I due gemelli veneziani

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I DUE GEMELLI VENEZIANI

I DUE GEMELLI VENEZIANI

di Carlo Goldoni

A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR

ANTONIO CONDULMER

PATRIZIO VENETO

E SENATORE AMPLISSIMO

Finch le mie Commedie chiamavano in Teatro le persone allegre soltanto, bizzarre, e, come suol dirsi, di mondo, tra me stesso io dubitava se fosse convenevole ad uomo onesto quella professione, nella quale, violentato dal nativo mio genio, mi andava impegnando. Era in concetto di scandaloso il Comico Teatro, e sebbene sin dal principio che mi diedi a scriver Commedie, mi fossi gi posto in animo di voler sopratutto la modestia osservare, pur tuttavia mi affliggeva internamente il dolore di vedere il Mondo cos malamente preoccupato, e non mi lasciava in pace il timore desser posto a fascio cogli altri tutti; per la qual cosa, nellatto stesso che il genio comico a s mi rapiva, sentivami dal zelo della mia propria riputazione tirar addietro. Ma quando ho veduto che le persone nobili, di dottrina, di senno, di esemplari costumi e di grado cospicuo, hanno creduto degno di s lonesto divertimento delle mie Commedie, e frequentar pressoch tutte le sere il Teatro nel qual recitavansi, allora fu che ho preso animo e lena, e che, liberatomi da ogni sorta di scrupolo, mi sono intieramente, e con animo quieto e tranquillo, alla intrapresa mia professione abbandonato.

indicibile la consolazione chio ho avuto, quando venni a sapere che V. E., Cavaliere tanto pio, tanto saggio, onorava sovente le mie Commedie. Erami nota per fama la virt grande di V. E., la quale per lo innanzi tollerar non sapeva in verun conto le sciocche e molto meno scostumate sceniche Rappresentazioni, per la qual cosa o di rado, o non mai, soleva intervenirvi; onde veggendo con quanta bont, con quanto generoso compiacimento favoriva le mie, non solo le riputai fortunate, ma giunsi a crederle qualche cosa di buono. So che V. E., per naturale soavissima benignit, tutto sa compatire, tutto aggradir si compiace, ma ci pu verificarsi negli Uomini in quelle cose le quali si trovano essi per una tal quale necessit come costretti a soffrire, non gi in quelle che liberamente si eleggono.

Lo deggio dire, e lo dir a mia gloria, la di lei presenza, la di lei benignissima approvazione, mi ha dato spirito, Mi ha somministrato valore e coraggio, e scrivendo alcuna Commedia, il solo pensiero che dovesse ella servir di spettacolo anche allE. V., mi metteva in dovere di esaminarla con maggior diligenza e di renderla, per quanto mi fosse possibile, castigata e corretta.

V. E., dopo di essersi dichiarata Protettore umanissimo delle mie Commedie, degnossi benignamente di manifestarsi anche Protettore della mia stessa persona; e questo il grandobbligo che avr sempre al Teatro, dessermi per tal mezzo acquistato il patrocinio di un Cavaliere rispettabile per la sua Nobilt, per il suo Grado, e ammirabile per tante belle virt che lo adornano.

Un libro di Commedie non luogo veramente adattato per esaltare le glorie di una Famiglia s illustre, di un Senatore s ragguardevole. Adoro il Sacro Triregno, venero le Mitre che hanno accresciuti i fregi al vostro antichissimo nobil Casato; applaudisco allaffetto distinto e ben giusto, che in ogni tempo ha manifestata la gloriosa vostra Serenissima Patria verso i chiari vostri Progenitori, ornandoli de pi luminosi fregi ondella suol contrassegnar e premiar il merito de Figli suoi valorosi; e con mio sommo compiacimento lo veggo continuato ne dignissimi Senatori Vostri Fratelli, e in Voi medesimo, meritamente quantaltro mai esser lo possa, collocato fra i Padri Coscritti di quellaugusto Senato. Ma altri di me pi valenti Scrittori decantino codeste glorie, che largo campo avranno di spaziare per esse, quando la vostra modestia si accomodi a prestar loro lorecchio; io, contentandomi di ammirar con silenzio e le grandezze della vostra Famiglia, e tante vostre personali pregevolissime virt, non posso a meno di non far parola di quella singolar umanit, che vi rende cos liberale verso i poveri, cos affabile verso gli inferiori, cos adorabile a tutti; effetti questi non solo dindole naturalmente benigna, ma di quella Cristianit di massime e di costumi, che vi rende affatto in tutte le vostre azioni ammirabile. Creder che del molto che potrei dirne, il poco che ho detto possa bastare ad eccitar in altri lemulazione di cos rare prerogative; ma non lo sia per dimostrare al mondo chio vaglia a conoscerne tutto il pregio, sebben ne sperimenti tutto leffetto. Ora che altro potrei mai fare io miserabil che sono, per dare una pubblica testimonianza dellumilissima mia riconoscenza per le tante grazie da V. E. ricevute, e per il solenne benefizio dellautorevole vostra protezione impartita a me e alle cose mie, sennon offerirvi una delle Commedie, che mi si voluto far dare alle stampe?

Una Commedia a un Cavaliere s grande dono, a dir vero, troppo sproporzionato. Io lo conosco; ma se laccompagnarla collofferta di un umilissimo cuore pu di qualche grado accrescerne il prezzo, eccolo riverentemente a V. E. consagrato, insieme con questa mia Commedia dei Due Gemelli, che mi prendo lardire di dedicarvi. Degnatevi di benignamente aggradirlo, mentregli perfettamente conosce che niuna cosa lo pu render felice, pi che la benignissima protezione di V. E. a cui profondamente minchino.

Di V. E.

Mantova, li Giugno 1750.

Umiliss. Devotiss. ed Obbligatiss. Serv.

Carlo Goldoni


LAUTORE A CHI LEGGE

Convien dire che io ami la Patria mia veramente, poich, lontano da essa, tre anni dopo chio nera partito, dovendo scrivere una Commedia, sul gusto della mia Nazione ho voluto scriverla.

In mezzo alla Toscana, in Pisa, dove la professione legale mi obbligava a parlare almeno nei Tribunali, comecch sia, la lingua Tosca, non mi sono dimenticato del mio dolce nativo linguaggio, e poich non mi riusciva di poterlo continuamente parlare, mi ricreavo scrivendolo di quando in quando.

Dopo la Commedia della Donna di garbo, tre anni stetti in trattenimento con Bartolo, Baldo, il Farinaccio, il Claro, ecc. senza pi addimesticarmi con la Comica Musa. Ma finalmente la lusinghiera che ella , ha saputo tirarmi a s nuovamente, e frutto fu della riaperta pratica nostra la Commedia dei Due Gemelli, da me scritta in quel tempo pel valorosissimo Cesare dArbes, che solito a recitare colla maschera di Pantalone, sostenne questa mirabilmente a viso scoperto.

Largomento de due simili, sebbene maneggiato da tanti ne tempi addietro in tante fogge, mi paruto atto a produr sempre nuove e non pi immaginate Commedie. Quella di Plauto, intitolata i Menecmi, la fonte universale donde tutti gli altri, che vennero poi, cavaron le loro. Lillustre Gio. Giorgio Trissino vicentino, gloria e splendor della Italia, per aver egli condotto il primo a calcare le nostre Scene il tragico coturno colla famosa sua Sofonisba, ha voluto ricondurvi anche il socco, trattando questo stesso argomento nella Commedia de Simillimi, nella quale imit il gran latino scrittore, come se ne dichiara egli stesso al Cardinal Farnese scrivendo: laonde, dicegli, avendo tolto una festiva invenzione da Plauto, vi ho mutati nomi, ed aggiuntevi persone, ed in qualche parte cambiato lordine, ed appresso introdottovi il Coro, e cos avendola al modo mio racconcia, voglio mandarla con questo abito nuovo in luce.

Molto pi del Trissino attaccato stette al maestro il facetissimo Firenzuola, che nella sua bella Commedia de Lucidi espresse appuntino di scena in iscena i sentimenti tutti e pensieri di Plauto, conservando della Commedia antica persino lordine stesso, cosicch se cambiati non vi avesse egli i nomi degli attori, e non vi avesse aggiunto un personaggio in carattere di servo, ed adornatala in alcuni luoghi di giocondi sali e motti equivoci, la si potrebbe piuttosto denominare una semplice traduzione de Menecmi di Plauto, di quel che sia una nuova produzione del lepidissimo Fiorentino scrittore, il quale in qualche modo lo confessa nella licenza, con queste parole: Spettatori, non vi partite ancora. Stentate un poco, di grazia, che or ne viene il buono. La Commedia non fornita, che i nostri Lucidi si voglion portare pi da gentiluomini che i Menecmi di Plauto, e mostrare chegli hanno avuto molto miglior coscienza i giovani del d doggi, che quelli del tempo antico, ecc.

Dopo di cos illustri Scrittori dellaureo secolo decimosesto, altri vari Italiani trattaron lo stesso soggetto nel susseguente; ed introducendo due somigliantissimi Gemelli, piantaron su questa perfetta rassomiglianza la loro azione, diversificandola da quella di Plauto bens con vari accidenti ed equivoci; ma finalmente il fondo fu sempre lo stesso. Ne ho veduta una di Bernardino dAzzi Aretino, intitolata le Due Francesche, stampata in Siena lanno 1603. Altre due ne ho pur vedute del famoso Gio. Battista Andreini Fiorentino, tra comici detto Lelio, la prima stampata in Venezia nel 1620, e nominata la Turca; laltra stampata in Parigi nel 1622, chiamata i Due Leli simili. Nelle quali tutte non sennon variamente barattato il sesso tra i simili, dacch ne procede variet di accidenti e di episodi.

Nei tempi a noi pi vicini, qual uso poi non stato fatto sulle nostre scene di questo argomento, e a nostri giorni medesimi? Dopo quella bellissima delle due Gemelle di Niccol Amenta, si pu quasi asserire non esservi accreditato Comico, il quale non abbia voluto dar saggi del proprio ingegno su questo soggetto; e se molti riusciron con lode, accadde anche sovente che impastricciandosi da Comici molte di esse Commedie insieme, ne furon formati dei mostri. Alcuni non si contentaron di introdurre una coppia di gemelli, che ne introdusser due coppie: quindi a nostri tempi si videro in una istessa Commedia due Leandri fratelli, e due Eularie sorelle simili; in unaltra due fratelli padroni simili e due fratelli servi simili, e si rappresenta ancora una Commedia intitolata i Quattro simili di Plauto, che certamente non si sarebbe mai sognato di farla quel grandAutore.

Ho voluto farvi questa leggenda, perch veggiate che io so benissimo quanto rancido largomento della mia Commedia presente, e da quante diverse mani stato trattato. Potete per collincontro delle Commedie allegatevi assicurarvi, che poco mi sono approfittato dellaltrui invenzioni. Io ho creduto di poter inalzare sul fondamento vecchio una fabbrica affatto nuova, e ci mi venne in mente sullosservazione da me fatta che in tutte le antiche pariglie i due Gemelli, oltre al doversi supporre somigliantissimi in tutto lestrinseco della persona, il che pur nella mia, sono rappresentati eziandio dun somigliantissimo carattere, o certamente non guari diverso. Mi son per voluto provare a farli di carattere affatto differenti luno dallaltro, e dar loro nomi distinti. Limpresa mi venne agevolata dalla certa scienza chio aveva della straordinaria abilit del bravo Comico Cesare dArbes, nel fare il diverso Personaggio dello spiritoso e dello sciocco; ed ecco quel che mi ha condotto a scrivere questa Commedia.

Se io abbia colto nel punto propostomi, tocca a Lettori il deciderlo. Io non ardisco di sostenere in ogni sua menoma parte perfetta n questa mia opera, n nessunaltra; ma se devo giudicarne dalluniversale applauso, con che fu essa ricevuta e in Venezia, e in Firenze, e in Mantova, e in altre Citt dellItalia, mi lusingo che nel suo tutto ella possa passare per buona; il che finalmente quanto pu mai pretendersi da uno scrittore ancora novello; da uno scrittore che non fu mai nellimpegno di far una o due sole Commedie; da uno scrittore, alla fine, che scrive per il Teatro, ch quanto a dire principalmente pel Popolo. Una cosa mi certamente riuscita in questa Commedia, che non so a qual altro Comico Poeta sia mai riuscita. Per ben condurre al suo termine la mia azione, mi convenuto far morire in iscena uno de due Gemelli, e la di lui morte, che difficilmente tollerata sarebbe in una Tragedia, non che in una Commedia, in questa mia non reca alluditore tristezza alcuna; ma lo diverte per la sciocchezza ridicola, con cui va morendo il povero sventurato. Io non credo arrogante la mia franca asserzione, quando ricordomi delle risa da cui si smascellavano gli spettatori universalmente, sul momento delle sue agonie e de suoi ultimi respiri. Peraltro esser pu che, in leggendola, il ridicolo che vi non risalti tanto, quanto fece animato dalla grazia del valoroso Comico. Ma la Commedia Poesia da rappresentarsi, e non difetto suo che ella esiga, per riuscir perfettamente, de bravi Comici che la rappresentino, animando le parole col buon garbo dunazione confacevole; checch ne possan dir i severi Critici, egli certo che tutti coloro i quali han veduto rappresentar la morte di Zanetto, han confessato esser ella uno de pezzi pi ridicoli e nuovi della Commedia.


Personaggi

Il DOTTORE BALANZONI avvocato bolognese in Verona;

ROSAURA creduta sua figlia, poi scoperta sorella dei due gemelli;

PANCRAZIO amico del Dottore e suo ospite;

ZANETTO gemello sciocco;

TONINO gemello spiritoso;

LELIO nipote del Dottore;

BEATRICE amante di Tonino;

FLORINDO amico di Tonino;

BRIGHELLA servo in casa del Dottore;

COLOMBINA serva in casa del Dottore;

ARLECCHINO servo di Zanetto;

TIBURZIO orefice, che parla;

BARGELLO che parla;

Uno staffiere di Beatrice, che non parla;

Birri;

Servitori.

La Scena si rappresenta in Verona.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di Rosaura.

Rosaura e Colombina, tutte due alla tavoletta, che si assettano il capo.

ROS. Signora Colombina garbata, mi pare che lobbligo suo sarebbe, prima di mettersi in tante bellezze, di venire ad assettare il capo alla sua padrona.

COL. Signora, lobbligo mio lho fatto: vi sono stata dietro due ore ad arricciarvi, frisarvi e stuccarvi: ma se poi non vi contentate mai, e vi cacciate per dispetto le dita ne capelli, io non vi so pi che fare.

ROS. Guardate mo che presunzione! Voler lasciar me arruffata, per perdere il tempo intorno a se medesima.

COL. E che! non ho io forse de capelli in capo, come ne avete voi?

ROS. S, ma io son la padrona, e tu sei la serva.

COL. Oh, di grazia, non mi fate dire.

ROS. E bada a durare. Or ora verr lo sposo che si attende a momenti, e mi trover in questa maniera.

COL. Anchio, signora, aspetto lo sposo, e mi preme di comparire.

ROS. E ti vuoi paragonare con me, sfacciatella che sei?

COL. Ehi, signorina, non mi perdete il rispetto, sapete, che ve ne pentirete.

ROS. Impertinente, levati, o ti far levare con un bastone.

COL. Poter del mondo! a me un bastone? (salza)

ROS. Cos rispondi alla padrona? Disgraziata, lo dir a mio padre.

COL. Che padrona! Che padre! Eh, signorina, ci conosciamo.

ROS. E che vorresti dire, bricconcella?

COL. Alto, alto con questi titoli, che se mi stuzzicherete, vomiter ogni cosa, sapete.

ROS. Via, parla; che puoi tu dire, bugiarda?

COL. Posso dire... basta. Se ho taciuto finora, adesso non voglio tacere.

SCENA SECONDA

Dottore e dette.

DOTT. Cos questo rumore? Cos stato? Che cosa avete?

ROS. Ah signor padre! mortificate colei. Ella minsulta, mi maltratta, mi perde il rispetto.

DOTT. Come? Cos tratti una mia figliuola? (a Colombina)

COL. Eh, signore, so pi di quello che vimmaginate. Mia madre mha detto tutto, sapete.

DOTT. (Ah donna senza giudizio, se fosse viva, la vorrei scorticare). (da s) (Colombina, per amor del cielo, non dir nulla di quello che sai. Sta cheta, e far tutto per te e per i tuoi vantaggi). (piano a Colombina)

COL. (Oh certo, tacer, e mi lascer maltrattare). (piano al Dottore)

ROS. Dunque, signor padre...

DOTT. Ors, oggi si aspetta il vostro sposo, il signor Zanetto Bisognosi, figlio di quel famoso mercante veneziano che chiamavasi Pantalone, il quale stato allevato a Bergamo da suo zio Stefanello, ed uno de pi ricchi mercanti di Lombardia.

COL. Ricordatevi che anchio mi ho a maritare con il suo servo. Cos mavete promesso.

DOTT. (Benissimo, lo far, ti contenter: purch tu taccia) (piano a Colombina)

COL. Fate bene, se volete chio taccia, a turarmi la bocca col matrimonio.

DOTT. Quant, Rosaura, che non hai veduto il signor Pancrazio?

ROS. Oh, lo vedo spessissimo.

DOTT. Egli un granduomo di garbo!

ROS. Certo che s; non cessa mai di darmi de buoni consigli.

DOTT. Fin chio vivo, non lo lascio uscire di casa mia.

ROS. Fate bene. un uomo che pu molto giovarvi.

COL. Quanto a me, con vostra buona grazia, lo credo un bel birbone.

DOTT. Taci, mala lingua. Che motivo hai tu di parlare cos?

COL. So io quel che dico. Non mi voglio spiegare.

SCENA TERZA

Brighella e detti.

BRIGH. Sior padron, siora padrona, arrivado in sto ponto el sior Zanetto da Bergamo; l smont da cavallo, e l alla porta che el parla con uno che lha compagn.

DOTT. Sia ringraziato il cielo. Figliuola mia, vado in persona a riceverlo, e lo conduco subito a visitarti. (parte)

SCENA QUARTA

Rosaura, Colombinae Brighella

ROS. Dimmi un poco, Brighella, tu che hai veduto il signor Zanetto, che ti pare di lui? bello? grazioso?

BRIGH. Ghe dir siora; circa alla bellezza no gh mal: l zovene, e el pol passar; ma, per quel poco che ho visto, el me par molto gnocco. Nol saveva gnanca da che banda smontar da cavallo. Al viso el someggia tutto a un altro so fradello zemello, che ghha nome Tonin, el qual sta sempre a Venezia, dove ho avudo occasion de conosserlo: ma se el ghe someggia in tel viso, nol ghe someggia in tel resto, perch quello l spiritoso e disinvolto, e questo el par un zocco taggi colla manera.

ROS. Questa relazione non mi d gran piacere.

COL. Col signor Zanetto doveva venire un certo Arlecchino suo servitore; egli venuto? (a Brighella)

BRIGH. No l ancora vegn; ma el saspetta col bagaglio del so patron.

COL. Me ne dispiace. Ho curiosit di vederlo.

BRIGH. Lo so, lo so che l destin al possesso delle vostre bellezze.

COL. Se avete invidia, crepate. (parte)

SCENA QUINTA

Rosaura e Brighella

ROS. Narrami, o Brighella, come hai conosciuto questa famiglia in Venezia, e dimmi per qual cagione il signor Zanetto sia stato allevato a Bergamo.

BRIGH. Mi serviva in Venezia un mercante ricchissimo, amigo intrinseco del fu sior Pantalon dei Bisognosi, padre de sti do fradelli zemelli. El sior Pantalon, oltre de questi, laveva anca una femena, e questa el lha mandada a Bergamo a un so fradello, per nome chiamado Stefanello, ricco e senza eredi, dove prima laveva mand anca el sior Zanetto. Ho sentio a dir, praticando in quella casa, che la femena saveva perso; che a Bergamo no l arrivada, e che la s smarrida, non se sa come, per viazo; e mai pi i ghe nha avudo nova: e questo quanto ghe posso dir circa alle persone de sta fameggia. In quanto po al grado e alle facolt, la casa Bisognosi in Venezia fa bona fegura in Piazza, e la passa per una delle pi comode tra i marcanti.

ROS. Tutto va bene, ma mi rincresce che il signor Zanetto non sia spiritoso quanto il fratello.

BRIGH. Eccolo che el vien in compagnia col patron. La lo esamina, e la veder se ho dito la verit. (parte)

SCENA SESTA

Rosaura, poi il Dottore e Zanetto

ROS. Al viso non mi dispiace. Pu essere che non sia tanto sciocco, quanto me lha dipinto Brighella.

DOTT. Venga, venga liberamente, senza soggezione. Figlia mia, ecco il signor Zanetto.

ZAN. Siora novizza([1]), la reverisso.

ROS. Signore, io gli sono umilissima serva.

ZAN. (Ah, la xe serva! Bond sioria). Digo, sior missier([2]), la novizza dovela?

DOTT. Eccola qui: questa mia figlia, questa la sposa.

ZAN. Mo se la mha dito che la xe serva.

DOTT. Eh, non signore, ha detto gli sono umilissima serva, per complimento, per cerimonia.

ZAN. Ho inteso; scomenzemo mal.

DOTT. Per qual ragione?

ZAN. Perch in tel matrimonio no ghe vuol n busie, n cerimonie.

ROS. ( veramente sciocco, ma pure non mi dispiace). (da s)

DOTT. Eh via, non abbadi a queste inezie.

ROS. Signor Zanetto, assicuratevi chio sono sincera, che non so simulare, e che avr per voi tutta la stima ed il rispetto.

ZAN. Tutte cosse che no val un figo([3]).

ROS. Ma forse non aggradite queste mie espressioni?

ZAN. Siora s, come che la vol.

ROS. Dispiace agli occhi vostri il mio volto?

ZAN. Alle curte. Mi son vegn a Verona per maridarme, e aspetto Arlecchin da Bergamo coi abiti, co le zogie e coi bezzi.

ROS. E bene, non sono io destinata per vostra sposa?

ZAN. Ma che bisogno ghe xe de tanti squinci e quindi? La me tocca la man, e la xe fenia.

ROS. (Che temperamento curioso!) (da s)

DOTT. Ma, caro signor genero, vuol ella fare il matrimonio cos ruvidamente? Dica qualcosa alla sposa, le parli con pi di buona grazia ed amore.

ZAN. Oh s, dis ben. Son tutto, tutto vostro. Me piase quel bel visetto. Vorave... Caro sior missier, feme un servizio.

DOTT. Cosa comanda?

ZAN. And via de qua, perch me d soggezion.

DOTT. Benissimo, la servir. Io sono un uomo compiacentissimo. (Figlia mia, abbi giudizio: un poco scioccherello, ma ha de quattrini). (piano a Rosaura) Signor genero, la riverisco. (Guardate a chi dona la sorte i suoi favori!) (da s, e parte)

SCENA SETTIMA

Rosaura e Zanetto

ZAN. Sioria vostra([4]). (al Dottore) E cuss, siora novizza, nualtri semo mario e muggier([5]).

ROS. Cos spero.

ZAN. Donca cossa femio qua impalai([6])?

ROS. E che cosa vorreste fare?

ZAN. Oh bella! mario e muggier.

ROS. Marito e moglie lo saremo, torno a dir, cos spero: ma ora il matrimonio non ancora fatto.

ZAN. No? Mo cossa ghe vol per far el matrimonio?

ROS. Vi vogliono molte cerimonie e solennit.

ZAN. Parlemose schietto. Me accetteu per vostro mario?

ROS. S, signore, vi accetto.

ZAN. E mi ve accetto per mia muggier. Cossa ghe xe bisogno de altre cerimonie? Questa xe la pi bella cerimonia del mondo.

ROS. Voi dite bene. Ma qui non si pratica in questa guisa.

ZAN. No? Torno a Bergamo. Torno alle montagne, dove son st arlev. L, co se vol ben, xe fatto tutto. Co do parole se fa un matrimonio: e tutte le cerimonie le se fa tra mario e muggier.

ROS. Vi torno a dire che qui vi vogliono altre solennit.

ZAN. Ma ste solennit quando fenirale?

ROS. Ci vogliono almeno due giorni.

ZAN. Oh, figureve se aspetto tanto!

ROS. Siete molto furioso.

ZAN. O femo subito, o no femo gnente.

ROS. Ma questo un disprezzo che fate della mia persona.

ZAN. Ghe dis desprezzo a voler concluder el matrimonio? Saveu quante putte([7]) che vorave esser desprezzae in sta maniera?

ROS. Ma che diavolo! non potete aspettar un giorno?

ZAN. Ma dis, cara vu: ste solennit e ste cerimonie no le se poderave far dopo el matrimonio? Concludemo le cosse tra de nu, e po andemo drio a cerimoniar anca un anno, che no ghe penso gnente.

ROS. Eh, signor Zanetto, mi pare che vi vogliate prender divertimento di me.

ZAN. Seguro che me vorave devertir, ma col matrimonio.

ROS. Lo farete a suo tempo.

ZAN. Dise el proverbio: chi ha tempo, no aspetta tempo. Via, no me fe pi penar. (saccosta, e vuol toccarle la mano)

ROS. Ma questa poi unimpertinenza.

ZAN. E via, che cade([8])!

ROS. Abbiate giudizio, vi dico.

ZAN. Siben, giudizio. (vuol abbracciarla, ella gli d uno schiaffo)

ROS. Temerario!

ZAN. (Senza parlare si ferma attonito, si tocca la guancia. Guarda in viso Rosaura, fa il motto dello schiaffo, la saluta, e alla muta correndo parte)

SCENA OTTAVA

Rosaura, poi Pancrazio

ROS. Poter del mondo! che uomo improprio! che giovine sfacciato! non mi sarei mai creduta una tale temerit in colui, che sembra a prima vista uno sciocco. Ma appunto questi guarda basso sono quelli che ingannano pi degli altri. Noi altre donne mai non ci dovremmo trovare da sola a solo cogli uomini. Sempre sincontra qualche pericolo. Me lha detto tante volte quel buon uomo del signor Pancrazio... Ma eccolo che viene; veramente nel di lui volto si vede a chiare note la bont del suo cuore.

PANC. Il ciel vi guardi, fanciulla; che avete, che vi veggo cos alterata?

ROS. Oh, signor Pancrazio, se sapeste cosa mi accaduto!

PANC. Che mai, che mai! Palesatemi il tutto con libert. Gi in me vi potete sicuramente fidare.

ROS. Ve lo dir, signore: sapete gi che mio padre mi ha destinata in isposa ad un Veneziano.

PANC. (Cos non lo sapessi!) (da s)

ROS. Saprete ancora chegli, partitosi da Bergamo, oggi arrivato in questa citt.

PANC. (Cos si fosse rotto losso del collo). (da s)

ROS. Ora sappiate che costui uno sciocco, ma per temerario.

PANC. La temerit propria di gente sciocca.

ROS. Mio padre mi fece subito abboccare con esso lui.

PANC. Male.

ROS. Poi seco lui ancora mi lasci sola.

PANC. Peggio.

ROS. Ed egli...

PANC. Gi me limmagino.

ROS. Ed egli con parole indecenti...

PANC. Ed anco tenere, non cos?

ROS. S, signore.

PANC. E con qualche atto immodesto?

ROS. Per lappunto.

PANC. Seguite; che avvenne?

ROS. Mi provoc a segno chio gli diedi uno schiaffo.

PANC. Oh, brava, oh saggia, oh esemplare fanciulla! oh degna desser descritta nel catalogo delleroine del nostro secolo! Non ho lingua bastante per lodare la savia risoluzione del vostro spirito. Cos si trattano cotesti insolenti; cos si mortificano questi irriverenti del sesso. Oh mano eroica, oh mano illustre e gloriosa! Lasciate che per riverenza ed ammirazione imprima un bacio su quella mano, che merita gli applausi del mondo tutto. (le prende la mano, e la bacia teneramente)

ROS. Merita dunque la vostra approvazione questatto del mio risentimento?

PANC. Pensate! e in che modo! Al giorno doggi un prodigio trovar una giovane, che per modestia dia uno schiaffo ad un amante. Seguite, seguite s bel costume. Avvezzatevi a disprezzare la giovent, dalla quale non potete sperare che mali esempi, infedelt e strapazzi; e se mai il vostro cuore risolvere si volesse ad amare, cercate un oggetto degno del vostro amore.

ROS. Ma dove ed in chi dovrei cercarlo?

PANC. Oh, Rosaura, per ora non posso dirvi di pi. Penso a voi ed al vostro bene pi di quello che vi credete; basta, lo conoscerete.

ROS. Signor Pancrazio, sono certa della vostra bont. Siete troppo interessato per i vantaggi di questa casa, per non isperare da voi ogni pi segnalato favore. Per, se devo dirvi la verit, il signor Zanetto non mi dispiace, e se non fosse cos sfacciato, forse forse...

PANC. Oib, oib, chiudete lincauto labbro, e non oscurate con sentimenti s vili leroica impresa della vostra virt. Via, odiate anzi un oggetto cos abbominevole. Chi non sa esser modesto, mostra di non aver la ragione che lo governi. Il vostro merito daltro oggetto pi nobile vi rende degna. Non fate mai pi chio vi senta a pronunziare quel nome.

ROS. Dite bene, signor Pancrazio. Perdonate la mia debolezza. Vado a dire a mio padre che non lo voglio.

PANC. Brava; ora vi lodo. Aggiunger alle vostre le mie ragioni.

ROS. Di grazia, non mi abbandonate. (Che uomo dabbene, che uomo saggio ch questo! Felice mio padre, che lha in sua casa! felice me, che sono ammaestrata da suoi consigli!) (da s, e parte)

SCENA NONA

Pancrazio solo.

PANC. Se non mi acquisto Rosaura col mezzo di una falsa virt e di una finta prudenza, n colla giovent, n colla bellezza, n colla ricchezza io non ispero di acquistarla per certo. Ho trovata una strada, che forse forse mi condurr al fine de miei disegni. In oggi chi sa pi fingere sa meglio vivere; e per esser saggio basta parerlo. (parte)

SCENA DECIMA

Strada.

BEATRICE da viaggio, con un SERVITORE, e FLORINDO

BEAT. Tant, signor Florindo, io voglio tornar a Venezia.

FLOR. Ma perch una risoluzione cos improvvisa?

BEAT. Sono ormai sei giorni chio sto attendendo il signor Tonino, con cui passar dovevo a Milano; e non per anco lo vedo a comparire. Dubito che siasi pentito di seguitarmi, oppure che qualche strano accidente non lo trattenga in Venezia; senzaltro voglio partire, e chiarirmi in persona di questo fatto.

FLOR. Ma questa, perdonatemi, unimprudenza; volete ritornar a Venezia, da dove, per consiglio del signor Tonino, siete fuggita? Se vi trovano i vostri parenti, siete perduta.

BEAT. Venezia grande: sentra di notte: far in modo che non sar conosciuta.

FLOR. No, signora Beatrice, non isperate chio vi lasci partire. Il signor Tonino a me vi ha indirizzata, a me vi ha raccomandata, ho debito di trattenervi, ho debito di custodirvi; cos vuole la legge dellamicizia (e cos richiede la forza di quellamore, che a lei mi lega). (da s)

BEAT. Non vi lagnate, se ad onta del vostro volere mi procaccio da me stessa il modo di partire. Sapr trovare la Posta, e sapr col mio servo ritornare a Venezia, se con esso sono venuta a Verona.

FLOR. Oh, questo s che sarebbe il massimo degli errori. Non mi diceste voi stessa che un certo Lelio per viaggio vi ha di continuo perseguitata? E non lho veduto io stesso qui in Verona raggirarsi sempre dintorno a voi, a segno tale che pi volte ho quasi seco dovuto precipitare? Se tornate a partire, ed egli giunge a penetrarlo, non vi esimerete da qualche insulto.

BEAT. Una donna onorata non teme insulti.

FLOR. Ma una donna sola con un servitore per viaggio, per quanto sia onorata, fa sempre una cattiva figura, ed facile ricever un affronto.

BEAT. Tant, voglio partire.

FLOR. Aspettate ancora due giorni.

BEAT. Ah, che il cuor mi predice, che ho perduto il mio Tonino.

FLOR. Tolga il cielo gli auguri: ma se mai lo aveste perduto, che vorreste fare ritornando in Venezia?

BEAT. E che avrei a fare stando in Verona?

FLOR. Qui forse trovereste persona, che persuasa del vostro merito, potrebbe occupare il luogo del vostro caro Tonino.

BEAT. Oh, questo non sar mai. O sar di Tonino, o sar della morte.

FLOR. (Eppure, se qui restasse e non venisse il suo amante, spererei a poco a poco di vincerla). (da s)

BEAT. (Quando meno lo creder, gli fuggir dalle mani). (da s)

FLOR. Ma ecco qui quel ganimede affettato di Lelio. Egli saggira sempre dintorno a voi; guardi il cielo, se foste senza di me.

BEAT. Partiamo.

FLOR. Oh questo no: non diamo segno di timore. State pur sul vostro decoro, e non dubitate.

BEAT. (Mancava questo impedimento alla mia partenza). (da s)

SCENA UNDICESIMA

Lelio e detti.

LEL. Bellissima veneziana, ho risaputo dal vetturino che voi bramate ritornare alla vostra patria; se cos , fate capitale di me: vi dar calesse, cavalli, staffieri, lacch, denari e quanto volete, purch mi concediate il piacere di accompagnarvi.

BEAT. (Che sguaiato!) (da s)

FLOR. Signore, mi favorisca. Con che titolo offre ella tante magnifiche cose alla signora Beatrice, mentre la vede in mia compagnia?

LEL. Che importa a me chella sia in vostra compagnia: ho io soggezione di voi? Chi siete voi? Suo fratello, suo parente, o qualche suo condottiere?

FLOR. Mi maraviglio di voi e del vostro cattivo procedere. Sono un uomo donore. Sono uno che ha impegno di custodir questa donna.

LEL. Oh amico, siete in un difficile impegno!

FLOR. E perch?

LEL. Perch a custodir una donna ci vogliono altre barbe che la vostra.

FLOR. Eppure mi d lanimo di tener a dovere voi, e chiunque altro simile a voi.

LEL. Ors, alle corte. Vi occorre nulla da me? Avete bisogno di denaro, di roba, di protezione? Comandate (a Beatrice)

FLOR. Voi mi farete perder la pazienza.

LEL. Eh, vi conosco alla cera; siete un giovine di garbo. Signora Beatrice, mi dia la mano, e si lasci servire.

BEAT. Mi sembrate un bellimpertinente.

LEL. In amore vi vuole audacia. A che servono tante inutili cerimonie? Via, andiamo. (la vuol prender per mano, ed ella si ritira)

FLOR. Abbiate creanza, vi dico. (gli d una spinta)

LEL. A me questo? A me, temerario? A me, che uomo del mondo non pu vantarsi davermi guardato con occhio brusco, che non abbia anche pagato col sangue il soverchio suo ardire? Sai tu chi sono? Sono il marchese Lelio, signor di Monte Fresco, conte di Fonte Chiara, giurisdicente di Selva Ombrosa. Ho pi terre che tu non hai capelli in quella mal pettinata parrucca, ed ho pi centinaia di doppie, che tu non hai avuto bastonate.

FLOR. Ed io credo che tu abbia pi pazzie nel capo, di quel che vi sieno arene nel mare e stelle nel cielo. (Chi non lo conoscesse? Si vanta conte, marchese, ed nipote del dottor Balanzoni). (da s)

LEL. O venga meco la donna, o tu caderai vittima del mio sdegno.

FLOR. Questa donna vien da me custodita: e se hai che pretender da me, ti risponder colla spada.

LEL. Povero giovine! Ti compatisco. Tu vuoi morire, non cos?

BEAT. (Signor Florindo, non vi cimentate con costui). (piano a Florindo)

FLOR. (Eh, non temete. Abbasser io la sua alterigia). (a Beatrice)

LEL. Vivete ancora, che siete giovine, e lasciatemi questa donna. Delle donne n pieno il mondo. La vita una sola.

FLOR. Stimo pi della vita lonore. O partite, o impugnate la spada. (mette mano)

LEL. Non sei mio pari, non sei nobile, non mi vo batter teco.

FLOR. O nobile, o plebeo, cos si trattano i vili tuoi pari. (gli d una piattonata)

LEL. A me questo! Dei tutelari della mia nobilt, assistetemi nel cimento. (pone mano)

FLOR. Ora vedremo la tua bravura. (si battono)

BEAT. Oh me infelice! Non vo trovarmi presente a qualche tragedia. Mi ritirer nellalbergo vicino. (Nel mentre che li due si battono, Beatrice parte col Servo)

SCENA DODICESIMA

Florindo e Lelio che si battono, poi Tonino

FLOR. Ah! son caduto. (cade)

LEL. Temerario, sei vinto. (gli sta colla spada al petto)

FLOR. Sdrucciolai per disgrazia.

LEL. Ti super il mio valore. Mori...

TON. (colla spada in mano in difesa di Florindo) A mi, mi: alto, alto: co la zente xe in terra, se sbassa la ponta. (a Lelio)

LEL. Voi come centrate?

TON. Ghintro, perch son un omo donor, e no posso sopportar una bulada in credenza([9]).

FLOR. Come... Signor Tonino... Amico caro... (salza)

TON. (Zitto.. son vostro amigo, e son arriv in tempo de defender la vostra vita, ma no st a dir el mio nome). Animo, sior canapiolo([10]), vegn a nu([11]). (sfida Lelio)

LEL. (Ci mancava costui). (da s) Ma voi chi siete?

TON. Son un venezian, che ghha tanto de cuor; che no ghha paura n de vu, n de diese della vostra sorte.

LEL. Io non ho nulla con voi, n intendo di volermi battere.

TON. E mi ghho qualcossa con vu, e me voggio batter.

LEL. Mi sembrate uno stolto; che cosa avete meco?

TON. Laffronto che av fatto a un mio amigo, lo risento come mio proprio. A Venezia se fa pi conto dellamicizia che della vita; e me parerave desser indegno del nome de venezian, se no seguitasse lesempio dei nostri cortesani([12]), che xe el specchio dellonoratezza.

LEL. Ma qual quellaffronto chho fatto a questo vostro s grande amico?

TON. Ghe dis poco! manazzar([13]) un uomo in terra? Ghe dis gnente, dirghe muori, co l coleg([14])? Via, mett man a quella spada.

FLOR. No, caro amico, non vi cimentate per me. (a Tonino)

TON. Eh via, cavve, che tanto stimo a batterme co sto scartozzo de pvere([15]), come bever un vovo([16]) fresco.

LEL. Ma io ho troppo lungamente sofferta la vostra petulanza, con discapito della delicatezza dellonor mio e con iscorno de miei grandavi.

TON. vero. Cossa dir vostra nona nina nana? Cossa dir vostro pare della poltroneria de sto gran fio?

LEL. Ah, giuro al cielo.

TON. Ah, giuro alla terra.

LEL. Eccomi. (si pone in guardia contro Tonino)

TON. Bravo, coraggio. (si battono; Tonino disarma Lelio)

LEL. Sorte ingrata! Eccomi disarmato.

TON. L disarm, e tanto me basta: vedeu come se tratta? No ve manazzo, no digo muori. Me basta lonor de averve vinto. Me basta la spada per memoria de sto trionfo: cio la lama, che la guardia ve la mander a casa, acci la podi vender, e podi pagar el cerusico, che ve caver sangue per el spasemo che av abuo([17]).

LEL. Basta, ad altro tempo riserbo la mia vendetta.

TON. Da muso a muso, son sempre in casa, co me vol.

LEL. Ci vedremo, ci vedremo. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Florindo e Tonino

TON. Va pur, e per tua gloria basti

Il poter dir che contro me pugnasti.

FLOR. Caro amico, quanto vi son tenuto!

TON. Alle curte. Beatrice dove xela?

FLOR. Beatrice!... (Finger mi giovi). E chi questa Beatrice?

TON. Quella putta che ho fatto scampar da Venezia, e lho mandada qua da vu, pregandove de custodirla fina al mio arrivo.

FLOR. Amico, io non ho veduto alcuno.

TON. Come! diseu dasseno o burleu?

FLOR. Dico davvero. Io non ho veduto la donna che dite, e mi sarei fatto gloria di potervi servire.

TON. Ho inteso; la me lha fatta. Me pareva impossibile de trovar una donna fedel. Xe do anni che ghe fazzo lamor. So pare no me la vol dar, perch el ghha in testa che sia un pochetto scavezzo([18]), perch me piase goder i amici e far un poco de tutto, sempre per onoratamente e da vero cortesan. Mi, vedendo che no i me la voleva dar, lho consegiada a scampar. Ella, senza pensarghe suso, lha fatto fagotto e la xe vegnua via. Lho fatta compagnar a Verona da un servitor mio fedel, e mi intanto mho trattegn a Venezia per no dar sospetto. Un certo siorazzo([19]) forestier, che pretendeva sora sta putta, mha trov mi, e sospettando che mi ghabbia fatto la barca, el mha scomenz a bottizar. Una parola tocca laltra, ghho lass andar un potentissimo schiaffo. Sha sussur mezza Venezia e i me voleva in cotego([20]) in ogni forma. Ho tiolto una gondola([21]), e senza andar a casa, senza tior n bezzi([22]), n roba, con quel poco che ghaveva addosso, son vegn qua. Credeva de trovar la mia cara Beatrice; ma sta cagna sassina me lha ficcada. Ors, senti, amigo, ste poche ore che semo qua, no me chiam col nome de Tonin, perch no vorave esser cognossuo.

FLOR. E come volete chio vi chiami?

TON. Diseme Zanetto.

FLOR. Perch Zanetto?

TON. Perch ghho un fradello a Bergamo, che ghha sto nome e el me someggia tutto. Se i me vede, i me creder lu, e cuss scapoler([23]) qualche pericolo.

FLOR. Questo vostro fratello tuttavia in Bergamo?

TON. Credo de s, ma no lo so de seguro, perch semo, co([24]) se sol dir, pi parenti che amici. Lu ghha dei bezzi pi de mi; ma mi godo el mondo pi de lu. Anzi ho sentio a dir chei se vol maridar, ma no so n dove, n con chi. El xe un alocco de vintiquattro carati: beata quella muggier che ghe tocca! Le donne le ghha pi gusto dun mario alocco, che duna bona intrada.

FLOR. Amico, se volete onorar la mia casa, siete padrone.

TON. No vorave darve incomodo.

FLOR. A me fareste piacere; ma per dirvela, ho un padre fastidioso, che non vorrebbe mai veder alcuno.

TON. Eh no no, gnente, compare([25]), gnente, ander allosteria.

FLOR. Mi rincresce infinitamente; per altro, se volete...

TON. Tonin Bisognosi no ha mai costum de piantar el bordon([26]) in casa dei so amici; e i cortesani della mia sorte i d, e no i tiol. Vegn a Venezia, e veder come se tratta. Nualtri ai forestieri ghe demo el cuor; e ghavemo sta vanit de trattar i forestieri in tuna maniera, che tutti diga ben de Venezia, pi della so medesima patria. Ve son obblig, cognosso el vostro bon cuor; ma la bona mare([27]) no la dise vustu, la dise ti([28]).

FLOR. Ma caro amico, fatemi questo piacere, venite.

TON. Fe conto che sia vegn. Se posso, comandme. Son Tonin, e tanto basta. La vita, el sangue tutto, prima per la patria, e po per i amici. Pugna per patria e traditor chi fugge. Sioria vostra. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Florindo solo.

FLOR. Grand la mortificazione chio provo de rimproveri ben giusti del signor Tonino; ma lamore chio ho per Beatrice, mi fa essere ingrato. Sio lo conduco in mia casa, scoperto linganno. A me giova che parta Tonino, e resti meco Beatrice. Allora mi spiegher, e forse non sar contraria a miei desideri. Ander a rintracciarla. Per oggi e domani la far star ritirata. Il servitore lo mander fuori di Verona. Far tutto per acquistarmi questa rara bellezza. So che manco al dovere e lamicizia tradisco, ma amore comanda con troppo arbitrio al mio cuore. Devo a Tonino la vita, e son pronto a sagrificarla per lui. Tutto son pronto a fare, fuorch privarmi di Beatrice che adoro. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Zanetto, poi Lelio

Zanetto mesto e pensoso, senza parlare, toccandosi la guancia dello schiaffo.

LEL. Or siete solo. Ecco il tempo di cimentarvi. (a Zanetto da lui creduto Tonino)

ZAN. Servitor umilissimo.

LEL. Meno cerimonie e pi fatti. Ponete mano.

ZAN. La man? Xe qua la man.

LEL. Che? Fate lo scimunito? Ponete mano alla spada.

ZAN. Alla spada?

LEL. S, alla spada.

ZAN. Mo perch?

LEL. Perch non soffre il coraggioso mio cuore, che fra leroiche gesta del suo valore si conti una perdita sola.

ZAN. De che paese xela, padron?

LEL. Io son romano. Perch?

ZAN. Perch no lintendo gnente affatto.

LEL. Se non intendete me, intenderete il lucido lampo di questo ferro. (pone mano alla spada)

ZAN. Oe, zente, agiuto, el me vol mazzar. (grida forte)

LEL. Ma che! Fingete voi meco, per maggiormente deridermi? So che siete valoroso, ma in mio confronto cederebbe lo stesso Marte, se Giove di sua mano non mi disarmasse. Venite al cimento.

ZAN. (Prima un schiaffo e adesso la spada? Stago fresco come una riosa). (da s)

LEL. Animo, dico, rispondete allinvito. (gli d una piattonata)

ZAN. Aseo([29])!

LEL. O difendetevi, o vi passo il petto. (in atto di ferirlo)

SCENA SEDICESIMA

Florindo e detti.

FLOR. (Colla spada alla mano) Eccomi in difesa dellamico. A me volgete quel ferro.

LEL. Colui un vile, un codardo. (a Florindo, intendendo parlare del creduto Tonino)

ZAN. Sior s, el dise la verit. (a Florindo)

FLOR. Mentite, egli un uom valoroso. (a Lelio)

ZAN. (Sto sior me cognosse poco). (da s)

LEL. Perch dunque meco non si cimenta?

ZAN. (Perch ghho paura). (da s)

FLOR. Perch pi non si degna di combatter con voi.

ZAN. (Che matto che xe cost). (da s)

FLOR. Ma comunque sia, meco avete da cimentarvi. (a Lelio)

LEL. Eccomi, non temo n di voi, n di cento. (si battono)

ZAN. Bravi, pulito, animo, dei, sbuslo([30]).

FLOR. Ecco atterrato il superbo. (Lelio cade)

LEL. Sorte crudele, nemica de valorosi!

FLOR. La tua vita nelle mie mani.

ZAN. Siben, mazzlo. Ficheghela quella cantinella in tel corbame([31]).

FLOR. Non sarebbe azione da cavaliere.

ZAN. Gierela azion da cavalier la soa, quando el me voleva sbusar?

FLOR. Ma voi laltra volta non rimproveraste colui, perch mi minacci la morte, mentre era caduto?

ZAN. Eh, che s matto. Dei, mazzlo.

FLOR. No: vivi, e riconosci da me la vita. (a Lelio)

LEL. Voi siete degno di starmi a fronte; ma colui un vigliacco, un poltrone. (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Florindo e Zanetto

ZAN. Tutto quel che ti vol.

FLOR. Ma, caro amico, perch questa volta vi dimostraste cotanto da voi diverso? Fingete? O qual capriccio il vostro?

ZAN. Sior, no finzo gnente. Mai pi in vita mia ho abuo tanta paura. Se no vegnivi vu, el me sbasiva de posta([32]).

FLOR. Godo davervi salvata la vita.

ZAN. Sieu benedio([33]): lass che basa quella man che mha liber.

FLOR. Ma io ho fatto con voi quello che voi avete fatto con me: voi avete salvata la mia vita, ed io ho salvata la vostra.

ZAN. Mi vho salv la vita?

FLOR. S, quando mi difendeste contro Lelio la prima volta.

ZAN. No me larecordo.

FLOR. I pari vostri si scordano i benefici che fanno, per modestia. Amico, io vi consiglio partir di Verona, perch dubito siate conosciuto.

ZAN. Anca mi credo che i mabbia cognossuo.

FLOR. E se vi conoscono, guai a voi.

ZAN. Sempre de mal in pezo.

FLOR. Vi par poco aver dato uno schiaffo?

ZAN. Averlo tolto, vol dir.

FLOR. Ah, lavete avuto voi lo schiaffo?

ZAN. Sior s. Mo che credevi... che ghe lavesse d mi?

FLOR. Cos credeva.

ZAN. Oib, mi, mi lho buo([34]).

FLOR. Ma la donna non lavete pi vista?

ZAN. Sior no, no lho pi vista.

FLOR. (Nemmen io ho potuto ritrovar Beatrice). (da s)

ZAN. No me curo gnanca([35]) de vderla.

FLOR. Oh s, farete bene. Non ve ne curate pi. Fate a mio modo, tornate a casa vostra.

ZAN. Cuss diseva anca mi.

FLOR. Posso servirvi in conto alcuno?

ZAN. La so grazia.

FLOR. A rivederci.

ZAN. La reverisso.

FLOR. (Pare diventato uno sciocco. Amore fa de brutti scherzi). (da s, parte)

SCENA DICIOTTESIMA

Zanetto, poi Pancrazio

ZAN. Se no vegniva sto sior, stava fresco. Stimo che tutti sa che quella patrona([36]) la mha d un schiaffo. Pazenzia. Sto zovene me vol ben. El me conseggia che vaga via. Ma penso po anca che Rosaura la me piase, e che se la fusse mia muggier, ghaverave gusto. Me despiase che Arlecchin no xe gnancora vegn co sti bezzi e co sta roba, che ghe vorave far un regalo e giustarla.

PANC. (Ecco qui quel baccellone di Zanetto. Si aggira intorno di questa casa, e non sa allontanarsene). (da s)

ZAN. La mha d un schiaffo, donca la me vol mal. Ma no, anca mia siora madre la me dava dei schiaffi e la me voleva ben. Finalmente no la mha miga copp. Eh, che son matto. No voggio desgustarla. Voggio andar subito a domandarghe perdonanza. (va verso la casa del Dottore)

PANC. Quel giovine, dove andate?

ZAN. Vago dalla mia novizza.

PANC. Da quella che vi ha dato lo schiaffo?

ZAN. Siben, giusto da quella.

PANC. E andate con risoluzione di pacificarvi e di sposarla?

ZAN. Bravo, lav indovinada.

PANC. Vi piace quella giovine?

ZAN. Assae.

PANC. Le volete bene?

ZAN. E come!

PANC. La sposereste volentieri?

ZAN. Oh magari([37])!

PANC. Povero giovane, quanto vi compatisco!

ZAN. Coss st?

PANC. Siete sullorlo del precipizio.

ZAN. Mo perch?

PANC. Non volete ammogliarvi?

ZAN. Sior s.

PANC. Povero infelice, siete rovinato.

ZAN. Mo perch?

PANC. Io, che altro non bramo che giovar al mio prossimo, devo per debito di carit fraterna avvertirvi dellenorme pazzia che siete per fare.

ZAN. Mo comdo([38])?

PANC. Sapete voi cosa sia matrimonio?

ZAN. Matrimonio... sior s... l, come sarave a dir... giusto... mario e muggier.

PANC. Ah, se sapeste cosa vuol dir matrimonio, cosa vuol dir moglie, non ne parlereste con tanta indifferenza.

ZAN. Mo via, cossa vorlo dir?

PANC. Matrimonio vuol dire una catena, che tiene luomo legato come lo schiavo alla galera.

ZAN. El matrimonio?

PANC. Il matrimonio.

ZAN. Schienze([39])!

PANC. Il matrimonio un peso che fa sudar i giorni e vegliar le notti. Peso allo spirito, peso al corpo, peso alla borsa e peso alla testa.

ZAN. Gnaccara muso doro([40])!

PANC. E la donna che vi sembra tanto bella e gentile, che credete mai che ella sia?

ZAN. Cossla, caro sior?

PANC. La donna una incantatrice sirena che alletta per ingannare, ed ama per interesse.

ZAN. La donna?

PANC. La donna.

ZAN. Aso!

PANC. Quegli occhi cos brillanti sono due fiamme di fuoco, che a poco a poco accendono e inceneriscono.

ZAN. I occhi... do fiamme de fogo...

PANC. La bocca un vaso di veleno che lentamente per le orecchie sinsinua al cuore, ed uccide.

ZAN. La bocca... un vaso de velen...

PANC. Le guancie, cos vaghe e vermiglie, sono stregherie, sono incanti.

ZAN. Le ganasse([41])... strigherie... incanti...

PANC. Quando una donna vi viene incontro, sappiate che quella una furia che viene per lacerarvi.

ZAN. Bagatelle per i putei!

PANC. E quando la donna viene per abbracciarvi, quello un demonio che vi vuol tirar allinferno.

ZAN. Alla larga.

PANC. Pensateci, e pensateci bene.

ZAN. Ghho bello e pens.

PANC. Mai pi donne.

ZAN. Mai pi donne.

PANC. Mai pi matrimonio.

ZAN. Mai pi matrimonio.

PANC. Quanto benedirete il mio consiglio.

ZAN. El ciel vha mand.

PANC. Via, abbiate giudizio. Il ciel vi benedica.

ZAN. S mio pare: ve voggio ben.

PANC. Prendete, baciatemi la mano.

ZAN. Oh caro! Oh siestu benedio! (gli bacia la mano)

PANC. Donne...

ZAN. Uh...

PANC. Matrimonio...

ZAN. Oh...

PANC. Mai pi...

ZAN. Mai pi.

PANC. Certo?

ZAN. Seguro.

PANC. Bravo, bravo, bravo. (parte)

SCENA DICIANNOVESIMA

Zanetto, poi Beatrice col Servo

ZAN. Cancaro! Aveva fatto una bella cossa, se no capitava sto galantomo. Matrimonio.. peso qua, peso l, peso alla borsa, peso alla testa... Donne... sirene, strighe, diavoli. Ih, che imbroggio maledetto.

BEAT. Oh me felice! Ecco il mio bene, ecco il mio sposo. Quando siete arrivato? (a Zanetto, credendolo Tonino)

ZAN. Via, alla larga.

BEAT. Come! Non son io la vostra sposa? Non siete voi qui venuto per stabilire i nostri sponsali?

ZAN. Siben: la caena, come i galiotti. Brava, za so tutto.

BEAT. Che catena? Che dite di catena? Non vi ricordate delle vostre promesse?

ZAN. Promesse? De cossa?

BEAT. Del matrimonio.

ZAN. Seguro, el matrimonio. Peso alla borsa e peso alla testa.

BEAT. Eh via, guardatemi: non vi burlate di me, che mi fate morire.

ZAN. (Propriamente se ghe vede el fuogo in quei occhi). (da s)

BEAT. Dubitate forse di me? Uditemi, che vi render soddisfatto.

ZAN. Serr quella bocca, quella scatola de velen, che no vorave che me arrivessi a tossegar([42]) el cuor.

BEAT. Oim! Che parlare il vostro? Voi mi fate arrossire senza colpa.

ZAN. Vela l, che la vien rossa. Lo so che s una striga.

BEAT. Son disperata. Ascoltatemi per piet. (saccosta a Zanetto)

ZAN. Via furia, che vien per lacerarme. (fuggendo da lei)

BEAT. Ma cieli! Che mai vi ho fatto? (saccosta di nuovo)

ZAN. Via diavolo, che me voria strassinar allinferno. (parte)

SCENA VENTESIMA

Beatrice sola.

BEAT. Tanto ascolto e non muoio? Che ho da pensare del mio Tonino? O egli impazzito, o stato di me sinistramente informato. Misera, che far deggio? Lo seguir di lontano e tenter ogni arte per discoprire la verit. Amore, tu che per mia sventura mi facesti abbandonare la patria, i genitori e gli amici, tu assistimi nel pericolo in cui mi trovo; se brami in ricompensa il mio sangue, versalo tutto, prima che mi vegga sprezzata dalladorato mio sposo.


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Strada. Da una parte la casa del Dottore, dallaltra osteria con insegna.

ARLECCHINO da viaggio, con un FACCHINO che porta una valigia ed un ferraiuolo.

ARL. Finalmente semo arrivadi alla bella citt de Verona, dove Cupido ha scocc quella frezza che mha ferido el cor, senza che veda larco. Dove poss dir desser innamor in una che non ho mai visto; dove ho da sposar una donna che no cognosso.

FACC. Vorrei che ci sbrigassimo, perch ho altri impegni, e voglio andarmi a guadagnare il pane.

ARL. Mi no so dove mai sia allozado quellalocco del mio patron. Dim, caro ti, cognosset ti el sior Zanetto Bisognosi?

FACC. Non lo conosco, non so chi sia.

ARL. Mo l el mio patron. L vegn da Bergam a Verona per maridarse; lu lha da tor la patrona, e mi ho da tor la serva, per mantegnir el capital in casa. Lu l vegn avanti de mi: mi son qua colla roba: ma no so dove el sia allozado, e no so come far a trovarlo.

FACC. Quando non sapete pi di cos, Verona grande; durerete fatica a ritrovarlo.

ARL. Fortuna, te ringrazio. Zitto, che l qua che el vien. Retiremose in disparte: ghe vi far una burla: vi veder se el me cognosse.

FACC. troppa libert scherzar col padrone.

ARL. Eh, tra lu e mi semo amici: andemo, che me vi tor un poco de spasso.

FACC. Ma spicciatevi, che non ho tempo da perdere.

ARL. Va la, che te pagher. (si ritirano)

SCENA SECONDA

Tonino e detti, ritirati.

TON. Gran cossa che no possa saver gnente de Beatrice! Pussibile che la mabbia impiant, che la mabbia tradio?

ARL. (Intabarrato con caricatura passeggia avanti Tonino, da lui creduto Zanetto)

TON. (Coss sto negozio? Cost cossa vorlo dai fatti mii?) (da s)

ARL. (Torna a ripassare avanti a Tonino, con aria brusca e minaccevole)

TON. (Chel fusse qualche sicario mand a Verona da quello del schiaffo?) (da s)

ARL. (Ripassa, battendo i piedi)

TON. Coss, sior, cossa voleu? Chi seu?

ARL. (Oh che matto, nol me cognosse). (da s, ridendo)

TON. Anemo, digo, diseme cossa che vol da mi.

ARL. (Fa qualche atto di bravura)

TON. Adesso vederemo chi xe sto bravazzo. (mette mano alla spada)

ARL. Alto, alto: fermeve: no me cognoss? (si scopre)

TON. Chi seu? Mi no ve cognosso.

ARL. Come! no me cognoss?

TON. Sior no, no ve cognosso.

ARL. (St a veder che laria della citt lha fatt deventar matto). (da s)

TON. Voleu dirme chi s? cossa che vol?

ARL. Diseme: av bev? (ridendo)

TON. Manco confidenza, che ve taggio i gartoli([43]).

ARL. Donca no me cognoss?

TON. Sior no, no ve cognosso.

ARL. Adess me cognosser. Tol sta roba: me cognossive? (gli d un bauletto con delle gioje)

TON. (Gran belle zogie! Coss sto negozio?) (da s)

ARL. E cuss? Me cognossive?

TON. Sior no, no ve cognosso.

ARL. No? Adess me cognosser. Tol sti bezzi. Me cognossive? (gli d una borsa con denari)

TON. (Una borsa de bezzi?) (da s) Sior no, no ve cognosso.

ARL. Oh maledettissimo, no me cognoss? Tol sta valise, e me cognosser.

TON. Con tutta sta valise mi no ve cognosso.

ARL. Siu matt, o imbriago?

TON. Matto o imbriago sar vu. Ste zogie e sti bezzi no la xe roba mia: son galantomo e no la voggio. Tiol, e portela de chi la xe.

ARL. Me maraveggio de vu: quella l roba vostra. Le zogie, i bezzi, la valise, l quel che mav consegn da portarve, e mi fedelmente ve lho port. Disim, dove seu alloz.

TON. In quellosteria.

ARL. Che porta la valise l drento?

TON. S, portla pur, za che vol cuss.

ARL. Ma no me cognoss?

TON. No ve cognosso.

ARL. Puh! Mamalucco maledetto. Vagh in te losteria. Porto in camera la valise, vegnir a dormir, e quand aver digerida la cotta, me cognosser. (prende la valigia e il tabarro, ed entra nellosteria)

SCENA TERZA

Tonino, poi Colombina

TON. Questo el xe un bellaccidente. Un bauletto de zogie, una borsa de bezzi, per qualchedun i saria a proposito ma mi son un omo de onor, son un galantomo, e no voggio la roba de nissun. Col xe un matto. Sa el cielo come ghe xe capit sto scrigno e sta borsa in te le man. Se no la tegniva mi, el laverave dada a qualche baron. Mi custodir lun e laltra; e se saver chi abbia perso sta roba, ghe la restituir con tutta pontualit.

COL. Serva, Signor Zanetto.

TON. A mi?

COL. S a lei. Non lei il signor Zanetto Bisognosi?

TON. Son mi, per servirla. (Manco mal che la me cognosse per Zanetto). (da s)

COL. Se si compiace, la mia padrona gli vorrebbe parlare.

TON. (Ho inteso. Solite avventure dei forestieri). (da s) Volentiera: co no vol altro, ve servir.

COL. Uh che belle gioje che ha il signor Zanetto!

TON. (Ah ah, adesso capisso megio. Dal balcon lha visto le zogie, e la mha mand lambassada). (da s)

COL. Sicuro: mimmagino che saranno destinate per la signora Rosaura.

TON. Che xe la vostra patrona?

COL. La mia padrona, s signore.

TON. (Se ve digo mi che le tende alle zogie: ma sta volta le lha fallada. Voggio per devertirme). (da s) Pol esser anca de s, segondo che la me ander a genio.

COL. In questo poi, non fo per dire, ma una bella giovine.

TON. (Brava! Come che la batte ben el canafio([44])!) (da s) Ma, digo, come savemio da regolar?

COL. In che proposito?

TON. Circa alle monee([45]).

COL. Eh, lei non ha bisogno di denari.

TON. (Eh s, la tira alle zogie). (da s) Donca la xe ricca la vostra patrona.

COL. Figuratevi, figlia di un Dottore.

TON. La xe fia dun Dottor!

COL. Oh s, che non lo sapete?

TON. Ma el sior Dottor gh pericolo chel me diga gnente, sel me vede in casa?

COL. Anzi lo desidera, e sono venuta a chiamarvi dordine ancora di lui.

TON. (Bravi! Pare, fia e massera([46]), tutti de balla([47]). No vorave intrar in qualche impegno). (da s) Sent, fia mia, diseghe alla vostra patrona che vegnir unaltra volta.

COL. No no, signore, desidera che venghiate subito; e se siete un uomo civile, non lasciate di compiacerla.

TON. Lass, tanto che vaga qua a metter zo sto bauletto, e po vegno.

COL. Oh quest bella! Anzi dovete venire colle gioje, se volete consolarla.

TON. (Eh, za, lho dito. I vol le zogie. Ma sta volta no i fa gnente siguro. No le xe mie: e po son cortesan([48]). So el viver del mondo). (da s, e chiude il bauletto)

SCENA QUARTA

Il Dottore di casa e detti.

COL. Signor padrone, ecco qui il signor Zanetto. Io mi affatico a persuaderlo a venir in casa, ed egli non vuole.

DOTT. Eh via, signor Zanetto, vada in casa, che mia figlia laspetta.

TON. (Bravo, bravo, bravo). (da s)

DOTT. Questa sua renitenza un torto manifesto, che lei fa a quella buona ragazza.

TON. (Megio, megio, megio). (da s)

DOTT. Vuole che venga lei sopra della strada?

TON. Oib, pi tosto ander in casa.

DOTT. Oh via dunque, da bravo.

TON. Me dala licenza?

DOTT. Padrone di giorno, di notte, a tutte le ore.

TON. Sempre. Porta averta.

DOTT. Per il signor Zanetto porta spalancata.

TON. Ma per mi solo?

DOTT. Per lei solo, sicuramente.

TON. E per altri no certo?

DOTT. Se non fosse per qualche amico di casa.

TON. Eh za, se ghintende. Vago.

DOTT. S, vada pure.

TON. E posso andar, star e tornar?...

DOTT. Quando ella vuole.

TON. Cavarme zoso([49]) e despogiarme?...

DOTT. Sicuramente.

TON. Magnar un boccon?

DOTT. Padronissimo.

TON. Ho inteso tutto. Sioria vostra. (va per entrare in casa)

DOTT. Signor Zanetto, una parola in grazia.

TON. (St a veder, chel vol la bonaman). (da s) Comand.

DOTT. Perdoni la confidenza. Cosha di bello in quel bauletto?

TON. (Ah ah, lamigo ha lum([50]) le zogie). (da s) Certe bagatelle. Certe zogiette.

DOTT. Buono, buono. Mia figlia sar tutta contenta.

TON. (Oh che Dottor bon stomego([51])). (da s) Basta, se laver giudizio, le sar soe. (In tel comio([52])) (da s)

DOTT. Veramente colle donne bisogna essere liberale.

TON. Compare, son galantomo. Non aver da dolerve de mi n vu, n vostra fia.

DOTT. Di ci ne sono pi che certo.

COL. Via, finitela, andate una volta. (a Tonino)

TON. Vago solo?

DOTT. S, con tutta libert.

TON. Bravo. Cuss me piase. (Questo xe un pare de garbo. Lori tende alle zogie, e mi spero cavarme dai freschi con un per de lirazze). (da s, ed entra in casa del Dottore)

SCENA QUINTA

Dottore e Colombina

COL. Mi pare che questo signor Zanetto sia poco innamorato della signora Rosaura.

DOTT. Ma perch?

COL. Non vedete quanta fatica ci vuole a farlo andar in casa? Vago solo, sior s, sioria vostra. Mi fa venire i dolori colici.

DOTT. Da una parte lo compatisco. Sai cosa gli ha fatto Rosaura?

COL. E che gli ha fatto?

DOTT. Gli ha dato un potentissimo schiaffo.

COL. Per qual cagione?

DOTT. Credo perch egli volesse un poco stender le mani.

COL. In questo poi la signora Rosaura ha ragione. E voi ora, perdonatemi, avete fatto male a rimandarglielo in tempo ch sola.

DOTT. Eh, non sola. Vi il signor Pancrazio, che fa la guardia.

COL. Sia maledetto quel vostro signor Pancrazio.

DOTT. Cosa ti ha fatto, che lo maledisci?

COL. Io non lo posso vedere. Fa il bacchettone; ma poi...

DOTT. Ma che poi?

COL. Basta, mi ha detto certe cose...

DOTT. Cosa ti ha detto? Parla.

COL. Piace anche a lui allungar le mani.

DOTT. Chetati, bocca peccatrice. Non parlar cos di quelluomo, che lo specchio dellonoratezza e dellonest. Portagli rispetto e rendigli ubbidienza, come faresti a me medesimo. Egli un uomo dabbene, e tu sei una ignorante, una maliziosa. (parte)

SCENA SESTA

Colombina, poi Arlecchino

COL. Dica quel che vuole il signor padrone, sostengo e sosterr sempre che il signor Pancrazio un uomo finto e un poco di buono.

ARL. Dove diavol l and sto matto? L unora che aspett, e nol ved a vegnir.

COL. Che morettino grazioso!

ARL. Vi domandar a sta ragazza, se la lha visto. Disim un po, bella putta, se no fallo, cognoss un cert sior Zanetto Bisognosi?

COL. Lo conosco sicuro.

ARL. Lav vist che lera qua?

COL. Lho veduto.

ARL. Me faressi la carit de dirm dov che l and?

COL. andato in quella casa.

ARL. Chi ghe sta mo in quella casa?

COL. La signora Rosaura, la sua sposa.

ARL. La cognossela lei la siora Rosaura?

COL. La conosco benissimo.

ARL. E la so cameriera la cognossela?

COL. Non volete che la conosca? Sono io.

ARL. Come? ela... la siora... Colombina?

COL. Io sono Colombina.

ARL. E mi sala chi son?

COL. E chi mai?

ARL. Arlecchin Battocchio.

COL. Voi Arlecchino?

ARL. Mi.

COL. Il mio sposo!

ARL. La mia sposa!

COL. Oh carino!

ARL. Oh bellina!

COL. Oh che piacere!

ARL. Oh che consolazione!

COL. Quando siete arrivato?

ARL. Fem una cossa; andem in c, che discorreremo.

COL. Aspettate un momento, che dica una parola alla padrona, prima dintrodurvi in casa. Non so sella laccorder.

ARL. Ho da parlar anca mi col me patron.

COL. Fermatevi qui, che subito torno.

ARL. Mo s molt bella! Mo son tutt contento.

COL. Eh via, mi burlate.

ARL. Ve lo zuro da putto onorato.

COL. Mi vorrete bene?

ARL. S and, no me fe pi penar.

COL. Vado, vado. ( veramente grazioso). (da s, ed entra in casa)

SCENA SETTIMA

Arlecchino, Colombinadi dentro, poi Zanetto

ARL. Fortuna, te rengrazio. Mo l molt bella! Mo l una gran bella cossa! Altro che Lugrezia Romana! Se Lugrezia Romana ha piass a Sesto, questa la saria capaze de dar soddisfazion anca al settimo.

COL. Arlecchino, venite, venite, che la padrona se ne contenta (di dentro)

ARL. Vegno, cara, vegno. (va per entrare in casa, e Zanetto sulla parte opposta lo vede per di dietro)

ZAN. Oe([53])! Arlecchin, Arlecchin. (lo chiama)

ARL. Sior. (si volta)

ZAN. Quando?

ARL. Come?

ZAN. Ti qua?

ARL. Vu qua?

ZAN. Seguro.

ARL. Ma no s in casa?

ZAN. Dove?

ARL. Dellamiga? (accenna la casa di Rosaura)

ZAN. Oib.

ARL. (Donca culia mha burl). (da s)

ZAN. Dov la roba?

ARL. Oh bella! allosteria.

ZAN. Dove?

ARL. Che mamalucco! L, alle do Torre.

ZAN. Gh tutto?

ARL. Tutto.

ZAN. I bezzi e le zogie?

ARL. (Nol ghha gnente de memoria). (da s) I bezzi e le zogie.

ZAN. Andemo a veder.

ARL. Andemo.

ZAN. Ghastu([54]) la chiave?

ARL. De cossa?

ZAN. Della camera.

ARL. Mi no.

ZAN. Mo ti lassi cuss i bezzi e le zogie?

ARL. Ma doveli i bezzi e le zogie?

ZAN. Dove xeli?

ARL. Oh bella!

ZAN. Oh bona!

ARL. Ma no vho d a vu i bezzi e le zogie?

ZAN. Mi no ghho ab gnente.

ARL. (L matt in conscienza mia). (da s)

ZAN. Ma dovele le zogie de mio sior barba([55])? Le astu portae?

ARL. Le ho portae.

ZAN. Ma dove xele?

ARL. Caro vu, andemo drento, che debotto me scampa la pazenzia.

ZAN. Mo via, subito ti va in collera. Le sar de su in camera.

ARL. Le sar de su in camera.

ZAN. Mo va l, che ti xe un gran alocco! (entra nellosteria)

ARL. And l, che s un gran omo de garbo! (entra anche lui)

SCENA OTTAVA

Colombina sulla porta.

COL. Arlecchino, dove siete? Oh questa graziosa! Se n andato. Bellamore che ha egli per me! Ma dove sar andato? Basta, se vorr, torner; e se non torna, a una ragazza come son io, non mancheranno mariti. (entra in casa)

SCENA NONA

Camera in casa del Dottore, con tavolino e sedie.

Tonino solo a sedere, poi Brighella

TON. Xe unora che stago qua a far anticamera, e sta patrona no la se vede. No vorave che i mavesse tolto per gonzo, e che i me volesse tegnir in reputazion la marcanzia, per farmela pagar cara. A Tonin no i ghe la ficca. Son venezian, son cortesan, e tanto basta. Anemo, o drento, o fora. Oe, gh nissun in casa?

BRIGH. Son qua a servirla. Cossa comandela?

TON. Chi seu vu, sior?

BRIGH. Son servitor de casa.

TON. (Cancarazzo! Livrea?) (da s) Diseme, amigo, la vostra patrona fala grazia, o vaghio via?

BRIGH. Adesso la vago subito a far vegnir. Perch mi, sala, son servitor antigo de casa, e anca bon servitor della fameggia Bisognosi.

TON. Me cognosseu mi?

BRIGH. Ho cognossuo el so signor fradello. Un zovene veramente de garbo.

TON. Dove laveu cognoss?

BRIGH. A Venezia.

TON. Donca laver cognoss putelo([56]).

BRIGH. Anzi grando e grosso... Ma vien la patrona.

TON. No no, diseme. Come laveu cognoss a Venezia grando e grosso?

BRIGH. La me perdona, bisogna che vada. Se parleremo meggio: allonor de servirla. (parte)

SCENA DECIMA

Tonino, poi Rosaura

TON. Che diavolo dise cost? O che l matto, o che qualcossa ghe xe sotto.

ROS. Serva, signor Zanetto; compatisca se lho fatto aspettare.

TON. Eh gnente, patrona, me maravegio. (Oh che tocco! oh che babio([57])!) (da s)

ROS. (Mi guarda a mezzaria. Sar in collera per lo schiaffo). (da s)

TON. (Stago a Verona. No vago pi via). (da s)

ROS. Perdoni, se lho incomodata.

TON. Gnente, gnente, patrona: anzi me posso chiamar fortun, che la mabbia fatto degno dellonor della so compagnia.

ROS. (Questinsolito complimento mi fa creder chei mi derida. Bisogna placarlo e secondar il suo umore). (da s)

TON. (E pur allaria la par modesta). (da s)

ROS. stato mio padre, che mi ha obbligata a farla venir in casa.

TON. E se no giera so sior pare, no la me chiamava?

ROS. Io certamente non avrei avuto tanto ardire.

TON. (Vard quando i dise dei pari, che precipita le fie!) (da s) Donca per mi no la ghha nissuna inclinazion?

ROS. Anzi ho tutta la stima per voi.

TON. Tutta so bont. Possio sperar i effetti della so bona grazia?

ROS. Potete sperar tutto, se mio padre cos dispone.

TON. (Poveretta! la me fa pecc. El pare ghe d la spenta, e ella zoso). (da s) Ma la prego, in grazia, no so se la me intenda. Come avemio da contegnirse?

ROS. Circa a che?

TON. Circa alla nostra corrispondenza?

ROS. Parlatene con mio padre.

TON. Ah, con lu se fa laccordo: con lu se fa tutto.

ROS. Certo che s.

TON. (Oh che Dottor cagadonao!) (da s) Ma intanto che lu vien, za che semo tra de nu, no poderessimo mo...

ROS. Che cosa?

TON. Devertirse un pochetto.

ROS. Ricordatevi dello schiaffo.

TON. (Tiol. Anca ella la sa del schiaffo che ho d a quel sior a Venezia). (da s) Eh, che no me le arecordo pi ste bagatelle.

ROS. Me le ricordo ben io.

TON. Eh ben, cossa ghimporta?

ROS. Mimporta, perch siete troppo ardito.

TON. Ma, cara ella, in te le occasion no bisogna farse star.

ROS. Nelle occasioni conviene aver prudenza.

TON. No so cossa dir, la ghha rason. No far pi. Me basta che la me voggia ben.

ROS. Di questo ne potete star sicuro.

TON. Ah! (sospira)

ROS. Sospirate? Perch?

TON. Perch ghho paura che la diga cuss a tutti.

ROS. Come a tutti? Mi meraviglio di voi.

TON. Gnente, gnente, la me compatissa.

ROS. Che motivo avete di dir questo?

TON. Ghe dir; siccome son vegn a Verona in sta zornada, cuss no me posso persuader, che subito la sabbia innamor de mi.

ROS. Eppure, appena vi ho veduto, subito mi sono sentito scorrere un certo ghiaccio nel cuore, che quasi mha fatto tramortire.

TON. (Ghe credio, o no ghe credio? Ah, la xe donna, gh poco da fidarse). (da s)

ROS. E voi, signor Zanetto, mi volete bene?

TON. S tanto bella, zentil e graziosa, che bisognerave esser de stucco a no volerve ben.

ROS. Che segno mi date del vostro amore?

TON. (Qua mo no so, se ghe voggia carezze o bezzi). (da s) Tutto; comand.

ROS. Tocca a voi a dimostrarmi il vostro affetto.

TON. (Ho inteso. Voggio darghe una tastadina([58])). (da s) Se no fusse troppo ardir, ghho qua certe zogiette, dirave che la se servisse. (apre lo scrignetto, e le fa vedere le gioje)

ROS. Belle, belle davvero. Le avete destinate per me?

TON. Se la comanda, le sar per ella.

ROS. Accetto con giubilo un dono cos prezioso, e lo conserver come primo pegno della vostra bont.

TON. Basta, a so tempo descorreremo. (Oh che cara modestina! no la se farave miga pregar). (da s)

ROS. Ma ditemi, non volete con altro segno assicurarmi della vostra fede?

TON. (Ah, la me voria despoggiar alla prima). (da s) Son qua; ghho certi zecchini, se la li vol, ghe li dar anca quelli.

ROS. No no, questi li potrete dare a mio padre. Io non tengo denaro.

TON. (S ben, la fia traffega([59]), el pare tien cassa). (da s) Far come che la vol.

ROS. Ma per non vi disponete a darmi quello che vi domando.

TON. Che diavolo! Vorla la camisa? Ghe la dar.

ROS. Eh, non voglio da voi n la camicia, n il giubbone. Voglio voi.

TON. Mi? Son qua tutto per ella.

ROS. Oggi si pu concludere.

TON. Anca adesso, se la vol.

ROS. Io sono pronta.

TON. E mi prontissimo.

ROS. Mi volete dar la mano?

TON. La man, i p([60]), e tutto quel che la vol.

ROS. Chiameremo due testimoni.

TON. Oib. Da cossa far de do testimoni?

ROS. . Perch siano presenti.

TON. A cossa?

ROS. Al nostro matrimonio.

TON. Matrimonio? Punto e virgola.

ROS. Ma non dite che siete pronto?

TON. Son pronto, vero: ma matrimonio, cuss subito...

ROS. Andate, andate, che vedo che mi burlate.

TON. (No la me despiase, e fursi fursi faria col tempo la capochieria([61]). Ma sta facilit de invidar la zente in casa, no me piase). (da s)

ROS. Siete troppo volubile, signor Zanetto.

TON. Volubile? No xe vero. Anzi son lesempio della costanza e della fedelt. Ma sta sorte de cosse, la sa meggio de mi, le se fa con un poco de comodo. Se ghe pensa suso, e no se precipita una resoluzion de tanto rimarco.

ROS. E poi dite che non siete volubile. Ora volete far subito, non volete n cerimonie, n solennit; ed ora cercate il comodo, il pensamento ed il consiglio.

TON. Se ho dito de voler subito... me sar inteso... basta... no vorave che landasse in collera.

ROS. No no, dite pure.

TON. Che se avesse podesto aver una finezza...

ROS. Prima del matrimonio non la sperate.

TON. No certo?

ROS. No sicuro.

TON. Ma, e le zogie?

ROS. Se me le date con questo fine, tenetele, chio non le voglio.

TON. Recusandole co sta bella vert, la le merita pi che mai. La xe una zovene de garbo, e xe pecc che la ghabbia un pare cuss scellerato.

ROS. Che ha fatto di male il mio genitore?

TON. Ghe par poco? Introdur un omo in casa de so fia co sta polegana([62]), e metterla in cimento de precipitar!

ROS. Ma egli lha fatto, perch siate mio sposo.

TON. Me maraveggio, no xe vero gnente. No avemo mai parl de sta sorte de negozi.

ROS. Ma non ne avete trattato per lettera?

TON. Siora no, no xe vero gnente. El se linsonia, el ghe lo d da intender. El xe un poco de bon, perch el sa che ghho un poco de bezzi, el mha tolto de mira, e el se serve della so bellezza per un disonesto profitto.

ROS. Signor Zanetto, voi parlate male.

TON. Pur troppo digo la verit. Ma la senta: vedo che ella merita tutto, e per la so bellezza e per la so onest; no la se dubita gnente. La staga forte, la me voggia ben, e forsi col tempo la sar mia muggier.

ROS. Io resto molto mortificata per un tal accidente. Senza la speranza che foste mio sposo, non avrei avuto il coraggio di mirarvi in faccia. Se mio padre minganna, il cielo glielo perdoni. Se voi mi schernite, siete troppo crudele. Pensateci bene, e in ogni caso rammentate chio vi amo, ma collamore il pi onesto e il pi onorato del mondo. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Tonino, poi Brighella

TON. Chi ha mai visto una fia pi modesta de un pare pi scellerato? Matrimonio? Tonin, forti in gambe. Co l fatta, l fatta. E pur custia([63]) me bisega([64]) in tel cuor. Ma, e Beatrice che ghho promesso, e xe scampada per causa mia? Ma dovela? Dove xela andada? Chi sa che no labbia finto de far per mi, e no labbia fatto per qualchedun altro? Qua no l vegnua. No se sa gnente de ella. La me pol aver tradio. No la sarave maraveggia, che la me lavesse ficcada. La xe donna, e tanto basta.

BRIGH. Comandela gnente?

TON. No, amigo. Vago via.

BRIGH. Cuss presto?

TON. Cossa voleu che fazza?

BRIGH. No la sta a disnar col sior Dottor?

TON. No no, ve ringrazio. Diseghe al sior Dottor che el xe un bel fio.

BRIGH. Come parlela?

TON. So che intend pi de quel che digo.

BRIGH. Me maraveggio. No so gnente. El mha d ordine de servirla in tutto e per tutto. Se vorla despoggiar?

TON. No, vecchio([65]), no vi altro. Ma perch no credi che ve voggia privar dei vostri incerti, tiol sto mezzo ducato.

BRIGH. Obbligatissimo alle so grazie. Ah, veramente la casa Bisognosi xe sempre stada generosa. Anca el so sior fradello a Venezia el giera cuss liberal.

TON. (E tocca via co sto mio fradello a Venezia). (da s) Ma quando laveu cognoss mio fradello a Venezia?

BRIGH. Sar una cossa de do anni incirca.

TON. Do anni? Come do anni?

BRIGH. Sior s; perch mi giera a Venezia...

SCENA DODICESIMA

Pancrazio e detti.

PANC. Brighella, va dalla padrona, che ha bisogno di te.

BRIGH. Vago subito.

TON. Caro vecchio, fen de dir de Venezia. (a Brighella)

PANC. Perdoni, deve partire. Va tosto, spicciati.

BRIGH. Se vederemo. Lustrissimo, sior Zanetto! (parte)

TON. (Sia maledetto sto intoppo. Son in tuna estrema curiosit). (da s)

PANC. Riverisco il signor Zanetto.

TON. Patron mio stimatissimo.

PANC. Ah! io ho compassione di voi: ma mi pare alla cera che vossignoria poco si curi de miei consigli.

TON. Anzi mi son uno che ascolta volentiera i omeni de garbo, come credo che la sia ella.

PANC. Poi fate a vostro modo, non cos?

TON. Come porla dir sta cossa?

PANC. Mi pare, mi pare, e forse non sar. Vi vedo in questa casa, e ne dubito.

TON. (Vardemo, se podemo scoverzer([66]) qualcossa). (da s) In sta casa zente cattiva, nevvero?

PANC. Ah, pur troppo!

TON. Zente che tira alla vita.

PANC. Ed in che modo!

TON. Quel Dottor particolarmente xe un omo indegnissimo.

PANC. Lavete conosciuto alla prima.

TON. La putta mo, la putta come xela?

PANC. Non le credete, vedete, non le credete. tutta inganni.

TON. Con quella ciera patetica?

PANC. Eh, amico, appunto queste che compariscono modestine e colli torti, queste la sanno pi lunga dellaltre.

TON. Saveu che no dis mal?

PANC. Anzi dico bene.

TON. Ma vu, sior, cossa feu in casa de sta zente cuss cattiva?

PANC. Io maffatico per illuminarli e far loro cambiar costume; ma sinora inutilmente seminai nella rena. Non si fa nulla, non si fa nulla.

TON. Col mal xe in tel legno, la xe fenia.

PANC. Sempre si va di male in peggio.

TON. E pur quella zovene no me dispiase.

PANC. Ha unarte che farebbe innamorare i sassi; ma povero chi sattacca!

TON. La me voleva far zoso col matrimonio...

PANC. Oib. Matrimonio? Che orribile parolaccia!

TON. Matrimonio, orribile parolazza? Anzi l la pi bella parola che ghe sia in tutto el calepin delle sette lengue.

PANC. Ma non vi ricordate che il matrimonio un peso, che fa sudar i giorni e vegliar le notti? Peso allo spirito, peso al corpo, peso alla borsa, peso alla testa?

TON. Tutti sti pesi del matrimonio li sente lomo che no ghha giudizio. Peso al spirito? No xe vero. Lamor della muggier, come che no l combattuo n dal desiderio, n dal rimorso, l un amor soave, dolce e durabile, che consola el cuor, rallegra i spiriti, e anzi tien lanimo sollev e contento del mario, che comunica colla muggier i piaseri e i dispiaseri della fortuna. Peso al corpo? No xe vero. Anzi la muggier libera da molte fadighe el mario. Ella tende alla piccola economia de casa, ella regola la fameggia e comanda alla servit. Provede a quello che no prevede el mario, e con quella natural suttilezza feminina, che qualcun chiama avarizia, in cao dellanno la porta dei profitti alla casa. Peso alla borsa? No xe vero. Lomo che xe inclin a spender, el spender sempre pi fora de casa che in casa. Se el spende per la muggier, finalmente el lo fa con avantaggio del proprio onor, per lustro della so casa. Se la muggier xe discreta, con poco la se contenta. Se la xe viziosa e incontentabile, tocca al mario a moderarla, e se lomo va in rovina per la muggier, no bisogna incolpar lambizion della donna, ma la dabbenaggine del mario. Peso alla testa? No xe vero. La donna o la xe onesta, o la xe desonesta. Se la xe onesta, no gh pericolo del cimier; se la xe desonesta, ghe xe un certo medicamento che se chiama baston, che ghha la virt de far far giudizio anca alle donne matte. In somma el matrimonio xe bon per i boni e cattivo per i cattivi, e concludo coi versi dun poeta venezian:

El matrimonio cossa da prudente,

Ma bisogna saverse regolar;

E quel che desconseggia el maridar,

O l vecchio, o l matto, o l impotente.

PANC. (Costui non mi pare lo sciocco di prima). (da s) Non vi rammentate che la donna unincantatrice sirena, che alletta per ingannare ed ama per interesse?

TON. Vedeu? Anca qua, compatime, sbar delle panchiane([67]). Le donne no le se mesura tutte con un brazzolar([68]). Ghe ne xe tante de cattive, ma ghe ne xe molto pi de bone, come se pol dir anca dei omeni. Le donne incanta? No xe vero gnente. Aveu mai visto la cazza che fa el rospo al rossignol? Lu no fa altro che metterse in tun fosso co la bocca averta. Passa el rossignol, el sinnamora della gola del rospo, el zira, el rezira, e da so posta el se va a far imbocconar. La colpa de chi xela? Del rospo o del rossignol? Cuss femo nu. Vedemo una donna, ghe demo drio; se lassemo incantar. De chi xela la colpa? nostra. Le donne no le poderave gnente sora de nu, se nu no ziressimo attorno de elle; e se le acquista co nu tanta superiorit, xe causa la nostra debolezza, che incensandole troppo, le fa deventar superbe.

PANC. (Ho inteso! costui non fa per me). (da s) Signor Zanetto, non so che dire; se volete la signora Rosaura, pigliatela, ma pensateci bene.

TON. Mi non ho dito de volerla. Ho parl in favor del matrimonio, ma non ho dito de volerme maridar. Ho parl in favor delle donne, ma non ho dito ben de Rosaura. No so se la sia carne o pesce. Me par, e no me par: ghho i mi reverenti dubbi: vu mav messo in mazor sospetto, onde ressolvo de no voler far gnente.

PANC. Farete benissimo, lodo la vostra risoluzione. Siete un uomo di garbo.

TON. Ma za che s un omo tanto da ben, ve voggio confidar una cossa.

PANC. Dite pure con libert. Io so custodir il segreto.

TON. Vedeu sto bauletto de zogie?

PANC. Son gioje quelle?

TON. Sior s.

PANC. Vediamole. Belle, belle assai. (le osserva)

TON. Ste zogie le me xe stae dae per forza da un povero matto, con un abito tutto tacconi. Mi no so de chi le sia; e el patron che le ha perse, ander de smania([69]) cercandole. Mi doman vago via, onde penso de consegnarle a vu, acci, vegnindo fora el patron, ghe le podi restituir.

PANC. Lodo la vostra delicatezza. Siete veramente un uomo onorato.

TON. Tutti i galantomeni i ha da esser cuss.

PANC. E se dopo un lungo tempo, e dopo fatte le debite diligenze, non si trovasse il padrone, come volete che ne disponga?

TON. Impieghele a maridar delle putte.

PANC. Voi altri veneziani siete poi di buon cuore.

TON. Nualtri cortesani semo fatti apposta per far delle opere de piet. Quante povere vergognose vive colle limosine dei galantomini! Xe vero che qualchedun fa, co se sol dir, la carit pelosa: ma ghe ne xe anca de quei che opera per bon cuor. Mi son de sta taggia: per i amici me despoggierave, e per le donne me caveria anca la camisa. (parte)

PANC. Questa volta, se la carit deve esser pelosa, servir questo pelo per medicar le mie piaghe. Se Rosaura le vorr, dovr comprarle con quella moneta che a lei costa poco, e per me valerebbe molto. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Strada solita con osteria.

ARLECCHINO dallosteria, poi ZANETTO dalla medesima.

ARL. Me maraveio, son galantomo: le zogie e i bezzi ve li ho dadi mi. (alla porta, altercando con Zanetto)

ZAN. No xe vero gnente. Ti xe un furbazzo, no ghho abuo gnente. (di dentro)

ARL. Ve ne ment per la gola e per el gargato([70]).

ZAN. Ti un ladro, ti un sassin. Voggio le mie zogie. (vien fuori)

ARL. Le zogie ve digo che lav avude.

ZAN. Can, traditor, le mie zogie, i mi bezzi, la mia roba.

ARL. S un pezzo de matto.

ZAN. Ti mha rob, ti mha sassin.

ARL. Adessadesso ve trago una sassada.

SCENA QUATTORDICESIMA

Bargello coi birri, e detti.

BARG. Cos questo strepito? Chi il ladro? Chi ha rubato?

ZAN. Col che xe l, l el mio servitor. El mha port da Bergamo un bauletto de zogie e dei bezzi, e el mha rob tutto, el mha sassin.

ARL. Non vero gnente, son galantomo.

BARG. Legatelo e conducetelo in prigione. (ai birri, quali legano Arlecchino)

ARL. Son innocente.

BARG. Se sarete innocente, uscirete di carcere senza difficolt.

ARL. E intanto ho da andar preson?

BARG. E intanto andate, e non vi fate strapazzare.

ARL. Sia maledetto! Per causa toa, mamalucco, ignorante! ma se vegno fora, ti me la pagher. (parte coi birri, che lo conducono via)

BARG. Signore, se lei crede che colui sia veramente il ladro, ricorra, e gli sar fatta giustizia. Io intanto dar la mia denunzia, appoggiata alle di lei querele. Se lei ha prove, vada in cancelleria, e le produca. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Zanetto, poi Beatrice

ZAN. Mi no so gnente cossa che el diga, mi no lintendo, ma ghho speranza de recuperar le mie zogie. Le zogie che mha lass mio sior barba, che el mha cont tante volte che el le ha portae da Venezia, co l and a star alle vallade de Bergamo.

BEAT. Mio caro, abbiate piet di me.

ZAN. (Occhi de fogo, bocca de velen). (da s)

BEAT. Per carit, non partite. Ascoltatemi un sol momento; vi domando questunico dono: eccomi ai vostri piedi; vi muovano a compassione le mie lacrime. (singinocchia)

ZAN. (Accosta una mano agli occhi di Beatrice) (I occhi mi no sento che i scotta. Fogo no ghe ne xe certo). (da s)

BEAT. Se mudirete, rimarrete contento.

ZAN. (Quella bocchina l tanto bella, che me lasseria velenar). (da s)

BEAT. Per vostra cagione ho posto a risico la vita e lonore.

ZAN. Per mi?

BEAT. S, per voi, che amo pi dellanima mia; per voi, che siete lunico oggetto de miei pensieri.

ZAN. La me vol ben?

BEAT. S, vamo, vadoro, siete lanima mia.

ZAN. (Sel fusse un diavolo?... Ma l un diavolo tanto bello!) (da s)

BEAT. Ors, lamor mio non soffre maggior indugio. Venite, e datemi la mano di sposo.

ZAN. (Oh questa me piase, senza tante cerimonie e tante solennit). (da s)

BEAT. Via, non mi fate penare.

ZAN. Siora s, son qua. Cossa vorla che fazza?

BEAT. Datemi la mano.

ZAN. Anca tutte do, se la vol. (le tocca la mano) Oh cara! oh che man, oh che bombaso([71])! oh che sea([72])!

SCENA SEDICESIMA

Florindo, in disparte, e detti.

FLOR. (Che vedo! Tonino ha ritrovata Beatrice! Oh sventurato chio sono! Convien ritrovar partito per rimediarvi). (da s)

BEAT. Almeno vi fosse alcuno, che servir potesse di testimonio.

ZAN. Quel sior saravelo bon?

BEAT. Oh s, signor Florindo, finalmente mi riuscito pacificare il mio sposo; egli mi vuol dare la mano, e voi siete pregato a servire per testimonio.

ZAN. Sior s, per testimonio.

FLOR. Questo veramente un uffizio che ho sempre fatto mal volentieri, ma quando si tratta degli amici, si fa di tutto. Prima per, favoritemi una parola in grazia. (a Zanetto)

ZAN. Volentiera. No la vaga via, che vegno subito, sala. (a Beatrice)

FLOR. Ditemi, amico, non siete voi stato in quella casa? (mostra la casa del Dottore, parlando in disparte con Zanetto)

ZAN. Sior s.

FLOR. Per che fare, se lecito saperlo?

ZAN. Per sposar la fia del sior Dottor.

FLOR. Ed ora volete sposar la signora Beatrice?

ZAN. Sior s.

FLOR. Ma se avete impegno colla signora Rosaura.

ZAN. Eh, le sposer tutte do, nimporta. Son da ella. (a Beatrice)

FLOR. No no, sentite. Ma voi burlate.

ZAN. Digo dasseno mi. Son capace de sposarghene anca sie([73]).

FLOR. Ma che! Siamo in terra di Turchi? Mi maraviglio di voi. Sapete meglio di me, che non ne potete sposar che una sola.

ZAN. Donca sposer questa. Adesso vegno. (a Beatrice)

FLOR. Ma n tampoco potete farlo.

ZAN. Mo perch?

FLOR. Perch avete promesso alla figlia di quel Dottore, siete stato in sua casa; se mancate alla parola, vi faranno metter prigione e ve la faranno costar assai cara.

ZAN. (Bona!) (da s) No vegno altro. (a Beatrice)

BEAT. Che dite?

ZAN. No no, no ghe dago altro la man.

BEAT. Ma io non vintendo.

ZAN. Intendo, o non intendo. Chi sha visto, sha visto.

BEAT. Come! Cos mi schernite?

ZAN. La compatissa. In preson no ghe son mai st, no ghe voggio gnanca andar.

BEAT. Perch in prigione?

ZAN. Do([74]) no se ghe ne pol sposar. Quella xe fia dun Dottor. Ghho promesso. Se va in preson; sioria vostra([75]). (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Beatrice e Florindo

BEAT. Oh me infelice! Il mio Tonino impazzato. Parla in una guisa che pi non lo riconosco.

FLOR. Signora Beatrice, io vi spiegher ogni cosa. Sappiate chegli vive amante della signora Rosaura, figlia del signor dottore Balanzoni, e ad essa ha data la parola di matrimonio. Perci, agitato fra lamore e il rimorso, si confonde, vacilla, e quasi quasi stolto diviene.

BEAT. Oh stelle! E sar vero quel che mi dite?

FLOR. Pur troppo vero, e se non siete cieca, voi stessa accorger ve ne potete dal modo suo di parlare.

BEAT. Lo dissi che pi non si riconosce.

FLOR. Ora che pensate di fare?

BEAT. Se Tonino mi abbandona, voglio morire.

SCENA DICIOTTESIMA

Lelio e detti.

FLOR. Se Tonino vabbandona, ecco Florindo pronto a vostri voleri.

LEL. Se Tonino vabbandona, ecco un eroe vendicatore de vostri torti.

FLOR. In me troverete un amante fedele.

LEL. Io colmer il vostro seno delle maggiori felicit.

FLOR. La mia nascita nobile.

LEL. Io chiudo nelle vene un sangue illustre.

FLOR. Di beni di fortuna non sono scarso.

LEL. Ne miei erari vi sono le miniere delloro.

FLOR. Spero non essere odioso agli occhi vostri.

LEL. Mirate in me il pi bel lavoro della natura.

FLOR. Ah, signora Beatrice, non badate alle caricature di un affettato glorioso.

LEL. Non vi lasciate sedurre da un cicisbeo, che combatte fra lamore e la fame.

FLOR. Sar vostro, se mi volete.

LEL. Sarete mia, se vaggrada.

SCENA DICIANNOVESIMA

Tonino e detti.

TON. (Come! Beatrice... qua... in mezzo de do...) (in disparte, osservando)

FLOR. Parlate, mia cara.

TON. (Mia cara!) (come sopra)

LEL. Sciogliete il labbro, mia bella.

TON. (Mia bella! Come xelo sto negozio?) (come sopra)

FLOR. Se Tonino vi lascia, un traditore.

LEL. Se Tonino vi abbandona, un ingrato.

TON. (Salza e si fa vedere) Tonin no xe traditor, Tonin no xe ingrato, Tonin no abbandona Beatrice. Me maraveggio de vu, sior muso da do musi, sior amigo finto, sior canapiolo monzuo([76]). (a Florindo)

FLOR. Ma la signora Rosaura...

TON. Che siora Rosaura? Tas l, sier omo de stucco, e za che av pales el mio nome, e che me cont i passi per pubblicar tutti i fatti mii, da qua avanti no ard gnanca de nominarme, no me vegn in ti p([77]), se no vol che ve fazza della panza un crielo([78]).

LEL. Io per altro...

TON. E vu peraltro, sior cargadura, abbi giudizio, se no, saveu? se una volta vho desarm, unaltra volta ve caver el cuor. Questa la xe roba mia, e tanto basta. (prende per mano Beatrice)

BEAT. Dunque mi dichiarate per vostra...

TON. Zitto l; che con vu la descorreremo a quattrocchi. Vegn con mi. Scartozzi de pvere mal ligai([79]), paronzini salvadeghi([80]), cortesani dalbeo([81]). (parte con Beatrice)

SCENA VENTESIMA

Florindo e Lelio

FLOR. Non son Florindo, se non mi vendico.

LEL. Non son chi sono, se non fo strage di quel temerario.

FLOR. Amico, siamo entrambi scherniti.

LEL. Uniamoci nella vendetta.

FLOR. Andiamo a meditarla.

LEL. La vivacit del mio spirito partorir qualche magnanima idea.

FLOR. Andiamo ad attaccarlo colla spada alla mano.

LEL. No, scarichiamogli una pistola nel dorso.

FLOR. Questo saria tradimento.

LEL. Vincasi per virtute o per inganno, Il vincer sempre fu lodevol cosa. (parte)

FLOR. Belleroismo del signor Lelio! Ors, meglio chio tenti solo le mie vendette. O sar mia Beatrice, o passer Tonino per la punta di questa spada. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Strada.

Pancrazio e Tiburzio orefice.

PANC. Appunto di voi andava in traccia, signor Tiburzio dabbene, e se qui non vi trovavo, venivo alla vostra bottega.

TIB. Oh, signor Pancrazio, ella mio padrone, mi comandi; in che posso servirla?

PANC. Vi dir: ho certe gioje da vendere, cherano di una buona vedova, la quale me le lasci per maritar alcune fanciulle; vorrei che colla vostra sincerit mi diceste il loro valore.

TIB. Volentieri, son pronto a servirvi. Le avete con voi?

PANC. Eccole. Osservatele bene. (tira fuori il bauletto, e lapre)

SCENA SECONDA

Il Bargello coi birri, osservando le gioje da lontano.

TIB. Signor Pancrazio, queste gioje sono di valore, non si possono stimar cos su due piedi. Venite a bottega e vi servir.

PANC. Dite bene, verr: ma sono alquanto sporche, avreste intanto qualche segreto per ripulirle?

TIB. Io veramente ne ho uno singolarissimo: ma non soglio affidarlo a chicchessia, perch un potentissimo veleno.

PANC. A me per potreste usar qualche distinzione: non potete dubitar chio ne abusi. Sapete chi sono...

TIB. So che siete un uomo onesto e da bene, e perci vi voglio servire, giacch per buona fortuna me ne trovo avere indosso un piccolo scatolino. Eccolo, prendete, servitevene, e le vedrete riuscir terse e risplendentissime. In caso poi voleste privarvene, avr forse lincontro di farvele esitar con vantaggio.

PANC. Non lascer di valermi di voi. Intanto vi sono molto obbligato. Attendetemi domani.

TIB. Siete sempre padrone. (parte)

SCENA TERZA

Pancrazio, Bargello e birri in disparte.

PANC. (Veramente son belle queste gioje: ma la legatura antica, e i diamanti sono tanto sporchi che non compariscono. Con questa polvere risalteranno assai pi). (da s)

BARG. (Quel bauletto di gioje appunto quello che ha indicato Arlecchino). (osservando in disparte)

PANC. (Spererei con questo bel regalo di guadagnarmi la grazia della mia cara Rosaura). (da s)

BARG. Alto, signore, con sua licenza.

PANC. Che c? Cosa volete?

BARG. Favorisca quelle gioje.

PANC. Per qual ragione?

BARG. Perch sono rubate.

PANC. Come? Io sono un galantuomo.

BARG. Da chi le ha avute vossignoria?

PANC. Dal signor Zanetto Bisognosi.

BARG. Il signor Zanetto Bisognosi dice che gli sono state rubate; onde ella che le tiene, in sospetto di tale furto.

PANC. Un uomo della mia sorte? Della mia esemplarit?

BARG. Basta, si contenti che la lascio in libert. Porto le gioje a Palazzo, e se vossignoria innocente, vada a giustificarsi.

PANC. Io per la curia? Io per i tribunali? Son conosciuto, sono un uomo donore.

SCENA QUARTA

Zanetto e detti.

PANC. Oh, ecco appunto il signor Zanetto. Dica egli come ho avute codeste gioje.

ZAN. Zogie? Le mie zogie?

BARG. Signor Zanetto, conosce queste gioje?

ZAN. Sior s, queste xe le zogie che mha lass mio sior barba. Le cognosso, le xe mie.

PANC. Sentite? Le conosce. Erano del suo signor zio, erano sue. (al Bargello)

BARG. Ed ella le ha date al signor Pancrazio? (a Zanetto)

PANC. Signor s, signor s, egli me le ha date. Non vero?

ZAN. Mi no so gnente, mi no vho d gnente.

PANC. Come non mi avete dato nulla? Mi maraviglio di voi.

ZAN. E mi me maraveggio de vu. Questa xe roba mia.

PANC. Oh cielo! Volete farmi perdere la riputazione?

ZAN. Perd quel che vol, no ghe penso gnente. Quel zovene, deme la mia roba. (al Bargello)

PANC. Poter del mondo! In casa del signor Dottore, in camera della signora Rosaura, voi me lavete date e ne sapete il perch.

ZAN. S un busiaro, che no cont altro che fandonie. Mav anca dito che le donne ghha i occhi de fogo, e no xe vero gnente.

PANC. Signor bargello, costui un pazzo. Datemi quelle gioje.

BARG. O pazzo, o savio, le gioje le porteremo dal giudice, e toccher a vossignoria a far conoscere chi glielabbia date. Andate, scarcerate Arlecchino, e conducetelo dal giudice ben custodito. (ai birri, e parte)

PANC. Trover testimoni. Ora, subito, il signor Dottore, Brighella, la signora Rosaura, Colombina: tutta, tutta la casa del Dottore... ora... subito... vado... aspettatemi... vengo... la mia riputazione, la mia riputazione, la mia riputazione. (parte)

SCENA QUINTA

Zanetto e il Bargello

ZAN. Mo via, deme le mie zogie. No me fe desperar.

BARG. Andiamo dal giudice, e se egli dir che gliele dia, gliele dar.

ZAN. Cossa ghe intra el giudice in te la mia roba?

BARG. Senza di lui non gliele posso dare.

ZAN. E se lu no volesse che me le dessi?

BARG. Non gliele darei.

ZAN. Mo cossa ghe ne faressi?

BARG. Quello che il giudice comandasse.

ZAN. Donca le posso perder?

BARG. Sicuramente, senza dubbio.

ZAN. Gera meggio lassarle a quel vecchio, che almanco a robarle lha fatto qualche fadiga.

BARG. Ha timore che il giudice gliele rubi?

ZAN. Le xe mie, e per causa soa le posso perder. Dal robarle a no darle a chi le tocca([82]), ghe fazzo poca defferenza.

BARG. Faccia cos, si provveda dun avvocato.

ZAN. Da che far de un avvocato?

BARG. Acci faccia constare al giudice che queste gioje sono sue.

ZAN. E ghe xe bisogno dun avvocato? Chi lo sa meggio de mi, che quelle zogie xe mie?

BARG. S, ma a lei non sar creduto.

ZAN. A mi no, e allavvocato s? Donca se crede pi alla busia che alla verit?

BARG. Non cos: ma gli avvocati hanno la maniera per dir le ragioni dei clienti.

ZAN. Ma se paghelo lavvocato?

BARG. Sicuramente, gli si d la sua paga.

ZAN. E al giudice?

BARG. Anche a lui tocca la sua sportula.

ZAN. E a vu ve vien gnente?

BARG. E come! Ho da esser pagato io e tutti i miei uomini.

ZAN. Sicch donca tra el giudice, lavvocato, el baresello e i zaffi([83]), schiavo siore zogie.

BARG. Ma non si pu far a meno. Ognuno deve avere il suo.

ZAN. Vualtri av daver el vostro, e mi no ho daver gnente? Bona! bella! me piase. Torno alle mie montagne. L no ghe xe n giudici, n avvocati, n sbiri. Quel che xe mio, xe mio; e no se usa a scortegar, col pretesto de voler far servizio. Compare caro, no so cossa dir. Spart quelle zogie tra de vualtri, e se avanza qualcossa per mi, sappiemelo dir, che ve ringrazier della caritae. Vegn, ladri, vegn; robeme anca la camisa, che no parlo mai pi. Alla piegora([84]) tanto ghe fa che la magna el lovo([85]), quanto che la scana el becher([86]). A mi tanto me fa esser despoggi dai ladri, quanto da vualtri siori. Sioria vostra. (parte)

BARG. Costui mi pare un pazzo. Egli mi ha un po toccato sul vivo; ma non importa. Noi altri birri abbiamo buono stomaco e sappiamo digerire i rimproveri, come lo struzzo digerisce il ferro. (parte)

SCENA SESTA

Tonino solo.

TON. Vard quando che i dise dellamicizia del d dancuo([87]). Florindo xe st a Venezia; lho tratt come un proprio fradello. Me fido de lu, ghe mando una donna che tanto me preme, e lu me tradisse! Mi no so con che stomego un amigo possa ingannar laltro amigo. Me par a mi, che se fusse capace de tanta iniquit, ghaveria paura che la terra saverzisse per inghiottirme. Lamicizia xe la pi sagra leze del mondo. Leze che provien dalla natura medesima, leze che regola tutto el mondo, leze che, destrutta e annichilada, butta sottosora ogni cossa. Lamor delle donne el xe fond sulla passion del senso inferior. Lamor della roba el xe fond sul vizio della natura corrotta. Lamor dellamicizia xe fond sulla vera virt; e pur el mondo ghe ne fa cuss poco conto. Pilade e Oreste no serve pi desempio ai amici moderni. El fido Acate xe un nome ridicolo al d dancuo. Se adora lidolo dellinteresse; in liogo de amici se trova una manizada([88]) de adulatori, che ve segonda fina che i ghha speranza de recavarne profitto; ma se la sorte ve rebalta([89]), i ve lassa, i ve abbandona, i ve deride, e i paga dingratitudine i benefizi che ghav fatto; come dise benissimo missier Ovidio:

Tempore felici, multi numerantur amici:

Si fortuna perit, nullus amicus erit.

SCENA SETTIMA

Lelio e detto.

LEL. (Ecco qui il mio fortunato rivale. Voglio vedere se colla dolcezza del mio pregare posso vincer lamarezza del suo negare). (da s)

TON. (Basta, col me la pagher). (da s)

LEL. Minchino allelevato, anzi altissimo invidiabil merito del pi celebre eroe delladriatico cielo.

TON. Servitor strepitosissimo della sua altitonante grandezza.

LEL. Perdoni, se colla noiosa articolazione de miei accenti ardisco offendere il timpano de suoi orecchi.

TON. Regurgiti pure la tromba de suoi eloqui, che io lasser toccarmi non solo el timpano, ma ancora el tamburo.

LEL. Sappia chio sono delirante.

TON. Me ne son accorto alla prima.

LEL. Amore cogli avvelenati suoi strali fer limpenetrabil mio core.

TON. Sarave poco chel vavesse ferio el cuor: l che el vha ferio anca el cervello.

LEL. Ah, signor Zanetto, voi che siete della famiglia de Bisognosi, soccorrete chi ha bisogno di voi.

TON. La ghha bisogno de mi? Mo per cossa?

LEL. Perch ardo damore.

TON. E mi lho da consolar?

LEL. Voi solo avete da risanar la mia piaga.

TON. Aso! de che paese xela, patron?

LEL. Sono del paese de sventurati, nato sotto il cielo de miseri ed allevato nel centro de disperati.

TON. E el morir allospeal dei matti.

LEL. Troncher il filo del laberintico mio discorso colle forbici della brevit. Amo Beatrice, la desidero, la sospiro; so che da voi dipende, la chiedo in dono alla vostra pi che massima, pi che esemplarissima generosa piet.

TON. Anca mi col cortelo della schiettezza taggier el groppo della resposta. Beatrice xe mia, e ceder tutti i tesori del Gange, prima de ceder le belle bellezze della mia bella. (Siestu maledio, che el me fa deventar matto anca mi). (da s)

LEL. Voi mi uccidete.

TON. Vi sar un pazzo di meno.

LEL. Ah ingrato!

TON. Ah scortese!

LEL. Ah tiranno!

TON. Ah matto maledetto!

LEL. Ma se il mio amore in furia si converte, tremerete al mio furore.

TON. Sar qual impenetrabile scoglio aglinfocati dardi della vostra furibonda bestialit.

LEL. Vado

TON. And.

LEL. Vado

TON. Mo and.

LEL. Vado, crudele...

TON. Mo and, che ve mando.

LEL. Vado, s, vado a meditar vendette, pria che il sole nasconda in mare i rai. (parte)

SCENA OTTAVA

Tonino, poi Pancrazio e Brighella

TON. Chi nasse matto, no varisse([90]) mai. Oh che bestia! oh che bestia! Se pol sentir de pezo? Se el stava troppo, el me fava deventar matto anca mi. Veramente a sto mondo tutti ghavemo el nostro rametto, e chi crede desser savio, xe pi matto dei altri. Ma cost l matto coi fiocchi.

PANC. Andiamo, andiamo dal giudice. Voi sarete testimonio della mia innocenza. (a Brighella)

BRIGH. Ecco qua el sior Zanetto.

PANC. Come! potete voi negare davermi date quelle gioje colle vostre mani? (a Tonino)

TON. Sior s, xe vero: ve lo ho dae mi.

PANC. Sentite? Lo confessa. Ditelo al signor giudice. (a Brighella)

TON. Cossa ghentra el sior giudice?

PANC. Bella cosa che avete fatto! Mettere a repentaglio la mia riputazione.

TON. (St a veder, che sha trov el patron delle zogie). (da s) Credeveli fursi che le avessi sgranfignae([91])? (a Pancrazio)

PANC. Pur troppo lo credevano. E voi ne foste la cagione.

TON. Caro sior, mi ho fatto a fin de ben.

PANC. O a fin di bene, o a fin di male, voi mi avete precipitato.

SCENA NONA

Arlecchino e detti.

ARL. Manco mal che son vegn fora de caponera([92]).

TON. Ecco qua quello che mha d le zogie.

ARL. Chi ve lha dae le zogie?

TON. Vu me lav dae.

ARL. E anca i bezzi?

TON. E anca i bezzi.

ARL. E po disevi che no giera vero? Ghav un mustazzo, che negheressi un pasto a un osto.

TON. Me maraveggio. No son capace de negar gnente a nissun. Per forza mav d quelle zogie e sti bezzi. Per forza i ho tolti. Son galantomo, no ghho bisogno de nissun, e se ghavesse bisogno, moriria pi tosto dalla necessit, che far unazion cattiva. Le zogie no le ghho pi. Intendo che le xe dal sior giudice: recuperle e feghene quel che vol. Sti bezzi no i xe mii, no li voggio. Qua me li av dai, qua ve li restituisso. Un omo civil stima pi la reputazion de tutti i bezzi del mondo. I bezzi i va e i vien. Lonor, perso una volta, nol se acquista mai pi. Tiol la vostra borsa: ve la butto in terra, per mostrarve con quanto desprezzo tratto loro e larzento che no xe mio; anzi vorave che in quella borsa ghe fusse tutto loro del mondo, per farve veder che no lo stimo, che no lo curo, e che pi de tutti i tesori stimo lonor de casa Bisognosi, la fama dei cortesani, la reputazion della patria, per la qual saverave morir, come Curzio e Caton xe morti per la so Roma. (parte)

SCENA DECIMA

Pancrazio, Brighellaed Arlecchino

ARL. L matto. (cantando)

BRIGH. Per dir che l matto solenne, basta dir che el butta via la so roba. Vi seguitarlo per curiosit. (parte)

PANC. Questa borsa la raccoglier io e la custodir fino a tanto che Zanetto con qualche lucido intervallo ne disponga a dovere. Amico, venite meco dal giudice, e procuriamo di ricuperare le gioje.

ARL. Sav cossa che vho da dir? Che voggio tornar alle vallade de Bergamo.

PANC. Perch?

ARL. Perch laria della citt fa deventar matti. (parte)

PANC. Per tutto il mondo spira unaria consimile. La pazzia si resa universale: chi pazzo per vanit, chi per ignoranza, chi per orgoglio, chi per avarizia. Io lo sono per amore, e dubito che la mia sia una pazzia molto maggiore dognaltra. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Zanetto, poi Rosaura alla finestra della sua casa.

ZAN. Sto amor, sto amor el xe una gran cossa. Subito che ho visto siora Rosaura, mho sentio a rostir co fa una brisiola([93]). No posso star se no la vedo, se no ghe parlo. Voggio andarla a trovar, e veder se podemo concluder sto matrimonio. (batte alluscio di casa)

ROS. Signor Zanetto, la riverisco. (venendo alla finestra)

ZAN. Oh, patrona bella. Vorla che vegna su?

ROS. No, signore, mio padre non vuole.

ZAN. Mo perch?

ROS. Acci lei non dica chegli mi fa il mezzano.

ZAN. Come vorla che diga sto sproposito? No avemio da esser mario e muggier?

ROS. Almeno mio padre mi ha fatta veder la scrittura.

ZAN. Giusto, la scrittura che ho fatto mi.

ROS. Lavete fatta voi, e poi mi avete detto che non vi era trattato di matrimonio?

ZAN. Mi no diseva de matrimonio. Diseva che fessimo subito quel che ghavevimo da far.

ROS. Io non vi so intender. Ora mi sembrate troppo sciocco, ora troppo accorto.

ZAN. E via, la lassa che vegna su. Cossa vorla? che me storza el collo?

ROS. Eh, di sopra poi non si viene.

ZAN. Donca la vegna zo ella.

ROS. Peggio. Farei una cosa bella a venir sopra la strada!

ZAN. La vuol donca che muora?

ROS. Poverino! Certamente che la passione vi farebbe morire.

ZAN. No la crede? Lontan da ella, son come el pesce fuora dellacqua. Smanio, deliro per vegnirmeghe a buttar in sen: se no la me agiuta, se no la me d una man, dar un crepo([94]) davanti ai so occhi: cascher sbaso([95]) su sta porta, per lassarme cusinar([96]) in tel fogo della so crudeltae.

ROS. Che spiritosi concetti! Fatemi sentir qualchaltra bella cosa.

ZAN. Cossa vorla sentir, a star ella l suso e mi qua? Se la vol sentir qualcossa de bello, o la vegna zoso, o la lassa che vegna suso, che me impegno de farme onor.

ROS. Ma non potete farvi onore anche in qualche distanza?

ZAN. Oh, la me perdona. Mi lontan no so far gnente.

ROS. Ma che fareste se foste vicino?

ZAN. Farave... farave... a dirlo me vergogno. Se la se contenta, ghel canter in tuna canzonetta.

ROS. Lascolter molto volentieri.

ZAN. Se mi ve fusse arente, (canta)

Mio caro bel visin,

Voria da quel bochin

Robar qualcossa.

Se fusse dove s,

Voria... se mintend,

Ma el diavolo no vol

Che far lo possa.

Se fusse in vicinanza

De vu, caro mio ben,

Voria da quel bel sen

Qualche ristoro.

Za so che me cap.

Voria... dis de s.

Lass che vegna su,

Se no mi muoro.

Mo via, no si tirana,

No me fe star pi qua.

Voria butarme l

Do orete sole.

Spiegar tuto el mio cuor

Voria... ma ghho rossor.

A bon intendidor

Poche parole.

ROS. Bravo. Evviva.

ZAN. Ala sentio? Se la vol, son qua.

ROS. Ma vorrei che mi spiegaste una cosa che non intendo. Voi mi fate due figure affatto contrarie. Ora mi sembrate uno scimunito, ora un giovine spiritoso; ora sfacciato, ora prudente. Che vuol dire in voi questa mutazione?

ZAN. No so gnanca mi, segondo che me bisega([97]) in tel cuor quel certo no so che... Per esempio, se quei occhietti... perch se podesse... Siora s, giusto cuss.

ROS. Ecco qui, ora mi avete fatto un discorso da sciocco.

ZAN. E pur drento de mi mintendo, ma no me so spiegar. La vegna zoso, che me spiegher meggio.

ROS. Sapete cosa io comprendo da questo vostro modo di parlare? Che fingete meco, e che punto non mi amate.

SCENA DODICESIMA

Beatrice col Servitore, e detti.

BEAT. (Tonino che parla con una giovine? Ascoltiamo). (da s, in disparte)

ZAN. Ve voggio tanto ben, che senza de vu me par desser oselo([98]) senza frasca, pvero([99]) senza oca, monton senza piegora, porzeletto senza porzeletta. S, cara, ve voggio ben e no vedo lora de buttarme a nuar([100]) in tel mar della vostra bellezza; no vedo lora de sguatararme([101]) co fa una grua in tel bevaor([102]) della vostra grazia, e de spolverarme([103]) in te le vostre finezze, come... s, come laseno se spolvera in tel sabbion.

ROS. (Mi sembra chegli divenga sguaiato pi che mai). (da s)

BEAT. Ah perfido! ah ingrato! ah infedele! Questa la fede che mi giurasti? Test mi desti la mano di sposo, ed ora cos mi tradisci? Per la terza volta mi deludi e mi inganni? Guardami, scellerato, guardami in volto, se hai cuore di farlo: ma no, che il rossore tavvilisce, ti confonde il rimorso, ti spaventa il mio sdegno. Anima indegna! cuor mendace! labbro spergiuro! A che sedurmi nella casa paterna? A che farmi abbandonare la patria? A che darmi la mano di sposo, se ad altra donasti il cuore? Mi fu detta la tua perfidia, ma non lavrei mai creduta. Ora che gli occhi miei son testimoni del vero, ora scorgo i miei torti, i miei danni, i miei disonori. Va, che pi non ti credo; va, che pi non ti voglio. Tassolvo, barbaro, s, tassolvo dal giuramento, se pur te ne assolvono i numi. Pi non curo il tuo amore, pi non voglio la tua destra, non bramo pi la tua fede. Attendi, che per maggiormente porre in libert il tuo perfido cuore, ti vo render quel foglio con cui mi tradisti, con cui mingannasti. S, barbaro, s, crudele; ama la mia rivale, adora il suo sembiante del mio pi vago, ma non sperare in altra donna ritrovar la mia fede, la mia tolleranza, il mio amore.

(Parte col servo. Zanetto, frattanto che parla Beatrice, lascolta attentamente senza dir nulla, poi si volta verso Rosaura)

SCENA TREDICESIMA

Rosaura, poi Zanetto

ZAN. Cuss, tornando al nostro proposito... (a Rosaura)

ROS. A qual proposito tornar pretendi, mancatore, spergiuro? Desti la fede ad altra donna, ed ora me ingannare pretendi? No, perfido, no, scellerato, non ti verr fatta. Ama chi amar devi per debito. Adempi limpegno del tuo cuore mendace. Attendi, attendi, che per farti conoscere che non ti curo, anzi ti aborrisco e ti sprezzo, ora vo a prender quella scrittura con cui timpegnasti tu meco, e vedrai, ingratissimo amante, che Rosaura non sa soffrire un inganno. (si ritira dalla finestra)

SCENA QUATTORDICESIMA

Zanetto solo.

ZAN. Adesso che son marid, stago ben. Questa me dise perfido, quella crudel. Una barbaro, laltra tiran. Ghe ne xe pi? Povero Zanetto! Son desper. Tutti me cria. Nissun me vol. No me posso pi maridar. Dove xe un lazzo, che me picca? Dove un cortello, che me scanna? Dove xe un canal, che me nega? Per zelosia le donne me strapazza, e mi togo de mezzo, e stago a bocca sutta. Donne, gh nissuna che me voggia? No son po gnanca tanto brutto. Ma l cuss, nissun me vol, tutti me strapazza, tutti me cria. Maledetta la mia desgrazia, maledette le mie bellezze. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Rosaura, poi Tonino

ROS. (Alla finestra) Eccomi, eccomi con quella scrittura... Ma se n andato lindegno. Mal mi lusingai, che qui mi attendesse. Il rossore, la confusione, lhanno fatto partire. Ma lo far ritrovare, vedr sio so vendicarmi. (arriva Tonino) Ma eccolo che ritorna. Sfacciato, hai tanto ardire di comparirmi sugli occhi? Va, che di te pi non curo. Ecco la tua scrittura, eccola ridotta in pezzi. Eccola sparsa al vento; cos potessi veder lacerato quel cuore indegno. (straccia una scrittura, la getta in istrada, e si ritira dalla finestra)

SCENA SEDICESIMA

Tonino, poi Beatrice col Servo

TON. (Senza parlare guarda la finestra, poi raccoglie i pezzi della scrittura, che sono in terra)

BEAT. (Con un foglio in mano) Lho alfin ritrovata questa scellerata scrittura. Eccola, indegno, eccola, traditore: mirala, e vedi quanto conto ne faccio. (la fa in pezzi, e la getta in terra) Cos potessi squarciar quel petto, nido dinfedelt. (parte col Servo)

SCENA DICIASSETTESIMA

Tonino solo.

TON. (Leva di terra i pezzi dellaltra scrittura, ed unendo questi e quelli, confronta le parole ed i caratteri, poi dice come segue) Coss sto negozio? Coss sto imbrogio? sta novit? Do donne me strassa la scrittura in fazza? Mi a Rosaura no so daver fatto scrittura, a Beatrice no so daver manc de fede. O le xe tutte matte, o qualche equivoco ghe xe certo. Vedemo un poco cossa dise ste do scritture. (guarda quella di Beatrice, uniti i pezzi raccolti da terra) Prometto... alla signora Beatrice ecc. Io Antonio Bisognosi. Questa va ben. Cossa dise staltra? Colla presente scrittura... ecc. resta concluso... matrimonio tra lonesta... fanciulla... la signora Rosaura Balanzoni... ed il signor Zanetto Bisognosi... Come! Questa xe una scrittura falsa, mi no son Zanetto. Andemo avanti. Vedemo quando la xe stada fatta. Valle Brambana in Bergamasca. Add 14 gennaro 1746. In Bergamasca? Coss sto negozio? Chi lha sottoscritta? Zanetto Bisognosi, mano propria. Xe vero che qua i me crede Zanetto, ma nissun saver tolto la libert de sottoscriver per mi. No l mio carattere. Donca cossa sar? Sto Zanetto Bisognosi saravelo mai mio fradello, che sta in tuna delle vallae de Bergamo? Se poderia dar; e chi sa che nol sia a Verona, senza che mi lo sappia? Quel Brighella servitor, che me andava disendo de mio fradello a Venezia, me d sospetto che veramente el me creda Zanetto. Tante stravaganze che ancuo me xe nate, le me fa crescer el dubbio. Chi sa? Se pol dar. Oh la sarave bella! Me voggio chiarir. Se ghe xe quel servitor in casa, vi saver la verit. Scoverzir terren, senza palesarme. Cancaro! Ghe vol politica. Sta volta bisogna farla da vero cortesan. Oe de casa. (batte dal Dottore)

SCENA DICIOTTESIMA

Brighella di casa, e detto.

BRIGH. Servitor umilissimo; ela ella che batte?

TON. S ben, son mi.

BRIGH. La perdona, perch adesso in casa no se pol vegnir.

TON. No? Perch?

BRIGH. La patrona sbuffa e smania; el patron sulle furie. Anzi la conseggio andar via; perch, se i la vede qua, i capaci de far qualche sproposito.

TON. Ma cossa ghoggio fatto?

BRIGH. No so. Sento che i se lamenta, e no so el perch.

TON. Diseme, amigo, av cognoss mio fradello a Venezia?

BRIGH. Certo che lho cognoss.

TON. Me someggielo?

BRIGH. I par un pomo spartio. No se pol dir che no i sia do zemelli.

TON. E xe do anni che no lav visto?

BRIGH. Do anni in circa.

TON. Mio fradello...

BRIGH. Sior s, el sior Tonin.

TON. E mi mo chi songio?

BRIGH. O bella! el sior Zanetto.

TON. Che vien da...

BRIGH. Da Bergamo, a sposar la siora Rosaura.

TON. Bravo! Vu sav tutto, s un omo de garbo. (Adesso capisso el negozio). (da s)

BRIGH. La me diga, cara ella, e la perdona della curiosit. Ala mai savesto gnente de so sorella?

TON. Mai. Ah, sav anca vu che la sha perso?

BRIGH. Siguro. Quante volte me lha dito la bona memoria de so sior pare.

TON. Ma! no gh altro; mentre che mio pare la mandava a Bergamo, la sha smario, e no se sa come.

BRIGH. Cossa vorla far? Una dota de manco. Se no la me comanda gnente, vago in casa, perch se i me vede a parlar con ella, i me dir roba. A bon reverirla. (entra in casa)

SCENA DICIANNOVESIMA

Tonino, poi Colombina di casa.

TON. Schiavo, amigo. Vard quando che i dise dei accidenti del mondo! Se pol dar? Mio fradello xe in Verona e no se semo visti. Uno xe tolto per laltro, e nasce mille imbrogi in tun zorno. Adesso intendo el negozio delle zogie e dei bezzi; quellArlecchin sar servitor de mio fradello, e quella roba doveva esser soa. Se saveva che i giera de mio fradello, no ghe li dava indrio([104]). Quanto che pagherave de veder sto mio fradello! Ma basta, ander tanto zirando, fina che el trover.

COL. Sentite quella pettegola di Rosaura, come parla male del signor Zanetto; mi viene una rabbia, che non la posso soffrire.

TON. Coss, fia([105]), che ve vedo cuss scalmanada([106])? Coss st?

COL. Se sapeste, signore, mi riscaldo per causa vostra.

TON. Per causa mia? Ve son ben obblig: mo per che motivo?

COL. Perch quella presuntuosa di Rosaura, credendo di essere una gran signora, tratta tutti male.

TON. De mi la deve dir cossazze([107]).

COL. Ed in che modo! E perch io ho prese le vostre parti, ed ho parlato in vostra difesa, ha principiato a strapazzarmi, come se fossi una bestia. Pettegola, sfacciata: se non si sapesse chi , la compatirei.

TON. Mo no xela fia del sior Dottor?

COL. Eh! il malanno che la colga. una venuta di casa del diavolo; trovata per le strade da un pellegrino.

TON. Ma come? Se sior Dottor dise che la xe so fia?

COL. Perch ancor egli un vecchio birbone; lo dice per rubare uneredit.

TON. (Eh, lho ditto che quel Dottor xe un poco de bon). (da s) Donca siora Rosaura no se sa de chi la sia fia?

COL. Non si sa e non si sapr mai.

TON. Quanto xe che la passa per fia del Dottor?

COL. Lebbe in fasce da bambina quella bella gioja.

TON. Quanti anni ghaverala?

COL. Lei dice che nha ventuno; ma credo non conti quelli della balia.

TON. No la pol gnanca aver de pi. Diseme, fia; sto pellegrin da dove vegnivelo?

COL. Da Venezia.

TON. E dove alo trov quella putela([108])?

COL. Dicono alle basse di Caldiera, tra Vicenza e Verona.

TON. Gierela in fasse?

COL. Sicuro, in fasce.

TON. Laveu viste vu quelle fasse?

COL. Il signor Dottore mi pare che le conservi; ma io non le ho vedute.

TON. Ma sto pellegrin come lavevelo abua? Gierela so fia? Cossa ghavevela nome?

COL. Non era sua figlia; ma la trov sulla strada, dove gli assassini avevano svaligiati alcuni passeggieri, e questa bambina rimase col viva per accidente. Il nome poi n pur egli lo sapeva, ed il signor Dottore le impose quello di Rosaura.

TON. (Oh questa bella! St a veder che la xe Flaminia mia sorella, giusto persa tra Vicenza e Verona, quando xe st sassin la mia povera mare, che la menava a Bergamo). (da s)

COL. (Che diavolo dice tra s?) (da s)

TON. Saveu che ghe fusse in te le fasse una medaggia col retratto de do teste?

COL. Mi pare di averlo sentito dire. Ma perch mi fate tante interrogazioni?

TON. Basta... lo saver... (Questa xe mia sorella senzaltro. Cielo, te ringrazio. Vard che caso! Vard che accidente! Do fradei! Una sorella! Tutti qua! Tutti insieme! El par un accidente da commedia). (da s)

COL. (Sta a vedere che costei si scopre figlia di qualche signor davvero). (da s) Signore, se mai la signora Rosaura fosse qualche cosa di buono, avvertite a non dirle che ho sparlato di lei, per amor del cielo.

TON. No no, fia, no ve dubit. Za so che el mestier de vualtre cameriere xe dir mal delle patrone, e che ve contenteressi de zunar pan e acqua, pi tosto che lasar un zorno de mormorar. (parte)

SCENA VENTESIMA

Colombina, poi Pancrazio ed il Dottore

COL. Non vorrei, per aver parlato troppo, aver fatto del male a me e del bene a Rosaura. Quel signor Zanetto mha fatte troppe interrogazioni. Dubito che vi voglia essere qualche novit strepitosa.

DOTT. Colombina, cosa fai sopra la strada?

COL. Sono venuta a vedere se passava quel dellinsalata.

DOTT. Animo, animo, in casa.

COL. Avete veduto il signor Zanetto?

DOTT. Va in casa, pettegola.

COL. Uh, che vecchio arrabbiato! (entra in casa)

SCENA VENTUNESIMA

Il Dottore e Pancrazio

DOTT. Signor Pancrazio; a voi che siete il pi caro amico chio mabbia, confido la mia risoluta deliberazione di voler che immediatamente seguano gli sponsali di mia figlia Rosaura col signor Zanetto Bisognosi, ad onta di tutte le cose passate.

PANC. Ma come! se ella gli ha stracciata la scrittura in faccia, e non lo vuole?

DOTT. Ella ha ci fatto per pura gelosia. Le cose sono avanzate a un segno, che senza scapito del mio decoro non si pu sospendere un tal matrimonio. Tutta Verona ne parla; e poi, per dirvela, il signor Zanetto assai ricco, e con poca dote assicuro la fortuna della mia figliuola.

PANC. Ecco qui; lavarizia, lavarizia vi tenta a far il sacrificio di quella povera innocente colomba.

DOTT. Tant, ho risolto! I vostri consigli, che ho sempre stimati e venerati, questa volta non mi rimoveranno da una risoluzione che trovo esser giusta, onesta e decorosa per la mia casa.

PANC. Pensateci meglio. Prendete tempo.

DOTT. Mi avete voi insegnato pi volte a dire: chi ha tempo, non aspetti tempo. Vado subito a ritrovar il signor Zanetto, e avanti sera voglio che si concludano queste nozze. Caro amico, compatitemi, a rivederci. (parte)

SCENA VENTIDUESIMA

Pancrazio, poi Zanetto

PANC. Ecco precipitata ogni mia speranza. Il Dottore la vuol dar per forza a quel veneziano. Ed io, misero, che far? Non ardisco palesare la mia passione, perch perderei il credito di uomo da bene, e perderei la miglior entrata chio mabbia. Sella si sposa a costui, la condurr seco a Bergamo, e mai pi la vedr. Ah, questo non sar mai vero. Allultimo far qualche bestialit. Mi lever la maschera e mi far anche conoscere per quel che sono, prima di perder Rosaura, che amo sopra tutte le cose di questa terra.

ZAN. Sior Pancrazio, son desper.

PANC. La morte la consolazione de disperati.

ZAN. Crepo de voggia de maridarme, e nissuna me vol. Tutte le donne le me strapazza: tutte le me maltratta e le me manda via, come se fusse un can, una bestia, un aseno. Sior Pancrazio, son desper, no posso pi.

PANC. Ma! se aveste fatto a mio modo, non vi trovereste in questo miserabile stato.

ZAN. Pazenzia! ghav rason. Vorave scampar dalle donne, e no posso. Me sento tirar per forza, giusto come un sion([109]) che tira lacqua per aria.

PANC. Ma voi non siete per il matrimonio.

ZAN. Mo perch?

PANC. Conosco, e so di certo, che se voi vi ammogliate, sarete luomo pi infelice e pi misero della terra.

ZAN. Donca cossa ghoggio da far?

PANC. Lasciar le donne.

ZAN. Mo se no posso.

PANC. Fate a mio modo, partite subito da questa citt, ritornate al vostro paese, e liberatevi da questa pena.

ZAN. Sar sempre per mi listesso. Anca le donne de Bergamo e de Val Brambana le me burla e le me strapazza.

PANC. Dunque, che volete fare?

ZAN. No so gnanca mi, son desper.

PANC. Sio fossi come voi, sapete che cosa farei?

ZAN. Cossa faressi?

PANC. Mi darei la morte da me medesimo.

ZAN. La morte? Disme, caro sior, no ghe saria mo un altro remedio senza la morte?

PANC. E che rimedio vi pu essere per guarire il vostro male?

ZAN. Vu, che s un omo tanto virtuoso, no ghaveressi un secreto da farme andar via sta maledetta voggia de matrimonio?

PANC. Vho inteso. (Eccolo da s nella rete). (da s) Voi mi fate tanta compassione, che quasi vorrei per amor vostro privarmi duna porzione dun rarissimo e prezioso tesoro chio solo possiedo, e che custodisco con la maggior segretezza. Io lho lo specifico da voi desiderato, e sempre lo porto meco per tutto quello che accadere mi pu. Anchio nella mia giovent mi sentivo tormentato da questa peste dimportuno solletico, e guai a me se non avessi avuta questa polvere in questo scatolino rinchiusa. Con questa mi son liberato parecchie volte dai forti stimoli della concupiscenza, e replicando la dose ogni cinque anni, mi sono condotto libero da ogni pena amorosa, sino allet in cui mi vedete. Una presa di questa polve pu darvi la vita, pu liberarvi da ogni tormento. Se la beveste nel vino, vi trovereste privo dogni passione, e mirando con indifferenza le donne, potreste, deridendole, vendicarvi de loro disprezzi. Anzi vi correranno dietro: ma voi non curandole colla virt della mirabile polvere, le sprezzerete, e loro farete pagar a caro prezzo le ingiurie, colle quali vi hanno trattato sinora.

ZAN. Oh magari! Oh che gusto che ghaverave! Per amor del cielo, sior Pancrazio, per carit, deme un poco de quella polvere.

PANC. Ma... privarmi di questa polvere... costa troppo.

ZAN. Ve dar quanti bezzi che vol.

PANC. Ors, per farvi vedere chio non sono interessato e che quando posso, giovo volentieri al mio prossimo, vi dar una presa di questa polvere. Voi la berrete nel vino, e sarete tosto sanato. Subito presa, vi sentirete della confusione per verit nello stomaco e vi parer di morire, ma acquietato il tumulto, vi troverete un altro uomo, sarete contento e benedirete Pancrazio.

ZAN. Sior s, sieu benedio. Dmela, no me fe pi penar.

PANC. (Il veleno datomi da Tiburzio fa appunto al caso per liberarmi da questo sciocco rivale). (da s) Questa la polvere, ma ci vorrebbe il vino. (gli mostra lo scatolino)

ZAN. Ander a casa, e la bever.

PANC. (Si potrebbe pentire). (da s) No, no, aspettate chio vi porter il bisognevole. (Mi fa piet, ma per levarmi dinanzi lostacolo de miei amori, conviene privarlo di vita). (da s, ed entra in casa del Dottore)

ZAN. In sta maniera no se pol viver. Co([110]) vedo una donna, me sento arder da cao a pi, e tutte le me minchiona, le me strapazza. Desgraziae! me vegnir sotto, me correr drio; e mi gnente, saldo. Faremo patta e pagai([111]). No vedo lora de far le mie vendette co quella cagna de Rosaura. Velo qua chel vien. Aveu port el negozio?

PANC. (Torna con un bicchiere con vino) Ecco il vino. Mettetevi dentro la polvere.

ZAN. Cuss? (mette la polvere nel bicchiere di vino)

PANC. Bravo. Bevete. Ma avvertite di non dire ad alcuno chio vi abbia dato il segreto.

ZAN. No dubit.

PANC. Animo.

ZAN. Son qua. Forte come una torre.

PANC. E se vi sentite male, soffrite.

ZAN. Soffrir tutto.

PANC. Parto per non dar ombra di me; mentre, se si risapesse, ognuno mi tormenterebbe, perchio gliene dessi.

ZAN. Ghav rason.

PANC. Oh, quanto vogliam ridere con queste donne!

ZAN. Tutte drio de mi. E mi gnente.

PANC. Niente! Crudo come un leone.

ZAN. Pianzerale?

PANC. E come!

ZAN. E mi gnente!

PANC. Niente.

ZAN. Bevo.

PANC. Animo.

ZAN. Alla vostra salute. (beve mezzo bicchiere di vino)

PANC. (Il colpo fatto). (da s, e parte)

SCENA VENTITREESIMA

Zanetto bevendo a sorso a sorso, poi Colombina

ZAN. Uh che roba! Uh che tossego! Uh che velen! Oh che fogo che me sento in tel stomego! Coss sto negozio? No vi bever altro. (mette il bicchiere in terra) Oh poveretto mi! Moro, moro, ma gnente. La polvere fa operazion. Se ho da veder le donne a spasemar, bisogna che sopporta. Me lha dito sior Pancrazio... ma... oim... ghho troppo mal... me manca el fi... no posso pi... Se no avesse bev, no beverave altro... Oh poveretto mi... un poco de acqua... acqua... acqua... Deboto([112]) no ghe vedo pi... me trema la terra sotto i pi... le gambe no me reze([113])... oim, el mio cuor... oim, el mio cuor... Forti, Zanetto, forti, che le donne te correr drio... e ti... ti le burler... oh che gusto!... no posso pi star in pi... casco... moro... (cade in terra)

COL. (Esce di casa e vede Zanetto in terra) Cosa vedo! Il signor Zanetto in terra? Cos? Cos stato? Che cosa avete?

ZAN. (Vard... se xe vero... le donne me corre drio). (da s)

COL. Oh diamine! Ha la schiuma alla bocca. Certo gli venuto male. Poverino! Voglio chiamare aiuto, perch io sola non posso aiutarlo. (entra in casa)

SCENA VENTIQUATTRESIMA

Zanetto, poi Florindo

ZAN. Sentila... se la xe innamorada... la se despiera... e mi duro... ma... oim, me manca el cuor... crepo, crepo... agiuto... agiuto.

FLOR. Come! Tonino in terra? Ecco il tempo di vendicarmi.

ZAN. Unaltra donna me corre drio... (si va torcendo)

FLOR. (Ma che vedo? Que moti paiono di moribondo). (da s)

ZAN. Son morto... Son morto...

FLOR. (Muore davvero costui). (da s) Ma che avete?

ZAN. Son morto...

FLOR. In che maniera?... che stato?... (bench rivale, mi fa piet). (da s)

ZAN. Ho bev... s... le donne... Sior Pancrazio... oim... oim... son velen... son morto... ma no... Via, donne... forti... duro, ved... oim. (muore)

FLOR. Ah che spir il meschino! Chi mai lha assassinato? Come mai egli morto? Che vedo? Ha un bicchiere vicino! Oh come torbido questo vino! Linfelice fu avvelenato. (osserva il bicchiere, poi lo ripone in terra)

SCENA VENTICINQUESIMA

Il Dottore, Brighellae Colombina di casa, e detti; poi Rosaura e Beatrice col Servitore, poi Arlecchino

COL. Venite, signor padrone, soccorrete questo povero giovine. (al Dottore, uscendo di casa)

DOTT. Presto, Brighella, va a chiamare un medico.

FLOR. inutile che cerchiate il medico, mentre il signor Zanetto morto.

DOTT. morto?

BRIGH. Oh poveretto, l morto?

COL. Morto il povero signor Zanetto?

ROS. (Di casa) Perdonate, signor padre, sio vengo sopra la strada. Parmi di aver inteso che il signor Zanetto sia morto; forse vero?

DOTT. Pur troppo vero. Eccolo l, poverino.

BEAT. Oim! Che vedo? Morto il mio bene? Morta lanima mia? (passando per la strada)

ARL. Coss? Dormelo el sior Zanetto?

BRIGH. Altro che dormir! L morto el povero sfortunado.

ARL. Co l cuss, torno alle vallade de Bergamo.

DOTT. Facciamolo condurre nellosteria: in mezzo alla strada non ist bene.

ROS. Ahi, che il dolore mi opprime il cuore.

COL. Poverina! siete vedova prima di essere maritata. (Ho quasi piacere che resti mortificata). (da s)

DOTT. Brighella, fallo condurre nellosteria. (accennando Zanetto)

BRIGH. Animo, Arlecchin, d una man a menarlo in casa. Quel zovene, fe anca vu el servizio de aiutarlo a portar. (al Servitore di Beatrice)

BEAT. Misera Beatrice! cosa sar di me?

FLOR. Se morto il vostro Tonino, potr sperare nulla da voi? (a Beatrice, piano)

BEAT. Vi odier eternamente.

ARL. Camerada, portelo pulito, acci, dopo che l morto, no ti ghe rompi la testa. (Arlecchino e il Servitore portano Zanetto morto nellosteria)

ROS. Mi sento strappar lanima dal seno.

BEAT. Chi mai sar stato il perfido traditore?

DOTT. Come mai accaduta la sua morte?

FLOR. Io dubito sia stato avvelenato.

DOTT. E da chi?

FLOR. Non lo so; ma ho de forti motivi per crederlo.

ROS. Deh, scoprite ogni indizio, acci si possa vendicar la morte dellinfelice.

SCENA VENTISEIESIMA

Tonino e detti, poi Arlecchino ed il Servo di Beatrice.

TON. Coss, siora Beatrice...

DOTT. Come? (si spaventa)

BRIGH. Lanima de sior Zanetto? (come sopra)

ROS. Non morto!

BEAT. vivo! (Tutti fanno atti di ammirazione, guardandosi lun laltro con qualche spavento)

ARL. (Esce col Servitore dallosteria, vede Tonino, lo crede anchegli Zanetto e si spaventa) Oh poveretto mi! Cossa vedio.

TON. Comela? Coss st? Coss sti stupori, ste maraveggie?

DOTT. Signor Zanetto, vivo?

TON. Per grazia del cielo.

DOTT. Ma poco fa non era qui in terra disteso in figura di morto?

TON. No xe vero gnente. Son vegn in sto ponto.

BRIGH. Com elo sto negozio?

ARL. Adesso, adesso. (entra nellosteria, poi ritorna subito) Oh bella! L mezzo morto e mezzo vivo. Salva, salva. (parte)

BRIGH. Vegno, vegno. (fa lo stesso che ha fatto Arlecchino) Oh che maraveggia! Drento morto, e fora vivo.

DOTT. Voglio veder anchio. (fa lo stesso degli altri due) Signor Zanetto, col dentro vi un altro signor Zanetto.

TON. Zitto, patroni, zitto, che scoverziremo tutto. Lass che vaga l drento anca mi, e torno subito (entra nellosteria)

ROS. Voglia il cielo che Zanetto sia vivo.

BEAT. Bench mi sia infedele, desidero chegli viva.

TON. (Torna dallosteria sospeso e mesto) Ah pazenzia! Lho visto tardi. Lho cognoss troppo tardi. Quello che xe l drento, e che xe morto, l Zanetto, mio fradello.

DOTT. E lei dunque chi ?

TON. . Mi son Tonin Bisognosi, fradello del povero Zanetto.

ROS. Che sento!

DOTT. Quale stravaganza mai questa?

BEAT. Dunque siete il mio sposo. (a Tonino)

TON. S ben, son quello. Ma vu, perch strazzar la scrittura? Perch strapazzarme? Perch trattarme cuss?

BEAT. E voi perch rinunziarmi ad altri? Perch sugli occhi miei parlar damore colla signora Rosaura?

TON. Gnente, fia mia, gnente. Le somegianze tra mi e mio fradello ha caus tante stravaganze. Son vostro, s mia, e tanto basta.

ROS. Ma, signor Zanetto, e la fede che a me avete data?

TON. Do no le posso sposar. E po mi no son Zanetto.

DOTT. O Zanetto, o Tonino, se non isdegnate di meco imparentarvi, potete sposar mia figlia. (Egli sar ancora pi ricco del fratello, per cagion delleredit). (da s)

TON. Son qua, son pronto a sposar vostra fia.

DOTT. Datele dunque la mano.

TON. Ma dovela vostra fia?

DOTT. Eccola qui.

TON. Eh via, me maraveggio de vu. Questa no xe vostra fia.

DOTT. Come! Che cosa dite?

TON. Ors, so tutto. So del pellegrin. So ogni cossa.

DOTT. Ah pettegola, disgraziata! (a Colombina)

COL. Ma io non so nulla, vedete...

TON. Diseme, sior Dottor, quella medaggia che ghav trov in te le fasse, la ghaveressi?

DOTT. (E di pi sa ancora della medaglia?) (da s) Una medaglia con due teste?

TON. Giusto: con do teste.

DOTT. Eccola, osservatela, questa?

TON. S ben, l questa. (Fatta far da mio pare, quando che lha ab i do zemelli). (da s)

DOTT. Gi che il tutto scoperto, confesso Rosaura non esser mia figlia, ma essere una bambina incognita, trovata da un pellegrino alle basse di Caldiera, fra Vicenza e Verona. Mi disse il pellegrino essere rimasta in terra, sola e abbandonata col ancora in fasce, dopo che i masnadieri avevano svaligiati ed uccisi quelli che in cocchio la custodivano. Io lo pregai di lasciarmela, ei mi compiacque, e come mia propria figlia me lho sinora allevata.

TON. Questa xe Flaminia mia sorella; andando da Venezia a Val Brambana in Bergamasca la mia povera mare, per desiderio de veder Zanetto so fio, e con anemo de lassar sta putela a Stefanello mio barba, i xe stai assaltai alle basse de Caldiera, dove listessa mia mare e tutti della so compagnia xe stai sassinai, e ella, in grazia dellet tenera, bisogna che i labbia lassada in vita.

ROS. Ora intendo lamore che aveva per voi. Era effetto del sangue. (a Tonino)

TON. E per listessa rason anca mi ve voleva ben.

BEAT. Manco male che Tonino non pu sposare la signora Rosaura.

FLOR. (Ora ho perduta ogni speranza sopra la signora Beatrice). (da s)

TON. Adesso intendo lequivoco della scrittura e delle finezze che mav fatto. (a Rosaura) E mi aveva tolto in sinistro concetto el povero sior Dottor. (al Dottore)

DOTT. Ah, voi mavete rovinato!

TON. Mo perch?

DOTT. Sappiate che da un mio fratello mi fu lasciata una pingue eredit di trenta mila ducati, in qualit di commissario e tutore di una bambina, chiamata Rosaura, unico frutto del mio matrimonio. La bambina morta ed io perdeva leredit, poich nel caso della di lei morte, il testamento sostituiva nelleredit stessa un mio nipote. Mancata la figlia, per non perdere un patrimonio s ricco, pensai di supporre alla morta Rosaura unaltra fanciulla: opportunamente mi venne questa alle mani, e collaiuto della balia, madre di Colombina, mi riusc agevole il cambio. Ora, scoperto il disegno, non tarder mio nipote a spogliarmi delleredit ed a voler ragione de frutti sino ad ora malamente percetti.

TON. Ma chi xelo sto vostro nevodo?

DOTT. Un certo Lelio, figlio duna sorella del testatore e mia.

TON. Elo quel sior cargadura, che dise desser conte e marchese?

DOTT. Appunto quegli.

TON. Ve lo qua che el vien. Lass far a mi, e no ve dubit gnente.

SCENA VENTISETTESIMA

Lelio e detti.

LEL. Alto, alto quanti siete! guardatevi da un disperato.

TON. Forti, sior Lelio, che al mal fatto no gh remedio. Beatrice xe mia muggier.

LEL. Sconvolger gli abissi. Porr sossopra il mondo!

TON. Mo perch vorla far tanto mal?

LEL. Perch son disperato.

TON. Ghe sarave un remedio.

LEL. E quale?

TON. Sposar la siora Rosaura co quindese mille ducati de dota, e altrettanti dopo la morte del sior Dottor.

LEL. Trenta mila ducati di dote? La proposizione non mi dispiace.

TON. E la putta ghe piasela?

LEL. A chi non piacerebbe? Trenta mila ducati formano una rara bellezza.

TON. Non occorre altro, e se far tutto: qua in strada no stemo ben. Andemo in casa, e se dar sesto a ogni cossa. Beatrice xe mia, Rosaura sar del sior Lelio. Ela contenta? (a Rosaura)

ROS. Io far sempre il volere di mio padre.

DOTT. Brava, ragazza. Voi mi date la vita. Caro signor Tonino, vi sono obbligato. Ma andiamo a far le scritture, prima che la cosa si raffreddi.

TON. Cuss tutti sar contenti.

FLOR. Non sar gi io contento, mentre mi trafigge il cuore il dolore daver tradita la nostra amicizia.

TON. Vergogneve daverme tradio, daver procur de far lazion pi indegna che far se possa. Ve compatisso, perch s st innamor, e se s pentio della vostra mancanza, ve torno a accettar come amigo.

FLOR. Accetto la vostra generosa bont; e vi giuro in avvenire la pi fedele amicizia.

SCENA ULTIMA

Pancrazio e detti.

PANC. (Che vedo! Zanetto non morto? Non ha preso il veleno? Quanto fui sciocco a credere che volesse farlo). (da s)

DOTT. Signor Pancrazio, allegramente. Abbiamo delle gran novit.

PANC. Con buona grazia di lor signori. (chiama Tonino in disparte) (Ditemi, avete bevuto?) (piano al medesimo)

TON. Se ho bev? Songio forsi imbriago?

PANC. No. Dico se avete bevuto quel che io vi ho dato.

TON. (Zitto, che qua ghe xe qualcossa da scoverzer([114])). (da s) Mi no, non ho gnancora bev.

PANC. Ma, e le donne che vi tormentano, come farete a soffrirle?

TON. Come ghoggio da far a liberarme?

PANC. Subito che avete bevuto, sarete liberato.

TON. E cossa ghoggio da bever?

PANC. Oh bella! quella polvere che vi ho dato. Che avete fatto del bicchiere col vino e colla polvere?

TON. (Bicchier de vin colla polvere? Adesso ho capio). (da s) Ah sier cagadonao([115]), ah sier bronza coverta([116]), ipocrita maledetto! Vu s st, che ha mazz mio fradello. Pur troppo lha bev, pur troppo el xe and allaltro mondo per causa vostra. Mi no son Zanetto, son Tonin. Gerimo do zemelli, e le nostre someggie vha fatto equivocar. Diseme, sior can, sassin, traditor per cossa laveu sassin? Per cossa laveu mazz? (forte, che tutti sentono)

PANC. Mi maraviglio di voi. Non so nulla, non intendo che dite. Sono chi sono, e sono incapace di tali iniquit.

TON. Ma cossa me disevi, se ho bev? Se me voggio liberar dalle donne?

PANC. Diceva cos per dire... se voi bevendo... diceva per le nozze, per le nozze.

TON. Vedeu che ve confond? Sier infame, sier indegno, mazzarme un fradello?

PANC. Oh cielo! oh cielo! tanto ascolto, e non moro?

DOTT. Il signor Pancrazio un uomo onorato, lattesto ancor io.

FLOR. Io ho trovato vicino al moribondo Zanetto un bicchiere con dentro del vino molto torbido.

COL. Ed il signor Pancrazio poco fa venuto in casa, e di nascosto ha preso un bicchiere di vino.

FLOR. Ora confronteremo. (prende il bicchiere che in terra)

TON. Senti, se ti lha mazz, poveretto ti! E delle mie zogie cossa ghe nastu fatto! (a Pancrazio)

PANC. Sono nelle mani del giudice.

TON. Ben ben, ghe penser mi a recuperarle.

FLOR. Ecco il vino in cui si avvelen Zanetto. (mostra il bicchiere)

COL. E quello il bicchiere col vino, che prese in casa il signor Pancrazio.

TON. Xe vero?

PANC. vero.

TON. Donca ti, ti lha avvelen.

PANC. Non vero. Son galantuomo, e per farvi vedere la mia innocenza, datemi quel bicchiere.

FLOR. Prendete pure.

PANC. Ecco chio bevo.

DOTT. Se lho detto. Il signor Pancrazio non capace di commettere iniquit.

TON. (Col beve, nol sar velen). (da s)

COL. Almeno si fosse avvelenato costui.

TON. Oim! oim! El straluna i occhi; ghe xe del mal.

PANC. (Avendo bevuto, sente leffetto del veleno) Amici, son morto, non v pi rimedio. Ora discopro il tutto, ora che son vicino a morire. Amai la signora Rosaura, e non potendo soffrire chella divenisse altrui sposa, avvelenai quellinfelice per liberarmi da un tal rivale. Oim, non posso pi. Moro, e moro da scellerato qual vissi. La mia bont fu simulata, fu finta. Serva a voi il mio esempio, per poco credere a chi affetta soverchia esemplarit; mentre non vi il peggior scellerato di quel che finge esser buono, e non . Addio, amici: vado a morire da disperato. (traballando parte)

COL. Lho sempre detto chera un briccone.

TON. Lha lev sto vadagno al bogia([117]). Povero mio fradello! Quanto che me despiase! Sorella cara, son consol averve trov vu, ma me despiase la morte del povero Zanetto.

ROS. Rincresce ancora a me, ma ci vuole pazienza.

DOTT. Ors, andiamo in casa.

TON. Se la se contenta, mener la mia sposa.

LEL. E verr anchio colla mia diva.

DOTT. Vengano tutti, che saranno testimoni nelle scritture che shanno a fare. (Questo quello che mi preme). (da s)

TON. Co leredit de mio fradello giuster el Criminal de Venezia, e me torner a metter in pi. Se el podesse resussitar, lo faria volentiera, ma za che l morto, ander in Val Brambana a sunar([118]) quelle quattro fregole([119]). Ringrazier la fortuna che mha fatto trovar la sorella e la sposa, e colla morte de quel povero desgrazi sar messi in chiaro tutti i equivochi, nati in tun zorno, tra i do Veneziani Zemelli.

Fine della Commedia


([1]) Novizza, sposa.

([2]) Missier, suocero.

([3]) Figo, fico, termine veneziano chequivale al niente.

([4]) Sioria vostra, saluto basso e triviale.

([5]) Mario e muggier, marito e moglie.

([6]) Impalai, ritti e fermi come pali.

([7]) Putte, fanciulle.

([8]) Che cade! cosa serve?

([9]) Bulada in credenza, qui vuol dire soverchieria.

([10]) Canapiolo, termine di disprezzo, che si pu spiegare spaccone.

([11]) Vegn a nu, espressione bizzarra, vuol dire volgetevi a me.

([12]) Cortesani: spiega in veneziano: gente accorta, onorata e brava.

([13]) Manazzar, minacciare.

([14]) Coleg, disteso in terra.

([15]) Scartozzo de pvere, cartoccio di pepe, frase derisoria.

([16]) Vovo, ovo.

([17]) Abuo, avuto.

([18]) Scavezzo, rotto, cio discolo.

([19]) Siorazzo, signorone.

([20]) In cotego, in trappola, cio in prigione.

([21]) Gondola, barchetta che si usa in Venezia comunemente.

([22]) Bezzi, denari.

([23]) Scapoler, sfuggir.

([24]) Co, come.

([25]) Compare, termine damicizia usato in Venezia.

([26]) Piantar el bordon, introdursi a scroccare.

([27]) Mare, madre.

([28]) Proverbio veneziano.

([29]) Aseo! Aceto! esclamazione di sorpresa.

([30]) Dei, dategli. Sbuslo, bucatelo.

([31]) Ficheghela quella cantinella in tel corbame, cacciategli quella spada nel ventre.

([32]) El me sbasiva de posta, mi uccideva a drittura.

([33]) Sieu benedio, siate benedetto.

([34]) Mi, mi lho buo. Io, io lho avuto.

([35]) Gnanca, n anche.

([36]) Patrona, per signora.

([37]) Oh magari: oh, il ciel volesse.

([38]) Mo comdo, Ma come?

([39]) Schienze! vuol dire: schegge; e per frase: bagatelle. Con ammirazione.

([40]) Gnaccara muso doro! Esclamazione bergamasca di meraviglia.

([41]) Ganasse, guance.

([42]) Tossegar, avvelenare.

([43]) Gartoli, poplite, o sia parte posteriore del ginocchio.

([44]) Batte ben el canafio, fa ben la mezzana.

([45]) Monee, monete.

([46]) Massera, serva di cucina.

([47]) De balla, termine furbesco, daccordo.

([48]) Cortesan, accorto.

([49]) Cavarme zoso, levarmi la giubba.

([50]) Ha lum, ha veduto, termine furbesco in gergo.

([51]) Bon stomego buono stomaco, cio di poco onore.

([52]) In tel comio, nel gomito, cio allincontrario.

([53]) Pe! Ehi!

([54]) Gastu, hai tu.

([55]) Barba, zio.

([56]) Putelo, ragazzo.

([57]) Babio, viso, frase burlesca.

([58]) Voggio darghe una tastadina, una toccatina, cio, darle la prova.

([59]) Traffega, traffica.

([60]) I p, i piedi.

([61]) Capochieria, corbelleria.

([62]) Polegana, arte fina, disinvoltura.

([63]) Custia, costei.

([64]) Me bisega in tel cuor, mi va a genio.

([65]) Vecchio, termine amoroso de Veneziani.

([66]) Scoverzer, scoprire.

([67]) Sbar delle panchiane, dite delle bugie.

([68]) Brazzolar, misura di braccio.

([69]) De smania, smanioso

([70]) Gargato, gozzo.

([71]) Bombaso, bambagia, cotone.

([72]) Sea, seta. Termini allusivi alla morbidezza delle mani.

([73]) Sie, sei.

([74]) Do, due.

([75]) Sioria vostra, saluto burlevole.

([76]) Canapiolo monzuo, lo stesso che uomo da nulla.

([77]) P, piedi.

([78]) Crielo, crivello.

([79]) Scartozzi de pvere mal ligai, cartocci di pepe mal fatti; termine di disprezzo.

([80]) Pronzini salvadeghi: bravaccioni selvatici, cio supposti.

([81]) Cortesani dalbeo: suona quasi lo stesso. Albeo vuol dire abete, quasi uomini di legno.

([82]) A chi le tocca, a chi spettano.

([83]) Zaffi, birri.

([84]) Piegora, pecora

([85]) Lovo, lupo.

([86]) Becher, macellaro.

([87]) Del d dancuo, del giorno doggi.

([88]) Manizada, ammasso.

([89]) Ve rebalta, vi rovescia.

([90]) Varisse, guarisce.

([91]) Sgranfignae, rubate.

([92]) Caponera, gabbione in cui si nutriscono i capponi. Per metafora, prigione.

([93]) Brisiola, bragiuola, pezzo di carne darrostirsi alla graticola.

([94]) Un crepo, uno scoppio.

([95]) Sbaso, morto.

([96]) Cusinar, cuocere.

([97]) Bisegare, frugare.

([98]) Oselo, uccello.

([99]) Pvero, papero.

([100]) Nuar, nuotare.

([101]) Sguatarar, dimenarsi nellacqua.

([102]) Bevaor, vaso in cui bevono volatoli.

([103]) Spolverarse, dimenarsi o rivoltarsi per la polvere.

([104]) Indrio, indietro.

([105]) Fia, figlia. Termine grazioso che danno i veneziani alla giovent.

([106]) Scalmanada, riscaldata.

([107]) Cossazze, gran cose

([108]) Putela, bambina.

([109]) Sion, sione, voce lombarda, vale a dire, turbo vorticoso di pi venti contrari.

([110]) Co, quando.

([111]) Patta e pagai, del pari.

([112]) Deboto, or ora.

([113]) No me reze, non mi reggono.

([114]) Scoverzer, scoprire.

([115]) Cagadonao, parola ingiuriosa.

([116]) Sier bronza coverta, brace coperta, uomo finto, per metafora.

([117]) Bogia, boia, carnefice.

([118]) A sunar, a raccogliere.

([119]) Fregole, bricciole.

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