I due foscari

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<big><big>I due Foscari</big></big>

Tragedia lirica in tre atti
Musica di Giuseppe Verdi
Libretto di Francesco Maria Piave
Tratto dalla tragedia The two Foscari di George Byron
Prima: Roma, Teatro Argentina, 3 novembre 1844

Primi interpreti  Trama   Altro
Francesco Foscari, Doge di Venezia, Basso
Jacopo Foscari, suo figlio, Tenore
Lucrezia Contarini, di lui moglie, Soprano
Jacopo Loredano, membro del Consiglio dei Dieci, Basso
Barbarigo, senatore, membro della Giunta, Tenore
Pisana, amica e confidente di Lucrezia, Soprano
Fante del Consiglio dei Dieci, Tenore
Servo del Doge, Basso
Membri del Consiglio dei Dieci e Giunta, Ancelle di Lucrezia, Dame veneziane, Popolo e Maschere d'ambo i sessi.
Il Messer Grande, due figlioletti di Jacopo Foscari, Comandadori, Carcerieri, Gondolieri, Marinai, Popolo, Maschere, Paggi del Doge.

La scena è in Venezia, l'epoca il 1457.

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Primi interpreti

Roma, Teatro Argentina, 3 novembre 1844
Francesco Foscari: Achille De Bassini; Jacopo Foscari: Giacomo Roppa; Lucrezia Contarini: Marianna Barbieri-Nini; Jacopo Loredano: Baldassare Miri

Trama

<small>Atto I: È il 1457. Nella Sala nel Palazzo Ducale di Venezia il Consiglio dei Dieci e i membri della Giunta stanno per riunirsi per una decisione importante. Giungono Loredano, membro del Consiglio, e il suo amico Barbarigo. I due apprendono che il Doge, apparentemente calmo e sereno, li ha preceduti nella Camera del Consiglio: prima di entrarvi, tutti i presenti cantano le lodi della giustizia veneziana. Condotto fuori dal carcere, Jacopo Foscari, figlio del Doge, attende di essere convocato dal Consiglio: egli saluta la sua amata Venezia, che non vede da tempo a causa dell'esilio che lo ha bandito dalla città. Un ufficiale lo esorta ad aver fiducia in un atto di clemenza, ma Jacopo inveisce contro l'atroce odio di cui è vittima.
Lucrezia Contarini, moglie di Jacopo, promuove la causa del marito davanti al Doge, nonché padre di lui; ma, risponde il Doge, essa può sperare e chiedere giustizia solo al cielo. All'annuncio di Pisana, amica di Lucrezia, che Jacopo è stato condannato ad un nuovo esilio, Lucrezia dà sfogo al suo furore
I senatori commentano, uscendo dall'aula, la sentenza appena pronunciata: Jacopo non ha confessato, ma la lettera che ha inviato al duca Sforza di Milano è la prova della sua colpevolezza; è quindi giusto che torni nuovamente in esilio a Creta: a tutti deve essere chiara l'imparzialità della giustizia veneziana, che condanna anche un figlio del Doge.
Solo, il Doge riflette amaramente sul suo destino sia di principe, il cui potere è ormai dimezzato da quello dei Dieci, sia di padre, che vede languire il figlio senza poterlo salvare. Entra Lucrezia e supplica il suocero di far annullare la sentenza che colpisce Jacopo; ma il Doge risponde che le leggi di Venezia glielo impedisce. Vedendo il vecchio in lacrime per il destino del figlio, Lucrezia comincia a sperare.
</small>

<small>Atto II:Languendo in un'oscura cella, Jacopo vede in un momento di delirio il fantasma del Carmagnola, il famoso condottiero giustiziato a Venezia, che avanza minacciosamente verso di lui con il capo reciso. Spaventato, sviene. Riavutosi, si ritrova tra le braccia di Lucrezia, da lui giunta per comunicargli la sentenza dei Dieci: non si tratta di una condanna a morte, bensì dell'esilio, che li costringerà a vivere per sempre separati. Ma da lontano odono il suono di una barcarola che infonde loro una nuova speranza. Sopraggiunge il Doge e i tre si abbracciano con commozione: è l'affetto paterno e non il rigore dell'autorità che Jacopo ora riconosce in lui e ciò gli sarà di conforto nell'esilio. Scortato dalle guardie, entra nella cella Loredano e comunica freddamente a Jacopo che il Consiglio si è già riunito: per lui è giunta l'ora di partire definitivamente alla volta di Creta. I tre si abbracciano ancora, ma Loredano li divide senza pietà suscitando l'ira di Jacopo e Lucrezia: il Doge li esorta alla calma. Jacopo viene quindi condotto via dalle guardie.
I consiglieri e la Giunta si sono riuniti per confermare la sentenza. Entra il Doge per presiedere il Consiglio. Viene quindi introdotto Jacopo, che chiede al padre giustizia per un innocente, ma questi non può far altro che consigliargli la rassegnazione. Con Pisana e altre dame sue amiche sopraggiunge anche Lucrezia, tenendo per mano i suoi due bambini. Jacopo corre ad abbracciarli e li fa inginocchiare ai piedi del Doge, invocando la sua pietà. Barbarigo si commuove a questa scena e cerca di ammorbidire l'implacabile Loredano. Ma questi e i senatori si mostrano irremovibili: che Jacopo torni a Creta e parta da solo, senza la famiglia. A questa prospettiva Jacopo sente che la morte è ormai vicina.
</small>

<small>Atto III: La Piazzetta di San Marco si riempie di popolo e di maschere: sta per svolgersi una regata. Giungono Loredano e Barbarigo che osservano la gioia del popolo, totalmente incurante della sorte dei Foscari e del Doge. Loredano dà quindi l'ordine che si inizi la gara. Ma a un improvviso squillo di trombe il popolo, impaurito, si ritira: sta giungendo dal mare una galera destinata a ricondurre a Creta Jacopo. Prima di imbarcarsi saluta mestamente Lucrezia e i suoi bambini ed esorta la moglie a non piangere per non far gioire i suoi nemici. Ma Loredano si interpone nuovamente fra loro e gli impone di affrettarsi. Al salire di Jacopo sulla galera Lucrezia sviene.
Nelle sue Stanze private il Doge si lamenta del suo tragico destino: tre suoi figli sono morti prematuramente e il quarto gli è stato sottratto da un infame esilio. Ma entra improvvisamente Barbarigo recando una lettera scritta da un certo Erizzo, in cui questi confessa di aver commesso il delitto imputato a Jacopo. Il Doge ringrazia il cielo. La gioia però dura poco: sopraggiunge Lucrezia in lacrime ad annunciargli la morte di Jacopo, deceduto nel momento stesso della sua partenza; essa esce di scena, invocando sui suoi persecutori l'ira del cielo. Vengono quindi introdotti davanti al Doge i membri del Consiglio condotti da Loredano: data l'età e il recente lutto, sono venuti a chiedere al vecchio Foscari di rinunciare alla sua carica. Per il Doge è il colpo finale: per due volte in passato aveva domandato di abdicare e per due volte gli era stato negato; avendo giurato di morire nell'esercizio delle sue funzioni, egli ora resterà fedele al suo giuramento. Ma il Consiglio è inflessibile: il vecchio Foscari consegna quindi l'anello e il corno ducale. Giunge Lucrezia, da lui chiamata, e mentre conduce il vecchio fuori del palazzo, si ode il suono delle campane di San Marco: Loredano si avvicina a Foscari e gli annuncia che Malipiero è il nuovo Doge. Alla notizia il vecchio muore.</small>

Altro

<small>Gli anni quaranta sono un periodo di intensa attività per Verdi, che porta avanti quattro diverse collaborazioni con i più importanti teatri italiani dell’epoca: la Scala di Milano, la Fenice di Venezia, il San Carlo di Napoli e l’Argentina di Roma. E' per quest’ultimo che Verdi compone I due Fosacri, su libretto dell’ormai collaudato collaboratore Francesco Maria Piave, che elabora un soggetto veneziano di George Byron dall’omonimo titolo in lingua inglese.

Partito per Roma nel settembre del 1844, il Maestro lavora alacremente per rispettare le scadenze, aiutato anche dall’atmosfera capitolina che lo entusiasma e nel novembre dello stesso anno è già tempo di mettere in scena l’opera. Altri teatri vedono rappresentata I due Foscari: il San Benedetto e la Fenice di Venezia, il Comunale di Bologna, il San Carlo di Napoli, e all’estero il Teatro Italiano di Parigi e il Covent Garden di Londra. Le rappresentazioni fuori dell’Italia sono arricchite da una nuova cabaletta musicata dal Maestro espressamente per il tenore Mario su richiesta del nobile e compositore Giuseppe Poniatovski.</small>

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ATTO PRIMO
SCENA I

Una sala nel palazzo Ducale di Veneizia. Di fronte veroni gotici, da' quali scorge parte della cità e della laguna a chiaro di luna. A destra due porte, una che mette negli appartamenti del Doge, l'altra all'ingresso comune; a sinistra altre due porte che guidano all'aula del Consigilio dei Dieci, ed alle torce di cera, sostenute da bracci di legno sporgenti dalle pareti.
Il Consigilio dei Dieci a Giunta vanno raccogliendosi.

CORO 1:
Silenzio . . .

CORO 2:
Mistero . . .

CORO 1
Qui regnino intorno.

CORO 2:
Qui veglia costante, la notte ed il giorno
sul veneto fato di Marco il Leon.

TUTTI:
Silenzio, mistero - Venezia fanciulla
nel sen di quest'onde - protessero in culla,
e il fremer del vento - fu prima canzon.
Silenzio, mistero - la crebber possente
de' mari signora - temuta, prudente
per forza e sapere,- per gloria e valor.
Silenzio, mistero - la serbino eterna,
sien l'anima prima - di chi la governa . . .
Ispirin per essa - timore ed ardor.

(Barbarigo e Loredano, che entrano dalla comune)

BARBARIGO:
Siam tutti raccolti?

CORO:
Il numero è pieno.

LOREDANO:
E il Doge? . . .

CORO:
Tra i primi - qui giunse sereno:
De' Dieci nell'aula - poi tacito entrò.

TUTTI:
Or vadasi adunque, - giustizia ne attende,
giustizia che eguali - qui tutti ne rende,
giustizia che spendido - qui seggio posò.
Silenzio, giustizia, - silenzio, mister!
(Entrano nell'aula del Consigilio)

(Jacopo Foscari viene dal carcere preceduto dal Fante, fra i Comandadori)

FANTE:
Qui ti rimani alquanto
finché il Consiglio te di nuovo appelli.

JACOPO:
Ah sì, ch'io senta ancora, ch'io respiri
aura non mista a gemiti e sospiri.
(Il Fante entra in Consigilio)
Brezza del suol natìo,
il volto a baciar voli all'innocente! . . .
(appressandosi al verone )
Ecco la mia Venezia! . . . ecco il suo mare! . . .
Regina dell'onde, io ti saluto! . . .
Sebben meco crudele,
io ti son pur de'figli il più fedele.
Dal più remoto esilio,
sull'ali del desìo,
a te sovente rapido
volava il pensier mio;
come adorata vergine
te vagheggiando il core,
l'esillo ed il dolore
quasi sparian per me.
(Il Fante viene dal Consiglio)

FANTE:
Del Consiglio alla presenza
vieni tosto, e il ver disvela.

JACOPO:
(Al mio sguardo almen vi cela,
ciel pietoso, il genitor!)

FANTE:
Sperar puoi pietà, clemenza . . .

JACOPO:
Chiudi il labbro, o mentitor.
Odio solo, ed odio atroce
in quell'anime si serra;
sanguinosa, orrenda guerra
da costoro si farà.
Ma dei Foscari, una voce
va tuonandomi nel core;
forza contro il lor rigore
l'innocenza ti darà.
(Tutti entrano nella sala del Consigilio)





ATTO PRIMO
SCENA II

Sala nel palazzo Foscari.
Vi sono varie porte all'intorno con sopra ritratti dei Procuratori, Senatori, ecc., della famiglia Foscari. Il fondo è tutto da gotici archi, a traverso i quali sì scorge il Canalazzo, ed in lontano l'antico ponte di Rialto. La sala è illuminata da grande fanale pendente nel mezzo.

(Lucrezia esce precipitosa da una stanza, seguita dalle ancelle che cercano trattenerla)

PISANA:
Nuovo esiglio al tuo nobil consorte
Del Consigilio accordò la clemenza . . .

LUCREZIA:
La clemenza? . . . s'aggiunge lo scherno! . . .
D'ingiustizia era poco il delitto?
Si condanna e s'insulta l'afflitto
di clemenza parlando e pietà?
O patrizi, tremate . . . l'Eterno
l'opre vostre dal cielo misura . . .
D'onta eterna, d'immensa sciagura
egli giusto pagarvi saprà.

PISANA e CORO:
Ti confida; premiare l'Eterno
l'innocenza dal cielo vorrà.





ATTO PRIMO
SCENA III

Sala come alla prima scena.

Membri del Consigilio de'Dieci a della Giunta vengono dall'aula

CORO I:
Tacque il reo!

CORO II:
Ma lo condanna
allo Sforza il foglio scritto.

CORO I:
Giusta pena al suo delitto
nell'esilio troverà.

CORO II:
Rieda a Creta.

CORO I:
Solo rieda.

CORO II:
Non si celi la partenza . . .

TUTTI:
Imparziale tal sentenza
il Consiglio mostrerà.
Al mondo sia noto
che qui contro i rei,
presenti o lontani,
patrizi o plebei,
veglianti son leggi d'eguale poter.
Qui forte il leone col brando, coll'ale
raggiunge, percuote qualunque mortale
che ardito levasse un detto, un pensier.
(Escono tutti)





ATTO PRIMO
SCENA IV

Stanze private del Doge. Una gran tavola coperta di damasco, con sopra una lumiera di argento; una scrivania e varie carte; di fianco un gran seggiolone.

Il Doge, appena entrato, si abbandona sul seggiolone

DOGE:
Eccomi solo alfine . . .
Solo! . . . e il sono io forse?
Dove de'Dieci non penetra l'occhio?
Ogni mio detto o gesto,
il pensiero perfino m'è osservato . . .
Prence e padre qui sono sventurato!
O vecchio cor, che batti
come ai prim'anni in seno,
fossi tu freddo almeno
come l'avel t'avrà;
ma cor di padre sei,
vedi languire un figlio;
piangi pur tu, se il ciglio
più lagrime non ha.
(Entra un servo, poi Lucrezia Contarini)

SERVO:
L'illustre dama Foscari.

DOGE:
(Altra infelice!) Venga.
(Il servo parte)
(Non iscordare, Doge, chi tu sia)
(a Lucrezia, Andandole incontro )
Figlia . . . t'avanza . . . Piangi?

LUCREZIA:
Che far mi resta, se mi mancan folgori
a incenerir queste canute tigri
che de'Dieci s'appellano Consiglio? . . .

DOGE:
Donna, ove parli, e a chi, rammenta . . .

LUCREZIA:
Il so.

DOGE:
Le patrie leggi qui dunque rispetta . . .

LUCREZIA:
Son leggi ai Dieci or sol
odio e vendetta.
Tu pur lo sai che giudice
in mezzo a lor sedesti,
che l'innocente vittima
a'piedi tuoi vedesti;
e con asciutto ciglio
hai condannato un figlio . . .
L'amato sposo rendimi,
barbaro genitor.

DOGE:
Oltre ogni umano credere
è questo cor piagato! . . .
Non insultarmi, piangere
dovresti sul mio fato . . .
Ogni mio ben darei . . .
gli ultimi giorni miei,
perché innocente e libero
fosse mio figlio ancor.

LUCREZIA:
L'amato sposo rendimi,
barbaro genitor.
Di sua innocenza dubiti?
Non la conosci ancora?

DOGE:
Sì . . . ma intercetto un foglio
chiaro lo accusa, o nuora.

LUCREZIA:
Sol per veder Venezia
vergò; perdé lo scritto.

DOGE:
È ver, ma fu delitto . . .

LUCREZIA:
E aver ne dêi pietà.

DOGE:
Vorrei . . . nol posso . . .

LUCREZIA:
Ascoltami:
Senti il paterno amore . . .

DOGE:
Commossa ho tutta l'anima . . .

LUCREZIA:
Deponi quel rigore . . .

DOGE:
Non è rigore . . . intendi?

LUCREZIA:
Perdona, a me t'arrendi . . .

DOGE:
No . . . di Venezia il principe
in ciò poter non ha.

LUCREZIA:
Se tu dunque potere non hai,
vieni meco pel figlio a pregare . . .
Il mio pianto, il tuo crine, vedrai,
potran forse ottenere pietà.
Questa almeno, quest'ultima prova,
ci sia dato, signor, di tentare;
l'amor solo di padre ti mova,
s'ora il Doge potere non ha.

DOGE:
(O vecchio padre misero,
a che ti giova trono,
se dar non puoi, né chiedere
giustizia, né perdono
pel figlio tuo, ch'è vittima
d'involontario error?
Ah, nella tomba scendere
m'astringerà il dolor!)

LUCREZIA:
Tu piangi . . . la tua lagrima
sperar mi lascia ancor!

 


ATTO SECONDO
SCENA I

Le prigioni di Stato. Poca luce entra da uno spiraglio praticato nell'alto del muro. Alla destra un'angusta scala per cui si ascende al palazzo.

Jacopo Foscari è seduto sopra un masso

JACOPO:
Notte! Perpetua notte che qui regni!
Siccome agli occhi il giorno,
potessi almen celare al pensier mio
il fine disperato che m'aspetta!
Tôrmi potessi alla costor vendetta!
Ma, o ciel! . . . che mai vegg'io! . . .
(S'alza spaventato)
Sorgon di terra mille e mille spettri!
Han irto crin . . .
guardi feroci, ardenti!
A sé mi chiaman essi! . . .
Uno s'avanza! . . . ha gigantesche forme!
Il suo reciso teschio
ferocemente colla manca porta! . . .
A me lo addita . . . e colla destra mano
mi getta in volto il sangue che ne cola!
Ah! Lo ravviso! . . . è desso . . .
è Carmagnola!
Non maledirmi, o prode,
se son del Doge il figlio;
de'Dieci fu il Consiglio
che a morte ti dannò!
Ah! Me pure sol per frode
vedi quaggiù dannato,
e il padre sventurato
difendermi non può . . .
Cessa . . . la vista orribile
più sostener non so.
(Cade boccone per terra)

(Lucrezia Contarini scende dalla scala)

LUCREZIA:
Ah, sposo mio! . . . che vedo?
Me l'hanno forse ucciso i maledetti,
e per maggiore qui tratta
a contemplar la salma?
Ah, sposo mio!
(Gli palpa il cuore)
Vive ancor!
Quale freddo sudore!
Vieni, amico, ti posa sul mio cor.

JACOPO: (sempre delirando)
Verrò . . .

LUCREZIA:
Che di'?

JACOPO:
M'attendi, orrendo spettro . . .

LUCREZIA:
Son io . . .

JACOPO:
Che vuoi? . . . Vendetta?

LUCREZIA:
Non riconosci la sposa tua?

JACOPO:
Non è vero! . . .
(Lucrezia lo abbraccia con trasporto)
Ah, sei tu?

LUCREZIA:
Ah, ti posa sul mio cor.

JACOPO:
Fia vero! Fra le tue braccia ancor?
Respiro!
Fu dunque sogno . . . orrendo sogno il mio!
Il carnefice attende? L'estremo addio
vieni ora a darmi?

LUCREZIA: (piangendo)
No.

JACOPO:
E i figli miei, mio padre?
Saran dischiuse loro queste porte,
pria che il sonno mi copra della morte?

LUCREZIA:
No, non morrai; ché i perfidi
peggiore d'ogni morte,
a noi, clementi, serbano
più orribile una sorte.
Tu viver dêi morendo
nel prisco esilio orrendo . . .
Noi desolati in lagrime
dovremo qui languir.

JACOPO:
Oh, ben dicesti! All'esule
più crudo della morte
da'suoi lontano è il vivere!
O figli, o mia consorte!
Ascondimi quel pianto . . .
Su questo core affranto
mi piomban le tue lagrime
a crescerne il soffrir.
(S'ode una lontana musica di voci e suoni)

VOCI: Tutta è calma la laguna;
Voga, voga, gondolier.

JACOPO:
Quale suono?

VOCI:
Batti l'onda e la fortuna
ti secondi, o gondolier.

LUCREZIA:
È il gondoliero,
che pel liquido sentiero
provar debbe il suo valor.

JACOPO:
Là si ride, qui si muor.
Maledetto chi mi toglie
a' miei cari, al suol natìo;
sul suo capo piombi Iddio
l'abominio e il disonor.
Speranza dolce ancora
non m'abbandona il core:
Un giorno il mio dolore
con te dividerò.
Vicino a chi s'adora
men crude son le pene;
perduto ogn'altro bene,
dell'amor tuo vivrò.

LUCREZIA:
Speranza dolce ancora
non m'abbandona il core,
l'esilio ed il dolore
con te dividerò.
Vicino a chi s'adora
men crude son le pene:
perduto ogn'altro bene,
dell'amor tuo vivrò, ecc.

(Il Doge, avvolto in ampio e nero mantello, entra nel carcere, preceduto da un servo con fiaccola, che depone e parte)

JACOPO e LUCREZIA (correndogli incontro)
Ah, padre!

DOGE:
Figlio! Nuora!

JACOPO:
Sei tu?

LUCREZIA:
Sei tu?

DOGE:
Son io. Volate al seno mio.

TUTTI:
Provo una gioia ancor!

DOGE:
Padre ti sono ancora,
lo credi a questo pianto;
il volto mio soltanto
fingea per te rigor.

JACOPO:
Tu m'ami?

DOGE:
Sì.

JACOPO:
Oh contento!
Ripeti il caro accento.

DOGE:
T'amo, sì, t'amo, o misero.
Il Doge qui non sono.

JACOPO:
Come è soave all'anima
della tua voce il suono!

DOGE:
Oh figli, sento battere
Il vostro sul mio cor!

JACOPO e LUCREZIA:
Così furtiva palpita
la gioia nel dolor!

JACOPO:
Nel tuo paterno amplesso
io scordo ogni dolore.
Mi benedici adesso,
dà forza a questo core,
e il pane dell'esilio
men duro fia per me . . .
Questo innocente figlio
trovi un conforto in te.

DOGE:
Abbi l'amplesso estremo
d'un genitor cadente;
il giudice supremo
protegga l'innocente . . .
Dopo il terreno esilio
giustizia eterna v'è.
Al suo cospetto, o figlio,
comparirai con me.

LUCREZIA:
(Di questo affanno orrendo
farai vendetta, oh cielo,
quando nel dì tremendo
si squarcerà ogni ciglio
il giusto, il reo qual é!)
Dopo il terreno esilio,
sposo, sarò con te.
(Restano abbracciati piangendo; il Doge si scuote)

DOGE:
Addio . . .

JACOPO e LUCREZIA
Parti?

DOGE:
Conviene.

JACOPO:
Mi lasci in queste pene?

DOGE:
Il deggio.

LUCREZIA:
Attendi.

JACOPO:
Ascolta. Ti rivedrò?

DOGE:
Una volta . . .
Ma il Doge vi sarà!

JACOPO e LUCREZIA
E il padre?

DOGE:
Soffrirà.
S'appressa l'ora . . . Addio . . .

JACOPO:
Ciel! . . . chi m'aita?

(Entra Loredano preceduto dal Fante del Consiglio e da quattro custodi con fiaccole)

LOREDANO: (dalla soglia)
Io.

LUCREZIA:
Chi? Tu!

JACOPO:
Oh ciel!

DOGE:
Loredano!

LUCREZIA:
Ne irridi, anco, inumano?

LOREDANO: (freddamente a Jacopo)
Raccolto è già il Consiglio;
vieni, di là al naviglio
che dee tradurti a Creta . . .
Andrai . . .

LUCREZIA:
Io pur.

LOREDANO:
Tel vieta
de'Dieci la sentenza.

DOGE: (ironico)
Degno di te è il messagio!

LOREDANO:
Se vecchio sei, sii saggio.
(ai custodi)
S'affretti la partenza.

JACOPO e LUCREZIA:
Padre, un amplesso ancora.

DOGE:
Figli . . .

LOREDANO:
Varcata è l'ora.

JACOPO e LUCREZIA: (a Loredano)
Ah sì, il tempio che mai non s'arresta
rechi pure a te un'ora fatale,
e l'affanno che m'ange mortale,
più tremendo ricada su te.
Il rimorso in quell'ora funesta
ti tormenti, o crudele, per me.

DOGE: (a Jacopo e Lucrezia)
Deh, frenate quest'ira funesta;
l'inveire, o infelice, non vale!
S'eseguisca il decreto fatale . . .
Sparve il padre,
ora il Doge sol v'è.
La giustizia qui mai non s'arresta:
Obbedire a sue leggi si de'.

LOREDANO: (da sé, guardandoli con disprezzo)
(Empia schiatta al mio sangue funesta,
a difenderti un Doge non vale;
per te giunse alfin l'ora fatale
sospirata cotanto da me)
La Giustizia qui mai non s'arresta,
obbedire a sue leggi si de'.

(Jacopo parte fra i custodi preceduto da Loredano, e seguito lentamente dal Doge, che si appoggia a Lucrezia)



ATTO SECONDO
SCENA II

Sala del Consgilio dei Dieci. I Consiglieri e la Giunta, tra i quali Barbarigo, van raccogliendosi.

CORO I:
Che più grave; si tarda?

CORO II:
Affrettisi ormai questa partenza.

CORO I:
Inulte l'ombre fremono,
ne accusan d'indolenza.

CORO II:
Parta l'iniquo Foscari . . .
Ucciso egli ha un Donato.

CORO I:
Per istranieri principi
l'indegno ha parteggiato.

TUTTI:
Non fia che di Venezia
ei sfugga alla vendetta . . .
Giustizia incorruttibile
non fia qui mai negletta!
Baleni, e come folgore
punisca il traditor;
mostri ai soggetti popoli
un vigile rigor.

(Entra il Doge, che preceduto da Loredano, dal Fante del Consiglio e dai Comandadori, e seguito dai paggi, va gravemente a sedere sul trono. Lui seduto, tutti fanno lo stesso)

DOGE:
O patrizi . . . il voleste . . .
eccomi a voi . . .
Ignoro se il chiamarmi ora in Consiglio
sia per tormento al padre,
oppure al figlio;
ma il voler vostro è legge . . .
Giustizia ha i dritti suoi . . .
M'è d'uopo rispettarne anco il rigore . . .
Sarò Doge nel volto,
e padre in core.

CORO:
Ben dicesti.
Il reo s'avanza . . .

DOGE:
(Dona, o ciel, a me costanza!)

(Jacopo entra fra quattro custodi)

LOREDANO:
Legga il reo la sua sentenza.
(Dà una pergamena al Fante, che la consegna a Jacopo, il quale legge)
Del consiglio la clemenza
or la vita ti donò.

JACOPO: (restituisce la pergamena)
Nell'esilio io morrò . . .
Non hai, padre, un solo detto
pel tuo Jacopo reietto?
Se tu parli, se tu preghi,
non sarà chi grazia neghi . . .
Pregar puoi; sono innocente;
il mio labbro a te non mente.

CORO:
Non s'inganna qui la legge,
qui giustizia tutto regge.

DOGE:
Il Consiglio ha giudicato;
parti, o figlio, rassegnato.
(S'alza, tutti lo imitano)

JACOPO:
Mai più dunque ti vedrò?

DOGE:
Forse in cielo, in terra no.

JACOPO:
Ah, che di'? Morir mi sento.

LOREDANO: (ai custodi che gli si pongono al fianco, e si avviano)
Da qui parta sul momento.

(Lucrezia Contarini si presenta sulla soglia coi due figli, seguita da varie dame sue amiche e dalla Pisana)

LUCREZIA:
No . . . crudeli!

JACOPO:
Ah, i figli miei!
(Corre ad abbracciarli)

DOGE, BARBARIGO, CONSIGLIERI e FANTE:
(Sventurata! . . . Qui costei!)

LOREDANO, DOGE, BARBARIGO, CONSIGLIERI:
Quale audacia vi guidò?

JACOPO:
Miei figli! Miei figli!
(Prende i due fanciulli piangenti, e li pone in ginocchio ai piedi del Doge)
Queste innocente lagrime
ti chiedono perdono . . .
A lor m'unisco, e supplice
a' piedi del tuo trono,
padre, ti grido, implorami,
concedimi pietà.

LUCREZIA: (ai Consiglieri)
O voi, se ferrea un'anima
non racchiudete in petto,
se mai provaste il tenero
di padri e figli affetto,
quelle strazianti lagrime
vi muovano a pietà.

BARBARIGO: (a Loredano)
Ti parlin quelle lagrime,
o Loredano, al core;
quei pargoli disarmino
l'atroce tuo furore;
almeno per quei miseri
t'inchina alla pietà.

LOREDANO: (a Barbarigo)
Non sai che in quelle lagrime
trionfa una vendetta,
che qual rugiada scendono
al cor di chi l'aspetta,
che per gli alteri Foscari
sentir non vo' pietà?

CONSIGLIERI: (alle dame)
Son vane ora le lagrime;
provato è già il delitto:
Non fia ch'esse cancellino
quanto giustizia ha scritto;
esempio sol dannabile
sarebbe la pietà.

PISANA e DAME: (ai Consiglieri)
Quelle innocenti lagrime
muovano il vostro core;
in voi clemenza ispirino,
ne plachino il rigore;
di pace come un'iride
qui brilli la pietà.

DOGE:
(Non ismentite, o lagrime,
la simulata calma:
A ognuno qui nascondasi
l'affanno di quest'alma . . .
Ne' miei nemici infondere
non potria la pietà)

LOREDANO:
Parta . . . perché ancor s'esita?
Parta lo sciagurato.

LUCREZIA:
La sposa, i figli seguano,
dividano il suo fato . . .

JACOPO:
Ah sì . . .

LOREDANO:
Costor rimangano:
La legge omai parlò.
(Toglie i figli dalle braccia di Jacopo e li consegna ai Commandadori)

JACOPO: (al Doge)
Ai figli tu dell'esule
sii padre e guida almeno . . .
Tu li proteggi . . .

DOGE:
(Misero!)

JACOPO:
Vedi, al sepolcro in seno,
illagrimata polvere
fra poco scenderò.

DOGE, LOREDANO, e CONSIGLIERI:
Parti . . . t'è forza cedere:
la legge omai parlò.

LUCREZIA, PISANA, BARBARIGO e DAME:
Affanno più terribile
in terra chi provò?

(Jacopo parte fra le guardie, Lucrezia sviene fra le braccia delle donne; tutti si ritirano)

 


ATTO TERZO
SCENA I

L'antica piazetta di San Marco. Il canale è pieno di gondole che vanno e vengono. Di fronte vedesi l'isola dei Cipressi, ora San Giorgio. Il sole volge all'occaso. La scena, da principio vuota, va riempiendosi di popolo e maschere, che entrano da varie parti, s'incontrano, si riconoscono, passeggiano. Tutto è gioia.

CORO I:
Alla gioia!

CORO II:
Alle corse, alle gare . . .

CORO I:
Sia qui lieto ogni volto, ogni cor.

TUTTI:
Figlia, sposa, signora del mare.
è Venezia un sorriso d'amor.

CORO I:
Come specchio l'azzurra laguna
le raddoppia il fulgore del dì.

CORO II:
Le sue notti inargenta la luna,
né le grava se il giorno sparì.

TUTTI:
Alle gioie, ecc.
(Entrano Loredano e Barbarigo mascherati, a parte)

BARBARIGO:
Ve'! Come il popol gode! . . .

LOREDANO:
A lui non cale
se Foscari sia Doge o Malipiero.
(Si avanza fra il popolo)
Amici . . . che s'aspetta?
Le gondole son pronte; omai la festa
coll'usata canzone incominciamo.

CORO:
Sì, ben dicesti.
Allegri, orsù cantiamo.

(Tutti vanno alla riva del mare, coi fazzoletti bianchi e coi gesti animano i gondolieri colla seguente barcarola:)

Tace il vento, è queta l'onda;
mite un'aura l'accarezza . . .
Dêi mostrar la tua prodezza;
prendi il remo, o gondolier.
La tua bella dalla sponda
già t'aspetta palpitante;
per far lieto quel sembiante
voga, voga, o gondolier,
fendi, scorri la lagnuna,
che dinanzi a te si stende;
chi la palma ti contende
non ti vinca, o gondolier.
Batti l'onda, e la fortuna
assecondi il tuo valore . . .
Alla bella vincitore
torni lieto il gondolier.

(Escono dal palazzo ducale due trombettieri seguiti dal Messer Grande. I trombettieri suonano, ed il poplo si ritira. Anche le gondole scompariscono dal canale, ov'è una galera, su cui sventola il vessillo di San Marco)

POPOLO: (udite le trombe)
La guistizia del Leone! . . .
Finché passi . . . via di qua.
(Si ritirano e si tengono a molta distanza)

BARBARIGO:
Di timor non v'ha ragione!

LOREDANO:
Questo volgo ardir non ha.

(Sbarca dalla galera il Sopracomito, a cui il Messer Grande consegna un foglio. Dal ducale palazzo poi esce lentamente fra i custodi Jacopo Foscari, seguito da Lucrezia e dalla Pisana)

JACOPO:
Donna infelice, sol per me infelice,
vedova moglie a non estinto sposo,
addio . . . fra poco un mare
tra noi s'agiterà e per sempre! Almeno
tutte schiudesse ad ingoiarmi, tutte
le sirti del suo seno.

LUCREZIA:
Taci, crudel, deh taci!

JACOPO:
L'inesorabil suo core di scoglio,
più di costor pietoso,
frangesse il legno, ed una pronta morte
quest'esule togliesse
al suo lento morire . . .
Paghi gli odi sariano e il mio desire.

LUCREZIA:
E i figli? E il padre? Ed io?

JACOPO:
Da voi lontano - è morte il viver mio.
All'infelice veglio
conforta tu il dolore,
dei figli nostri in core
tu ispira la virtù.
A lor di me favella,
di' che innocente io sono,
che parto, che perdono,
che ci vedrem lassù.

LUCREZIA:
Cielo, s'affretti al termine
la vita mia penosa!

JACOPO:
Di Contarini e Foscari
mostrati figlia e sposa!
Che te non veggan piangere;
gioire alcun ne può.

LOREDANO: (imperiosamente al Messer Grande)
Messer, a che più indugiasi?
Parta, n'è tempo omai.

JACOPO e LUCREZIA:
Chi sei?

LOREDANO: (levandosi per un istante la maschera)
Ravvisami.

JACOPO:
Oh ciel, chi veggio mai!
Il mio nemico demone!

JACOPO e LUCREZIA:
Hai d'una tigre il cor!

JACOPO:
Ah padre, figli, sposa,
a voi l'addio supremo!
In cielo un giorno avremo
merce' di tal dolor.

LUCREZIA:
Ah, ti rammenta ognora
che sposo e padre sei,
ch'anco infelice, dêi
vivere al nostro amor.

PISANA, BARBARIGO e CORO
(Frenar chi puote il pianto
a vista sì tremenda!
Troppo, infelici, è
tal pena ad uman cor!)

LOREDANO:
(Comincia la vendetta
tant'anni desiata.
O stirpe abbominata,
m'è gioia il tuo dolor!)

JACOPO:
In cielo un giorno avremo
merce' di tal dolor!
Sposo addio!

(Jacopo, scortato dal Sopracomito e dai custodi, sale sulla galera. Lucrezia sviene tra le braccia della Pisana; Loredano entra nel palazzo ducale; Barbarigo s'avvia per altra strada; il popolo si disperde)





ATTO TERZO
SCENA II

Stanze private del Doge come nell'atto pirmo.

Il Doge entra afflitto

DOGE:
Egli ora parte! . . . Ed innocente parte! . . .
Ed io non ebbi per salvarlo un detto! . . .
Morte immatura mi rapia tre figli!
Io, vecchio, vivo
per vedermi il quarto
tolto per sempre da un infame esilio!
(Depone il corno)
Oh, morto fossi allora,
che quest'inutil peso
sul capo mio posava!
Almen veduto avrei
d'intorno a me spirante i figli miei!
Solo ora sono! . . . e sul confin degli anni
mi schiudono il sepolcro atroci affanni.

(Barbarigo entra frettoloso, recando un foglio)

DOGE:
Barbarigo, che rechi!

BARBARIGO:
Morente
a me un Erizzo inviò questo scritto.
Da lui solo Donato trafitto
ei confessa, ed ogn'altro innocente . . .

DOGE:
Ciel pietoso! Il mio affanno hai veduto!
A me un figlio volesti reso!
(Entra Lucrezia, desolata)

LUCREZIA:
Ah, più figli, infelice, non hai.
Nel partir l'innocente spirò . . .

DOGE:
Ed il cielo placato sperai!
Me infelice! Più figlio non ho!
(Si abbandona sul seggiolone)

LUCREZIA:
Più non vive! L'innocente
s'involava a'suoi tiranni;
forse in cielo degli affanni
la mercede ritrovò.
Sorga in Foscari possente
più del duolo or la vendetta . . .
Tanto sangue un figlio aspetta,
quante lagrime versò.
(Parte)

(Entra un servo)

SERVO:
Signor, chiedon parlarti i Dieci . . .

DOGE:
I Dieci!
(Che bramano da me? . .)
(al servo che esce)
Entrino tosto.
A quale onta novella
mi serbano costoro?

(Barbarigo, i membri del Consiglio dei Dieci e della Giunta, fra i quali è Loredano, entrano gravemente e dopo inchinato il Doge, gli si dispongono intorno)

DOGE:
O nobili signori, che si chiede da me? . . .
V'ascolta il Doge.
(Si ripone in capo il corno ducale)

LOREDANO:
Il Consiglio convinto ed il Senato,
che gli anni molti e il tuo grave dolore
imperiosamente
ti chieggono un riposo, ben dovuto
a chi tanto di patria ha meritato,
dall cure ti liberan di Stato.

DOGE:
Signori? . . . ho ben intesto?

LOREDANO:
Uniti or qui ne vedi
a ricever da te l'anel ducale . . .

DOGE (alzandosì impetuoso)
Da me non l'otterrà forza mortale! . . .
Due volte in sette lustri,
dacché Doge io sono, ben due volte
chiesi abdicare,
e mel negaste voi . . .
Di più . . . a giurar fui stretto . . .
che Doge morirei!
Io, Foscari, non manco a' giuri miei.

CORO:
Cedi, cedi, rinunzia al potere
o il Leone t'astringe a obbedir.

DOGE:
Questa dunque è l'iniqua mercede,
che serbaste al canuto guerriero?
Questo han premio il valore e la fede,
che han protetto, cresciuto l'impero?
A me padre un figliuolo innocente
voi strappaste, crudeli, dal core!
A me Doge pegli anni cadente
or del serto si toglie l'onor!

CORO:
Pace piena godrai
fra tuoi cari;
cedi alfine, ritorna a' tuoi lari.

DOGE:
Fra miei cari? . . . Rendetemi il figlio:
Desso è spento . . . che resta?

CORO:
Obbedir.

DOGE:
Che venga a me, se lice.
la vedova infelice . . .
(Uno esce)
A voi l'anello . . . Foscari
più Doge non sarà.
(Consegna l'anello ad un Senatore)

(Entra Lucrezia)

LUCREZIA:
Padre . . . mio prence . . .

DOGE:
Principe!
Lo fui, or più nol sono.
Chi m'uccideva il figlio
ora mi toglie il trono . . .
Vieni, fuggiam di qui.

(Prende per mano Lucrezia e s'avvia, quando è colpito dal suono delle campane di San Marco)

Che ascolto! . . . Oh ciel! Salutano
Me vivo un successor!

LOREDANO: (avvicinandosi al Doge con gioia)
In Malipier di Foscari
s'acclama il successor.

BARBARIGO e CORO: (a Loredano)
Taci, abbastanza è misero;
rispetta il suo dolor.

LUCREZIA:
(Oh cielo! Già di Foscari
s'acclama il successor!)

DOGE:
(Quel bronzo ferale
che all'alma rimbomba,
mi schiude la tomba,
sfuggirla non so.
D'un odio infernale
la vittima sono . . .
Più figli, più trono,
più vita non ho!
Quel bronzo ferale, ecc)

LUCREZIA:
(Quel bronzo ferale
che intorno rimbomba,
com'orrida tromba
vendetta suonò)
(al Doge)
Nell'ora fatale
sii grande, sii forte,
maggior della sorte
che sì t'oltraggiò.

LOREDANO:
Il suono ferale
che intorno rimbomba,
com'orrida tromba
vendetta suonò.
Quest'ora fatale
bramata dal core,
più dolce fra l'ore
alfine suonò.

BARBARIGO e CORO
Tal suono ferale
che all'alma rimbomba,
più presto la tomba
dischiudergli può.
Ah, troppo fatale
quest'ora tremenda:
La sorte più orrenda
su desso gravò.

DOGE:
Ah, morte è quel suono!

LUCREZIA:
Fa core . . .

DOGE:
Mio figlio! . . .
(Cade morto)

LOREDANO: (scrivendo sopra un portafoglio che trae dal seno)
"Pagato ora sono!"

TUTTI:
D'angoscia spirò!

FINE

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