati e Francesco stava sotto a loro, come non soffocava Dio lo sa. Solo Rafieluccio stava sveglio. Ma non piangeva. Mi guardava pure lui come mi aveva guardato Michelino. Come se pure lui avesse capito. Forse fu l'impressione mia... non piangeva e non pianse più. Nemmeno gli altri giorni... dimagriva, eccellenza, dimagriva come un cero alla Madonna. Luigino e Giuseppe li avevo dovuti sforzare sempre a mangiare e si contentavano con poco ma Rafieluccio no, quello era nato signore. Michelino stava sempre fuori, poi una sera tornò insieme a una guardia... mi diffidava... e pure Michelino se ne stette a casa, teneva un po' di raffreddore... e io che dovevo fare? Che dovevo fare, preside? Debiti non se ne parlava più, piano piano si vennero a prendere il materasso, lo specchio, un vestito di mio marito me lo vendetti a gennaio, e poi a febbraio non mi ricordo nemmeno come facemmo a campare. Quando mai a Napoli la neve? E nevicò pure. Giuseppe teneva la tosse, Luigino, il gemello suo, se l'attaccò subito, figu-ratevi, quelli legati accussi... ma di loro non mi davo pensiero. Di Rafieluccio. Non piangeva, preside, avete capito, quello non piangeva più. Mi guardava e basta, certe volte mi veniva di pigliarlo a botte, gli dicevo : « E piangi figlio mio, piangi, non mi guardare cosi... » ma quello mi guardava... mi guardava.
Un compare mio che stava disoccupato teneva un figlio suo ricoverato all'ospedale degli Innocenti. Teneva un male grave dentro la testa. Quella creatura era la fortuna della famiglia. Due volte la settimana, il giovedì e la domenica, tutta la fa-miglia sua l'andava a trovare, capitavano all'ora del pranzo con un permesso speciale della suora e così mangiavano tutti quanti. Poi quello lo dimisero. Il male lo teneva sempre ma in eterno all'ospedale non ce lo potevano tenere... se si aggravava forse gli ridavano il posto... il compare mio resistette tré giorni poi prese il figlio e piano piano gli battè la testa contro il muro... tum tum tum... fino a quando a quello non gli venne il male forte e lo dovettero ricoverare un'altra volta. E cosi campavano. Avete capito, preside?... Come?... questo non c'entra, ma io queste cose ve le racconto per dirvi quante cose può fare un padre, oppure una madre... quante cose possono succedere che uno non ci penserebbe mai... insomma io avvelenai i figli miei... è delitto? E va bene. Lo dite voi. Vui site 'a legge, 'o governo. E allora 'o governo ca' se piglia i figli da 'e mamme pe' 'ffà 'e guerre che diritto tiene? Ma quello ci sta la scusa della patria? Avete ragione. E qua ci sta la scusa di una poveretta che i figli suoi non li vuoi vedere morire di fame a uno a uno. In guerra ci stanno possibilità che uno si salva? E pur'io quand'ho avvelenato i figli miei... ci stavano probabilità e io proprio su quella probabilità mi ero fatta il ragionamento... che scherziamo!... Non alluccate, avvoca, questa è 'a verità. Io avevo calcolato tutto e non l'ho fatto cosi, come ha detto l'avvocato mio, pe' d-i-s-p-e-r-a-z-i-o-n-e. Che disperazione. Io non la tenevo la forza pe' sta disperata. La disperazione è una ricchezza. Ho girato tutti gli uffici, tutti i comitati... avevo trovato pure il modo di scrivere a Roma a chi sta in alto... he... chi sta in alto non mi ha risposto. 'A Croce Rossa? Ci sono andata alla Croce Rossa... « Vedremo... faremo »... qua' vedremo e faremo, preside... (Improvvisamente la voce le manca: il caldo, l'eccitazione.) ...scusateme 'nu mumento, non mi sento bene... (A una proposta del cancelliere, con un urlo) No!... Non ho finito... un momento che mi ripiglio... venne il caldo, presidè, altro che adesso, un inferno... le mosche, la gente che sudava e pure i figli miei sudavano, stavano sporchi... io uscivo la mattina e giravo per tutti gli uffici... il comune... gli ospedali... raccattavo qualche cosa, come no... miseria raccattavo. Poi nu' juorno me sentette male pur'io. Chissà come fu... uno svenimento. E allora mi prese la paura. Pensai : « E se me moro? I figli miei che fanno? » Jett 'a parla cu nu' paglietta... paglietta, preside, ! scusate voi siete settentrionale... paglietta sarebbe una specie di avvocato senza la laura. Si dice laurea? Ecco, senza la laurea. Stu paglietta mi consigliò, disse: « Bisogna richiamare l'attenzione pubblica. » « E richiamiamo questa attenzione » dissi io. Paglietta si interessò: fece mettere un trafiletto sul giornale, a casa lo tengo stipato. «Una mamma e cinque figli» : proprio commovente. Tre giorni appresso il giornale pubblicò l'elenco delle offerte. Quasi ventimila lire. Io non ci potevo credere. Ventimila lire. Un certo enne enne solo lui aveva dato diciottomila lire. Andai al giornale co' tutti i figli miei appresso. Il direttore mi ricevette, fece portare acqua e limone per tutti. Solo Rafieluccio non volle accettare. Stava serio serio. Vallo a capire. Quello la grisaglia blu di suo padre gli aveva dato alla testa. Il direttore disse che i soldi se li era venuti a ritirare paglietta. E corre a truvà paglietta. Stava dint'o biliardo. Mi portò cinquecento lire, s'era tratte-nuto millecinquecento lire per le spese. In quanto alle rimanenti diciottomila lire spiegò che enneenne era lui... che le aveva spedite per smuovere le acque... non trovai manco la voce per protestare... mi pigliai quella miseria e me ne tornai a casa. A casa Michelino se ne uscì cu' nu' strillo, disse : « Mammà, ci sta un topo. » Dio sa che ci veniva a fare un topo a casa mia, fame e basta ci poteva trovare. Dico casa mia, ma la casa già sapevo che a settembre la dovevo lasciare, mi sfrattavano. Io tenevo in uno stipo il veleno per i topi, l'andai a prendere e cosi mi venne l'idea... La notte non potevo dormire, faceva un caldo, un caldo. All'improvviso, sarà stato mezzanotte, Rafieluccio si mise a piangere... dopo tanti mesi... non me lo seppi spiegare... eppure quella sera qualche cosa aveva man-giato. Piangeva lungo e secco, secco e lungo... come una motocicletta che non parte... non la finiva mai... io me lo presi in braccio, camminavo p'a casa « statte buono Rafielù... mamma tua sta tanto stanca... statte buono Rafielù... » s'azzittava 'nu mumento e poi ricominciava... lungo e secco, secco e lungo... io lo cullavo... a un certo punto, la Madonna mi perdoni, mi venne la tentazione di fare come quel compare mio, di sbattere la testa di Rafieluccio contro il muro... e ci provai pure... piano, piano, piano... tumtumtum... tumtumtum... tum... ma quella la testa di Rafieluccio era di ferro... mi fermai... tutta bagnata di sudore... sudore freddo, preside... che faccio? Sto diventando pazza? Che faccio?... guardai il figlio mio e quello si fece una mezza risatella. (Come un ritornello) Io quel figlio mio non l'ho mai capito... poi mentre stavo con la creatura in braccio se scietai Luigino. « Mammà » disse « corri. Vieni a vedere il topo »; pure gli altri figli miei si erano scetati. Stavano tutti intorno al topo morto. Stava sotto al davanzale, zampe all'aria, morto. Eppure il veleno per i topi io non lo avevo passato... era morto cosi, naturale... forse chissà da quanti mesi girava per la casa e non si mangiava niente... E cosi era morto... Teneva due occhietti piccoli piccoli... spalancati. Stava bello bello. Pareva che dicesse : « Accussi sto bene, accussì è meglio... Mo' non soffro più... » Io guardavo il topo morto che teneva una faccia felice e guardavo i figli miei che tenevano la faccia riseccuta... Luigino che rideva sempre... Francesco che era il più buono di tutti e Pasquale... e poi Michelino mio che da quella sera di via Caracciolo teneva una faccia di uomo grande... e Rafieluccio che pareva Franceschiello incazzato... quante cose si pensano, preside... altro che disperazione. Io pensavo. Pensavo e basta. Una volta pregavo, mo' non prego più. Per pregare ci vuole, che so, un poco di speranza... io speranza non ne tenevo... io tenevo cinque figli che non mangiavano e presto non avrebbero tenuto nemmeno una casa... non potevo pregare: era una perdita di tempo... e pensavo, pre-side... pensai tutta la notte... e così decisi. No, i figli miei non li volevo ammazzare, volevo richiamare l'attenzione pubblica... un poco di veleno, giusto perché li ricoverassero all'ospedale... perché i giornali parlassero... perché chi sta in alto, a Roma, s'interessasse... ci pensai che mi potevano mettere in prigione, come non ci pensai e che dovevo fare, mi mettevo paura della prigione? Cosi stanno i fatti, preside: qua si sono dette tante belle cose ma nessuno fin'a mo' si è preoccupato di sapere « come e perché »... come... e... perché. No. Io non sono pazza, io mi ricordo tutto e se oggi ho trovato la forza di parlare è solo per i figli miei che l'ho fatto, perché i figli crescono e non devono sapere che la mamma loro è pazza. A me se mi mettete in prigione mi fate un piacere... Non lo posso dire? Ma questa è la verità... allora uno non la può dire la verità... la verità è brutta, preside, ma è pure bella... io invece devo dire tutto, tutto, tutto... (È un crescendo impressionante di toni acuti, bassi, dolorosi, qualche pausa.) Io quel giorno alle due del pomeriggio ce lo misi il veleno dentro alla limonata che detti ai figli miei... (All'avvocato difensore che vorrebbe impedirle una cosi grave dichiarazione, urlando) ce lo misi, avvoca, ce lo misi di proposito... non fu per uno sbaglio... (Lentamente, rievocando) signor presidente, la mattina mi ero comprata due bei limoni di Sicilia, belli parevano aranci... a casa c'era rimasto un bicchiere solo, grande, grande, lo lavai bene bene, spremetti due limoni, un poco di zucchero me lo feci prestare da quella del piano di sotto... poi presi il veleno per i topi... e ce ne misi un poco, un altro po'... lo sapevo che poteva essere pericoloso... chiusi gli occhi e girai tutto bene bene... girai, girai... non mi decidevo mai... poi mi feci coraggio e gliene detti un sorso per uno ai figli miei... s'erano messi tutti e quattro attorno a me... Rafieluccio mi stava in braccio... mi guardavano. Michelino disse: « Mammà comm'è amara sta' cosa » « ...bevi figlio mio, bevi che ti fa bene, eppure tu bevi, Francesco e tu pure bevi, Giuse'... Su, Luigino bello di mammà... bevete... bevete... » e bevvero, preside, bevvero tutti e cinque, compreso Rafieluccio... come se fosse la comunione... in un primo tempo a Rafieluccio io avevo stabilito di non farlo bere ma quello ricominciò a piangere... lo voleva pure lui... mi sembrò un segno del cielo... si scolò il bicchiere e per la prima volta da quando era nato se fece una risata, una risata dolce dolce, me la ricordo sempre... e cu' 'e manelle me toccava 'a faccia... allora me venne 'a disperazione, dopo mi venne che non dovevo pensare più ma solo aspettare... e potevo pregare... e pregai, pregai forte... Dio 'a Madonna 'e Sante io lo quasi insultati... (come allora) « e mo' ve ne dovete accorgere che i figli miei ci stanno, che tengono il diritto di campare... perché non è giusto (grida) non è giusto che uno si sposa, si corica col marito e pe na' mezz'ora di felicità nasce un figlio e poi ne nascono altri e due e poi una sera solo perché invece di cavoli uno si mangia due bignè eccoti un altro figlio... e quelli che sono nati e morti? Pasquale e Gaetano? Perché sono morti? Che privilegio tenevano? Quelli in Paradiso e questi all'inferno... non è giusto. Dovete provvedere... queste creature non sono opera mia, sono opera vostra »... e me cresceva 'a disperazione... nun pregavo più, urlavo, giravo per la casa ...già s'era fatta la folla sotto al balcone mio... con quel caldo, con quelle mosche... Le mosche... ma lo sapete voi che cosa sono le mosche, preside? No una mosca, centinaia di mosche che girano e tè se posano 'n capo, 'n faccia e io le scacciavo dalla faccia di Luigino e quelle andavano in faccia a Giuseppe... e io le scacciavo dalla faccia di Giuseppe e quelle zompavano in cap'a Rafieluccio... (Una pausa lunga.) Poi... (pianissimo) ... all'improvviso... uno strillo... Giuseppe strillava... ma strillava piano... se fece bianco come a nu' lenzuolo e appresso Michelino e poi Francesco e poi Luigino... Tremavano e chiamavano « mammà, mammà, mammà »... Rafieluccio mio s'era fatto bianco, bianco... gli occhi... preside, teneva due occhi che da neri s'erano fatti blu... allora m'affacciai alla finestra e gridai, gridai : « Ho ammazzato i figli miei, ho ammazzato i figli miei... currite currite... » (È esausta. Una lunga pausa.. Poi con voce diversa, senza colore, piatta, rassegnata, continua) Adesso ci è rimasta solo una cosa che devo dire e me la dovete far dire signor presidente perché questa è la cosa più importante. Io ve lo ripeto: a me se mi condannate non m'importa... forse è giusto... forse mi dovete condannare ma io il risultato mio l'ho raggiunto. I figli miei sono guariti, l'opinione pubblica s'è interessata... da Roma hanno scritto e mandato denari... Luigino e Francesco stanno al collegio di San Liborio, Pasqualino va a scuola e Giuseppe, in grazia di Dio, l'ha adottato quel signore di Caserta che è venuto qua al processo. Io sento che ho fatto bene a fare quello che ho fatto, che colpa non ne tengo... cioè (improvvisamente debole, invecchiata, sola, triste) ...una colpa la tengo ma per quella non è la galera che mi può fare qualche cosa. Quella è una pena mia e se pure mi mettete fuori io quella pena la tengo sempre... la terrò sempre. I figli miei si sono salvati tutti, è vero... i figli di mio marito si sono salvati tutti e quattro... quell'altro... Rafieluccio... Rafieluccio non s'è salvato... quello è morto... morto (piange) ...com'era morto quel topo sotto al davanzale... con gli occhi aperti... Io questa cosa... io non ci volevo credere... la condanna mia è Rafieluccio... è morto... ma quello nel pensiero mio pure se era di un altro padre era uguale agli altri... doveva correre il rischio insieme ai fratelli suoi... (Ha un'idea) ...qua ci sta una cosa... quel poco di veleno ch'era rimasto in fondo al bicchiere Rafieluccio l'ha voluto lui... io non glielo volevo dare... io non glielo volevo dare... perché quel veleno era per me... quello ha voluto salvare la mamma... come fece Michelino quella sera a via Caracciolo... i due fratelli s'erano capiti. Eccola la condanna mia, preside... voi fate quello che volete ma io ve lo ripeto dentro o fuori la condanna mia io già l'ho avuta... (È stanca, non vaneggia ma quasi, cerca, cerca disperatamente una spiegazione) ...Rafieluccio, preside... quel figlio mio era strano assai... io non l'ho mai visto ridere, l'unica volta fu quando si bevve il veleno: vuoi dire che era contento accussi... che accussì doveva essere... quello Rafieluccio... (Non si sa più bene se piange se ride se singhiozza) ...Rafieluccio aveva capito tutto... e poi, questa è la verità, quello era nato signore, non avrebbe mai accettato di andare in un orfanotrofio o a casa di un estraneo che l'adottava... quello si sentiva superiore... suo padre portava la grisaglia blu precisa a quella del cancelliere... questo è il fatto... Presidè, quando uno è nato povero il veleno per i topi tanto male non gli può fare, ma a uno che è nato signore, che tiene una pancia di signore per forza il cuore non gli resiste... è così. Deve essere così. A Rafieluccio veleno per i topi?... quello è stato lo sbaglio mio, presidè... perdonatemi... io quel figlio mio non l'avevo capito... Perdonatemi... non ci ho pensato... non ci ho pensato proprio...
Il sole è tramontato, non scende più luce. Antonietta Gavone è quasi un'ombra, scompare del tutto mentre nel silenzio suona il campanello del presidente.
Torino, 1° dicembre 1958