I due gemelli veneziani

Stampa questo copione

I DUE GEMELLI VENEZIANI

I DUE GEMELLI VENEZIANI

di Carlo Goldoni

A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR

ANTONIO CONDULMER

PATRIZIO VENETO

E SENATORE AMPLISSIMO

Finché le mie Commedie chiamavano in Teatro le persone allegre soltanto, bizzarre, e, come suol dirsi, di mondo, tra me stesso io dubitava se fosse convenevole ad uomo onesto quella professione, nella quale, violentato dal nativo mio genio, mi andava impegnando. Era in concetto di scandaloso il Comico Teatro, e sebbene sin dal principio che mi diedi a scriver Commedie, mi fossi già posto in animo di voler sopratutto la modestia osservare, pur tuttavia mi affliggeva internamente il dolore di vedere il Mondo così malamente preoccupato, e non mi lasciava in pace il timore d’esser posto a fascio cogli altri tutti; per la qual cosa, nell’atto stesso che il genio comico a sé mi rapiva, sentivami dal zelo della mia propria riputazione tirar addietro. Ma quando ho veduto che le persone nobili, di dottrina, di senno, di esemplari costumi e di grado cospicuo, hanno creduto degno di sé l’onesto divertimento delle mie Commedie, e frequentar pressoché tutte le sere il Teatro nel qual recitavansi, allora fu che ho preso animo e lena, e che, liberatomi da ogni sorta di scrupolo, mi sono intieramente, e con animo quieto e tranquillo, alla intrapresa mia professione abbandonato.

È indicibile la consolazione ch’io ho avuto, quando venni a sapere che V. E., Cavaliere tanto pio, tanto saggio, onorava sovente le mie Commedie. Erami nota per fama la virtù grande di V. E., la quale per lo innanzi tollerar non sapeva in verun conto le sciocche e molto meno scostumate sceniche Rappresentazioni, per la qual cosa o di rado, o non mai, soleva intervenirvi; onde veggendo con quanta bontà, con quanto generoso compiacimento favoriva le mie, non solo le riputai fortunate, ma giunsi a crederle qualche cosa di buono. So che V. E., per naturale soavissima benignità, tutto sa compatire, tutto aggradir si compiace, ma ciò può verificarsi negli Uomini in quelle cose le quali si trovano essi per una tal quale necessità come costretti a soffrire, non già in quelle che liberamente si eleggono.

Lo deggio dire, e lo dirò a mia gloria, la di lei presenza, la di lei benignissima approvazione, mi ha dato spirito, Mi ha somministrato valore e coraggio, e scrivendo alcuna Commedia, il solo pensiero che dovesse ella servir di spettacolo anche all’E. V., mi metteva in dovere di esaminarla con maggior diligenza e di renderla, per quanto mi fosse possibile, castigata e corretta.

V. E., dopo di essersi dichiarata Protettore umanissimo delle mie Commedie, degnossi benignamente di manifestarsi anche Protettore della mia stessa persona; e questo è il grand’obbligo che avrò sempre al Teatro, d’essermi per tal mezzo acquistato il patrocinio di un Cavaliere rispettabile per la sua Nobiltà, per il suo Grado, e ammirabile per tante belle virtù che lo adornano.

Un libro di Commedie non è luogo veramente adattato per esaltare le glorie di una Famiglia sì illustre, di un Senatore sì ragguardevole. Adoro il Sacro Triregno, venero le Mitre che hanno accresciuti i fregi al vostro antichissimo nobil Casato; applaudisco all’affetto distinto e ben giusto, che in ogni tempo ha manifestata la gloriosa vostra Serenissima Patria verso i chiari vostri Progenitori, ornandoli de’ più luminosi fregi ond’ella suol contrassegnar e premiar il merito de’ Figli suoi valorosi; e con mio sommo compiacimento lo veggo continuato ne’ dignissimi Senatori Vostri Fratelli, e in Voi medesimo, meritamente quant’altro mai esser lo possa, collocato fra i Padri Coscritti di quell’augusto Senato. Ma altri di me più valenti Scrittori decantino codeste glorie, che largo campo avranno di spaziare per esse, quando la vostra modestia si accomodi a prestar loro l’orecchio; io, contentandomi di ammirar con silenzio e le grandezze della vostra Famiglia, e tante vostre personali pregevolissime virtù, non posso a meno di non far parola di quella singolar umanità, che vi rende così liberale verso i poveri, così affabile verso gli inferiori, così adorabile a tutti; effetti questi non solo d’indole naturalmente benigna, ma di quella Cristianità di massime e di costumi, che vi rende affatto in tutte le vostre azioni ammirabile. Crederò che del molto che potrei dirne, il poco che ho detto possa bastare ad eccitar in altri l’emulazione di così rare prerogative; ma non lo sia per dimostrare al mondo ch’io vaglia a conoscerne tutto il pregio, sebben ne sperimenti tutto l’effetto. Ora che altro potrei mai fare io miserabil che sono, per dare una pubblica testimonianza dell’umilissima mia riconoscenza per le tante grazie da V. E. ricevute, e per il solenne benefizio dell’autorevole vostra protezione impartita a me e alle cose mie, sennon offerirvi una delle Commedie, che mi si è voluto far dare alle stampe?

Una Commedia a un Cavaliere sì grande è dono, a dir vero, troppo sproporzionato. Io lo conosco; ma se l’accompagnarla coll’offerta di un umilissimo cuore può di qualche grado accrescerne il prezzo, eccolo riverentemente a V. E. consagrato, insieme con questa mia Commedia dei Due Gemelli, che mi prendo l’ardire di dedicarvi. Degnatevi di benignamente aggradirlo, mentr’egli perfettamente conosce che niuna cosa lo può render felice, più che la benignissima protezione di V. E. a cui profondamente m’inchino.

Di V. E.

Mantova, li Giugno 1750.

Umiliss. Devotiss. ed Obbligatiss. Serv.

Carlo Goldoni


L’AUTORE A CHI LEGGE

Convien dire che io ami la Patria mia veramente, poiché, lontano da essa, tre anni dopo ch’io n’era partito, dovendo scrivere una Commedia, sul gusto della mia Nazione ho voluto scriverla.

In mezzo alla Toscana, in Pisa, dove la professione legale mi obbligava a parlare almeno nei Tribunali, comecché sia, la lingua Tosca, non mi sono dimenticato del mio dolce nativo linguaggio, e poiché non mi riusciva di poterlo continuamente parlare, mi ricreavo scrivendolo di quando in quando.

Dopo la Commedia della Donna di garbo, tre anni stetti in trattenimento con Bartolo, Baldo, il Farinaccio, il Claro, ecc. senza più addimesticarmi con la Comica Musa. Ma finalmente la lusinghiera che ella è, ha saputo tirarmi a sé nuovamente, e frutto fu della riaperta pratica nostra la Commedia dei Due Gemelli, da me scritta in quel tempo pel valorosissimo Cesare d’Arbes, che solito a recitare colla maschera di Pantalone, sostenne questa mirabilmente a viso scoperto.

L’argomento de’ due simili, sebbene maneggiato da tanti ne’ tempi addietro in tante fogge, mi è paruto atto a produr sempre nuove e non più immaginate Commedie. Quella di Plauto, intitolata i Menecmi, è la fonte universale donde tutti gli altri, che vennero poi, cavaron le loro. L’illustre Gio. Giorgio Trissino vicentino, gloria e splendor della Italia, per aver egli condotto il primo a calcare le nostre Scene il tragico coturno colla famosa sua Sofonisba, ha voluto ricondurvi anche il socco, trattando questo stesso argomento nella Commedia de’ Simillimi, nella quale imitò il gran latino scrittore, come se ne dichiara egli stesso al Cardinal Farnese scrivendo: laonde, dic’egli, avendo tolto una festiva invenzione da Plauto, vi ho mutati nomi, ed aggiuntevi persone, ed in qualche parte cambiato l’ordine, ed appresso introdottovi il Coro, e così avendola al modo mio racconcia, voglio mandarla con questo abito nuovo in luce.

Molto più del Trissino attaccato stette al maestro il facetissimo Firenzuola, che nella sua bella Commedia de’ Lucidi espresse appuntino di scena in iscena i sentimenti tutti e pensieri di Plauto, conservando della Commedia antica persino l’ordine stesso, cosicché se cambiati non vi avesse egli i nomi degli attori, e non vi avesse aggiunto un personaggio in carattere di servo, ed adornatala in alcuni luoghi di giocondi sali e motti equivoci, la si potrebbe piuttosto denominare una semplice traduzione de’ Menecmi di Plauto, di quel che sia una nuova produzione del lepidissimo Fiorentino scrittore, il quale in qualche modo lo confessa nella licenza, con queste parole: Spettatori, non vi partite ancora. Stentate un poco, di grazia, che or ne viene il buono. La Commedia non è fornita, che i nostri Lucidi si voglion portare più da gentiluomini che i Menecmi di Plauto, e mostrare ch’egli hanno avuto molto miglior coscienza i giovani del dì d’oggi, che quelli del tempo antico, ecc.

Dopo di così illustri Scrittori dell’aureo secolo decimosesto, altri vari Italiani trattaron lo stesso soggetto nel susseguente; ed introducendo due somigliantissimi Gemelli, piantaron su questa perfetta rassomiglianza la loro azione, diversificandola da quella di Plauto bensì con vari accidenti ed equivoci; ma finalmente il fondo fu sempre lo stesso. Ne ho veduta una di Bernardino d’Azzi Aretino, intitolata le Due Francesche, stampata in Siena l’anno 1603. Altre due ne ho pur vedute del famoso Gio. Battista Andreini Fiorentino, tra’ comici detto Lelio, la prima stampata in Venezia nel 1620, e nominata la Turca; l’altra stampata in Parigi nel 1622, chiamata i Due Leli simili. Nelle quali tutte non è sennon variamente barattato il sesso tra i simili, dacché ne procede varietà di accidenti e di episodi.

Nei tempi a noi più vicini, qual uso poi non è stato fatto sulle nostre scene di questo argomento, e a’ nostri giorni medesimi? Dopo quella bellissima delle due Gemelle di Niccolò Amenta, si può quasi asserire non esservi accreditato Comico, il quale non abbia voluto dar saggi del proprio ingegno su questo soggetto; e se molti riusciron con lode, accadde anche sovente che impastricciandosi da’ Comici molte di esse Commedie insieme, ne furon formati dei mostri. Alcuni non si contentaron di introdurre una coppia di gemelli, che ne introdusser due coppie: quindi a’ nostri tempi si videro in una istessa Commedia due Leandri fratelli, e due Eularie sorelle simili; in un’altra due fratelli padroni simili e due fratelli servi simili, e si rappresenta ancora una Commedia intitolata i Quattro simili di Plauto, che certamente non si sarebbe mai sognato di farla quel grand’Autore.

Ho voluto farvi questa leggenda, perché veggiate che io so benissimo quanto rancido è l’argomento della mia Commedia presente, e da quante diverse mani è stato trattato. Potete però coll’incontro delle Commedie allegatevi assicurarvi, che poco mi sono approfittato dell’altrui invenzioni. Io ho creduto di poter inalzare sul fondamento vecchio una fabbrica affatto nuova, e ciò mi venne in mente sull’osservazione da me fatta che in tutte le antiche pariglie i due Gemelli, oltre al doversi supporre somigliantissimi in tutto l’estrinseco della persona, il che è pur nella mia, sono rappresentati eziandio d’un somigliantissimo carattere, o certamente non guari diverso. Mi son però voluto provare a farli di carattere affatto differenti l’uno dall’altro, e dar loro nomi distinti. L’impresa mi venne agevolata dalla certa scienza ch’io aveva della straordinaria abilità del bravo Comico Cesare d’Arbes, nel fare il diverso Personaggio dello spiritoso e dello sciocco; ed ecco quel che mi ha condotto a scrivere questa Commedia.

Se io abbia colto nel punto propostomi, tocca a’ Lettori il deciderlo. Io non ardisco di sostenere in ogni sua menoma parte perfetta né questa mia opera, né nessun’altra; ma se devo giudicarne dall’universale applauso, con che fu essa ricevuta e in Venezia, e in Firenze, e in Mantova, e in altre Città dell’Italia, mi lusingo che nel suo tutto ella possa passare per buona; il che finalmente è quanto può mai pretendersi da uno scrittore ancora novello; da uno scrittore che non fu mai nell’impegno di far una o due sole Commedie; da uno scrittore, alla fine, che scrive per il Teatro, ch’è quanto a dire principalmente pel Popolo. Una cosa mi è certamente riuscita in questa Commedia, che non so a qual altro Comico Poeta sia mai riuscita. Per ben condurre al suo termine la mia azione, mi è convenuto far morire in iscena uno de’ due Gemelli, e la di lui morte, che difficilmente tollerata sarebbe in una Tragedia, non che in una Commedia, in questa mia non reca all’uditore tristezza alcuna; ma lo diverte per la sciocchezza ridicola, con cui va morendo il povero sventurato. Io non credo arrogante la mia franca asserzione, quando ricordomi delle risa da cui si smascellavano gli spettatori universalmente, sul momento delle sue agonie e de’ suoi ultimi respiri. Peraltro esser può che, in leggendola, il ridicolo che vi è non risalti tanto, quanto fece animato dalla grazia del valoroso Comico. Ma la Commedia è Poesia da rappresentarsi, e non è difetto suo che ella esiga, per riuscir perfettamente, de’ bravi Comici che la rappresentino, animando le parole col buon garbo d’un’azione confacevole; checché ne possan dir i severi Critici, egli è certo che tutti coloro i quali han veduto rappresentar la morte di Zanetto, han confessato esser ella uno de’ pezzi più ridicoli e nuovi della Commedia.


Personaggi

Il DOTTORE BALANZONI avvocato bolognese in Verona;

ROSAURA creduta sua figlia, poi scoperta sorella dei due gemelli;

PANCRAZIO amico del Dottore e suo ospite;

ZANETTO gemello sciocco;

TONINO gemello spiritoso;

LELIO nipote del Dottore;

BEATRICE amante di Tonino;

FLORINDO amico di Tonino;

BRIGHELLA servo in casa del Dottore;

COLOMBINA serva in casa del Dottore;

ARLECCHINO servo di Zanetto;

TIBURZIO orefice, che parla;

BARGELLO che parla;

Uno staffiere di Beatrice, che non parla;

Birri;

Servitori.

La Scena si rappresenta in Verona.


ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Camera di Rosaura.

Rosaura e Colombina, tutte due alla tavoletta, che si assettano il capo.

ROS. Signora Colombina garbata, mi pare che l’obbligo suo sarebbe, prima di mettersi in tante bellezze, di venire ad assettare il capo alla sua padrona.

COL. Signora, l’obbligo mio l’ho fatto: vi sono stata dietro due ore ad arricciarvi, frisarvi e stuccarvi: ma se poi non vi contentate mai, e vi cacciate per dispetto le dita ne’ capelli, io non vi so più che fare.

ROS. Guardate mo che presunzione! Voler lasciar me arruffata, per perdere il tempo intorno a se medesima.

COL. E che! non ho io forse de’ capelli in capo, come ne avete voi?

ROS. Sì, ma io son la padrona, e tu sei la serva.

COL. Oh, di grazia, non mi fate dire.

ROS. E bada a durare. Or ora verrà lo sposo che si attende a momenti, e mi troverà in questa maniera.

COL. Anch’io, signora, aspetto lo sposo, e mi preme di comparire.

ROS. E ti vuoi paragonare con me, sfacciatella che sei?

COL. Ehi, signorina, non mi perdete il rispetto, sapete, che ve ne pentirete.

ROS. Impertinente, levati, o ti farò levare con un bastone.

COL. Poter del mondo! a me un bastone? (s’alza)

ROS. Così rispondi alla padrona? Disgraziata, lo dirò a mio padre.

COL. Che padrona! Che padre! Eh, signorina, ci conosciamo.

ROS. E che vorresti dire, bricconcella?

COL. Alto, alto con questi titoli, che se mi stuzzicherete, vomiterò ogni cosa, sapete.

ROS. Via, parla; che puoi tu dire, bugiarda?

COL. Posso dire... basta. Se ho taciuto finora, adesso non voglio tacere.

SCENA SECONDA

Dottore e dette.

DOTT. Cos’è questo rumore? Cos’è stato? Che cosa avete?

ROS. Ah signor padre! mortificate colei. Ella m’insulta, mi maltratta, mi perde il rispetto.

DOTT. Come? Così tratti una mia figliuola? (a Colombina)

COL. Eh, signore, so più di quello che v’immaginate. Mia madre m’ha detto tutto, sapete.

DOTT. (Ah donna senza giudizio, se fosse viva, la vorrei scorticare). (da sé) (Colombina, per amor del cielo, non dir nulla di quello che sai. Sta cheta, e farò tutto per te e per i tuoi vantaggi). (piano a Colombina)

COL. (Oh certo, tacerò, e mi lascerò maltrattare). (piano al Dottore)

ROS. Dunque, signor padre...

DOTT. Orsù, oggi si aspetta il vostro sposo, il signor Zanetto Bisognosi, figlio di quel famoso mercante veneziano che chiamavasi Pantalone, il quale è stato allevato a Bergamo da suo zio Stefanello, ed è uno de’ più ricchi mercanti di Lombardia.

COL. Ricordatevi che anch’io mi ho a maritare con il suo servo. Così m’avete promesso.

DOTT. (Benissimo, lo farò, ti contenterò: purché tu taccia) (piano a Colombina)

COL. Fate bene, se volete ch’io taccia, a turarmi la bocca col matrimonio.

DOTT. Quant’è, Rosaura, che non hai veduto il signor Pancrazio?

ROS. Oh, lo vedo spessissimo.

DOTT. Egli è un grand’uomo di garbo!

ROS. Certo che sì; non cessa mai di darmi de’ buoni consigli.

DOTT. Fin ch’io vivo, non lo lascio uscire di casa mia.

ROS. Fate bene. È un uomo che può molto giovarvi.

COL. Quanto a me, con vostra buona grazia, lo credo un bel birbone.

DOTT. Taci, mala lingua. Che motivo hai tu di parlare così?

COL. So io quel che dico. Non mi voglio spiegare.

SCENA TERZA

Brighella e detti.

BRIGH. Sior padron, siora padrona, è arrivado in sto ponto el sior Zanetto da Bergamo; l’è smontà da cavallo, e l’è alla porta che el parla con uno che l’ha compagnà.

DOTT. Sia ringraziato il cielo. Figliuola mia, vado in persona a riceverlo, e lo conduco subito a visitarti. (parte)

SCENA QUARTA

Rosaura, Colombinae Brighella

ROS. Dimmi un poco, Brighella, tu che hai veduto il signor Zanetto, che ti pare di lui? È bello? È grazioso?

BRIGH. Ghe dirò siora; circa alla bellezza no gh’è mal: l’è zovene, e el pol passar; ma, per quel poco che ho visto, el me par molto gnocco. Nol saveva gnanca da che banda smontar da cavallo. Al viso el someggia tutto a un altro so fradello zemello, che gh’ha nome Tonin, el qual sta sempre a Venezia, dove ho avudo occasion de conosserlo: ma se el ghe someggia in tel viso, nol ghe someggia in tel resto, perché quello l’è spiritoso e disinvolto, e questo el par un zocco taggià colla manera.

ROS. Questa relazione non mi dà gran piacere.

COL. Col signor Zanetto doveva venire un certo Arlecchino suo servitore; è egli venuto? (a Brighella)

BRIGH. No l’è ancora vegnù; ma el s’aspetta col bagaglio del so patron.

COL. Me ne dispiace. Ho curiosità di vederlo.

BRIGH. Lo so, lo so che l’è destinà al possesso delle vostre bellezze.

COL. Se avete invidia, crepate. (parte)

SCENA QUINTA

Rosaura e Brighella

ROS. Narrami, o Brighella, come hai conosciuto questa famiglia in Venezia, e dimmi per qual cagione il signor Zanetto sia stato allevato a Bergamo.

BRIGH. Mi serviva in Venezia un mercante ricchissimo, amigo intrinseco del fu sior Pantalon dei Bisognosi, padre de sti do fradelli zemelli. El sior Pantalon, oltre de questi, l’aveva anca una femena, e questa el l’ha mandada a Bergamo a un so fradello, per nome chiamado Stefanello, ricco e senza eredi, dove prima l’aveva mandà anca el sior Zanetto. Ho sentio a dir, praticando in quella casa, che la femena s’aveva perso; che a Bergamo no l’è arrivada, e che la s’è smarrida, non se sa come, per viazo; e mai più i ghe n’ha avudo nova: e questo è quanto ghe posso dir circa alle persone de sta fameggia. In quanto po al grado e alle facoltà, la casa Bisognosi in Venezia fa bona fegura in Piazza, e la passa per una delle più comode tra i marcanti.

ROS. Tutto va bene, ma mi rincresce che il signor Zanetto non sia spiritoso quanto il fratello.

BRIGH. Eccolo che el vien in compagnia col patron. La lo esamina, e la vederà se ho dito la verità. (parte)

SCENA SESTA

Rosaura, poi il Dottore e Zanetto

ROS. Al viso non mi dispiace. Può essere che non sia tanto sciocco, quanto me l’ha dipinto Brighella.

DOTT. Venga, venga liberamente, senza soggezione. Figlia mia, ecco il signor Zanetto.

ZAN. Siora novizza([1]), la reverisso.

ROS. Signore, io gli sono umilissima serva.

ZAN. (Ah, la xe serva! Bondì sioria). Digo, sior missier([2]), la novizza dov’ela?

DOTT. Eccola qui: questa è mia figlia, questa è la sposa.

ZAN. Mo se la m’ha dito che la xe serva.

DOTT. Eh, non signore, ha detto gli sono umilissima serva, per complimento, per cerimonia.

ZAN. Ho inteso; scomenzemo mal.

DOTT. Per qual ragione?

ZAN. Perché in tel matrimonio no ghe vuol né busie, né cerimonie.

ROS. (È veramente sciocco, ma pure non mi dispiace). (da sé)

DOTT. Eh via, non abbadi a queste inezie.

ROS. Signor Zanetto, assicuratevi ch’io sono sincera, che non so simulare, e che avrò per voi tutta la stima ed il rispetto.

ZAN. Tutte cosse che no val un figo([3]).

ROS. Ma forse non aggradite queste mie espressioni?

ZAN. Siora sì, come che la vol.

ROS. Dispiace agli occhi vostri il mio volto?

ZAN. Alle curte. Mi son vegnù a Verona per maridarme, e aspetto Arlecchin da Bergamo coi abiti, co le zogie e coi bezzi.

ROS. E bene, non sono io destinata per vostra sposa?

ZAN. Ma che bisogno ghe xe de tanti squinci e quindi? La me tocca la man, e la xe fenia.

ROS. (Che temperamento curioso!) (da sé)

DOTT. Ma, caro signor genero, vuol ella fare il matrimonio così ruvidamente? Dica qualcosa alla sposa, le parli con più di buona grazia ed amore.

ZAN. Oh sì, disè ben. Son tutto, tutto vostro. Me piase quel bel visetto. Vorave... Caro sior missier, feme un servizio.

DOTT. Cosa comanda?

ZAN. Andè via de qua, perché me dè soggezion.

DOTT. Benissimo, la servirò. Io sono un uomo compiacentissimo. (Figlia mia, abbi giudizio: è un poco scioccherello, ma ha de’ quattrini). (piano a Rosaura) Signor genero, la riverisco. (Guardate a chi dona la sorte i suoi favori!) (da sé, e parte)

SCENA SETTIMA

Rosaura e Zanetto

ZAN. Sioria vostra([4]). (al Dottore) E cussì, siora novizza, nualtri semo mario e muggier([5]).

ROS. Così spero.

ZAN. Donca cossa femio qua impalai([6])?

ROS. E che cosa vorreste fare?

ZAN. Oh bella! mario e muggier.

ROS. Marito e moglie lo saremo, torno a dir, così spero: ma ora il matrimonio non è ancora fatto.

ZAN. No? Mo cossa ghe vol per far el matrimonio?

ROS. Vi vogliono molte cerimonie e solennità.

ZAN. Parlemose schietto. Me accetteu per vostro mario?

ROS. Sì, signore, vi accetto.

ZAN. E mi ve accetto per mia muggier. Cossa ghe xe bisogno de altre cerimonie? Questa xe la più bella cerimonia del mondo.

ROS. Voi dite bene. Ma qui non si pratica in questa guisa.

ZAN. No? Torno a Bergamo. Torno alle montagne, dove son stà arlevà. Là, co se vol ben, xe fatto tutto. Co do parole se fa un matrimonio: e tutte le cerimonie le se fa tra mario e muggier.

ROS. Vi torno a dire che qui vi vogliono altre solennità.

ZAN. Ma ste solennità quando fenirale?

ROS. Ci vogliono almeno due giorni.

ZAN. Oh, figureve se aspetto tanto!

ROS. Siete molto furioso.

ZAN. O femo subito, o no femo gnente.

ROS. Ma questo è un disprezzo che fate della mia persona.

ZAN. Ghe disè desprezzo a voler concluder el matrimonio? Saveu quante putte([7]) che vorave esser desprezzae in sta maniera?

ROS. Ma che diavolo! non potete aspettar un giorno?

ZAN. Ma disè, cara vu: ste solennità e ste cerimonie no le se poderave far dopo el matrimonio? Concludemo le cosse tra de nu, e po andemo drio a cerimoniar anca un anno, che no ghe penso gnente.

ROS. Eh, signor Zanetto, mi pare che vi vogliate prender divertimento di me.

ZAN. Seguro che me vorave devertir, ma col matrimonio.

ROS. Lo farete a suo tempo.

ZAN. Dise el proverbio: chi ha tempo, no aspetta tempo. Via, no me fe più penar. (s’accosta, e vuol toccarle la mano)

ROS. Ma questa poi è un’impertinenza.

ZAN. E via, che cade([8])!

ROS. Abbiate giudizio, vi dico.

ZAN. Siben, giudizio. (vuol abbracciarla, ella gli dà uno schiaffo)

ROS. Temerario!

ZAN. (Senza parlare si ferma attonito, si tocca la guancia. Guarda in viso Rosaura, fa il motto dello schiaffo, la saluta, e alla muta correndo parte)

SCENA OTTAVA

Rosaura, poi Pancrazio

ROS. Poter del mondo! che uomo improprio! che giovine sfacciato! non mi sarei mai creduta una tale temerità in colui, che sembra a prima vista uno sciocco. Ma appunto questi guarda basso sono quelli che ingannano più degli altri. Noi altre donne mai non ci dovremmo trovare da sola a solo cogli uomini. Sempre s’incontra qualche pericolo. Me l’ha detto tante volte quel buon uomo del signor Pancrazio... Ma eccolo che viene; veramente nel di lui volto si vede a chiare note la bontà del suo cuore.

PANC. Il ciel vi guardi, fanciulla; che avete, che vi veggo così alterata?

ROS. Oh, signor Pancrazio, se sapeste cosa mi è accaduto!

PANC. Che mai, che mai! Palesatemi il tutto con libertà. Già in me vi potete sicuramente fidare.

ROS. Ve lo dirò, signore: sapete già che mio padre mi ha destinata in isposa ad un Veneziano.

PANC. (Così non lo sapessi!) (da sé)

ROS. Saprete ancora ch’egli, partitosi da Bergamo, oggi è arrivato in questa città.

PANC. (Così si fosse rotto l’osso del collo). (da sé)

ROS. Ora sappiate che costui è uno sciocco, ma però temerario.

PANC. La temerità è propria di gente sciocca.

ROS. Mio padre mi fece subito abboccare con esso lui.

PANC. Male.

ROS. Poi seco lui ancora mi lasciò sola.

PANC. Peggio.

ROS. Ed egli...

PANC. Già me l’immagino.

ROS. Ed egli con parole indecenti...

PANC. Ed anco tenere, non è così?

ROS. Sì, signore.

PANC. E con qualche atto immodesto?

ROS. Per l’appunto.

PANC. Seguite; che avvenne?

ROS. Mi provocò a segno ch’io gli diedi uno schiaffo.

PANC. Oh, brava, oh saggia, oh esemplare fanciulla! oh degna d’esser descritta nel catalogo dell’eroine del nostro secolo! Non ho lingua bastante per lodare la savia risoluzione del vostro spirito. Così si trattano cotesti insolenti; così si mortificano questi irriverenti del sesso. Oh mano eroica, oh mano illustre e gloriosa! Lasciate che per riverenza ed ammirazione imprima un bacio su quella mano, che merita gli applausi del mondo tutto. (le prende la mano, e la bacia teneramente)

ROS. Merita dunque la vostra approvazione quest’atto del mio risentimento?

PANC. Pensate! e in che modo! Al giorno d’oggi è un prodigio trovar una giovane, che per modestia dia uno schiaffo ad un amante. Seguite, seguite sì bel costume. Avvezzatevi a disprezzare la gioventù, dalla quale non potete sperare che mali esempi, infedeltà e strapazzi; e se mai il vostro cuore risolvere si volesse ad amare, cercate un oggetto degno del vostro amore.

ROS. Ma dove ed in chi dovrei cercarlo?

PANC. Oh, Rosaura, per ora non posso dirvi di più. Penso a voi ed al vostro bene più di quello che vi credete; basta, lo conoscerete.

ROS. Signor Pancrazio, sono certa della vostra bontà. Siete troppo interessato per i vantaggi di questa casa, per non isperare da voi ogni più segnalato favore. Però, se devo dirvi la verità, il signor Zanetto non mi dispiace, e se non fosse così sfacciato, forse forse...

PANC. Oibò, oibò, chiudete l’incauto labbro, e non oscurate con sentimenti sì vili l’eroica impresa della vostra virtù. Via, odiate anzi un oggetto così abbominevole. Chi non sa esser modesto, mostra di non aver la ragione che lo governi. Il vostro merito d’altro oggetto più nobile vi rende degna. Non fate mai più ch’io vi senta a pronunziare quel nome.

ROS. Dite bene, signor Pancrazio. Perdonate la mia debolezza. Vado a dire a mio padre che non lo voglio.

PANC. Brava; ora vi lodo. Aggiungerò alle vostre le mie ragioni.

ROS. Di grazia, non mi abbandonate. (Che uomo dabbene, che uomo saggio ch’è questo! Felice mio padre, che l’ha in sua casa! felice me, che sono ammaestrata da’ suoi consigli!) (da sé, e parte)

SCENA NONA

Pancrazio solo.

PANC. Se non mi acquisto Rosaura col mezzo di una falsa virtù e di una finta prudenza, né colla gioventù, né colla bellezza, né colla ricchezza io non ispero di acquistarla per certo. Ho trovata una strada, che forse forse mi condurrà al fine de’ miei disegni. In oggi chi sa più fingere sa meglio vivere; e per esser saggio basta parerlo. (parte)

SCENA DECIMA

Strada.

BEATRICE da viaggio, con un SERVITORE, e FLORINDO

BEAT. Tant’è, signor Florindo, io voglio tornar a Venezia.

FLOR. Ma perché una risoluzione così improvvisa?

BEAT. Sono ormai sei giorni ch’io sto attendendo il signor Tonino, con cui passar dovevo a Milano; e non per anco lo vedo a comparire. Dubito che siasi pentito di seguitarmi, oppure che qualche strano accidente non lo trattenga in Venezia; senz’altro voglio partire, e chiarirmi in persona di questo fatto.

FLOR. Ma questa, perdonatemi, è un’imprudenza; volete ritornar a Venezia, da dove, per consiglio del signor Tonino, siete fuggita? Se vi trovano i vostri parenti, siete perduta.

BEAT. Venezia è grande: s’entra di notte: farò in modo che non sarò conosciuta.

FLOR. No, signora Beatrice, non isperate ch’io vi lasci partire. Il signor Tonino a me vi ha indirizzata, a me vi ha raccomandata, ho debito di trattenervi, ho debito di custodirvi; così vuole la legge dell’amicizia (e così richiede la forza di quell’amore, che a lei mi lega). (da sé)

BEAT. Non vi lagnate, se ad onta del vostro volere mi procaccio da me stessa il modo di partire. Saprò trovare la Posta, e saprò col mio servo ritornare a Venezia, se con esso sono venuta a Verona.

FLOR. Oh, questo sì che sarebbe il massimo degli errori. Non mi diceste voi stessa che un certo Lelio per viaggio vi ha di continuo perseguitata? E non l’ho veduto io stesso qui in Verona raggirarsi sempre d’intorno a voi, a segno tale che più volte ho quasi seco dovuto precipitare? Se tornate a partire, ed egli giunge a penetrarlo, non vi esimerete da qualche insulto.

BEAT. Una donna onorata non teme insulti.

FLOR. Ma una donna sola con un servitore per viaggio, per quanto sia onorata, fa sempre una cattiva figura, ed è facile ricever un affronto.

BEAT. Tant’è, voglio partire.

FLOR. Aspettate ancora due giorni.

BEAT. Ah, che il cuor mi predice, che ho perduto il mio Tonino.

FLOR. Tolga il cielo gli auguri: ma se mai lo aveste perduto, che vorreste fare ritornando in Venezia?

BEAT. E che avrei a fare stando in Verona?

FLOR. Qui forse trovereste persona, che persuasa del vostro merito, potrebbe occupare il luogo del vostro caro Tonino.

BEAT. Oh, questo non sarà mai. O sarò di Tonino, o sarò della morte.

FLOR. (Eppure, se qui restasse e non venisse il suo amante, spererei a poco a poco di vincerla). (da sé)

BEAT. (Quando meno lo crederà, gli fuggirò dalle mani). (da sé)

FLOR. Ma ecco qui quel ganimede affettato di Lelio. Egli s’aggira sempre d’intorno a voi; guardi il cielo, se foste senza di me.

BEAT. Partiamo.

FLOR. Oh questo no: non diamo segno di timore. State pur sul vostro decoro, e non dubitate.

BEAT. (Mancava questo impedimento alla mia partenza). (da sé)

SCENA UNDICESIMA

Lelio e detti.

LEL. Bellissima veneziana, ho risaputo dal vetturino che voi bramate ritornare alla vostra patria; se così è, fate capitale di me: vi darò calesse, cavalli, staffieri, lacchè, denari e quanto volete, purché mi concediate il piacere di accompagnarvi.

BEAT. (Che sguaiato!) (da sé)

FLOR. Signore, mi favorisca. Con che titolo offre ella tante magnifiche cose alla signora Beatrice, mentre la vede in mia compagnia?

LEL. Che importa a me ch’ella sia in vostra compagnia: ho io soggezione di voi? Chi siete voi? Suo fratello, suo parente, o qualche suo condottiere?

FLOR. Mi maraviglio di voi e del vostro cattivo procedere. Sono un uomo d’onore. Sono uno che ha impegno di custodir questa donna.

LEL. Oh amico, siete in un difficile impegno!

FLOR. E perché?

LEL. Perché a custodir una donna ci vogliono altre barbe che la vostra.

FLOR. Eppure mi dà l’animo di tener a dovere voi, e chiunque altro simile a voi.

LEL. Orsù, alle corte. Vi occorre nulla da me? Avete bisogno di denaro, di roba, di protezione? Comandate (a Beatrice)

FLOR. Voi mi farete perder la pazienza.

LEL. Eh, vi conosco alla cera; siete un giovine di garbo. Signora Beatrice, mi dia la mano, e si lasci servire.

BEAT. Mi sembrate un bell’impertinente.

LEL. In amore vi vuole audacia. A che servono tante inutili cerimonie? Via, andiamo. (la vuol prender per mano, ed ella si ritira)

FLOR. Abbiate creanza, vi dico. (gli dà una spinta)

LEL. A me questo? A me, temerario? A me, che uomo del mondo non può vantarsi d’avermi guardato con occhio brusco, che non abbia anche pagato col sangue il soverchio suo ardire? Sai tu chi sono? Sono il marchese Lelio, signor di Monte Fresco, conte di Fonte Chiara, giurisdicente di Selva Ombrosa. Ho più terre che tu non hai capelli in quella mal pettinata parrucca, ed ho più centinaia di doppie, che tu non hai avuto bastonate.

FLOR. Ed io credo che tu abbia più pazzie nel capo, di quel che vi sieno arene nel mare e stelle nel cielo. (Chi non lo conoscesse? Si vanta conte, marchese, ed è nipote del dottor Balanzoni). (da sé)

LEL. O venga meco la donna, o tu caderai vittima del mio sdegno.

FLOR. Questa donna vien da me custodita: e se hai che pretender da me, ti risponderò colla spada.

LEL. Povero giovine! Ti compatisco. Tu vuoi morire, non è così?

BEAT. (Signor Florindo, non vi cimentate con costui). (piano a Florindo)

FLOR. (Eh, non temete. Abbasserò io la sua alterigia). (a Beatrice)

LEL. Vivete ancora, che siete giovine, e lasciatemi questa donna. Delle donne n’è pieno il mondo. La vita è una sola.

FLOR. Stimo più della vita l’onore. O partite, o impugnate la spada. (mette mano)

LEL. Non sei mio pari, non sei nobile, non mi vo’ batter teco.

FLOR. O nobile, o plebeo, così si trattano i vili tuoi pari. (gli dà una piattonata)

LEL. A me questo! Dei tutelari della mia nobiltà, assistetemi nel cimento. (pone mano)

FLOR. Ora vedremo la tua bravura. (si battono)

BEAT. Oh me infelice! Non vo’ trovarmi presente a qualche tragedia. Mi ritirerò nell’albergo vicino. (Nel mentre che li due si battono, Beatrice parte col Servo)

SCENA DODICESIMA

Florindo e Lelio che si battono, poi Tonino

FLOR. Ah! son caduto. (cade)

LEL. Temerario, sei vinto. (gli sta colla spada al petto)

FLOR. Sdrucciolai per disgrazia.

LEL. Ti superò il mio valore. Mori...

TON. (colla spada in mano in difesa di Florindo) A mi, mi: alto, alto: co la zente xe in terra, se sbassa la ponta. (a Lelio)

LEL. Voi come c’entrate?

TON. Gh’intro, perché son un omo d’onor, e no posso sopportar una bulada in credenza([9]).

FLOR. Come... Signor Tonino... Amico caro... (s’alza)

TON. (Zitto.. son vostro amigo, e son arrivà in tempo de defender la vostra vita, ma no stè a dir el mio nome). Animo, sior canapiolo([10]), vegnì a nu([11]). (sfida Lelio)

LEL. (Ci mancava costui). (da sé) Ma voi chi siete?

TON. Son un venezian, che gh’ha tanto de cuor; che no gh’ha paura né de vu, né de diese della vostra sorte.

LEL. Io non ho nulla con voi, né intendo di volermi battere.

TON. E mi gh’ho qualcossa con vu, e me voggio batter.

LEL. Mi sembrate uno stolto; che cosa avete meco?

TON. L’affronto che avè fatto a un mio amigo, lo risento come mio proprio. A Venezia se fa più conto dell’amicizia che della vita; e me parerave d’esser indegno del nome de venezian, se no seguitasse l’esempio dei nostri cortesani([12]), che xe el specchio dell’onoratezza.

LEL. Ma qual è quell’affronto ch’ho fatto a questo vostro sì grande amico?

TON. Ghe disè poco! manazzar([13]) un uomo in terra? Ghe disè gnente, dirghe muori, co l’è colegà([14])? Via, mettè man a quella spada.

FLOR. No, caro amico, non vi cimentate per me. (a Tonino)

TON. Eh via, cavève, che tanto stimo a batterme co sto scartozzo de pévere([15]), come bever un vovo([16]) fresco.

LEL. Ma io ho troppo lungamente sofferta la vostra petulanza, con discapito della delicatezza dell’onor mio e con iscorno de’ miei grand’avi.

TON. È vero. Cossa dirà vostra nona nina nana? Cossa dirà vostro pare della poltroneria de sto gran fio?

LEL. Ah, giuro al cielo.

TON. Ah, giuro alla terra.

LEL. Eccomi. (si pone in guardia contro Tonino)

TON. Bravo, coraggio. (si battono; Tonino disarma Lelio)

LEL. Sorte ingrata! Eccomi disarmato.

TON. L’è disarmà, e tanto me basta: vedeu come se tratta? No ve manazzo, no digo muori. Me basta l’onor de averve vinto. Me basta la spada per memoria de sto trionfo: cioè la lama, che la guardia ve la manderò a casa, acciò la podiè vender, e podiè pagar el cerusico, che ve caverà sangue per el spasemo che avè abuo([17]).

LEL. Basta, ad altro tempo riserbo la mia vendetta.

TON. Da muso a muso, son sempre in casa, co me volè.

LEL. Ci vedremo, ci vedremo. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Florindo e Tonino

TON. Va pur, e per tua gloria basti

Il poter dir che contro me pugnasti.

FLOR. Caro amico, quanto vi son tenuto!

TON. Alle curte. Beatrice dove xela?

FLOR. Beatrice!... (Finger mi giovi). E chi è questa Beatrice?

TON. Quella putta che ho fatto scampar da Venezia, e l’ho mandada qua da vu, pregandove de custodirla fina al mio arrivo.

FLOR. Amico, io non ho veduto alcuno.

TON. Come! diseu dasseno o burleu?

FLOR. Dico davvero. Io non ho veduto la donna che dite, e mi sarei fatto gloria di potervi servire.

TON. Ho inteso; la me l’ha fatta. Me pareva impossibile de trovar una donna fedel. Xe do anni che ghe fazzo l’amor. So pare no me la vol dar, perché el gh’ha in testa che sia un pochetto scavezzo([18]), perché me piase goder i amici e far un poco de tutto, sempre però onoratamente e da vero cortesan. Mi, vedendo che no i me la voleva dar, l’ho consegiada a scampar. Ella, senza pensarghe suso, l’ha fatto fagotto e la xe vegnua via. L’ho fatta compagnar a Verona da un servitor mio fedel, e mi intanto m’ho trattegnù a Venezia per no dar sospetto. Un certo siorazzo([19]) forestier, che pretendeva sora sta putta, m’ha trovà mi, e sospettando che mi gh’abbia fatto la barca, el m’ha scomenzà a bottizar. Una parola tocca l’altra, gh’ho lassà andar un potentissimo schiaffo. S’ha sussurà mezza Venezia e i me voleva in cotego([20]) in ogni forma. Ho tiolto una gondola([21]), e senza andar a casa, senza tior né bezzi([22]), né roba, con quel poco che gh’aveva addosso, son vegnù qua. Credeva de trovar la mia cara Beatrice; ma sta cagna sassina me l’ha ficcada. Orsù, senti, amigo, ste poche ore che semo qua, no me chiamè col nome de Tonin, perché no vorave esser cognossuo.

FLOR. E come volete ch’io vi chiami?

TON. Diseme Zanetto.

FLOR. Perché Zanetto?

TON. Perché gh’ho un fradello a Bergamo, che gh’ha sto nome e el me someggia tutto. Se i me vede, i me crederà lu, e cussì scapolerò([23]) qualche pericolo.

FLOR. Questo vostro fratello è tuttavia in Bergamo?

TON. Credo de sì, ma no lo so de seguro, perché semo, co([24]) se sol dir, più parenti che amici. Lu gh’ha dei bezzi più de mi; ma mi godo el mondo più de lu. Anzi ho sentio a dir ch’ei se vol maridar, ma no so né dove, né con chi. El xe un alocco de vintiquattro carati: beata quella muggier che ghe tocca! Le donne le gh’ha più gusto d’un mario alocco, che d’una bona intrada.

FLOR. Amico, se volete onorar la mia casa, siete padrone.

TON. No vorave darve incomodo.

FLOR. A me fareste piacere; ma per dirvela, ho un padre fastidioso, che non vorrebbe mai veder alcuno.

TON. Eh no no, gnente, compare([25]), gnente, anderò all’osteria.

FLOR. Mi rincresce infinitamente; per altro, se volete...

TON. Tonin Bisognosi no ha mai costumà de piantar el bordon([26]) in casa dei so amici; e i cortesani della mia sorte i dà, e no i tiol. Vegnì a Venezia, e vederè come se tratta. Nualtri ai forestieri ghe demo el cuor; e gh’avemo sta vanità de trattar i forestieri in t’una maniera, che tutti diga ben de Venezia, più della so medesima patria. Ve son obbligà, cognosso el vostro bon cuor; ma la bona mare([27]) no la dise vustu, la dise tiò([28]).

FLOR. Ma caro amico, fatemi questo piacere, venite.

TON. Fe conto che sia vegnù. Se posso, comandème. Son Tonin, e tanto basta. La vita, el sangue tutto, prima per la patria, e po per i amici. «Pugna per patria e traditor chi fugge». Sioria vostra. (parte)

SCENA QUATTORDICESIMA

Florindo solo.

FLOR. Grand’è la mortificazione ch’io provo de’ rimproveri ben giusti del signor Tonino; ma l’amore ch’io ho per Beatrice, mi fa essere ingrato. S’io lo conduco in mia casa, è scoperto l’inganno. A me giova che parta Tonino, e resti meco Beatrice. Allora mi spiegherò, e forse non sarà contraria a’ miei desideri. Anderò a rintracciarla. Per oggi e domani la farò star ritirata. Il servitore lo manderò fuori di Verona. Farò tutto per acquistarmi questa rara bellezza. So che manco al dovere e l’amicizia tradisco, ma amore comanda con troppo arbitrio al mio cuore. Devo a Tonino la vita, e son pronto a sagrificarla per lui. Tutto son pronto a fare, fuorché privarmi di Beatrice che adoro. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Zanetto, poi Lelio

Zanetto mesto e pensoso, senza parlare, toccandosi la guancia dello schiaffo.

LEL. Or siete solo. Ecco il tempo di cimentarvi. (a Zanetto da lui creduto Tonino)

ZAN. Servitor umilissimo.

LEL. Meno cerimonie e più fatti. Ponete mano.

ZAN. La man? Xe qua la man.

LEL. Che? Fate lo scimunito? Ponete mano alla spada.

ZAN. Alla spada?

LEL. Sì, alla spada.

ZAN. Mo perché?

LEL. Perché non soffre il coraggioso mio cuore, che fra l’eroiche gesta del suo valore si conti una perdita sola.

ZAN. De che paese xela, padron?

LEL. Io son romano. Perché?

ZAN. Perché no l’intendo gnente affatto.

LEL. Se non intendete me, intenderete il lucido lampo di questo ferro. (pone mano alla spada)

ZAN. Oe, zente, agiuto, el me vol mazzar. (grida forte)

LEL. Ma che! Fingete voi meco, per maggiormente deridermi? So che siete valoroso, ma in mio confronto cederebbe lo stesso Marte, se Giove di sua mano non mi disarmasse. Venite al cimento.

ZAN. (Prima un schiaffo e adesso la spada? Stago fresco come una riosa). (da sé)

LEL. Animo, dico, rispondete all’invito. (gli dà una piattonata)

ZAN. Aseo([29])!

LEL. O difendetevi, o vi passo il petto. (in atto di ferirlo)

SCENA SEDICESIMA

Florindo e detti.

FLOR. (Colla spada alla mano) Eccomi in difesa dell’amico. A me volgete quel ferro.

LEL. Colui è un vile, è un codardo. (a Florindo, intendendo parlare del creduto Tonino)

ZAN. Sior sì, el dise la verità. (a Florindo)

FLOR. Mentite, egli è un uom valoroso. (a Lelio)

ZAN. (Sto sior me cognosse poco). (da sé)

LEL. Perché dunque meco non si cimenta?

ZAN. (Perché gh’ho paura). (da sé)

FLOR. Perché più non si degna di combatter con voi.

ZAN. (Che matto che xe costù). (da sé)

FLOR. Ma comunque sia, meco avete da cimentarvi. (a Lelio)

LEL. Eccomi, non temo né di voi, né di cento. (si battono)

ZAN. Bravi, pulito, animo, dei, sbusèlo([30]).

FLOR. Ecco atterrato il superbo. (Lelio cade)

LEL. Sorte crudele, nemica de valorosi!

FLOR. La tua vita è nelle mie mani.

ZAN. Siben, mazzèlo. Ficheghela quella cantinella in tel corbame([31]).

FLOR. Non sarebbe azione da cavaliere.

ZAN. Gierela azion da cavalier la soa, quando el me voleva sbusar?

FLOR. Ma voi l’altra volta non rimproveraste colui, perché mi minacciò la morte, mentre era caduto?

ZAN. Eh, che sè matto. Dei, mazzèlo.

FLOR. No: vivi, e riconosci da me la vita. (a Lelio)

LEL. Voi siete degno di starmi a fronte; ma colui è un vigliacco, un poltrone. (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Florindo e Zanetto

ZAN. Tutto quel che ti vol.

FLOR. Ma, caro amico, perché questa volta vi dimostraste cotanto da voi diverso? Fingete? O qual capriccio è il vostro?

ZAN. Sior, no finzo gnente. Mai più in vita mia ho abuo tanta paura. Se no vegnivi vu, el me sbasiva de posta([32]).

FLOR. Godo d’avervi salvata la vita.

ZAN. Sieu benedio([33]): lassè che basa quella man che m’ha liberà.

FLOR. Ma io ho fatto con voi quello che voi avete fatto con me: voi avete salvata la mia vita, ed io ho salvata la vostra.

ZAN. Mi v’ho salvà la vita?

FLOR. Sì, quando mi difendeste contro Lelio la prima volta.

ZAN. No me l’arecordo.

FLOR. I pari vostri si scordano i benefici che fanno, per modestia. Amico, io vi consiglio partir di Verona, perché dubito siate conosciuto.

ZAN. Anca mi credo che i m’abbia cognossuo.

FLOR. E se vi conoscono, guai a voi.

ZAN. Sempre de mal in pezo.

FLOR. Vi par poco aver dato uno schiaffo?

ZAN. Averlo tolto, volè dir.

FLOR. Ah, l’avete avuto voi lo schiaffo?

ZAN. Sior sì. Mo che credevi... che ghe l’avesse dà mi?

FLOR. Così credeva.

ZAN. Oibò, mi, mi l’ho buo([34]).

FLOR. Ma la donna non l’avete più vista?

ZAN. Sior no, no l’ho più vista.

FLOR. (Nemmen io ho potuto ritrovar Beatrice). (da sé)

ZAN. No me curo gnanca([35]) de véderla.

FLOR. Oh sì, farete bene. Non ve ne curate più. Fate a mio modo, tornate a casa vostra.

ZAN. Cussì diseva anca mi.

FLOR. Posso servirvi in conto alcuno?

ZAN. La so grazia.

FLOR. A rivederci.

ZAN. La reverisso.

FLOR. (Pare diventato uno sciocco. Amore fa de’ brutti scherzi). (da sé, parte)

SCENA DICIOTTESIMA

Zanetto, poi Pancrazio

ZAN. Se no vegniva sto sior, stava fresco. Stimo che tutti sa che quella patrona([36]) la m’ha dà un schiaffo. Pazenzia. Sto zovene me vol ben. El me conseggia che vaga via. Ma penso po anca che Rosaura la me piase, e che se la fusse mia muggier, gh’averave gusto. Me despiase che Arlecchin no xe gnancora vegnù co sti bezzi e co sta roba, che ghe vorave far un regalo e giustarla.

PANC. (Ecco qui quel baccellone di Zanetto. Si aggira intorno di questa casa, e non sa allontanarsene). (da sé)

ZAN. La m’ha dà un schiaffo, donca la me vol mal. Ma no, anca mia siora madre la me dava dei schiaffi e la me voleva ben. Finalmente no la m’ha miga coppà. Eh, che son matto. No voggio desgustarla. Voggio andar subito a domandarghe perdonanza. (va verso la casa del Dottore)

PANC. Quel giovine, dove andate?

ZAN. Vago dalla mia novizza.

PANC. Da quella che vi ha dato lo schiaffo?

ZAN. Siben, giusto da quella.

PANC. E andate con risoluzione di pacificarvi e di sposarla?

ZAN. Bravo, l’avè indovinada.

PANC. Vi piace quella giovine?

ZAN. Assae.

PANC. Le volete bene?

ZAN. E come!

PANC. La sposereste volentieri?

ZAN. Oh magari([37])!

PANC. Povero giovane, quanto vi compatisco!

ZAN. Coss’è stà?

PANC. Siete sull’orlo del precipizio.

ZAN. Mo perché?

PANC. Non volete ammogliarvi?

ZAN. Sior sì.

PANC. Povero infelice, siete rovinato.

ZAN. Mo perché?

PANC. Io, che altro non bramo che giovar al mio prossimo, devo per debito di carità fraterna avvertirvi dell’enorme pazzia che siete per fare.

ZAN. Mo comòdo([38])?

PANC. Sapete voi cosa sia matrimonio?

ZAN. Matrimonio... sior sì... l’è, come sarave a dir... giusto... mario e muggier.

PANC. Ah, se sapeste cosa vuol dir matrimonio, cosa vuol dir moglie, non ne parlereste con tanta indifferenza.

ZAN. Mo via, cossa vorlo dir?

PANC. Matrimonio vuol dire una catena, che tiene l’uomo legato come lo schiavo alla galera.

ZAN. El matrimonio?

PANC. Il matrimonio.

ZAN. Schienze([39])!

PANC. Il matrimonio è un peso che fa sudar i giorni e vegliar le notti. Peso allo spirito, peso al corpo, peso alla borsa e peso alla testa.

ZAN. Gnaccara muso d’oro([40])!

PANC. E la donna che vi sembra tanto bella e gentile, che credete mai che ella sia?

ZAN. Coss’èla, caro sior?

PANC. La donna è una incantatrice sirena che alletta per ingannare, ed ama per interesse.

ZAN. La donna?

PANC. La donna.

ZAN. Aséo!

PANC. Quegli occhi così brillanti sono due fiamme di fuoco, che a poco a poco accendono e inceneriscono.

ZAN. I occhi... do fiamme de fogo...

PANC. La bocca è un vaso di veleno che lentamente per le orecchie s’insinua al cuore, ed uccide.

ZAN. La bocca... un vaso de velen...

PANC. Le guancie, così vaghe e vermiglie, sono stregherie, sono incanti.

ZAN. Le ganasse([41])... strigherie... incanti...

PANC. Quando una donna vi viene incontro, sappiate che quella è una furia che viene per lacerarvi.

ZAN. Bagatelle per i putei!

PANC. E quando la donna viene per abbracciarvi, quello è un demonio che vi vuol tirar all’inferno.

ZAN. Alla larga.

PANC. Pensateci, e pensateci bene.

ZAN. Gh’ho bello e pensà.

PANC. Mai più donne.

ZAN. Mai più donne.

PANC. Mai più matrimonio.

ZAN. Mai più matrimonio.

PANC. Quanto benedirete il mio consiglio.

ZAN. El ciel v’ha mandà.

PANC. Via, abbiate giudizio. Il ciel vi benedica.

ZAN. Sè mio pare: ve voggio ben.

PANC. Prendete, baciatemi la mano.

ZAN. Oh caro! Oh siestu benedio! (gli bacia la mano)

PANC. Donne...

ZAN. Uh...

PANC. Matrimonio...

ZAN. Oh...

PANC. Mai più...

ZAN. Mai più.

PANC. Certo?

ZAN. Seguro.

PANC. Bravo, bravo, bravo. (parte)

SCENA DICIANNOVESIMA

Zanetto, poi Beatrice col Servo

ZAN. Cancaro! Aveva fatto una bella cossa, se no capitava sto galantomo. Matrimonio.. peso qua, peso là, peso alla borsa, peso alla testa... Donne... sirene, strighe, diavoli. Ih, che imbroggio maledetto.

BEAT. Oh me felice! Ecco il mio bene, ecco il mio sposo. Quando siete arrivato? (a Zanetto, credendolo Tonino)

ZAN. Via, alla larga.

BEAT. Come! Non son io la vostra sposa? Non siete voi qui venuto per stabilire i nostri sponsali?

ZAN. Siben: la caena, come i galiotti. Brava, za so tutto.

BEAT. Che catena? Che dite di catena? Non vi ricordate delle vostre promesse?

ZAN. Promesse? De cossa?

BEAT. Del matrimonio.

ZAN. Seguro, el matrimonio. Peso alla borsa e peso alla testa.

BEAT. Eh via, guardatemi: non vi burlate di me, che mi fate morire.

ZAN. (Propriamente se ghe vede el fuogo in quei occhi). (da sé)

BEAT. Dubitate forse di me? Uditemi, che vi renderò soddisfatto.

ZAN. Serrè quella bocca, quella scatola de velen, che no vorave che me arrivessi a tossegar([42]) el cuor.

BEAT. Oimè! Che parlare è il vostro? Voi mi fate arrossire senza colpa.

ZAN. Vela là, che la vien rossa. Lo so che sè una striga.

BEAT. Son disperata. Ascoltatemi per pietà. (s’accosta a Zanetto)

ZAN. Via furia, che vien per lacerarme. (fuggendo da lei)

BEAT. Ma cieli! Che mai vi ho fatto? (s’accosta di nuovo)

ZAN. Via diavolo, che me voria strassinar all’inferno. (parte)

SCENA VENTESIMA

Beatrice sola.

BEAT. Tanto ascolto e non muoio? Che ho da pensare del mio Tonino? O egli è impazzito, o è stato di me sinistramente informato. Misera, che far deggio? Lo seguirò di lontano e tenterò ogni arte per discoprire la verità. Amore, tu che per mia sventura mi facesti abbandonare la patria, i genitori e gli amici, tu assistimi nel pericolo in cui mi trovo; se brami in ricompensa il mio sangue, versalo tutto, prima che mi vegga sprezzata dall’adorato mio sposo.


ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Strada. Da una parte la casa del Dottore, dall’altra osteria con insegna.

ARLECCHINO da viaggio, con un FACCHINO che porta una valigia ed un ferraiuolo.

ARL. Finalmente semo arrivadi alla bella città de Verona, dove Cupido ha scoccà quella frezza che m’ha ferido el cor, senza che veda l’arco. Dove poss dir d’esser innamorà in una che non ho mai visto; dove ho da sposar una donna che no cognosso.

FACC. Vorrei che ci sbrigassimo, perché ho altri impegni, e voglio andarmi a guadagnare il pane.

ARL. Mi no so dove mai sia allozado quell’alocco del mio patron. Dim, caro ti, cognosset ti el sior Zanetto Bisognosi?

FACC. Non lo conosco, non so chi sia.

ARL. Mo l’è el mio patron. L’è vegnù da Bergam a Verona per maridarse; lu l’ha da tor la patrona, e mi ho da tor la serva, per mantegnir el capital in casa. Lu l’è vegnù avanti de mi: mi son qua colla roba: ma no so dove el sia allozado, e no so come far a trovarlo.

FACC. Quando non sapete più di così, Verona è grande; durerete fatica a ritrovarlo.

ARL. Fortuna, te ringrazio. Zitto, che l’è qua che el vien. Retiremose in disparte: ghe vôi far una burla: vôi veder se el me cognosse.

FACC. È troppa libertà scherzar col padrone.

ARL. Eh, tra lu e mi semo amici: andemo, che me vôi tor un poco de spasso.

FACC. Ma spicciatevi, che non ho tempo da perdere.

ARL. Va la, che te pagherò. (si ritirano)

SCENA SECONDA

Tonino e detti, ritirati.

TON. Gran cossa che no possa saver gnente de Beatrice! Pussibile che la m’abbia impiantà, che la m’abbia tradio?

ARL. (Intabarrato con caricatura passeggia avanti Tonino, da lui creduto Zanetto)

TON. (Coss’è sto negozio? Costù cossa vorlo dai fatti mii?) (da sé)

ARL. (Torna a ripassare avanti a Tonino, con aria brusca e minaccevole)

TON. (Ch’el fusse qualche sicario mandà a Verona da quello del schiaffo?) (da sé)

ARL. (Ripassa, battendo i piedi)

TON. Coss’è, sior, cossa voleu? Chi seu?

ARL. (Oh che matto, nol me cognosse). (da sé, ridendo)

TON. Anemo, digo, diseme cossa che volè da mi.

ARL. (Fa qualche atto di bravura)

TON. Adesso vederemo chi xe sto bravazzo. (mette mano alla spada)

ARL. Alto, alto: fermeve: no me cognossì? (si scopre)

TON. Chi seu? Mi no ve cognosso.

ARL. Come! no me cognossì?

TON. Sior no, no ve cognosso.

ARL. (Stè a veder che l’aria della città l’ha fatt deventar matto). (da sé)

TON. Voleu dirme chi sè? cossa che volè?

ARL. Diseme: avì bevù? (ridendo)

TON. Manco confidenza, che ve taggio i garétoli([43]).

ARL. Donca no me cognossì?

TON. Sior no, no ve cognosso.

ARL. Adess me cognosserì. Tolì sta roba: me cognossive? (gli dà un bauletto con delle gioje)

TON. (Gran belle zogie! Coss’è sto negozio?) (da sé)

ARL. E cussì? Me cognossive?

TON. Sior no, no ve cognosso.

ARL. No? Adess me cognosserì. Tolì sti bezzi. Me cognossive? (gli dà una borsa con denari)

TON. (Una borsa de bezzi?) (da sé) Sior no, no ve cognosso.

ARL. Oh maledettissimo, no me cognossì? Tolì sta valise, e me cognosserì.

TON. Con tutta sta valise mi no ve cognosso.

ARL. Siu matt, o imbriago?

TON. Matto o imbriago sarè vu. Ste zogie e sti bezzi no la xe roba mia: son galantomo e no la voggio. Tiolè, e portela de chi la xe.

ARL. Me maraveggio de vu: quella l’è roba vostra. Le zogie, i bezzi, la valise, l’è quel che m’avì consegnà da portarve, e mi fedelmente ve l’ho portà. Disim, dove seu allozà.

TON. In quell’osteria.

ARL. Che porta la valise là drento?

TON. Sì, portèla pur, za che volè cussì.

ARL. Ma no me cognossì?

TON. No ve cognosso.

ARL. Puh! Mamalucco maledetto. Vagh in te l’osteria. Porto in camera la valise, vegnirè a dormir, e quand averì digerida la cotta, me cognosserì. (prende la valigia e il tabarro, ed entra nell’osteria)

SCENA TERZA

Tonino, poi Colombina

TON. Questo el xe un bell’accidente. Un bauletto de zogie, una borsa de bezzi, per qualchedun i saria a proposito ma mi son un omo de onor, son un galantomo, e no voggio la roba de nissun. Colù xe un matto. Sa el cielo come ghe xe capità sto scrigno e sta borsa in te le man. Se no la tegniva mi, el l’averave dada a qualche baron. Mi custodirò l’un e l’altra; e se saverò chi abbia perso sta roba, ghe la restituirò con tutta pontualità.

COL. Serva, Signor Zanetto.

TON. A mi?

COL. Sì a lei. Non è lei il signor Zanetto Bisognosi?

TON. Son mi, per servirla. (Manco mal che la me cognosse per Zanetto). (da sé)

COL. Se si compiace, la mia padrona gli vorrebbe parlare.

TON. (Ho inteso. Solite avventure dei forestieri). (da sé) Volentiera: co no volè altro, ve servirò.

COL. Uh che belle gioje che ha il signor Zanetto!

TON. (Ah ah, adesso capisso megio. Dal balcon l’ha visto le zogie, e la m’ha mandà l’ambassada). (da sé)

COL. Sicuro: m’immagino che saranno destinate per la signora Rosaura.

TON. Che xe la vostra patrona?

COL. La mia padrona, sì signore.

TON. (Se ve digo mi che le tende alle zogie: ma sta volta le l’ha fallada. Voggio però devertirme). (da sé) Pol esser anca de sì, segondo che la me anderà a genio.

COL. In questo poi, non fo per dire, ma è una bella giovine.

TON. (Brava! Come che la batte ben el canafio([44])!) (da sé) Ma, digo, come s’avemio da regolar?

COL. In che proposito?

TON. Circa alle monee([45]).

COL. Eh, lei non ha bisogno di denari.

TON. (Eh sì, la tira alle zogie). (da sé) Donca la xe ricca la vostra patrona.

COL. Figuratevi, è figlia di un Dottore.

TON. La xe fia d’un Dottor!

COL. Oh sì, che non lo sapete?

TON. Ma el sior Dottor gh’è pericolo ch’el me diga gnente, sel me vede in casa?

COL. Anzi lo desidera, e sono venuta a chiamarvi d’ordine ancora di lui.

TON. (Bravi! Pare, fia e massera([46]), tutti de balla([47]). No vorave intrar in qualche impegno). (da sé) Sentì, fia mia, diseghe alla vostra patrona che vegnirò un’altra volta.

COL. No no, signore, desidera che venghiate subito; e se siete un uomo civile, non lasciate di compiacerla.

TON. Lassè, tanto che vaga qua a metter zo sto bauletto, e po vegno.

COL. Oh quest’è bella! Anzi dovete venire colle gioje, se volete consolarla.

TON. (Eh, za, l’ho dito. I vol le zogie. Ma sta volta no i fa gnente siguro. No le xe mie: e po son cortesan([48]). So el viver del mondo). (da sé, e chiude il bauletto)

SCENA QUARTA

Il Dottore di casa e detti.

COL. Signor padrone, ecco qui il signor Zanetto. Io mi affatico a persuaderlo a venir in casa, ed egli non vuole.

DOTT. Eh via, signor Zanetto, vada in casa, che mia figlia l’aspetta.

TON. (Bravo, bravo, bravo). (da sé)

DOTT. Questa sua renitenza è un torto manifesto, che lei fa a quella buona ragazza.

TON. (Megio, megio, megio). (da sé)

DOTT. Vuole che venga lei sopra della strada?

TON. Oibò, più tosto anderò in casa.

DOTT. Oh via dunque, da bravo.

TON. Me dala licenza?

DOTT. Padrone di giorno, di notte, a tutte le ore.

TON. Sempre. Porta averta.

DOTT. Per il signor Zanetto porta spalancata.

TON. Ma per mi solo?

DOTT. Per lei solo, sicuramente.

TON. E per altri no certo?

DOTT. Se non fosse per qualche amico di casa.

TON. Eh za, se gh’intende. Vago.

DOTT. Sì, vada pure.

TON. E posso andar, star e tornar?...

DOTT. Quando ella vuole.

TON. Cavarme zoso([49]) e despogiarme?...

DOTT. Sicuramente.

TON. Magnar un boccon?

DOTT. Padronissimo.

TON. Ho inteso tutto. Sioria vostra. (va per entrare in casa)

DOTT. Signor Zanetto, una parola in grazia.

TON. (Stè a veder, ch’el vol la bonaman). (da sé) Comandè.

DOTT. Perdoni la confidenza. Cos’ha di bello in quel bauletto?

TON. (Ah ah, l’amigo ha lumà([50]) le zogie). (da sé) Certe bagatelle. Certe zogiette.

DOTT. Buono, buono. Mia figlia sarà tutta contenta.

TON. (Oh che Dottor bon stomego([51])). (da sé) Basta, se l’averà giudizio, le sarà soe. (In tel comio([52])) (da sé)

DOTT. Veramente colle donne bisogna essere liberale.

TON. Compare, son galantomo. Non averè da dolerve de mi né vu, né vostra fia.

DOTT. Di ciò ne sono più che certo.

COL. Via, finitela, andate una volta. (a Tonino)

TON. Vago solo?

DOTT. Sì, con tutta libertà.

TON. Bravo. Cussì me piase. (Questo xe un pare de garbo. Lori tende alle zogie, e mi spero cavarme dai freschi con un per de lirazze). (da sé, ed entra in casa del Dottore)

SCENA QUINTA

Dottore e Colombina

COL. Mi pare che questo signor Zanetto sia poco innamorato della signora Rosaura.

DOTT. Ma perché?

COL. Non vedete quanta fatica ci vuole a farlo andar in casa? Vago solo, sior sì, sioria vostra. Mi fa venire i dolori colici.

DOTT. Da una parte lo compatisco. Sai cosa gli ha fatto Rosaura?

COL. E che gli ha fatto?

DOTT. Gli ha dato un potentissimo schiaffo.

COL. Per qual cagione?

DOTT. Credo perché egli volesse un poco stender le mani.

COL. In questo poi la signora Rosaura ha ragione. E voi ora, perdonatemi, avete fatto male a rimandarglielo in tempo ch’è sola.

DOTT. Eh, non è sola. Vi è il signor Pancrazio, che fa la guardia.

COL. Sia maledetto quel vostro signor Pancrazio.

DOTT. Cosa ti ha fatto, che lo maledisci?

COL. Io non lo posso vedere. Fa il bacchettone; ma poi...

DOTT. Ma che poi?

COL. Basta, mi ha detto certe cose...

DOTT. Cosa ti ha detto? Parla.

COL. Piace anche a lui allungar le mani.

DOTT. Chetati, bocca peccatrice. Non parlar così di quell’uomo, che è lo specchio dell’onoratezza e dell’onestà. Portagli rispetto e rendigli ubbidienza, come faresti a me medesimo. Egli è un uomo dabbene, e tu sei una ignorante, una maliziosa. (parte)

SCENA SESTA

Colombina, poi Arlecchino

COL. Dica quel che vuole il signor padrone, sostengo e sosterrò sempre che il signor Pancrazio è un uomo finto e un poco di buono.

ARL. Dove diavol l’è andà sto matto? L’è un’ora che aspett, e nol ved a vegnir.

COL. Che morettino grazioso!

ARL. Vôi domandar a sta ragazza, se la l’ha visto. Disim un po, bella putta, se no fallo, cognossì un cert sior Zanetto Bisognosi?

COL. Lo conosco sicuro.

ARL. L’avì vist che l’era qua?

COL. L’ho veduto.

ARL. Me faressi la carità de dirm dov che l’è andà?

COL. È andato in quella casa.

ARL. Chi ghe sta mo in quella casa?

COL. La signora Rosaura, la sua sposa.

ARL. La cognossela lei la siora Rosaura?

COL. La conosco benissimo.

ARL. E la so cameriera la cognossela?

COL. Non volete che la conosca? Sono io.

ARL. Come? ela... la siora... Colombina?

COL. Io sono Colombina.

ARL. E mi sala chi son?

COL. E chi mai?

ARL. Arlecchin Battocchio.

COL. Voi Arlecchino?

ARL. Mi.

COL. Il mio sposo!

ARL. La mia sposa!

COL. Oh carino!

ARL. Oh bellina!

COL. Oh che piacere!

ARL. Oh che consolazione!

COL. Quando siete arrivato?

ARL. Fem una cossa; andem in cà, che discorreremo.

COL. Aspettate un momento, che dica una parola alla padrona, prima d’introdurvi in casa. Non so s’ella l’accorderà.

ARL. Ho da parlar anca mi col me patron.

COL. Fermatevi qui, che subito torno.

ARL. Mo sì molt bella! Mo son tutt contento.

COL. Eh via, mi burlate.

ARL. Ve lo zuro da putto onorato.

COL. Mi vorrete bene?

ARL. Sì andè, no me fe più penar.

COL. Vado, vado. (È veramente grazioso). (da sé, ed entra in casa)

SCENA SETTIMA

Arlecchino, Colombinadi dentro, poi Zanetto

ARL. Fortuna, te rengrazio. Mo l’è molt bella! Mo l’è una gran bella cossa! Altro che Lugrezia Romana! Se Lugrezia Romana ha piass a Sesto, questa la saria capaze de dar soddisfazion anca al settimo.

COL. Arlecchino, venite, venite, che la padrona se ne contenta (di dentro)

ARL. Vegno, cara, vegno. (va per entrare in casa, e Zanetto sulla parte opposta lo vede per di dietro)

ZAN. Oe([53])! Arlecchin, Arlecchin. (lo chiama)

ARL. Sior. (si volta)

ZAN. Quando?

ARL. Come?

ZAN. Ti qua?

ARL. Vu qua?

ZAN. Seguro.

ARL. Ma no sè in casa?

ZAN. Dove?

ARL. Dell’amiga? (accenna la casa di Rosaura)

ZAN. Oibò.

ARL. (Donca culia m’ha burlà). (da sé)

ZAN. Dov’è la roba?

ARL. Oh bella! all’osteria.

ZAN. Dove?

ARL. Che mamalucco! Là, alle do Torre.

ZAN. Gh’è tutto?

ARL. Tutto.

ZAN. I bezzi e le zogie?

ARL. (Nol gh’ha gnente de memoria). (da sé) I bezzi e le zogie.

ZAN. Andemo a veder.

ARL. Andemo.

ZAN. Gh’astu([54]) la chiave?

ARL. De cossa?

ZAN. Della camera.

ARL. Mi no.

ZAN. Mo ti lassi cussì i bezzi e le zogie?

ARL. Ma dov’eli i bezzi e le zogie?

ZAN. Dove xeli?

ARL. Oh bella!

ZAN. Oh bona!

ARL. Ma no v’ho dà a vu i bezzi e le zogie?

ZAN. Mi no gh’ho abù gnente.

ARL. (L’è matt in conscienza mia). (da sé)

ZAN. Ma dov’ele le zogie de mio sior barba([55])? Le astu portae?

ARL. Le ho portae.

ZAN. Ma dove xele?

ARL. Caro vu, andemo drento, che debotto me scampa la pazenzia.

ZAN. Mo via, subito ti va in collera. Le sarà de su in camera.

ARL. Le sarà de su in camera.

ZAN. Mo va là, che ti xe un gran alocco! (entra nell’osteria)

ARL. Andè là, che sè un gran omo de garbo! (entra anche lui)

SCENA OTTAVA

Colombina sulla porta.

COL. Arlecchino, dove siete? Oh questa è graziosa! Se n’è andato. Bell’amore che ha egli per me! Ma dove sarà andato? Basta, se vorrà, tornerà; e se non torna, a una ragazza come son io, non mancheranno mariti. (entra in casa)

SCENA NONA

Camera in casa del Dottore, con tavolino e sedie.

Tonino solo a sedere, poi Brighella

TON. Xe un’ora che stago qua a far anticamera, e sta patrona no la se vede. No vorave che i m’avesse tolto per gonzo, e che i me volesse tegnir in reputazion la marcanzia, per farmela pagar cara. A Tonin no i ghe la ficca. Son venezian, son cortesan, e tanto basta. Anemo, o drento, o fora. Oe, gh’è nissun in casa?

BRIGH. Son qua a servirla. Cossa comandela?

TON. Chi seu vu, sior?

BRIGH. Son servitor de casa.

TON. (Cancarazzo! Livrea?) (da sé) Diseme, amigo, la vostra patrona fala grazia, o vaghio via?

BRIGH. Adesso la vago subito a far vegnir. Perché mi, sala, son servitor antigo de casa, e anca bon servitor della fameggia Bisognosi.

TON. Me cognosseu mi?

BRIGH. Ho cognossuo el so signor fradello. Un zovene veramente de garbo.

TON. Dove l’aveu cognossù?

BRIGH. A Venezia.

TON. Donca l’averè cognossù putelo([56]).

BRIGH. Anzi grando e grosso... Ma vien la patrona.

TON. No no, diseme. Come l’aveu cognossù a Venezia grando e grosso?

BRIGH. La me perdona, bisogna che vada. Se parleremo meggio: all’onor de servirla. (parte)

SCENA DECIMA

Tonino, poi Rosaura

TON. Che diavolo dise costù? O che l’è matto, o che qualcossa ghe xe sotto.

ROS. Serva, signor Zanetto; compatisca se l’ho fatto aspettare.

TON. Eh gnente, patrona, me maravegio. (Oh che tocco! oh che babio([57])!) (da sé)

ROS. (Mi guarda a mezz’aria. Sarà in collera per lo schiaffo). (da sé)

TON. (Stago a Verona. No vago più via). (da sé)

ROS. Perdoni, se l’ho incomodata.

TON. Gnente, gnente, patrona: anzi me posso chiamar fortunà, che la m’abbia fatto degno dell’onor della so compagnia.

ROS. (Quest’insolito complimento mi fa creder ch’ei mi derida. Bisogna placarlo e secondar il suo umore). (da sé)

TON. (E pur all’aria la par modesta). (da sé)

ROS. È stato mio padre, che mi ha obbligata a farla venir in casa.

TON. E se no giera so sior pare, no la me chiamava?

ROS. Io certamente non avrei avuto tanto ardire.

TON. (Vardè quando i dise dei pari, che precipita le fie!) (da sé) Donca per mi no la gh’ha nissuna inclinazion?

ROS. Anzi ho tutta la stima per voi.

TON. Tutta so bontà. Possio sperar i effetti della so bona grazia?

ROS. Potete sperar tutto, se mio padre così dispone.

TON. (Poveretta! la me fa peccà. El pare ghe dà la spenta, e ella zoso). (da sé) Ma la prego, in grazia, no so se la me intenda. Come avemio da contegnirse?

ROS. Circa a che?

TON. Circa alla nostra corrispondenza?

ROS. Parlatene con mio padre.

TON. Ah, con lu se fa l’accordo: con lu se fa tutto.

ROS. Certo che sì.

TON. (Oh che Dottor cagadonao!) (da sé) Ma intanto che lu vien, za che semo tra de nu, no poderessimo mo...

ROS. Che cosa?

TON. Devertirse un pochetto.

ROS. Ricordatevi dello schiaffo.

TON. (Tiolè. Anca ella la sa del schiaffo che ho dà a quel sior a Venezia). (da sé) Eh, che no me le arecordo più ste bagatelle.

ROS. Me le ricordo ben io.

TON. Eh ben, cossa gh’importa?

ROS. M’importa, perché siete troppo ardito.

TON. Ma, cara ella, in te le occasion no bisogna farse star.

ROS. Nelle occasioni conviene aver prudenza.

TON. No so cossa dir, la gh’ha rason. No farò più. Me basta che la me voggia ben.

ROS. Di questo ne potete star sicuro.

TON. Ah! (sospira)

ROS. Sospirate? Perché?

TON. Perché gh’ho paura che la diga cussì a tutti.

ROS. Come a tutti? Mi meraviglio di voi.

TON. Gnente, gnente, la me compatissa.

ROS. Che motivo avete di dir questo?

TON. Ghe dirò; siccome son vegnù a Verona in sta zornada, cussì no me posso persuader, che subito la s’abbia innamorà de mi.

ROS. Eppure, appena vi ho veduto, subito mi sono sentito scorrere un certo ghiaccio nel cuore, che quasi m’ha fatto tramortire.

TON. (Ghe credio, o no ghe credio? Ah, la xe donna, gh’è poco da fidarse). (da sé)

ROS. E voi, signor Zanetto, mi volete bene?

TON. Sè tanto bella, zentil e graziosa, che bisognerave esser de stucco a no volerve ben.

ROS. Che segno mi date del vostro amore?

TON. (Qua mo no so, se ghe voggia carezze o bezzi). (da sé) Tutto; comandè.

ROS. Tocca a voi a dimostrarmi il vostro affetto.

TON. (Ho inteso. Voggio darghe una tastadina([58])). (da sé) Se no fusse troppo ardir, gh’ho qua certe zogiette, dirave che la se servisse. (apre lo scrignetto, e le fa vedere le gioje)

ROS. Belle, belle davvero. Le avete destinate per me?

TON. Se la comanda, le sarà per ella.

ROS. Accetto con giubilo un dono così prezioso, e lo conserverò come primo pegno della vostra bontà.

TON. Basta, a so tempo descorreremo. (Oh che cara modestina! no la se farave miga pregar). (da sé)

ROS. Ma ditemi, non volete con altro segno assicurarmi della vostra fede?

TON. (Ah, la me voria despoggiar alla prima). (da sé) Son qua; gh’ho certi zecchini, se la li vol, ghe li darò anca quelli.

ROS. No no, questi li potrete dare a mio padre. Io non tengo denaro.

TON. (Sì ben, la fia traffega([59]), el pare tien cassa). (da sé) Farò come che la vol.

ROS. Ma però non vi disponete a darmi quello che vi domando.

TON. Che diavolo! Vorla la camisa? Ghe la darò.

ROS. Eh, non voglio da voi né la camicia, né il giubbone. Voglio voi.

TON. Mi? Son qua tutto per ella.

ROS. Oggi si può concludere.

TON. Anca adesso, se la vol.

ROS. Io sono pronta.

TON. E mi prontissimo.

ROS. Mi volete dar la mano?

TON. La man, i pì([60]), e tutto quel che la vol.

ROS. Chiameremo due testimoni.

TON. Oibò. Da cossa far de do testimoni?

ROS. . Perché siano presenti.

TON. A cossa?

ROS. Al nostro matrimonio.

TON. Matrimonio? Punto e virgola.

ROS. Ma non dite che siete pronto?

TON. Son pronto, è vero: ma matrimonio, cussì subito...

ROS. Andate, andate, che vedo che mi burlate.

TON. (No la me despiase, e fursi fursi faria col tempo la capochieria([61]). Ma sta facilità de invidar la zente in casa, no me piase). (da sé)

ROS. Siete troppo volubile, signor Zanetto.

TON. Volubile? No xe vero. Anzi son l’esempio della costanza e della fedeltà. Ma sta sorte de cosse, la sa meggio de mi, le se fa con un poco de comodo. Se ghe pensa suso, e no se precipita una resoluzion de tanto rimarco.

ROS. E poi dite che non siete volubile. Ora volete far subito, non volete né cerimonie, né solennità; ed ora cercate il comodo, il pensamento ed il consiglio.

TON. Se ho dito de voler subito... me sarò inteso... basta... no vorave che l’andasse in collera.

ROS. No no, dite pure.

TON. Che se avesse podesto aver una finezza...

ROS. Prima del matrimonio non la sperate.

TON. No certo?

ROS. No sicuro.

TON. Ma, e le zogie?

ROS. Se me le date con questo fine, tenetele, ch’io non le voglio.

TON. Recusandole co sta bella vertù, la le merita più che mai. La xe una zovene de garbo, e xe peccà che la gh’abbia un pare cussì scellerato.

ROS. Che ha fatto di male il mio genitore?

TON. Ghe par poco? Introdur un omo in casa de so fia co sta polegana([62]), e metterla in cimento de precipitar!

ROS. Ma egli l’ha fatto, perché siate mio sposo.

TON. Me maraveggio, no xe vero gnente. No avemo mai parlà de sta sorte de negozi.

ROS. Ma non ne avete trattato per lettera?

TON. Siora no, no xe vero gnente. El se l’insonia, el ghe lo dà da intender. El xe un poco de bon, perché el sa che gh’ho un poco de bezzi, el m’ha tolto de mira, e el se serve della so bellezza per un disonesto profitto.

ROS. Signor Zanetto, voi parlate male.

TON. Pur troppo digo la verità. Ma la senta: vedo che ella merita tutto, e per la so bellezza e per la so onestà; no la se dubita gnente. La staga forte, la me voggia ben, e forsi col tempo la sarà mia muggier.

ROS. Io resto molto mortificata per un tal accidente. Senza la speranza che foste mio sposo, non avrei avuto il coraggio di mirarvi in faccia. Se mio padre m’inganna, il cielo glielo perdoni. Se voi mi schernite, siete troppo crudele. Pensateci bene, e in ogni caso rammentate ch’io vi amo, ma coll’amore il più onesto e il più onorato del mondo. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Tonino, poi Brighella

TON. Chi ha mai visto una fia più modesta de un pare più scellerato? Matrimonio? Tonin, forti in gambe. Co l’è fatta, l’è fatta. E pur custia([63]) me bisega([64]) in tel cuor. Ma, e Beatrice che gh’ho promesso, e xe scampada per causa mia? Ma dov’ela? Dove xela andada? Chi sa che no l’abbia finto de far per mi, e no l’abbia fatto per qualchedun altro? Qua no l’è vegnua. No se sa gnente de ella. La me pol aver tradio. No la sarave maraveggia, che la me l’avesse ficcada. La xe donna, e tanto basta.

BRIGH. Comandela gnente?

TON. No, amigo. Vago via.

BRIGH. Cussì presto?

TON. Cossa voleu che fazza?

BRIGH. No la sta a disnar col sior Dottor?

TON. No no, ve ringrazio. Diseghe al sior Dottor che el xe un bel fio.

BRIGH. Come parlela?

TON. So che intendè più de quel che digo.

BRIGH. Me maraveggio. No so gnente. El m’ha dà ordine de servirla in tutto e per tutto. Se vorla despoggiar?

TON. No, vecchio([65]), no vôi altro. Ma perché no crediè che ve voggia privar dei vostri incerti, tiolè sto mezzo ducato.

BRIGH. Obbligatissimo alle so grazie. Ah, veramente la casa Bisognosi xe sempre stada generosa. Anca el so sior fradello a Venezia el giera cussì liberal.

TON. (E tocca via co sto mio fradello a Venezia). (da sé) Ma quando l’aveu cognossù mio fradello a Venezia?

BRIGH. Sarà una cossa de do anni incirca.

TON. Do anni? Come do anni?

BRIGH. Sior sì; perché mi giera a Venezia...

SCENA DODICESIMA

Pancrazio e detti.

PANC. Brighella, va dalla padrona, che ha bisogno di te.

BRIGH. Vago subito.

TON. Caro vecchio, fenì de dir de Venezia. (a Brighella)

PANC. Perdoni, deve partire. Va tosto, spicciati.

BRIGH. Se vederemo. Lustrissimo, sior Zanetto! (parte)

TON. (Sia maledetto sto intoppo. Son in t’una estrema curiosità). (da sé)

PANC. Riverisco il signor Zanetto.

TON. Patron mio stimatissimo.

PANC. Ah! io ho compassione di voi: ma mi pare alla cera che vossignoria poco si curi de’ miei consigli.

TON. Anzi mi son uno che ascolta volentiera i omeni de garbo, come credo che la sia ella.

PANC. Poi fate a vostro modo, non è così?

TON. Come porla dir sta cossa?

PANC. Mi pare, mi pare, e forse non sarà. Vi vedo in questa casa, e ne dubito.

TON. (Vardemo, se podemo scoverzer([66]) qualcossa). (da sé) In sta casa zente cattiva, nevvero?

PANC. Ah, pur troppo!

TON. Zente che tira alla vita.

PANC. Ed in che modo!

TON. Quel Dottor particolarmente xe un omo indegnissimo.

PANC. L’avete conosciuto alla prima.

TON. La putta mo, la putta come xela?

PANC. Non le credete, vedete, non le credete. È tutta inganni.

TON. Con quella ciera patetica?

PANC. Eh, amico, appunto queste che compariscono modestine e colli torti, queste la sanno più lunga dell’altre.

TON. Saveu che no disè mal?

PANC. Anzi dico bene.

TON. Ma vu, sior, cossa feu in casa de sta zente cussì cattiva?

PANC. Io m’affatico per illuminarli e far loro cambiar costume; ma sinora inutilmente seminai nella rena. Non si fa nulla, non si fa nulla.

TON. Col mal xe in tel legno, la xe fenia.

PANC. Sempre si va di male in peggio.

TON. E pur quella zovene no me dispiase.

PANC. Ha un’arte che farebbe innamorare i sassi; ma povero chi s’attacca!

TON. La me voleva far zoso col matrimonio...

PANC. Oibò. Matrimonio? Che orribile parolaccia!

TON. Matrimonio, orribile parolazza? Anzi l’è la più bella parola che ghe sia in tutto el calepin delle sette lengue.

PANC. Ma non vi ricordate che il matrimonio è un peso, che fa sudar i giorni e vegliar le notti? Peso allo spirito, peso al corpo, peso alla borsa, peso alla testa?

TON. Tutti sti pesi del matrimonio li sente l’omo che no gh’ha giudizio. Peso al spirito? No xe vero. L’amor della muggier, come che no l’è combattuo né dal desiderio, né dal rimorso, l’è un amor soave, dolce e durabile, che consola el cuor, rallegra i spiriti, e anzi tien l’animo sollevà e contento del mario, che comunica colla muggier i piaseri e i dispiaseri della fortuna. Peso al corpo? No xe vero. Anzi la muggier libera da molte fadighe el mario. Ella tende alla piccola economia de casa, ella regola la fameggia e comanda alla servitù. Provede a quello che no prevede el mario, e con quella natural suttilezza feminina, che qualcun chiama avarizia, in cao dell’anno la porta dei profitti alla casa. Peso alla borsa? No xe vero. L’omo che xe inclinà a spender, el spenderà sempre più fora de casa che in casa. Se el spende per la muggier, finalmente el lo fa con avantaggio del proprio onor, per lustro della so casa. Se la muggier xe discreta, con poco la se contenta. Se la xe viziosa e incontentabile, tocca al mario a moderarla, e se l’omo va in rovina per la muggier, no bisogna incolpar l’ambizion della donna, ma la dabbenaggine del mario. Peso alla testa? No xe vero. La donna o la xe onesta, o la xe desonesta. Se la xe onesta, no gh’è pericolo del cimier; se la xe desonesta, ghe xe un certo medicamento che se chiama baston, che gh’ha la virtù de far far giudizio anca alle donne matte. In somma el matrimonio xe bon per i boni e cattivo per i cattivi, e concludo coi versi d’un poeta venezian:

El matrimonio è cossa da prudente,

Ma bisogna saverse regolar;

E quel che desconseggia el maridar,

O l’è vecchio, o l’è matto, o l’è impotente.

PANC. (Costui non mi pare lo sciocco di prima). (da sé) Non vi rammentate che la donna è un’incantatrice sirena, che alletta per ingannare ed ama per interesse?

TON. Vedeu? Anca qua, compatime, sbarè delle panchiane([67]). Le donne no le se mesura tutte con un brazzolar([68]). Ghe ne xe tante de cattive, ma ghe ne xe molto più de bone, come se pol dir anca dei omeni. Le donne incanta? No xe vero gnente. Aveu mai visto la cazza che fa el rospo al rossignol? Lu no fa altro che metterse in t’un fosso co la bocca averta. Passa el rossignol, el s’innamora della gola del rospo, el zira, el rezira, e da so posta el se va a far imbocconar. La colpa de chi xela? Del rospo o del rossignol? Cussì femo nu. Vedemo una donna, ghe demo drio; se lassemo incantar. De chi xela la colpa? nostra. Le donne no le poderave gnente sora de nu, se nu no ziressimo attorno de elle; e se le acquista co nu tanta superiorità, xe causa la nostra debolezza, che incensandole troppo, le fa deventar superbe.

PANC. (Ho inteso! costui non fa per me). (da sé) Signor Zanetto, non so che dire; se volete la signora Rosaura, pigliatela, ma pensateci bene.

TON. Mi non ho dito de volerla. Ho parlà in favor del matrimonio, ma non ho dito de volerme maridar. Ho parlà in favor delle donne, ma non ho dito ben de Rosaura. No so se la sia carne o pesce. Me par, e no me par: gh’ho i mi reverenti dubbi: vu m’avè messo in mazor sospetto, onde ressolvo de no voler far gnente.

PANC. Farete benissimo, lodo la vostra risoluzione. Siete un uomo di garbo.

TON. Ma za che sè un omo tanto da ben, ve voggio confidar una cossa.

PANC. Dite pure con libertà. Io so custodir il segreto.

TON. Vedeu sto bauletto de zogie?

PANC. Son gioje quelle?

TON. Sior sì.

PANC. Vediamole. Belle, belle assai. (le osserva)

TON. Ste zogie le me xe stae dae per forza da un povero matto, con un abito tutto tacconi. Mi no so de chi le sia; e el patron che le ha perse, anderà de smania([69]) cercandole. Mi doman vago via, onde penso de consegnarle a vu, acciò, vegnindo fora el patron, ghe le podiè restituir.

PANC. Lodo la vostra delicatezza. Siete veramente un uomo onorato.

TON. Tutti i galantomeni i ha da esser cussì.

PANC. E se dopo un lungo tempo, e dopo fatte le debite diligenze, non si trovasse il padrone, come volete che ne disponga?

TON. Impieghele a maridar delle putte.

PANC. Voi altri veneziani siete poi di buon cuore.

TON. Nualtri cortesani semo fatti apposta per far delle opere de pietà. Quante povere vergognose vive colle limosine dei galantomini! Xe vero che qualchedun fa, co se sol dir, la carità pelosa: ma ghe ne xe anca de quei che opera per bon cuor. Mi son de sta taggia: per i amici me despoggierave, e per le donne me caveria anca la camisa. (parte)

PANC. Questa volta, se la carità deve esser pelosa, servirà questo pelo per medicar le mie piaghe. Se Rosaura le vorrà, dovrà comprarle con quella moneta che a lei costa poco, e per me valerebbe molto. (parte)

SCENA TREDICESIMA

Strada solita con osteria.

ARLECCHINO dall’osteria, poi ZANETTO dalla medesima.

ARL. Me maraveio, son galantomo: le zogie e i bezzi ve li ho dadi mi. (alla porta, altercando con Zanetto)

ZAN. No xe vero gnente. Ti xe un furbazzo, no gh’ho abuo gnente. (di dentro)

ARL. Ve ne mentì per la gola e per el gargato([70]).

ZAN. Ti è un ladro, ti è un sassin. Voggio le mie zogie. (vien fuori)

ARL. Le zogie ve digo che l’avì avude.

ZAN. Can, traditor, le mie zogie, i mi bezzi, la mia roba.

ARL. Sè un pezzo de matto.

ZAN. Ti m’ha robà, ti m’ha sassinà.

ARL. Adessadesso ve trago una sassada.

SCENA QUATTORDICESIMA

Bargello coi birri, e detti.

BARG. Cos’è questo strepito? Chi è il ladro? Chi ha rubato?

ZAN. Colù che xe là, l’è el mio servitor. El m’ha portà da Bergamo un bauletto de zogie e dei bezzi, e el m’ha robà tutto, el m’ha sassinà.

ARL. Non è vero gnente, son galantomo.

BARG. Legatelo e conducetelo in prigione. (ai birri, quali legano Arlecchino)

ARL. Son innocente.

BARG. Se sarete innocente, uscirete di carcere senza difficoltà.

ARL. E intanto ho da andar preson?

BARG. E intanto andate, e non vi fate strapazzare.

ARL. Sia maledetto! Per causa toa, mamalucco, ignorante! ma se vegno fora, ti me la pagherà. (parte coi birri, che lo conducono via)

BARG. Signore, se lei crede che colui sia veramente il ladro, ricorra, e gli sarà fatta giustizia. Io intanto darò la mia denunzia, appoggiata alle di lei querele. Se lei ha prove, vada in cancelleria, e le produca. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Zanetto, poi Beatrice

ZAN. Mi no so gnente cossa che el diga, mi no l’intendo, ma gh’ho speranza de recuperar le mie zogie. Le zogie che m’ha lassà mio sior barba, che el m’ha contà tante volte che el le ha portae da Venezia, co l’è andà a star alle vallade de Bergamo.

BEAT. Mio caro, abbiate pietà di me.

ZAN. (Occhi de fogo, bocca de velen). (da sé)

BEAT. Per carità, non partite. Ascoltatemi un sol momento; vi domando quest’unico dono: eccomi ai vostri piedi; vi muovano a compassione le mie lacrime. (s’inginocchia)

ZAN. (Accosta una mano agli occhi di Beatrice) (I occhi mi no sento che i scotta. Fogo no ghe ne xe certo). (da sé)

BEAT. Se m’udirete, rimarrete contento.

ZAN. (Quella bocchina l’è tanto bella, che me lasseria velenar). (da sé)

BEAT. Per vostra cagione ho posto a risico la vita e l’onore.

ZAN. Per mi?

BEAT. Sì, per voi, che amo più dell’anima mia; per voi, che siete l’unico oggetto de’ miei pensieri.

ZAN. La me vol ben?

BEAT. Sì, v’amo, v’adoro, siete l’anima mia.

ZAN. (Sel fusse un diavolo?... Ma l’è un diavolo tanto bello!) (da sé)

BEAT. Orsù, l’amor mio non soffre maggior indugio. Venite, e datemi la mano di sposo.

ZAN. (Oh questa me piase, senza tante cerimonie e tante solennità). (da sé)

BEAT. Via, non mi fate penare.

ZAN. Siora sì, son qua. Cossa vorla che fazza?

BEAT. Datemi la mano.

ZAN. Anca tutte do, se la vol. (le tocca la mano) Oh cara! oh che man, oh che bombaso([71])! oh che sea([72])!

SCENA SEDICESIMA

Florindo, in disparte, e detti.

FLOR. (Che vedo! Tonino ha ritrovata Beatrice! Oh sventurato ch’io sono! Convien ritrovar partito per rimediarvi). (da sé)

BEAT. Almeno vi fosse alcuno, che servir potesse di testimonio.

ZAN. Quel sior saravelo bon?

BEAT. Oh sì, signor Florindo, finalmente mi è riuscito pacificare il mio sposo; egli mi vuol dare la mano, e voi siete pregato a servire per testimonio.

ZAN. Sior sì, per testimonio.

FLOR. Questo veramente è un uffizio che ho sempre fatto mal volentieri, ma quando si tratta degli amici, si fa di tutto. Prima però, favoritemi una parola in grazia. (a Zanetto)

ZAN. Volentiera. No la vaga via, che vegno subito, sala. (a Beatrice)

FLOR. Ditemi, amico, non siete voi stato in quella casa? (mostra la casa del Dottore, parlando in disparte con Zanetto)

ZAN. Sior sì.

FLOR. Per che fare, se è lecito saperlo?

ZAN. Per sposar la fia del sior Dottor.

FLOR. Ed ora volete sposar la signora Beatrice?

ZAN. Sior sì.

FLOR. Ma se avete impegno colla signora Rosaura.

ZAN. Eh, le sposerò tutte do, n’importa. Son da ella. (a Beatrice)

FLOR. No no, sentite. Ma voi burlate.

ZAN. Digo dasseno mi. Son capace de sposarghene anca sie([73]).

FLOR. Ma che! Siamo in terra di Turchi? Mi maraviglio di voi. Sapete meglio di me, che non ne potete sposar che una sola.

ZAN. Donca sposerò questa. Adesso vegno. (a Beatrice)

FLOR. Ma né tampoco potete farlo.

ZAN. Mo perché?

FLOR. Perché avete promesso alla figlia di quel Dottore, siete stato in sua casa; se mancate alla parola, vi faranno metter prigione e ve la faranno costar assai cara.

ZAN. (Bona!) (da sé) No vegno altro. (a Beatrice)

BEAT. Che dite?

ZAN. No no, no ghe dago altro la man.

BEAT. Ma io non v’intendo.

ZAN. Intendo, o non intendo. Chi s’ha visto, s’ha visto.

BEAT. Come! Così mi schernite?

ZAN. La compatissa. In preson no ghe son mai stà, no ghe voggio gnanca andar.

BEAT. Perché in prigione?

ZAN. Do([74]) no se ghe ne pol sposar. Quella xe fia d’un Dottor. Gh’ho promesso. Se va in preson; sioria vostra([75]). (parte)

SCENA DICIASSETTESIMA

Beatrice e Florindo

BEAT. Oh me infelice! Il mio Tonino è impazzato. Parla in una guisa che più non lo riconosco.

FLOR. Signora Beatrice, io vi spiegherò ogni cosa. Sappiate ch’egli vive amante della signora Rosaura, figlia del signor dottore Balanzoni, e ad essa ha data la parola di matrimonio. Perciò, agitato fra l’amore e il rimorso, si confonde, vacilla, e quasi quasi stolto diviene.

BEAT. Oh stelle! E sarà vero quel che mi dite?

FLOR. Pur troppo è vero, e se non siete cieca, voi stessa accorger ve ne potete dal modo suo di parlare.

BEAT. Lo dissi che più non si riconosce.

FLOR. Ora che pensate di fare?

BEAT. Se Tonino mi abbandona, voglio morire.

SCENA DICIOTTESIMA

Lelio e detti.

FLOR. Se Tonino v’abbandona, ecco Florindo pronto a’ vostri voleri.

LEL. Se Tonino v’abbandona, ecco un eroe vendicatore de’ vostri torti.

FLOR. In me troverete un amante fedele.

LEL. Io colmerò il vostro seno delle maggiori felicità.

FLOR. La mia nascita è nobile.

LEL. Io chiudo nelle vene un sangue illustre.

FLOR. Di beni di fortuna non sono scarso.

LEL. Ne’ miei erari vi sono le miniere dell’oro.

FLOR. Spero non essere odioso agli occhi vostri.

LEL. Mirate in me il più bel lavoro della natura.

FLOR. Ah, signora Beatrice, non badate alle caricature di un affettato glorioso.

LEL. Non vi lasciate sedurre da un cicisbeo, che combatte fra l’amore e la fame.

FLOR. Sarò vostro, se mi volete.

LEL. Sarete mia, se v’aggrada.

SCENA DICIANNOVESIMA

Tonino e detti.

TON. (Come! Beatrice... qua... in mezzo de do...) (in disparte, osservando)

FLOR. Parlate, mia cara.

TON. (Mia cara!) (come sopra)

LEL. Sciogliete il labbro, mia bella.

TON. (Mia bella! Come xelo sto negozio?) (come sopra)

FLOR. Se Tonino vi lascia, è un traditore.

LEL. Se Tonino vi abbandona, è un ingrato.

TON. (S’alza e si fa vedere) Tonin no xe traditor, Tonin no xe ingrato, Tonin no abbandona Beatrice. Me maraveggio de vu, sior muso da do musi, sior amigo finto, sior canapiolo monzuo([76]). (a Florindo)

FLOR. Ma la signora Rosaura...

TON. Che siora Rosaura? Tasè là, sier omo de stucco, e za che avè palesà el mio nome, e che me contè i passi per pubblicar tutti i fatti mii, da qua avanti no ardì gnanca de nominarme, no me vegnì in ti pì([77]), se no volè che ve fazza della panza un crielo([78]).

LEL. Io per altro...

TON. E vu peraltro, sior cargadura, abbiè giudizio, se no, saveu? se una volta v’ho desarmà, un’altra volta ve caverò el cuor. Questa la xe roba mia, e tanto basta. (prende per mano Beatrice)

BEAT. Dunque mi dichiarate per vostra...

TON. Zitto là; che con vu la descorreremo a quattr’occhi. Vegnì con mi. Scartozzi de pévere mal ligai([79]), paronzini salvadeghi([80]), cortesani d’albeo([81]). (parte con Beatrice)

SCENA VENTESIMA

Florindo e Lelio

FLOR. Non son Florindo, se non mi vendico.

LEL. Non son chi sono, se non fo strage di quel temerario.

FLOR. Amico, siamo entrambi scherniti.

LEL. Uniamoci nella vendetta.

FLOR. Andiamo a meditarla.

LEL. La vivacità del mio spirito partorirà qualche magnanima idea.

FLOR. Andiamo ad attaccarlo colla spada alla mano.

LEL. No, scarichiamogli una pistola nel dorso.

FLOR. Questo saria tradimento.

LEL. Vincasi per virtute o per inganno, Il vincer sempre fu lodevol cosa. (parte)

FLOR. Bell’eroismo del signor Lelio! Orsù, meglio è ch’io tenti solo le mie vendette. O sarà mia Beatrice, o passerà Tonino per la punta di questa spada. (parte)


ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Strada.

Pancrazio e Tiburzio orefice.

PANC. Appunto di voi andava in traccia, signor Tiburzio dabbene, e se qui non vi trovavo, venivo alla vostra bottega.

TIB. Oh, signor Pancrazio, ella è mio padrone, mi comandi; in che posso servirla?

PANC. Vi dirò: ho certe gioje da vendere, ch’erano di una buona vedova, la quale me le lasciò per maritar alcune fanciulle; vorrei che colla vostra sincerità mi diceste il loro valore.

TIB. Volentieri, son pronto a servirvi. Le avete con voi?

PANC. Eccole. Osservatele bene. (tira fuori il bauletto, e l’apre)

SCENA SECONDA

Il Bargello coi birri, osservando le gioje da lontano.

TIB. Signor Pancrazio, queste gioje sono di valore, non si possono stimar così su due piedi. Venite a bottega e vi servirò.

PANC. Dite bene, verrò: ma sono alquanto sporche, avreste intanto qualche segreto per ripulirle?

TIB. Io veramente ne ho uno singolarissimo: ma non soglio affidarlo a chicchessia, perché è un potentissimo veleno.

PANC. A me però potreste usar qualche distinzione: non potete dubitar ch’io ne abusi. Sapete chi sono...

TIB. So che siete un uomo onesto e da bene, e perciò vi voglio servire, giacché per buona fortuna me ne trovo avere indosso un piccolo scatolino. Eccolo, prendete, servitevene, e le vedrete riuscir terse e risplendentissime. In caso poi voleste privarvene, avrò forse l’incontro di farvele esitar con vantaggio.

PANC. Non lascerò di valermi di voi. Intanto vi sono molto obbligato. Attendetemi domani.

TIB. Siete sempre padrone. (parte)

SCENA TERZA

Pancrazio, Bargello e birri in disparte.

PANC. (Veramente son belle queste gioje: ma la legatura è antica, e i diamanti sono tanto sporchi che non compariscono. Con questa polvere risalteranno assai più). (da sé)

BARG. (Quel bauletto di gioje è appunto quello che ha indicato Arlecchino). (osservando in disparte)

PANC. (Spererei con questo bel regalo di guadagnarmi la grazia della mia cara Rosaura). (da sé)

BARG. Alto, signore, con sua licenza.

PANC. Che c’è? Cosa volete?

BARG. Favorisca quelle gioje.

PANC. Per qual ragione?

BARG. Perché sono rubate.

PANC. Come? Io sono un galantuomo.

BARG. Da chi le ha avute vossignoria?

PANC. Dal signor Zanetto Bisognosi.

BARG. Il signor Zanetto Bisognosi dice che gli sono state rubate; onde ella che le tiene, è in sospetto di tale furto.

PANC. Un uomo della mia sorte? Della mia esemplarità?

BARG. Basta, si contenti che la lascio in libertà. Porto le gioje a Palazzo, e se vossignoria è innocente, vada a giustificarsi.

PANC. Io per la curia? Io per i tribunali? Son conosciuto, sono un uomo d’onore.

SCENA QUARTA

Zanetto e detti.

PANC. Oh, ecco appunto il signor Zanetto. Dica egli come ho avute codeste gioje.

ZAN. Zogie? Le mie zogie?

BARG. Signor Zanetto, conosce queste gioje?

ZAN. Sior sì, queste xe le zogie che m’ha lassà mio sior barba. Le cognosso, le xe mie.

PANC. Sentite? Le conosce. Erano del suo signor zio, erano sue. (al Bargello)

BARG. Ed ella le ha date al signor Pancrazio? (a Zanetto)

PANC. Signor sì, signor sì, egli me le ha date. Non è vero?

ZAN. Mi no so gnente, mi no v’ho dà gnente.

PANC. Come non mi avete dato nulla? Mi maraviglio di voi.

ZAN. E mi me maraveggio de vu. Questa xe roba mia.

PANC. Oh cielo! Volete farmi perdere la riputazione?

ZAN. Perdè quel che volè, no ghe penso gnente. Quel zovene, deme la mia roba. (al Bargello)

PANC. Poter del mondo! In casa del signor Dottore, in camera della signora Rosaura, voi me l’avete date e ne sapete il perché.

ZAN. Sè un busiaro, che no contè altro che fandonie. M’avè anca dito che le donne gh’ha i occhi de fogo, e no xe vero gnente.

PANC. Signor bargello, costui è un pazzo. Datemi quelle gioje.

BARG. O pazzo, o savio, le gioje le porteremo dal giudice, e toccherà a vossignoria a far conoscere chi gliel’abbia date. Andate, scarcerate Arlecchino, e conducetelo dal giudice ben custodito. (ai birri, e parte)

PANC. Troverò testimoni. Ora, subito, il signor Dottore, Brighella, la signora Rosaura, Colombina: tutta, tutta la casa del Dottore... ora... subito... vado... aspettatemi... vengo... la mia riputazione, la mia riputazione, la mia riputazione. (parte)

SCENA QUINTA

Zanetto e il Bargello

ZAN. Mo via, deme le mie zogie. No me fe desperar.

BARG. Andiamo dal giudice, e se egli dirà che gliele dia, gliele darò.

ZAN. Cossa ghe intra el giudice in te la mia roba?

BARG. Senza di lui non gliele posso dare.

ZAN. E se lu no volesse che me le dessi?

BARG. Non gliele darei.

ZAN. Mo cossa ghe ne faressi?

BARG. Quello che il giudice comandasse.

ZAN. Donca le posso perder?

BARG. Sicuramente, senza dubbio.

ZAN. Gera meggio lassarle a quel vecchio, che almanco a robarle l’ha fatto qualche fadiga.

BARG. Ha timore che il giudice gliele rubi?

ZAN. Le xe mie, e per causa soa le posso perder. Dal robarle a no darle a chi le tocca([82]), ghe fazzo poca defferenza.

BARG. Faccia così, si provveda d’un avvocato.

ZAN. Da che far de un avvocato?

BARG. Acciò faccia constare al giudice che queste gioje sono sue.

ZAN. E ghe xe bisogno d’un avvocato? Chi lo sa meggio de mi, che quelle zogie xe mie?

BARG. Sì, ma a lei non sarà creduto.

ZAN. A mi no, e all’avvocato sì? Donca se crede più alla busia che alla verità?

BARG. Non è così: ma gli avvocati hanno la maniera per dir le ragioni dei clienti.

ZAN. Ma se paghelo l’avvocato?

BARG. Sicuramente, gli si dà la sua paga.

ZAN. E al giudice?

BARG. Anche a lui tocca la sua sportula.

ZAN. E a vu ve vien gnente?

BARG. E come! Ho da esser pagato io e tutti i miei uomini.

ZAN. Sicché donca tra el giudice, l’avvocato, el baresello e i zaffi([83]), schiavo siore zogie.

BARG. Ma non si può far a meno. Ognuno deve avere il suo.

ZAN. Vualtri avè d’aver el vostro, e mi no ho d’aver gnente? Bona! bella! me piase. Torno alle mie montagne. Là no ghe xe né giudici, né avvocati, né sbiri. Quel che xe mio, xe mio; e no se usa a scortegar, col pretesto de voler far servizio. Compare caro, no so cossa dir. Spartì quelle zogie tra de vualtri, e se avanza qualcossa per mi, sappiemelo dir, che ve ringrazierò della caritae. Vegnì, ladri, vegnì; robeme anca la camisa, che no parlo mai più. Alla piegora([84]) tanto ghe fa che la magna el lovo([85]), quanto che la scana el becher([86]). A mi tanto me fa esser despoggià dai ladri, quanto da vualtri siori. Sioria vostra. (parte)

BARG. Costui mi pare un pazzo. Egli mi ha un po’ toccato sul vivo; ma non importa. Noi altri birri abbiamo buono stomaco e sappiamo digerire i rimproveri, come lo struzzo digerisce il ferro. (parte)

SCENA SESTA

Tonino solo.

TON. Vardè quando che i dise dell’amicizia del dì d’ancuo([87]). Florindo xe stà a Venezia; l’ho trattà come un proprio fradello. Me fido de lu, ghe mando una donna che tanto me preme, e lu me tradisse! Mi no so con che stomego un amigo possa ingannar l’altro amigo. Me par a mi, che se fusse capace de tanta iniquità, gh’averia paura che la terra s’averzisse per inghiottirme. L’amicizia xe la più sagra leze del mondo. Leze che provien dalla natura medesima, leze che regola tutto el mondo, leze che, destrutta e annichilada, butta sottosora ogni cossa. L’amor delle donne el xe fondà sulla passion del senso inferior. L’amor della roba el xe fondà sul vizio della natura corrotta. L’amor dell’amicizia xe fondà sulla vera virtù; e pur el mondo ghe ne fa cussì poco conto. Pilade e Oreste no serve più d’esempio ai amici moderni. El fido Acate xe un nome ridicolo al dì d’ancuo. Se adora l’idolo dell’interesse; in liogo de amici se trova una manizada([88]) de adulatori, che ve segonda fina che i gh’ha speranza de recavarne profitto; ma se la sorte ve rebalta([89]), i ve lassa, i ve abbandona, i ve deride, e i paga d’ingratitudine i benefizi che gh’avè fatto; come dise benissimo missier Ovidio:

Tempore felici, multi numerantur amici:

Si fortuna perit, nullus amicus erit.

SCENA SETTIMA

Lelio e detto.

LEL. (Ecco qui il mio fortunato rivale. Voglio vedere se colla dolcezza del mio pregare posso vincer l’amarezza del suo negare). (da sé)

TON. (Basta, colù me la pagherà). (da sé)

LEL. M’inchino all’elevato, anzi altissimo invidiabil merito del più celebre eroe dell’adriatico cielo.

TON. Servitor strepitosissimo della sua altitonante grandezza.

LEL. Perdoni, se colla noiosa articolazione de’ miei accenti ardisco offendere il timpano de’ suoi orecchi.

TON. Regurgiti pure la tromba de’ suoi eloqui, che io lasserò toccarmi non solo el timpano, ma ancora el tamburo.

LEL. Sappia ch’io sono delirante.

TON. Me ne son accorto alla prima.

LEL. Amore cogli avvelenati suoi strali ferì l’impenetrabil mio core.

TON. Sarave poco ch’el v’avesse ferio el cuor: l’è che el v’ha ferio anca el cervello.

LEL. Ah, signor Zanetto, voi che siete della famiglia de’ Bisognosi, soccorrete chi ha bisogno di voi.

TON. La gh’ha bisogno de mi? Mo per cossa?

LEL. Perché ardo d’amore.

TON. E mi l’ho da consolar?

LEL. Voi solo avete da risanar la mia piaga.

TON. Aséo! de che paese xela, patron?

LEL. Sono del paese de’ sventurati, nato sotto il cielo de’ miseri ed allevato nel centro de’ disperati.

TON. E el morirà all’ospeal dei matti.

LEL. Troncherò il filo del laberintico mio discorso colle forbici della brevità. Amo Beatrice, la desidero, la sospiro; so che da voi dipende, la chiedo in dono alla vostra più che massima, più che esemplarissima generosa pietà.

TON. Anca mi col cortelo della schiettezza taggierò el groppo della resposta. Beatrice xe mia, e cederò tutti i tesori del Gange, prima de ceder le belle bellezze della mia bella. (Siestu maledio, che el me fa deventar matto anca mi). (da sé)

LEL. Voi mi uccidete.

TON. Vi sarà un pazzo di meno.

LEL. Ah ingrato!

TON. Ah scortese!

LEL. Ah tiranno!

TON. Ah matto maledetto!

LEL. Ma se il mio amore in furia si converte, tremerete al mio furore.

TON. Sarò qual impenetrabile scoglio agl’infocati dardi della vostra furibonda bestialità.

LEL. Vado

TON. Andè.

LEL. Vado

TON. Mo andè.

LEL. Vado, crudele...

TON. Mo andè, che ve mando.

LEL. Vado, sì, vado a meditar vendette, pria che il sole nasconda in mare i rai. (parte)

SCENA OTTAVA

Tonino, poi Pancrazio e Brighella

TON. Chi nasse matto, no varisse([90]) mai. Oh che bestia! oh che bestia! Se pol sentir de pezo? Se el stava troppo, el me fava deventar matto anca mi. Veramente a sto mondo tutti gh’avemo el nostro rametto, e chi crede d’esser savio, xe più matto dei altri. Ma costù l’è matto coi fiocchi.

PANC. Andiamo, andiamo dal giudice. Voi sarete testimonio della mia innocenza. (a Brighella)

BRIGH. Ecco qua el sior Zanetto.

PANC. Come! potete voi negare d’avermi date quelle gioje colle vostre mani? (a Tonino)

TON. Sior sì, xe vero: ve lo ho dae mi.

PANC. Sentite? Lo confessa. Ditelo al signor giudice. (a Brighella)

TON. Cossa gh’entra el sior giudice?

PANC. Bella cosa che avete fatto! Mettere a repentaglio la mia riputazione.

TON. (Stè a veder, che s’ha trovà el patron delle zogie). (da sé) Credeveli fursi che le avessi sgranfignae([91])? (a Pancrazio)

PANC. Pur troppo lo credevano. E voi ne foste la cagione.

TON. Caro sior, mi ho fatto a fin de ben.

PANC. O a fin di bene, o a fin di male, voi mi avete precipitato.

SCENA NONA

Arlecchino e detti.

ARL. Manco mal che son vegnù fora de caponera([92]).

TON. Ecco qua quello che m’ha dà le zogie.

ARL. Chi ve l’ha dae le zogie?

TON. Vu me l’avè dae.

ARL. E anca i bezzi?

TON. E anca i bezzi.

ARL. E po disevi che no giera vero? Gh’avè un mustazzo, che negheressi un pasto a un osto.

TON. Me maraveggio. No son capace de negar gnente a nissun. Per forza m’avè dà quelle zogie e sti bezzi. Per forza i ho tolti. Son galantomo, no gh’ho bisogno de nissun, e se gh’avesse bisogno, moriria più tosto dalla necessità, che far un’azion cattiva. Le zogie no le gh’ho più. Intendo che le xe dal sior giudice: recuperèle e feghene quel che volè. Sti bezzi no i xe mii, no li voggio. Qua me li avè dai, qua ve li restituisso. Un omo civil stima più la reputazion de tutti i bezzi del mondo. I bezzi i va e i vien. L’onor, perso una volta, nol se acquista mai più. Tiolè la vostra borsa: ve la butto in terra, per mostrarve con quanto desprezzo tratto l’oro e l’arzento che no xe mio; anzi vorave che in quella borsa ghe fusse tutto l’oro del mondo, per farve veder che no lo stimo, che no lo curo, e che più de tutti i tesori stimo l’onor de casa Bisognosi, la fama dei cortesani, la reputazion della patria, per la qual saverave morir, come Curzio e Caton xe morti per la so Roma. (parte)

SCENA DECIMA

Pancrazio, Brighellaed Arlecchino

ARL. L’è matto. (cantando)

BRIGH. Per dir che l’è matto solenne, basta dir che el butta via la so roba. Vôi seguitarlo per curiosità. (parte)

PANC. Questa borsa la raccoglierò io e la custodirò fino a tanto che Zanetto con qualche lucido intervallo ne disponga a dovere. Amico, venite meco dal giudice, e procuriamo di ricuperare le gioje.

ARL. Savì cossa che v’ho da dir? Che voggio tornar alle vallade de Bergamo.

PANC. Perché?

ARL. Perché l’aria della città fa deventar matti. (parte)

PANC. Per tutto il mondo spira un’aria consimile. La pazzia si è resa universale: chi è pazzo per vanità, chi per ignoranza, chi per orgoglio, chi per avarizia. Io lo sono per amore, e dubito che la mia sia una pazzia molto maggiore d’ogn’altra. (parte)

SCENA UNDICESIMA

Zanetto, poi Rosaura alla finestra della sua casa.

ZAN. Sto amor, sto amor el xe una gran cossa. Subito che ho visto siora Rosaura, m’ho sentio a rostir co fa una brisiola([93]). No posso star se no la vedo, se no ghe parlo. Voggio andarla a trovar, e veder se podemo concluder sto matrimonio. (batte all’uscio di casa)

ROS. Signor Zanetto, la riverisco. (venendo alla finestra)

ZAN. Oh, patrona bella. Vorla che vegna su?

ROS. No, signore, mio padre non vuole.

ZAN. Mo perché?

ROS. Acciò lei non dica ch’egli mi fa il mezzano.

ZAN. Come vorla che diga sto sproposito? No avemio da esser mario e muggier?

ROS. Almeno mio padre mi ha fatta veder la scrittura.

ZAN. Giusto, la scrittura che ho fatto mi.

ROS. L’avete fatta voi, e poi mi avete detto che non vi era trattato di matrimonio?

ZAN. Mi no diseva de matrimonio. Diseva che fessimo subito quel che gh’avevimo da far.

ROS. Io non vi so intender. Ora mi sembrate troppo sciocco, ora troppo accorto.

ZAN. E via, la lassa che vegna su. Cossa vorla? che me storza el collo?

ROS. Eh, di sopra poi non si viene.

ZAN. Donca la vegna zo ella.

ROS. Peggio. Farei una cosa bella a venir sopra la strada!

ZAN. La vuol donca che muora?

ROS. Poverino! Certamente che la passione vi farebbe morire.

ZAN. No la crede? Lontan da ella, son come el pesce fuora dell’acqua. Smanio, deliro per vegnirmeghe a buttar in sen: se no la me agiuta, se no la me dà una man, darò un crepo([94]) davanti ai so occhi: cascherò sbasìo([95]) su sta porta, per lassarme cusinar([96]) in tel fogo della so crudeltae.

ROS. Che spiritosi concetti! Fatemi sentir qualch’altra bella cosa.

ZAN. Cossa vorla sentir, a star ella là suso e mi qua? Se la vol sentir qualcossa de bello, o la vegna zoso, o la lassa che vegna suso, che me impegno de farme onor.

ROS. Ma non potete farvi onore anche in qualche distanza?

ZAN. Oh, la me perdona. Mi lontan no so far gnente.

ROS. Ma che fareste se foste vicino?

ZAN. Farave... farave... a dirlo me vergogno. Se la se contenta, gh’el canterò in t’una canzonetta.

ROS. L’ascolterò molto volentieri.

ZAN. Se mi ve fusse arente, (canta)

Mio caro bel visin,

Voria da quel bochin

Robar qualcossa.

Se fusse dove sè,

Voria... se m’intendè,

Ma el diavolo no vol

Che far lo possa.

Se fusse in vicinanza

De vu, caro mio ben,

Voria da quel bel sen

Qualche ristoro.

Za so che me capì.

Voria... disè de sì.

Lassè che vegna su,

Se no mi muoro.

Mo via, no siè tirana,

No me fe star più qua.

Voria butarme là

Do orete sole.

Spiegar tuto el mio cuor

Voria... ma gh’ho rossor.

A bon intendidor

Poche parole.

ROS. Bravo. Evviva.

ZAN. Ala sentio? Se la vol, son qua.

ROS. Ma vorrei che mi spiegaste una cosa che non intendo. Voi mi fate due figure affatto contrarie. Ora mi sembrate uno scimunito, ora un giovine spiritoso; ora sfacciato, ora prudente. Che vuol dire in voi questa mutazione?

ZAN. No so gnanca mi, segondo che me bisega([97]) in tel cuor quel certo no so che... Per esempio, se quei occhietti... perché se podesse... Siora sì, giusto cussì.

ROS. Ecco qui, ora mi avete fatto un discorso da sciocco.

ZAN. E pur drento de mi m’intendo, ma no me so spiegar. La vegna zoso, che me spiegherò meggio.

ROS. Sapete cosa io comprendo da questo vostro modo di parlare? Che fingete meco, e che punto non mi amate.

SCENA DODICESIMA

Beatrice col Servitore, e detti.

BEAT. (Tonino che parla con una giovine? Ascoltiamo). (da sé, in disparte)

ZAN. Ve voggio tanto ben, che senza de vu me par d’esser oselo([98]) senza frasca, pàvero([99]) senza oca, monton senza piegora, porzeletto senza porzeletta. Sì, cara, ve voggio ben e no vedo l’ora de buttarme a nuar([100]) in tel mar della vostra bellezza; no vedo l’ora de sguatararme([101]) co fa una grua in tel bevaor([102]) della vostra grazia, e de spolverarme([103]) in te le vostre finezze, come... sì, come l’aseno se spolvera in tel sabbion.

ROS. (Mi sembra ch’egli divenga sguaiato più che mai). (da sé)

BEAT. Ah perfido! ah ingrato! ah infedele! Questa è la fede che mi giurasti? Testé mi desti la mano di sposo, ed ora così mi tradisci? Per la terza volta mi deludi e mi inganni? Guardami, scellerato, guardami in volto, se hai cuore di farlo: ma no, che il rossore t’avvilisce, ti confonde il rimorso, ti spaventa il mio sdegno. Anima indegna! cuor mendace! labbro spergiuro! A che sedurmi nella casa paterna? A che farmi abbandonare la patria? A che darmi la mano di sposo, se ad altra donasti il cuore? Mi fu detta la tua perfidia, ma non l’avrei mai creduta. Ora che gli occhi miei son testimoni del vero, ora scorgo i miei torti, i miei danni, i miei disonori. Va, che più non ti credo; va, che più non ti voglio. T’assolvo, barbaro, sì, t’assolvo dal giuramento, se pur te ne assolvono i numi. Più non curo il tuo amore, più non voglio la tua destra, non bramo più la tua fede. Attendi, che per maggiormente porre in libertà il tuo perfido cuore, ti vo’ render quel foglio con cui mi tradisti, con cui m’ingannasti. Sì, barbaro, sì, crudele; ama la mia rivale, adora il suo sembiante del mio più vago, ma non sperare in altra donna ritrovar la mia fede, la mia tolleranza, il mio amore.

(Parte col servo. Zanetto, frattanto che parla Beatrice, l’ascolta attentamente senza dir nulla, poi si volta verso Rosaura)

SCENA TREDICESIMA

Rosaura, poi Zanetto

ZAN. Cussì, tornando al nostro proposito... (a Rosaura)

ROS. A qual proposito tornar pretendi, mancatore, spergiuro? Desti la fede ad altra donna, ed ora me ingannare pretendi? No, perfido, no, scellerato, non ti verrà fatta. Ama chi amar devi per debito. Adempi l’impegno del tuo cuore mendace. Attendi, attendi, che per farti conoscere che non ti curo, anzi ti aborrisco e ti sprezzo, ora vo a prender quella scrittura con cui t’impegnasti tu meco, e vedrai, ingratissimo amante, che Rosaura non sa soffrire un inganno. (si ritira dalla finestra)

SCENA QUATTORDICESIMA

Zanetto solo.

ZAN. Adesso che son maridà, stago ben. Questa me dise perfido, quella crudel. Una barbaro, l’altra tiran. Ghe ne xe più? Povero Zanetto! Son desperà. Tutti me cria. Nissun me vol. No me posso più maridar. Dove xe un lazzo, che me picca? Dove un cortello, che me scanna? Dove xe un canal, che me nega? Per zelosia le donne me strapazza, e mi togo de mezzo, e stago a bocca sutta. Donne, gh’è nissuna che me voggia? No son po gnanca tanto brutto. Ma l’è cussì, nissun me vol, tutti me strapazza, tutti me cria. Maledetta la mia desgrazia, maledette le mie bellezze. (parte)

SCENA QUINDICESIMA

Rosaura, poi Tonino

ROS. (Alla finestra) Eccomi, eccomi con quella scrittura... Ma se n’è andato l’indegno. Mal mi lusingai, che qui mi attendesse. Il rossore, la confusione, l’hanno fatto partire. Ma lo farò ritrovare, vedrà s’io so vendicarmi. (arriva Tonino) Ma eccolo che ritorna. Sfacciato, hai tanto ardire di comparirmi sugli occhi? Va, che di te più non curo. Ecco la tua scrittura, eccola ridotta in pezzi. Eccola sparsa al vento; così potessi veder lacerato quel cuore indegno. (straccia una scrittura, la getta in istrada, e si ritira dalla finestra)

SCENA SEDICESIMA

Tonino, poi Beatrice col Servo

TON. (Senza parlare guarda la finestra, poi raccoglie i pezzi della scrittura, che sono in terra)

BEAT. (Con un foglio in mano) L’ho alfin ritrovata questa scellerata scrittura. Eccola, indegno, eccola, traditore: mirala, e vedi quanto conto ne faccio. (la fa in pezzi, e la getta in terra) Così potessi squarciar quel petto, nido d’infedeltà. (parte col Servo)

SCENA DICIASSETTESIMA

Tonino solo.

TON. (Leva di terra i pezzi dell’altra scrittura, ed unendo questi e quelli, confronta le parole ed i caratteri, poi dice come segue) Coss’è sto negozio? Coss’è sto imbrogio? sta novità? Do donne me strassa la scrittura in fazza? Mi a Rosaura no so d’aver fatto scrittura, a Beatrice no so d’aver mancà de fede. O le xe tutte matte, o qualche equivoco ghe xe certo. Vedemo un poco cossa dise ste do scritture. (guarda quella di Beatrice, uniti i pezzi raccolti da terra) Prometto... alla signora Beatrice ecc. Io Antonio Bisognosi. Questa va ben. Cossa dise st’altra? Colla presente scrittura... ecc. resta concluso... matrimonio tra l’onesta... fanciulla... la signora Rosaura Balanzoni... ed il signor Zanetto Bisognosi... Come! Questa xe una scrittura falsa, mi no son Zanetto. Andemo avanti. Vedemo quando la xe stada fatta. Valle Brambana in Bergamasca. Addì 14 gennaro 1746. In Bergamasca? Coss’è sto negozio? Chi l’ha sottoscritta? Zanetto Bisognosi, mano propria. Xe vero che qua i me crede Zanetto, ma nissun s’averà tolto la libertà de sottoscriver per mi. No l’è mio carattere. Donca cossa sarà? Sto Zanetto Bisognosi saravelo mai mio fradello, che sta in t’una delle vallae de Bergamo? Se poderia dar; e chi sa che nol sia a Verona, senza che mi lo sappia? Quel Brighella servitor, che me andava disendo de mio fradello a Venezia, me dà sospetto che veramente el me creda Zanetto. Tante stravaganze che ancuo me xe nate, le me fa crescer el dubbio. Chi sa? Se pol dar. Oh la sarave bella! Me voggio chiarir. Se ghe xe quel servitor in casa, vôi saver la verità. Scoverzirò terren, senza palesarme. Cancaro! Ghe vol politica. Sta volta bisogna farla da vero cortesan. Oe de casa. (batte dal Dottore)

SCENA DICIOTTESIMA

Brighella di casa, e detto.

BRIGH. Servitor umilissimo; ela ella che batte?

TON. Sì ben, son mi.

BRIGH. La perdona, perché adesso in casa no se pol vegnir.

TON. No? Perché?

BRIGH. La patrona sbuffa e smania; el patron è sulle furie. Anzi la conseggio andar via; perché, se i la vede qua, i è capaci de far qualche sproposito.

TON. Ma cossa gh’oggio fatto?

BRIGH. No so. Sento che i se lamenta, e no so el perché.

TON. Diseme, amigo, avè cognossù mio fradello a Venezia?

BRIGH. Certo che l’ho cognossù.

TON. Me someggielo?

BRIGH. I par un pomo spartio. No se pol dir che no i sia do zemelli.

TON. E xe do anni che no l’avè visto?

BRIGH. Do anni in circa.

TON. Mio fradello...

BRIGH. Sior sì, el sior Tonin.

TON. E mi mo chi songio?

BRIGH. O bella! el sior Zanetto.

TON. Che vien da...

BRIGH. Da Bergamo, a sposar la siora Rosaura.

TON. Bravo! Vu savè tutto, sè un omo de garbo. (Adesso capisso el negozio). (da sé)

BRIGH. La me diga, cara ella, e la perdona della curiosità. Ala mai savesto gnente de so sorella?

TON. Mai. Ah, savè anca vu che la s’ha perso?

BRIGH. Siguro. Quante volte me l’ha dito la bona memoria de so sior pare.

TON. Ma! no gh’è altro; mentre che mio pare la mandava a Bergamo, la s’ha smario, e no se sa come.

BRIGH. Cossa vorla far? Una dota de manco. Se no la me comanda gnente, vago in casa, perché se i me vede a parlar con ella, i me dirà roba. A bon reverirla. (entra in casa)

SCENA DICIANNOVESIMA

Tonino, poi Colombina di casa.

TON. Schiavo, amigo. Vardè quando che i dise dei accidenti del mondo! Se pol dar? Mio fradello xe in Verona e no se semo visti. Uno xe tolto per l’altro, e nasce mille imbrogi in t’un zorno. Adesso intendo el negozio delle zogie e dei bezzi; quell’Arlecchin sarà servitor de mio fradello, e quella roba doveva esser soa. Se saveva che i giera de mio fradello, no ghe li dava indrio([104]). Quanto che pagherave de veder sto mio fradello! Ma basta, anderò tanto zirando, fina che el troverò.

COL. Sentite quella pettegola di Rosaura, come parla male del signor Zanetto; mi viene una rabbia, che non la posso soffrire.

TON. Coss’è, fia([105]), che ve vedo cussì scalmanada([106])? Coss’è stà?

COL. Se sapeste, signore, mi riscaldo per causa vostra.

TON. Per causa mia? Ve son ben obbligà: mo per che motivo?

COL. Perché quella presuntuosa di Rosaura, credendo di essere una gran signora, tratta tutti male.

TON. De mi la deve dir cossazze([107]).

COL. Ed in che modo! E perché io ho prese le vostre parti, ed ho parlato in vostra difesa, ha principiato a strapazzarmi, come se fossi una bestia. Pettegola, sfacciata: se non si sapesse chi è, la compatirei.

TON. Mo no xela fia del sior Dottor?

COL. Eh! il malanno che la colga. È una venuta di casa del diavolo; trovata per le strade da un pellegrino.

TON. Ma come? Se sior Dottor dise che la xe so fia?

COL. Perché ancor egli è un vecchio birbone; lo dice per rubare un’eredità.

TON. (Eh, l’ho ditto che quel Dottor xe un poco de bon). (da sé) Donca siora Rosaura no se sa de chi la sia fia?

COL. Non si sa e non si saprà mai.

TON. Quanto xe che la passa per fia del Dottor?

COL. L’ebbe in fasce da bambina quella bella gioja.

TON. Quanti anni gh’averala?

COL. Lei dice che n’ha ventuno; ma credo non conti quelli della balia.

TON. No la pol gnanca aver de più. Diseme, fia; sto pellegrin da dove vegnivelo?

COL. Da Venezia.

TON. E dove alo trovà quella putela([108])?

COL. Dicono alle basse di Caldiera, tra Vicenza e Verona.

TON. Gierela in fasse?

COL. Sicuro, in fasce.

TON. L’aveu viste vu quelle fasse?

COL. Il signor Dottore mi pare che le conservi; ma io non le ho vedute.

TON. Ma sto pellegrin come l’avevelo abua? Gierela so fia? Cossa gh’avevela nome?

COL. Non era sua figlia; ma la trovò sulla strada, dove gli assassini avevano svaligiati alcuni passeggieri, e questa bambina rimase colà viva per accidente. Il nome poi né pur egli lo sapeva, ed il signor Dottore le impose quello di Rosaura.

TON. (Oh questa è bella! Stè a veder che la xe Flaminia mia sorella, giusto persa tra Vicenza e Verona, quando xe stà sassinà la mia povera mare, che la menava a Bergamo). (da sé)

COL. (Che diavolo dice tra sé?) (da sé)

TON. Saveu che ghe fusse in te le fasse una medaggia col retratto de do teste?

COL. Mi pare di averlo sentito dire. Ma perché mi fate tante interrogazioni?

TON. Basta... lo saverè... (Questa xe mia sorella senz’altro. Cielo, te ringrazio. Vardè che caso! Vardè che accidente! Do fradei! Una sorella! Tutti qua! Tutti insieme! El par un accidente da commedia). (da sé)

COL. (Sta a vedere che costei si scopre figlia di qualche signor davvero). (da sé) Signore, se mai la signora Rosaura fosse qualche cosa di buono, avvertite a non dirle che ho sparlato di lei, per amor del cielo.

TON. No no, fia, no ve dubitè. Za so che el mestier de vualtre cameriere xe dir mal delle patrone, e che ve contenteressi de zunar pan e acqua, più tosto che lasar un zorno de mormorar. (parte)

SCENA VENTESIMA

Colombina, poi Pancrazio ed il Dottore

COL. Non vorrei, per aver parlato troppo, aver fatto del male a me e del bene a Rosaura. Quel signor Zanetto m’ha fatte troppe interrogazioni. Dubito che vi voglia essere qualche novità strepitosa.

DOTT. Colombina, cosa fai sopra la strada?

COL. Sono venuta a vedere se passava quel dell’insalata.

DOTT. Animo, animo, in casa.

COL. Avete veduto il signor Zanetto?

DOTT. Va in casa, pettegola.

COL. Uh, che vecchio arrabbiato! (entra in casa)

SCENA VENTUNESIMA

Il Dottore e Pancrazio

DOTT. Signor Pancrazio; a voi che siete il più caro amico ch’io m’abbia, confido la mia risoluta deliberazione di voler che immediatamente seguano gli sponsali di mia figlia Rosaura col signor Zanetto Bisognosi, ad onta di tutte le cose passate.

PANC. Ma come! se ella gli ha stracciata la scrittura in faccia, e non lo vuole?

DOTT. Ella ha ciò fatto per pura gelosia. Le cose sono avanzate a un segno, che senza scapito del mio decoro non si può sospendere un tal matrimonio. Tutta Verona ne parla; e poi, per dirvela, il signor Zanetto è assai ricco, e con poca dote assicuro la fortuna della mia figliuola.

PANC. Ecco qui; l’avarizia, l’avarizia vi tenta a far il sacrificio di quella povera innocente colomba.

DOTT. Tant’è, ho risolto! I vostri consigli, che ho sempre stimati e venerati, questa volta non mi rimoveranno da una risoluzione che trovo esser giusta, onesta e decorosa per la mia casa.

PANC. Pensateci meglio. Prendete tempo.

DOTT. Mi avete voi insegnato più volte a dire: chi ha tempo, non aspetti tempo. Vado subito a ritrovar il signor Zanetto, e avanti sera voglio che si concludano queste nozze. Caro amico, compatitemi, a rivederci. (parte)

SCENA VENTIDUESIMA

Pancrazio, poi Zanetto

PANC. Ecco precipitata ogni mia speranza. Il Dottore la vuol dar per forza a quel veneziano. Ed io, misero, che farò? Non ardisco palesare la mia passione, perché perderei il credito di uomo da bene, e perderei la miglior entrata ch’io m’abbia. S’ella si sposa a costui, la condurrà seco a Bergamo, e mai più la vedrò. Ah, questo non sarà mai vero. All’ultimo farò qualche bestialità. Mi leverò la maschera e mi farò anche conoscere per quel che sono, prima di perder Rosaura, che amo sopra tutte le cose di questa terra.

ZAN. Sior Pancrazio, son desperà.

PANC. La morte è la consolazione de’ disperati.

ZAN. Crepo de voggia de maridarme, e nissuna me vol. Tutte le donne le me strapazza: tutte le me maltratta e le me manda via, come se fusse un can, una bestia, un aseno. Sior Pancrazio, son desperà, no posso più.

PANC. Ma! se aveste fatto a mio modo, non vi trovereste in questo miserabile stato.

ZAN. Pazenzia! gh’avè rason. Vorave scampar dalle donne, e no posso. Me sento tirar per forza, giusto come un sion([109]) che tira l’acqua per aria.

PANC. Ma voi non siete per il matrimonio.

ZAN. Mo perché?

PANC. Conosco, e so di certo, che se voi vi ammogliate, sarete l’uomo più infelice e più misero della terra.

ZAN. Donca cossa gh’oggio da far?

PANC. Lasciar le donne.

ZAN. Mo se no posso.

PANC. Fate a mio modo, partite subito da questa città, ritornate al vostro paese, e liberatevi da questa pena.

ZAN. Sarà sempre per mi l’istesso. Anca le donne de Bergamo e de Val Brambana le me burla e le me strapazza.

PANC. Dunque, che volete fare?

ZAN. No so gnanca mi, son desperà.

PANC. S’io fossi come voi, sapete che cosa farei?

ZAN. Cossa faressi?

PANC. Mi darei la morte da me medesimo.

ZAN. La morte? Disème, caro sior, no ghe saria mo un altro remedio senza la morte?

PANC. E che rimedio vi può essere per guarire il vostro male?

ZAN. Vu, che sè un omo tanto virtuoso, no gh’averessi un secreto da farme andar via sta maledetta voggia de matrimonio?

PANC. V’ho inteso. (Eccolo da sé nella rete). (da sé) Voi mi fate tanta compassione, che quasi vorrei per amor vostro privarmi d’una porzione d’un rarissimo e prezioso tesoro ch’io solo possiedo, e che custodisco con la maggior segretezza. Io l’ho lo specifico da voi desiderato, e sempre lo porto meco per tutto quello che accadere mi può. Anch’io nella mia gioventù mi sentivo tormentato da questa peste d’importuno solletico, e guai a me se non avessi avuta questa polvere in questo scatolino rinchiusa. Con questa mi son liberato parecchie volte dai forti stimoli della concupiscenza, e replicando la dose ogni cinque anni, mi sono condotto libero da ogni pena amorosa, sino all’età in cui mi vedete. Una presa di questa polve può darvi la vita, può liberarvi da ogni tormento. Se la beveste nel vino, vi trovereste privo d’ogni passione, e mirando con indifferenza le donne, potreste, deridendole, vendicarvi de’ loro disprezzi. Anzi vi correranno dietro: ma voi non curandole colla virtù della mirabile polvere, le sprezzerete, e loro farete pagar a caro prezzo le ingiurie, colle quali vi hanno trattato sinora.

ZAN. Oh magari! Oh che gusto che gh’averave! Per amor del cielo, sior Pancrazio, per carità, deme un poco de quella polvere.

PANC. Ma... privarmi di questa polvere... costa troppo.

ZAN. Ve darò quanti bezzi che volè.

PANC. Orsù, per farvi vedere ch’io non sono interessato e che quando posso, giovo volentieri al mio prossimo, vi darò una presa di questa polvere. Voi la berrete nel vino, e sarete tosto sanato. Subito presa, vi sentirete della confusione per verità nello stomaco e vi parerà di morire, ma acquietato il tumulto, vi troverete un altro uomo, sarete contento e benedirete Pancrazio.

ZAN. Sior sì, sieu benedio. Dèmela, no me fe più penar.

PANC. (Il veleno datomi da Tiburzio fa appunto al caso per liberarmi da questo sciocco rivale). (da sé) Questa è la polvere, ma ci vorrebbe il vino. (gli mostra lo scatolino)

ZAN. Anderò a casa, e la beverò.

PANC. (Si potrebbe pentire). (da sé) No, no, aspettate ch’io vi porterò il bisognevole. (Mi fa pietà, ma per levarmi dinanzi l’ostacolo de’ miei amori, conviene privarlo di vita). (da sé, ed entra in casa del Dottore)

ZAN. In sta maniera no se pol viver. Co([110]) vedo una donna, me sento arder da cao a piè, e tutte le me minchiona, le me strapazza. Desgraziae! me vegnirè sotto, me correrè drio; e mi gnente, saldo. Faremo patta e pagai([111]). No vedo l’ora de far le mie vendette co quella cagna de Rosaura. Velo qua ch’el vien. Aveu portà el negozio?

PANC. (Torna con un bicchiere con vino) Ecco il vino. Mettetevi dentro la polvere.

ZAN. Cussì? (mette la polvere nel bicchiere di vino)

PANC. Bravo. Bevete. Ma avvertite di non dire ad alcuno ch’io vi abbia dato il segreto.

ZAN. No dubitè.

PANC. Animo.

ZAN. Son qua. Forte come una torre.

PANC. E se vi sentite male, soffrite.

ZAN. Soffrirò tutto.

PANC. Parto per non dar ombra di me; mentre, se si risapesse, ognuno mi tormenterebbe, perch’io gliene dessi.

ZAN. Gh’avè rason.

PANC. Oh, quanto vogliam ridere con queste donne!

ZAN. Tutte drio de mi. E mi gnente.

PANC. Niente! Crudo come un leone.

ZAN. Pianzerale?

PANC. E come!

ZAN. E mi gnente!

PANC. Niente.

ZAN. Bevo.

PANC. Animo.

ZAN. Alla vostra salute. (beve mezzo bicchiere di vino)

PANC. (Il colpo è fatto). (da sé, e parte)

SCENA VENTITREESIMA

Zanetto bevendo a sorso a sorso, poi Colombina

ZAN. Uh che roba! Uh che tossego! Uh che velen! Oh che fogo che me sento in tel stomego! Coss’è sto negozio? No vôi bever altro. (mette il bicchiere in terra) Oh poveretto mi! Moro, moro, ma gnente. La polvere fa operazion. Se ho da veder le donne a spasemar, bisogna che sopporta. Me l’ha dito sior Pancrazio... ma... oimè... gh’ho troppo mal... me manca el fià... no posso più... Se no avesse bevù, no beverave altro... Oh poveretto mi... un poco de acqua... acqua... acqua... Deboto([112]) no ghe vedo più... me trema la terra sotto i piè... le gambe no me reze([113])... oimè, el mio cuor... oimè, el mio cuor... Forti, Zanetto, forti, che le donne te correrà drio... e ti... ti le burlerà... oh che gusto!... no posso più star in piè... casco... moro... (cade in terra)

COL. (Esce di casa e vede Zanetto in terra) Cosa vedo! Il signor Zanetto in terra? Cos’è? Cos’è stato? Che cosa avete?

ZAN. (Vardè... se xe vero... le donne me corre drio). (da sé)

COL. Oh diamine! Ha la schiuma alla bocca. Certo gli è venuto male. Poverino! Voglio chiamare aiuto, perché io sola non posso aiutarlo. (entra in casa)

SCENA VENTIQUATTRESIMA

Zanetto, poi Florindo

ZAN. Sentila... se la xe innamorada... la se despiera... e mi duro... ma... oimè, me manca el cuor... crepo, crepo... agiuto... agiuto.

FLOR. Come! Tonino in terra? Ecco il tempo di vendicarmi.

ZAN. Un’altra donna me corre drio... (si va torcendo)

FLOR. (Ma che vedo? Que’ moti paiono di moribondo). (da sé)

ZAN. Son morto... Son morto...

FLOR. (Muore davvero costui). (da sé) Ma che avete?

ZAN. Son morto...

FLOR. In che maniera?... che è stato?... (benché rivale, mi fa pietà). (da sé)

ZAN. Ho bevù... sì... le donne... Sior Pancrazio... oimè... oimè... son velenà... son morto... ma no... Via, donne... forti... duro, vedè... oimè. (muore)

FLOR. Ah che spirò il meschino! Chi mai l’ha assassinato? Come mai è egli morto? Che vedo? Ha un bicchiere vicino! Oh come è torbido questo vino! L’infelice fu avvelenato. (osserva il bicchiere, poi lo ripone in terra)

SCENA VENTICINQUESIMA

Il Dottore, Brighellae Colombina di casa, e detti; poi Rosaura e Beatrice col Servitore, poi Arlecchino

COL. Venite, signor padrone, soccorrete questo povero giovine. (al Dottore, uscendo di casa)

DOTT. Presto, Brighella, va a chiamare un medico.

FLOR. È inutile che cerchiate il medico, mentre il signor Zanetto è morto.

DOTT. È morto?

BRIGH. Oh poveretto, l’è morto?

COL. Morto il povero signor Zanetto?

ROS. (Di casa) Perdonate, signor padre, s’io vengo sopra la strada. Parmi di aver inteso che il signor Zanetto sia morto; è forse vero?

DOTT. Pur troppo è vero. Eccolo là, poverino.

BEAT. Oimè! Che vedo? Morto il mio bene? Morta l’anima mia? (passando per la strada)

ARL. Coss’è? Dormelo el sior Zanetto?

BRIGH. Altro che dormir! L’è morto el povero sfortunado.

ARL. Co l’è cussì, torno alle vallade de Bergamo.

DOTT. Facciamolo condurre nell’osteria: in mezzo alla strada non istà bene.

ROS. Ahi, che il dolore mi opprime il cuore.

COL. Poverina! siete vedova prima di essere maritata. (Ho quasi piacere che resti mortificata). (da sé)

DOTT. Brighella, fallo condurre nell’osteria. (accennando Zanetto)

BRIGH. Animo, Arlecchin, dà una man a menarlo in casa. Quel zovene, fe anca vu el servizio de aiutarlo a portar. (al Servitore di Beatrice)

BEAT. Misera Beatrice! cosa sarà di me?

FLOR. Se è morto il vostro Tonino, potrò sperare nulla da voi? (a Beatrice, piano)

BEAT. Vi odierò eternamente.

ARL. Camerada, portelo pulito, acciò, dopo che l’è morto, no ti ghe rompi la testa. (Arlecchino e il Servitore portano Zanetto morto nell’osteria)

ROS. Mi sento strappar l’anima dal seno.

BEAT. Chi mai sarà stato il perfido traditore?

DOTT. Come mai è accaduta la sua morte?

FLOR. Io dubito sia stato avvelenato.

DOTT. E da chi?

FLOR. Non lo so; ma ho de’ forti motivi per crederlo.

ROS. Deh, scoprite ogni indizio, acciò si possa vendicar la morte dell’infelice.

SCENA VENTISEIESIMA

Tonino e detti, poi Arlecchino ed il Servo di Beatrice.

TON. Coss’è, siora Beatrice...

DOTT. Come? (si spaventa)

BRIGH. L’anima de sior Zanetto? (come sopra)

ROS. Non è morto!

BEAT. È vivo! (Tutti fanno atti di ammirazione, guardandosi l’un l’altro con qualche spavento)

ARL. (Esce col Servitore dall’osteria, vede Tonino, lo crede anch’egli Zanetto e si spaventa) Oh poveretto mi! Cossa vedio.

TON. Com’ela? Coss’è stà? Coss’è sti stupori, ste maraveggie?

DOTT. Signor Zanetto, è vivo?

TON. Per grazia del cielo.

DOTT. Ma poco fa non era qui in terra disteso in figura di morto?

TON. No xe vero gnente. Son vegnù in sto ponto.

BRIGH. Com elo sto negozio?

ARL. Adesso, adesso. (entra nell’osteria, poi ritorna subito) Oh bella! L’è mezzo morto e mezzo vivo. Salva, salva. (parte)

BRIGH. Vegno, vegno. (fa lo stesso che ha fatto Arlecchino) Oh che maraveggia! Drento morto, e fora vivo.

DOTT. Voglio veder anch’io. (fa lo stesso degli altri due) Signor Zanetto, colà dentro vi è un altro signor Zanetto.

TON. Zitto, patroni, zitto, che scoverziremo tutto. Lassè che vaga là drento anca mi, e torno subito (entra nell’osteria)

ROS. Voglia il cielo che Zanetto sia vivo.

BEAT. Benché mi sia infedele, desidero ch’egli viva.

TON. (Torna dall’osteria sospeso e mesto) Ah pazenzia! L’ho visto tardi. L’ho cognossù troppo tardi. Quello che xe là drento, e che xe morto, l’è Zanetto, mio fradello.

DOTT. E lei dunque chi è?

TON. . Mi son Tonin Bisognosi, fradello del povero Zanetto.

ROS. Che sento!

DOTT. Quale stravaganza è mai questa?

BEAT. Dunque siete il mio sposo. (a Tonino)

TON. Sì ben, son quello. Ma vu, perché strazzar la scrittura? Perché strapazzarme? Perché trattarme cussì?

BEAT. E voi perché rinunziarmi ad altri? Perché sugli occhi miei parlar d’amore colla signora Rosaura?

TON. Gnente, fia mia, gnente. Le somegianze tra mi e mio fradello ha causà tante stravaganze. Son vostro, sè mia, e tanto basta.

ROS. Ma, signor Zanetto, e la fede che a me avete data?

TON. Do no le posso sposar. E po mi no son Zanetto.

DOTT. O Zanetto, o Tonino, se non isdegnate di meco imparentarvi, potete sposar mia figlia. (Egli sarà ancora più ricco del fratello, per cagion dell’eredità). (da sé)

TON. Son qua, son pronto a sposar vostra fia.

DOTT. Datele dunque la mano.

TON. Ma dov’ela vostra fia?

DOTT. Eccola qui.

TON. Eh via, me maraveggio de vu. Questa no xe vostra fia.

DOTT. Come! Che cosa dite?

TON. Orsù, so tutto. So del pellegrin. So ogni cossa.

DOTT. Ah pettegola, disgraziata! (a Colombina)

COL. Ma io non so nulla, vedete...

TON. Diseme, sior Dottor, quella medaggia che gh’avè trovà in te le fasse, la gh’averessi?

DOTT. (E di più sa ancora della medaglia?) (da sé) Una medaglia con due teste?

TON. Giusto: con do teste.

DOTT. Eccola, osservatela, è questa?

TON. Sì ben, l’è questa. (Fatta far da mio pare, quando che l’ha abù i do zemelli). (da sé)

DOTT. Già che il tutto è scoperto, confesso Rosaura non esser mia figlia, ma essere una bambina incognita, trovata da un pellegrino alle basse di Caldiera, fra Vicenza e Verona. Mi disse il pellegrino essere rimasta in terra, sola e abbandonata colà ancora in fasce, dopo che i masnadieri avevano svaligiati ed uccisi quelli che in cocchio la custodivano. Io lo pregai di lasciarmela, ei mi compiacque, e come mia propria figlia me l’ho sinora allevata.

TON. Questa xe Flaminia mia sorella; andando da Venezia a Val Brambana in Bergamasca la mia povera mare, per desiderio de veder Zanetto so fio, e con anemo de lassar sta putela a Stefanello mio barba, i xe stai assaltai alle basse de Caldiera, dove l’istessa mia mare e tutti della so compagnia xe stai sassinai, e ella, in grazia dell’età tenera, bisogna che i l’abbia lassada in vita.

ROS. Ora intendo l’amore che aveva per voi. Era effetto del sangue. (a Tonino)

TON. E per l’istessa rason anca mi ve voleva ben.

BEAT. Manco male che Tonino non può sposare la signora Rosaura.

FLOR. (Ora ho perduta ogni speranza sopra la signora Beatrice). (da sé)

TON. Adesso intendo l’equivoco della scrittura e delle finezze che m’avè fatto. (a Rosaura) E mi aveva tolto in sinistro concetto el povero sior Dottor. (al Dottore)

DOTT. Ah, voi m’avete rovinato!

TON. Mo perché?

DOTT. Sappiate che da un mio fratello mi fu lasciata una pingue eredità di trenta mila ducati, in qualità di commissario e tutore di una bambina, chiamata Rosaura, unico frutto del mio matrimonio. La bambina è morta ed io perdeva l’eredità, poiché nel caso della di lei morte, il testamento sostituiva nell’eredità stessa un mio nipote. Mancata la figlia, per non perdere un patrimonio sì ricco, pensai di supporre alla morta Rosaura un’altra fanciulla: opportunamente mi venne questa alle mani, e coll’aiuto della balia, madre di Colombina, mi riuscì agevole il cambio. Ora, scoperto il disegno, non tarderà mio nipote a spogliarmi dell’eredità ed a voler ragione de’ frutti sino ad ora malamente percetti.

TON. Ma chi xelo sto vostro nevodo?

DOTT. Un certo Lelio, figlio d’una sorella del testatore e mia.

TON. Elo quel sior cargadura, che dise d’esser conte e marchese?

DOTT. Appunto quegli.

TON. Ve lo qua che el vien. Lassè far a mi, e no ve dubitè gnente.

SCENA VENTISETTESIMA

Lelio e detti.

LEL. Alto, alto quanti siete! guardatevi da un disperato.

TON. Forti, sior Lelio, che al mal fatto no gh’è remedio. Beatrice xe mia muggier.

LEL. Sconvolgerò gli abissi. Porrò sossopra il mondo!

TON. Mo perché vorla far tanto mal?

LEL. Perché son disperato.

TON. Ghe sarave un remedio.

LEL. E quale?

TON. Sposar la siora Rosaura co quindese mille ducati de dota, e altrettanti dopo la morte del sior Dottor.

LEL. Trenta mila ducati di dote? La proposizione non mi dispiace.

TON. E la putta ghe piasela?

LEL. A chi non piacerebbe? Trenta mila ducati formano una rara bellezza.

TON. Non occorre altro, e se farà tutto: qua in strada no stemo ben. Andemo in casa, e se darà sesto a ogni cossa. Beatrice xe mia, Rosaura sarà del sior Lelio. Ela contenta? (a Rosaura)

ROS. Io farò sempre il volere di mio padre.

DOTT. Brava, ragazza. Voi mi date la vita. Caro signor Tonino, vi sono obbligato. Ma andiamo a far le scritture, prima che la cosa si raffreddi.

TON. Cussì tutti sarà contenti.

FLOR. Non sarò già io contento, mentre mi trafigge il cuore il dolore d’aver tradita la nostra amicizia.

TON. Vergogneve d’averme tradio, d’aver procurà de far l’azion più indegna che far se possa. Ve compatisso, perché sè stà innamorà, e se sè pentio della vostra mancanza, ve torno a accettar come amigo.

FLOR. Accetto la vostra generosa bontà; e vi giuro in avvenire la più fedele amicizia.

SCENA ULTIMA

Pancrazio e detti.

PANC. (Che vedo! Zanetto non è morto? Non ha preso il veleno? Quanto fui sciocco a credere che volesse farlo). (da sé)

DOTT. Signor Pancrazio, allegramente. Abbiamo delle gran novità.

PANC. Con buona grazia di lor signori. (chiama Tonino in disparte) (Ditemi, avete bevuto?) (piano al medesimo)

TON. Se ho bevù? Songio forsi imbriago?

PANC. No. Dico se avete bevuto quel che io vi ho dato.

TON. (Zitto, che qua ghe xe qualcossa da scoverzer([114])). (da sé) Mi no, non ho gnancora bevù.

PANC. Ma, e le donne che vi tormentano, come farete a soffrirle?

TON. Come gh’oggio da far a liberarme?

PANC. Subito che avete bevuto, sarete liberato.

TON. E cossa gh’oggio da bever?

PANC. Oh bella! quella polvere che vi ho dato. Che avete fatto del bicchiere col vino e colla polvere?

TON. (Bicchier de vin colla polvere? Adesso ho capio). (da sé) Ah sier cagadonao([115]), ah sier bronza coverta([116]), ipocrita maledetto! Vu sè stà, che ha mazzà mio fradello. Pur troppo l’ha bevù, pur troppo el xe andà all’altro mondo per causa vostra. Mi no son Zanetto, son Tonin. Gerimo do zemelli, e le nostre someggie v’ha fatto equivocar. Diseme, sior can, sassin, traditor per cossa l’aveu sassinà? Per cossa l’aveu mazzà? (forte, che tutti sentono)

PANC. Mi maraviglio di voi. Non so nulla, non intendo che dite. Sono chi sono, e sono incapace di tali iniquità.

TON. Ma cossa me disevi, se ho bevù? Se me voggio liberar dalle donne?

PANC. Diceva così per dire... se voi bevendo... diceva per le nozze, per le nozze.

TON. Vedeu che ve confondè? Sier infame, sier indegno, mazzarme un fradello?

PANC. Oh cielo! oh cielo! tanto ascolto, e non moro?

DOTT. Il signor Pancrazio è un uomo onorato, l’attesto ancor io.

FLOR. Io ho trovato vicino al moribondo Zanetto un bicchiere con dentro del vino molto torbido.

COL. Ed il signor Pancrazio poco fa è venuto in casa, e di nascosto ha preso un bicchiere di vino.

FLOR. Ora confronteremo. (prende il bicchiere che è in terra)

TON. Senti, se ti l’ha mazzà, poveretto ti! E delle mie zogie cossa ghe n’astu fatto! (a Pancrazio)

PANC. Sono nelle mani del giudice.

TON. Ben ben, ghe penserò mi a recuperarle.

FLOR. Ecco il vino in cui si avvelenò Zanetto. (mostra il bicchiere)

COL. E quello è il bicchiere col vino, che prese in casa il signor Pancrazio.

TON. Xe vero?

PANC. È vero.

TON. Donca ti, ti l’ha avvelenà.

PANC. Non è vero. Son galantuomo, e per farvi vedere la mia innocenza, datemi quel bicchiere.

FLOR. Prendete pure.

PANC. Ecco ch’io bevo.

DOTT. Se l’ho detto. Il signor Pancrazio non è capace di commettere iniquità.

TON. (Col beve, nol sarà velen). (da sé)

COL. Almeno si fosse avvelenato costui.

TON. Oimè! oimè! El straluna i occhi; ghe xe del mal.

PANC. (Avendo bevuto, sente l’effetto del veleno) Amici, son morto, non v’è più rimedio. Ora discopro il tutto, ora che son vicino a morire. Amai la signora Rosaura, e non potendo soffrire ch’ella divenisse altrui sposa, avvelenai quell’infelice per liberarmi da un tal rivale. Oimè, non posso più. Moro, e moro da scellerato qual vissi. La mia bontà fu simulata, fu finta. Serva a voi il mio esempio, per poco credere a chi affetta soverchia esemplarità; mentre non vi è il peggior scellerato di quel che finge esser buono, e non è. Addio, amici: vado a morire da disperato. (traballando parte)

COL. L’ho sempre detto ch’era un briccone.

TON. L’ha levà sto vadagno al bogia([117]). Povero mio fradello! Quanto che me despiase! Sorella cara, son consolà averve trovà vu, ma me despiase la morte del povero Zanetto.

ROS. Rincresce ancora a me, ma ci vuole pazienza.

DOTT. Orsù, andiamo in casa.

TON. Se la se contenta, menerò la mia sposa.

LEL. E verrò anch’io colla mia diva.

DOTT. Vengano tutti, che saranno testimoni nelle scritture che s’hanno a fare. (Questo è quello che mi preme). (da sé)

TON. Co l’eredità de mio fradello giusterò el Criminal de Venezia, e me tornerò a metter in piè. Se el podesse resussitar, lo faria volentiera, ma za che l’è morto, anderò in Val Brambana a sunar([118]) quelle quattro fregole([119]). Ringrazierò la fortuna che m’ha fatto trovar la sorella e la sposa, e colla morte de quel povero desgrazià sarà messi in chiaro tutti i equivochi, nati in t’un zorno, tra i do Veneziani Zemelli.

Fine della Commedia


([1]) Novizza, sposa.

([2]) Missier, suocero.

([3]) Figo, fico, termine veneziano ch’equivale al niente.

([4]) Sioria vostra, saluto basso e triviale.

([5]) Mario e muggier, marito e moglie.

([6]) Impalai, ritti e fermi come pali.

([7]) Putte, fanciulle.

([8]) Che cade! cosa serve?

([9]) Bulada in credenza, qui vuol dire soverchieria.

([10]) Canapiolo, termine di disprezzo, che si può spiegare spaccone.

([11]) Vegnì a nu, espressione bizzarra, vuol dire volgetevi a me.

([12]) Cortesani: spiega in veneziano: gente accorta, onorata e brava.

([13]) Manazzar, minacciare.

([14]) Colegà, disteso in terra.

([15]) Scartozzo de pévere, cartoccio di pepe, frase derisoria.

([16]) Vovo, ovo.

([17]) Abuo, avuto.

([18]) Scavezzo, rotto, cioè discolo.

([19]) Siorazzo, signorone.

([20]) In cotego, in trappola, cioè in prigione.

([21]) Gondola, barchetta che si usa in Venezia comunemente.

([22]) Bezzi, denari.

([23]) Scapolerò, sfuggirò.

([24]) Co, come.

([25]) Compare, termine d’amicizia usato in Venezia.

([26]) Piantar el bordon, introdursi a scroccare.

([27]) Mare, madre.

([28]) Proverbio veneziano.

([29]) Aseo! Aceto! esclamazione di sorpresa.

([30]) Dei, dategli. Sbusèlo, bucatelo.

([31]) Ficheghela quella cantinella in tel corbame, cacciategli quella spada nel ventre.

([32]) El me sbasiva de posta, mi uccideva a drittura.

([33]) Sieu benedio, siate benedetto.

([34]) Mi, mi l’ho buo. Io, io l’ho avuto.

([35]) Gnanca, né anche.

([36]) Patrona, per signora.

([37]) Oh magari: oh, il ciel volesse.

([38]) Mo comòdo, Ma come?

([39]) Schienze! vuol dire: schegge; e per frase: bagatelle. Con ammirazione.

([40]) Gnaccara muso d’oro! Esclamazione bergamasca di meraviglia.

([41]) Ganasse, guance.

([42]) Tossegar, avvelenare.

([43]) Garétoli, poplite, o sia parte posteriore del ginocchio.

([44]) Batte ben el canafio, fa ben la mezzana.

([45]) Monee, monete.

([46]) Massera, serva di cucina.

([47]) De balla, termine furbesco, d’accordo.

([48]) Cortesan, accorto.

([49]) Cavarme zoso, levarmi la giubba.

([50]) Ha lumà, ha veduto, termine furbesco in gergo.

([51]) Bon stomego buono stomaco, cioè di poco onore.

([52]) In tel comio, nel gomito, cioè all’incontrario.

([53]) Pe! Ehi!

([54]) Gastu, hai tu.

([55]) Barba, zio.

([56]) Putelo, ragazzo.

([57]) Babio, viso, frase burlesca.

([58]) Voggio darghe una tastadina, una toccatina, cioè, darle la prova.

([59]) Traffega, traffica.

([60]) I pì, i piedi.

([61]) Capochieria, corbelleria.

([62]) Polegana, arte fina, disinvoltura.

([63]) Custia, costei.

([64]) Me bisega in tel cuor, mi va a genio.

([65]) Vecchio, termine amoroso de’ Veneziani.

([66]) Scoverzer, scoprire.

([67]) Sbarè delle panchiane, dite delle bugie.

([68]) Brazzolar, misura di braccio.

([69]) De smania, smanioso

([70]) Gargato, gozzo.

([71]) Bombaso, bambagia, cotone.

([72]) Sea, seta. Termini allusivi alla morbidezza delle mani.

([73]) Sie, sei.

([74]) Do, due.

([75]) Sioria vostra, saluto burlevole.

([76]) Canapiolo monzuo, lo stesso che uomo da nulla.

([77]) Pì, piedi.

([78]) Crielo, crivello.

([79]) Scartozzi de pévere mal ligai, cartocci di pepe mal fatti; termine di disprezzo.

([80]) Pronzini salvadeghi: bravaccioni selvatici, cioè supposti.

([81]) Cortesani d’albeo: suona quasi lo stesso. Albeo vuol dire abete, quasi uomini di legno.

([82]) A chi le tocca, a chi spettano.

([83]) Zaffi, birri.

([84]) Piegora, pecora

([85]) Lovo, lupo.

([86]) Becher, macellaro.

([87]) Del dì d’ancuo, del giorno d’oggi.

([88]) Manizada, ammasso.

([89]) Ve rebalta, vi rovescia.

([90]) Varisse, guarisce.

([91]) Sgranfignae, rubate.

([92]) Caponera, gabbione in cui si nutriscono i capponi. Per metafora, prigione.

([93]) Brisiola, bragiuola, pezzo di carne d’arrostirsi alla graticola.

([94]) Un crepo, uno scoppio.

([95]) Sbasìo, morto.

([96]) Cusinar, cuocere.

([97]) Bisegare, frugare.

([98]) Oselo, uccello.

([99]) Pàvero, papero.

([100]) Nuar, nuotare.

([101]) Sguatarar, dimenarsi nell’acqua.

([102]) Bevaor, vaso in cui bevono volatoli.

([103]) Spolverarse, dimenarsi o rivoltarsi per la polvere.

([104]) Indrio, indietro.

([105]) Fia, figlia. Termine grazioso che danno i veneziani alla gioventù.

([106]) Scalmanada, riscaldata.

([107]) Cossazze, gran cose

([108]) Putela, bambina.

([109]) Sion, sione, voce lombarda, vale a dire, turbo vorticoso di più venti contrari.

([110]) Co, quando.

([111]) Patta e pagai, del pari.

([112]) Deboto, or ora.

([113]) No me reze, non mi reggono.

([114]) Scoverzer, scoprire.

([115]) Cagadonao, parola ingiuriosa.

([116]) Sier bronza coverta, brace coperta, uomo finto, per metafora.

([117]) Bogia, boia, carnefice.

([118]) A sunar, a raccogliere.

([119]) Fregole, bricciole.